<p style="text-align: justify;"><strong>Corte di Cassazione, sez. Unite Penali, sentenza 4 ottobre 2019 n. 40847</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong><em>PRINCIPIO DI DIRITTO</em></strong><em>: <strong>Il divieto di restituzione di cui all’art. 324 c.p.p., comma 7, opera anche in caso di annullamento del decreto di sequestro probatorio;</strong><strong> tale divieto riguarda le cose soggette a confisca obbligatoria ex art. 240 c.p., comma 2, ma non anche le cose soggette a confisca obbligatoria contemplata da previsioni speciali, con l’eccezione del caso in cui tali previsioni richiamino l’art. 240 c.p., comma 2, o, comunque, si riferiscano al prezzo del reato o a cose la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione delle quali costituisce reato.</strong></em></p> <p style="text-align: justify;"><em>L’art. 324 c.p.p., comma 7, inserito nel capo III del titolo II del libro IV, disciplina il procedimento di riesame avverso le misure cautelari reali, prevedendo che al procedimento si applicano le disposizioni dell’art. 309, commi 9, 9-bis e 10, e, per la parte che qui maggiormente interessa, che la "</em>revoca del provvedimento di sequestro può essere parziale e non può essere disposta nei casi indicati nell’art. 240 c.p., comma 2<em>".</em><em> Le questioni di diritto, riguardanti la disposizione, per le quali il ricorso è stato rimesso alle Sezioni unite, sono le seguenti: "</em>se il divieto di restituzione di cui all’art. 324 c.p.p., comma 7, operi, oltre che in caso di revoca del sequestro preventivo, anche in caso di annullamento del decreto di sequestro probatorio<em>"; "</em>se tale divieto possa riguardare, oltre alle cose soggette a confisca obbligatoria ex art. 240 c.p.p., comma 2, anche le cose soggette a confisca obbligatoria contemplata da previsioni speciali<em>".</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La prima di tali questioni attiene all’ordinamento processuale, e in tale ambito deve essere affrontata e risolta.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Secondo l’orientamento giurisprudenziale maggioritario, l’art. 324 c.p.p., comma 7, deve essere ritenuto applicabile al sequestro probatorio. Tale orientamento valorizza, in primo luogo, il tenore letterale dei richiami operati al rito del riesame nel relativo complesso, ivi compreso l’art. 324 c.p.p., comma 7, dall’art. 257 c.p.p., comma 1, e art. 355 c.p.p., comma 3, giungendo ad affermare che, pur essendo il sequestro probatorio disposto con la finalità di conservare immutate le caratteristiche del corpo di reato nel tempo necessario all’accertamento dei fatti, la disposizione di cui all’art. 324, comma 7, prevale tuttavia sulle esigenze </em>lato sensu<em> istruttorie, trovando l’eccezionalità della previsione una giustificazione nella finalità di evitare che attraverso la disponibilità del bene, la cui pericolosità non è suscettibile di valutazioni discrezionali, ma è presunta direttamente dalla legge, si protragga l’illiceità della condotta, indipendentemente dalle ragioni che abbiano determinato l’adozione della misura; con la conseguenza che il venir meno delle esigenze probatorie cui la misura cautelare è stata inizialmente sottesa non può consentirne il dissequestro (argomenti ex Sez. 3, n. 41558 del 19/07/2017, Flace, Rv. 270890). La finalità tipica del sequestro probatorio di conservare immutate le caratteristiche del corpo di reato nel tempo necessario all’accertamento dei fatti si pone, dunque, in secondo piano, perché sulla stessa prevale, ancorché eccezionalmente, quella - sancita dall’art. 324 c.p.p., comma 7, - di evitare che la rinnovata disponibilità del bene sia strumento per la protrazione dell’illecito. Ne consegue che, a fronte di cose suscettibili di confisca obbligatoria ai sensi dell’art. 240 c.p., comma 2, le finalità che hanno determinato l’adozione della misura divengono irrilevanti. La sentenza Flace si pone in continuità con il filone, rappresentato, fra le altre dalle Sez. 3, n. 17310 del 12/03/2003, Xu Fenghua, Rv. 224789; Sez. 3, n. 65 del 11/01/1995, Bozzato, Rv. 201563; Sez. 5, n. 1170 del 06/05/1992, Tagliaferri, Rv. 190827, le quali sottolineano essenzialmente la funzione di collegamento svolta dall’art. 355 c.p.p., comma 3, tra il sistema del sequestro probatorio e il meccanismo di tutela del riesame.