<p style="font-weight: 400; text-align: justify;"></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong>Corte Costituzionale, sentenza 3 ottobre 2019, n. 219</strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Vanno dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 191 del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 14, 24, 97, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Lecce.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Le questioni, che il giudice rimettente solleva, si riflettono su una disposizione cardine del codice di procedura penale, che introduce nel sistema processuale il principio secondo il quale è preclusa la possibilità di utilizzare prove assunte in violazione dei divieti stabiliti dalla legge. Come ricorda la relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale vigente, l’istituto della inutilizzabilità non può definirsi una novità in senso assoluto, dal momento che, anche sotto la vigenza del codice del 1930, legislazione, dottrina e giurisprudenza avevano già maturato una propensione a designare con tale </em>nomen<em> una figura destinata a frapporsi, in termini di maggiore incisività, all’impiego di prove vietate dalla legge, in contrapposizione alla tradizionale sanzione della nullità, riservata, invece, alla violazione delle forme degli atti processuali. Già nel codice del 1930, infatti, la figura della inutilizzabilità era stata richiamata nell’art. 304, terzo comma, ove appunto si era stabilito che «</em>non possono, comunque, essere utilizzate<em>» le dichiarazioni rese da persone esaminate quali testimoni, quando fossero emersi indizi di reità nei loro confronti e non fosse stato nominato un difensore. Preclusione, dunque, destinata ad impedire la violazione del fondamentale canone del </em>nemo tenetur contra se edere<em> e delle conseguenti facoltà difensive. Analogamente, anche l’art. 226-quinquies dello stesso codice (introdotto dall’art. 5 della legge 8 aprile 1974, n. 98, recante «</em>Tutela della riservatezza e della libertà e segretezza delle comunicazioni<em>» stabiliva che «</em>non si può tener conto<em>» delle intercettazioni effettuate fuori dei casi consentiti dalla legge od eseguite in difformità dalle prescrizioni in essa stabilite, pur esordendo con la formula «</em>a pena di nullità insanabile da rilevare d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento<em>», evocativa della sanzione più tradizionale, richiamata per sancire il relativo regime di rilevabilità processuale. Anche in questo caso, la inutilizzabilità derivante dal divieto probatorio, si saldava intimamente alla “</em>gravità<em>” del vizio in rapporto alla rilevanza dei valori protetti, essendo il legislatore intervenuto, sul tema delle intercettazioni, in aderenza ai principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 34 del 1973, ove, fra l’altro, si avvertì la necessità di «mettere nella dovuta evidenza il principio secondo il quale attività compiute in dispregio dei fondamentali diritti del cittadino non possono essere assunte di per sé a giustificazione ed a fondamento di atti processuali a carico di chi quelle attività costituzionalmente illegittime abbia subito». La Corte, nella successiva sentenza n. 120 del 1975, chiarì come proprio l’allora introdotto art. 226-quinquies cod. proc. pen. impedisse «</em>di tener conto delle intercettazioni effettuate fuori dei casi consentiti dalla legge o in difformità delle relative prescrizioni, sancendo una nullità insanabile, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento. Ciò equivale a dire che nessun effetto probatorio può derivare da intercettazioni siffatte, le quali debbono ritenersi come inesistenti<em> […]». Mettendo dunque a frutto questo ampio fermento di idee – ha soggiunto la citata relazione – il legislatore delegato ritenne di stabilire, con la disposizione oggetto delle odierne questioni, che «[a]</em>nche quando le norme di parte speciale non prevedono espressamente alcuna sanzione, l’inutilizzabilità può desumersi dall’art. 191, comma 1, là dove siano configurabili veri e propri divieti probatori<em>», richiamandosi, a titolo esemplificativo, l’art. 197, in materia di incompatibilità a testimoniare, e l’art. 234, comma 3, concernente documenti su voci correnti nel pubblico. I risultati della prova acquisita in violazione dei divieti tassativamente previsti dall’ordinamento non sono, dunque, «</em>in alcun modo utilizzabili in ogni stato e grado del procedimento, quale che sia il comportamento della parte interessata a far rilevare la violazione<em> […]».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>È ovvio che la scelta del legislatore è stata quella di introdurre un meccanismo preclusivo che direttamente attingesse, dissolvendola, la stessa “</em>idoneità<em>” probatoria di atti vietati dalla legge, distinguendo in tal modo nettamente tale fenomeno dai profili di inefficacia conseguenti alla eventuale violazione di una regola sancita a pena di nullità dell’atto. E da qui, il naturale ed ampio dibattito, sviluppatosi, tanto in sede giurisprudenziale quanto in sede dottrinaria, non soltanto sul versante, prevalentemente teorico, relativo alla individuazione della “</em>natura sanzionatoria<em>” da annettere alla categoria degli atti inutilizzabili, bensì, anche, e soprattutto, su quello della effettiva portata applicativa dell’istituto, non essendo mancate voci che ne hanno addirittura stigmatizzato la relativa incoerenza sistematica e la stessa utilità processuale. D’altra parte, e come rammentato dalla giurisprudenza di legittimità, «</em>essendo il diritto alla prova un connotato ineludibile del nuovo processo penale, assurto al rango di paradigma del parametro costituzionale sul “giusto processo”, qualsiasi divieto probatorio positivamente introdotto dal legislatore può spiegarsi solo nell’ottica di preservare equivalenti valori, anch’essi di rango costituzionale<em>» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 25 marzo-9 aprile 2010, n. 13426), con l’ovvia conseguenza che le norme le quali introducano divieti probatori si atteggiano, nel sistema, alla stregua di norme eccezionali e di stretta interpretazione. Per altro verso, è altrettanto evidente come, proprio in ragione delle peculiarità “</em>funzionali<em>” che caratterizzano il sistema delle inutilizzabilità e dei connessi divieti probatori, in ragione dei valori che mirano a preservare, esista una gamma “</em>differenziata<em>” di regole di esclusione, alle quali corrisponde un altrettanto differenziato livello di lesione dei beni che quelle regole intendono tutelare: il tutto, come è ovvio, in funzione di scelte di “</em>politica processuale<em>” che soltanto il legislatore è abilitato, nei limiti della ragionevolezza, ad esercitare. D’altra parte, è lo stesso art. 191 cod. proc. pen. ad offrire, icasticamente, dimostrazione di tale assunto. Nello stabilire, infatti, il generale principio in forza del quale le prove assunte in violazione dei divieti probatori previsti dalla legge sono inutilizzabili e che la inutilizzabilità è rilevabile anche di ufficio in ogni stato e grado del processo, il comma 2-bis, introdotto dall’art. 2, comma 1, della legge 14 luglio 2017, n. 110 (Introduzione del delitto di tortura nell’ordinamento italiano), ha inserito nel sistema dei divieti probatori una regola, per così dire “</em>rafforzata<em>” per la specifica ipotesi di dichiarazioni “</em>estorte<em>” con la tortura. Di là, infatti, dal divieto probatorio sancito dall’art. 188 cod. proc. pen., a norma del quale non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interessata, metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti, la novella di cui si è detto sancisce che le dichiarazioni o le informazioni ottenute mediante il delitto di tortura non sono «</em>comunque utilizzabili, salvo che contro le persone accusate di tale delitto e al solo fine di provarne la responsabilità penale<em>». Il “</em>limite<em>” della inutilizzabilità, quindi, è stato allargato dal legislatore non soltanto alle dichiarazioni, ma anche alle “</em>informazioni<em>” provenienti dalla persona, e copre radicalmente qualunque oggetto (contro o a favore di se stessa o di altri), che non sia quello espressamente eccettuato dalla legge. Il che dimostra come il legislatore abbia inteso precludere – ed in tal modo prevenire – qualsiasi utilizzabilità processuale di dichiarazioni scaturite dall’uso di metodi riconducibili alla fattispecie di cui all’art. 613-bis cod. pen. (Tortura), avuto riguardo all’estremo livello di lesione che una siffatta attività presenterebbe per i diritti fondamentali della persona. A un “</em>massimo<em>” di illegalità dell’atto probatorio, perché compiuto in violazione di divieti di elevato spessore, deve corrispondere, dunque, una equivalente “</em>estensione<em>” dell’area di inutilizzabilità processuale.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Da tutto ciò è pertanto possibile desumere una serie di corollari che appaiono essere, ormai, sufficientemente sedimentati, tanto in giurisprudenza quanto in dottrina. È da considerare infatti pacifico l’assunto secondo il quale l’istituto della inutilizzabilità abbia vita totalmente autonoma rispetto al regime ed alla stessa natura giuridica delle nullità, non essendo anzi mancati tentativi definitori che hanno fatto riferimento ad una ipotesi di «</em>difetto funzionale della “causa” dell’atto probatorio, vale a dire come una inidoneità dell’atto stesso a svolgere la funzione che l’ordinamento processuale gli assegna<em>» (Cass., sez. un., n. 13426 del 2010). Un simile “</em>vizio<em>”, peraltro, risponde anch’esso – al pari delle nullità – ai paradigmi della tassatività e legalità, dal momento che è soltanto la legge a stabilire quali siano – e come si atteggino – i diversi divieti probatori. Infine, è lo stesso sistema normativo ad avallare la conclusione secondo la quale, per la inutilizzabilità che scaturisce dalla violazione di un divieto probatorio, non possa trovare applicazione un principio di “</em>inutilizzabilità derivata<em>”, sulla falsariga di quanto è previsto invece, nel campo delle nullità, dall’art. 185, comma 1, cod. proc. pen., a norma del quale «[l]</em>a nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo<em>». Derivando il divieto probatorio e la conseguente “</em>sanzione<em>” della inutilizzabilità da una espressa previsione della legge, qualsiasi “</em>estensione<em>” di tale regime ad atti diversi da quelli cui si riferisce il divieto non potrebbe che essere frutto di una, altrettanto espressa, previsione legislativa. Del resto, è ricorrente in giurisprudenza l’affermazione secondo la quale tale principio, valido per le nullità, non si applica in materia di inutilizzabilità, riguardando quest’ultima solo le prove illegittimamente acquisite e non quelle la cui acquisizione sia avvenuta in modo autonomo e nelle forme consentite (</em>ex plurimis<em>, Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 12 settembre 2018-4 febbraio 2019, n. 5457).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In tale quadro di riferimento, coglie dunque nel segno il rilievo relativo al fatto che il giudice rimettente ha omesso qualsiasi riferimento, se non altro per confutarne gli argomenti, a quanto la Corte ha avuto modo di affermare nella ordinanza n. 332 del 2001, con la quale è stata dichiarata la manifesta inammissibilità di questioni di legittimità costituzionale riguardanti l’art. 41 t.u. pubblica sicurezza e l’art. 191 cod. proc. pen., quest’ultimo censurato, in riferimento all’art. 24 Cost., «</em>nella parte in cui tale disposizione – alla luce, anche, della interpretazione offerta dalla giurisprudenza di legittimità – consente la utilizzazione di prove che derivano, non solo in via diretta, ma anche “in via mediata”, da un atto posto in essere in violazione di divieti, e, in particolare, nella parte in cui consente l’utilizzazione del risultato di una perquisizione nulla<em>». La Corte, nel frangente, pervenne, infatti, alla declaratoria di inammissibilità delle questioni proprio perché basate su una interpretazione che «</em>finisce per confondere fra loro fenomeni – quali quelli della nullità e dell’inutilizzabilità – tutt’altro che sovrapponibili, mirando in definitiva il rimettente a trasferire nella disciplina della inutilizzabilità un concetto di vizio derivato che il sistema regola esclusivamente in relazione al tema delle nullità<em>»: richiedendo, con ciò, alla Corte l’esercizio «</em>di opzioni che l’ordinamento riserva esclusivamente al legislatore, in una tematica, per di più, che – quale quella dei rapporti di correlazione o dipendenza tra gli atti probatori – ammette, già sul piano logico, un’ampia varietà di possibili configurazioni e alternative<em>».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Ebbene, non misurandosi con i rilievi dianzi esposti, il giudice rimettente incorre anche nello stesso tipo di inammissibilità del </em>petitum<em>, in quanto fondato su una richiesta fortemente “</em>manipolativa<em>”, pretendendo di desumere l’automatica “</em>inutilizzabilità<em>” degli atti di sequestro, attraverso il “</em>trasferimento<em>” su di essi dei “</em>vizi<em>” che affliggerebbero gli atti di perquisizione personale e domiciliare dai quali i sequestri sono scaturiti, in ragione di una ritenuta non congruità – rispetto ai presupposti enunciati dall’art. 103 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) – dell’apparato di motivazioni esibito dalla polizia giudiziaria a corredo degli atti in questione, ancorché convalidati da parte del pubblico ministero. In numerose occasioni, la Corte ha infatti avuto modo di dichiarare l’inammissibilità di questioni rispetto alle quali il rimettente chiedeva una pronuncia additiva, nei casi in cui il </em>petitum<em> formulato si connotava per un cospicuo tasso di manipolatività, tanto più in materie rispetto alle quali, come quella processuale, è stata riconosciuta l’ampia discrezionalità del legislatore (sentenze n. 23 del 2016 e n. 277 del 2014; ordinanze n. 254 e n. 122 del 2016). E ciò, tutte le volte in cui il </em>petitum<em>, pur meritevole di considerazione, implichi una modifica «</em>rientrante nell’ambito delle scelte riservate alla discrezionalità del legislatore<em>» (sentenza n. 45 del 2018). Affermazioni, queste, che assumono un risalto ancor più specifico allorché, come si è accennato, vengano in discorso disposizioni di carattere “</em>eccezionale<em>” (in quanto strutturalmente derogatorie rispetto alla opposta, ordinaria, regola), quali istituti che sanciscano divieti probatori e clausole di inutilizzabilità processuale, vigendo in materia un rigoroso regime di tipicità e tassatività. La tesi del giudice rimettente, secondo la quale la illegittimità della perquisizione dovrebbe condurre – come soluzione costituzionalmente imposta – alla “</em>inutilizzabilità<em>” del sequestro del corpo del reato, secondo la nota teoria dei “</em>frutti dell’albero avvelenato<em>”, rinverrebbe, d’altra parte, la propria ragion d’essere nella circostanza che l’art. 191 cod. proc. pen. svolgerebbe una funzione di tipo “</em>politico costituzionale<em>”, in quanto mirerebbe ad assicurare una effettiva tutela ai valori costituzionali coinvolti, disincentivando le loro violazioni finalizzate all’acquisizione della prova attraverso lo strumento della inutilizzabilità dei relativi risultati. Sarebbe proprio grazie a tale divieto di utilizzabilità – sostiene il giudice rimettente – che si «</em>scoraggeranno e disincentiveranno quelle pratiche di acquisizione della prova con modalità illegali (e talora francamente illecite), che violano i diritti costituzionali al cui presidio sono appunto posti i divieti rinvenibili nel codice di rito e nelle norme speciali<em>». In questa prospettiva, la stessa ratio essendi delle censure – volte a rendere automaticamente “</em>contaminata<em>” la utilizzabilità del sequestro, ove questo derivi da una perquisizione in ipotesi eseguita fuori dai casi consentiti dalla legge – finisce ineluttabilmente per coinvolgere scelte di “</em>politica processuale<em>” che la stessa Costituzione riserva al legislatore. In sostanza, il giudice rimettente, dichiaratamente, vuole raggiungere, attraverso la pronuncia additiva e manipolativa che enuncia e propone in dispositivo, l’obiettivo di disincentivare gli abusi (o quelli che lui ipotizza esser tali) rendendo gli abusi stessi “</em>non paganti<em>” sul piano processuale, attraverso un passaggio che estende ad un atto in sé valido (il sequestro) la illegittimità (e inutilizzabilità) di quello che ne costituisce la occasio (la perquisizione ed ispezione).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Tutto ciò, d’altra parte, è reso particolarmente evidente dallo stesso tenore del quesito enunciato nel dispositivo delle ordinanze di rimessione, ove viene sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 191 cod. proc. pen., «</em>nella parte in cui non prevede che la sanzione dell’inutilizzabilità ai fini della prova riguardi anche gli esiti probatori, ivi compreso il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, degli atti di perquisizione ed ispezione compiuti dalla p.g. fuori dei casi tassativamente previsti dalla legge o comunque non convalidati dall’A.G. con provvedimento motivato, nonché la deposizione testimoniale in ordine a tali attività<em>». La richiesta di addizione, dunque, non soltanto mira ad introdurre un nuovo caso di inutilizzabilità di ciò che l’ordinamento prescrive come attività obbligatoria (il sequestro del corpo del reato), ma si propone altresì di introdurre, </em>ex novo<em>, uno specifico divieto probatorio, sancendo la inutilizzabilità delle dichiarazioni a tal proposito rese dalla polizia giudiziaria: preclusione, quest’ultima, che si colloca in posizione del tutto eccentrica rispetto al tema costituzionale coinvolto dagli artt. 13 e 14 Cost. Va da sé, peraltro, che se è vero quanto afferma il giudice a quo a proposito del fatto che le regole che stabiliscono divieti probatori riposano essenzialmente sulla esigenza di introdurre misure volte anche a disincentivare possibili “</em>abusi<em>” – è noto, al riguardo, che nei sistemi di </em>common law<em> la finalità prevalente delle </em>exclusionary rules<em> è proprio quella di </em>deterrence<em> – è altrettanto vero che un simile obiettivo viene in ogni modo perseguito dall’ordinamento a traverso la persecuzione diretta, in sede disciplinare o, se del caso, anche penale, della condotta “</em>abusiva<em>” che possa essere stata posta in essere dalla polizia giudiziaria, come d’altra parte espressamente affermato in varie occasioni dalla giurisprudenza di legittimità (ad esempio, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 28 aprile-25 maggio 2006, n. 18438).</em></p>