</em><em> All’argomento "</em>letterale<em>" appena esposto la dottrina maggioritaria affianca considerazioni di carattere storico, evidenziando come il sequestro preventivo e quello probatorio abbiano matrice comune nel codice di rito del 1930, nel quale esisteva un unico tipo di sequestro penale, con un’unica forma di impugnazione rappresentata dal riesame (art. 343-bis, introdotto nel codice previgente dalla L. 12 agosto 1982, n. 532), che poteva riguardare sia il decreto di sequestro ai sensi dell’art. 337 che il decreto di convalida del sequestro operato </em>motu proprio<em> dalla polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 224-bis, e che mantiene la sua originaria fisionomia anche nel codice attualmente vigente. In particolare, l’art. 343-bis c.p.p., comma 4, 1930 prevedeva: "</em>Si applicano le disposizioni previste dall’ultimo comma dell’art. 263-bis e dall’art. 263-ter. La revoca del decreto di sequestro può essere parziale e non può essere disposta nei casi indicati dall’art. 240 c.p., comma 2<em>". E per comprendere perché il secondo periodo di detto comma 4 iniziasse con il riferimento alla revoca, occorre richiamare l’art. 263-ter c.p.p., comma 3, 1930, che prevedeva proprio la revoca come esito demolitorio esclusivo del riesame ("</em>Entro tre giorni dal ricevimento degli atti il tribunale, con ordinanza emanata in camera di consiglio, conferma il mandato o l’ordine di cattura o di arresto ovvero lo revoca, anche per motivi diversi da quelli eventualmente indicati nella richiesta, ordinando l’immediata liberazione dell’imputato<em>"). Dunque, il legislatore del 1988 riprende letteralmente - con l’art. 324 c.p.p., comma 7, - l’istituto del riesame del codice previgente, inserendolo nella sistematica del nuovo impianto codicistico, in cui il sequestro penale è ormai sdoppiato in probatorio e preventivo; cosicché il riferimento al divieto di revoca suscita qualche perplessità, in quanto sarebbe stata più appropriata una previsione coerente con la nuova struttura del giudizio di riesame, di permanenza degli effetti del sequestro. Sempre secondo la dottrina maggioritaria, alla comune matrice storica appena evidenziata si affiancano elementi di analogia di carattere sistematico: in primo luogo, la circostanza che, come il sequestro preventivo, anche quello probatorio possa sostanzialmente convertirsi in confisca, ex art. 262 c.p.p., comma 4; in secondo luogo, il fatto che certamente i due sequestri hanno un denominatore comune, rappresentato dal vincolo di indisponibilità materiale e giuridica imposto su una determinata cosa. Sono ascrivibili all’orientamento maggioritario anche quelle pronunce che affermano la natura di principio generale del divieto di restituzione previsto dall’art. 324 c.p.p., comma 7. Si evidenzia, in particolare, che il divieto di restituzione delle cose soggette a confisca obbligatoria opera, non solo in sede di riesame, ma anche in sede di procedimento per la restituzione delle cose sottoposte a sequestro probatorio, ex artt. 262 e 263 c.p.p., ancorché in assenza di una espressa previsione in tal senso, giacché l’esaurimento delle finalità istruttorie - presupposto del venire meno del vincolo di indisponibilità sulla </em>res<em> e della conseguente restituzione - non può, comunque, vanificare o pregiudicare la concreta attuazione della misura di sicurezza obbligatoria, dal momento che, in una logica di sistema, non è possibile ritenere che quanto non sia ottenibile nella sede deputata al vaglio della legittimità della costituzione del vincolo possa essere riacquisito in seguito quando la parte si limiti a rappresentare l’inutilità del mantenimento del sequestro a fini di prova (Sez. 2, n. 16523 del 07/03/2017, Lucente, Rv. 269700). Sulla stessa linea, si ribadisce che le cose che soggiacciono a confisca obbligatoria non possono essere in nessun caso restituite all’interessato, neppure quando siano state sequestrate dalla polizia giudiziaria di propria iniziativa e per finalità esclusivamente probatorie (Sez. 3, n. 17918 del 06/12/2016, dep. 2017, Rena, Rv. 269628; Sez. 2, n. 3185 del 06/11/2012, dep. 2013, Di Guida, Rv. 254508; Sez. 4, n. 6383 del 18/01/2007, Barbareschi, Rv. 236106). Si specifica, altresì, che la regola tassativa stabilita dall’art. 324, comma 7, non può subire deroghe, neppure nel caso in cui si ravvisi carenza assoluta di motivazione del provvedimento di sequestro sotto il profilo della sussistenza della finalità probatoria, trattandosi di ipotesi eccezionale, specificamente disciplinata dalla legge, in analogia con altra previsione normativa, quella contenuta nell’art. 235 c.p.p., - che obbliga l’acquisizione dei documenti costituenti corpo del reato - ma con la particolarità che </em>ex lege<em> il sequestro probatorio è trasformato in sequestro preventivo (Sez. 2, n. 494 del 01/12/2004, dep. 2005, Schipani, Rv. 230865). Si aggiunge, infine, che le cose soggette a confisca obbligatoria, a norma dell’art. 240 c.p., comma 2, non possono essere restituite all’interessato, salvo che si provi la sua estraneità al reato, anche nel caso di decreto di convalida del sequestro dichiarato inefficace dal tribunale del riesame per intempestività della decisione ai sensi dell’art. 309 c.p.p., comma 10, "giacché l’art. 324 c.p.p., al quale espressamente rinvia l’art. 355 c.p.p., comma 3, prevede il divieto di revoca del decreto di sequestro nei casi indicati dal richiamato art. 240 c.p., comma 2" (Sez. 3, n. 8542 del 24/01/2001, Giglioli, Rv. 218331).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>All’orientamento appena esaminato se ne contrappone uno minoritario, di segno opposto, che ha la propria più risalente compiuta formulazione nella sentenza Sez. 3, n. 46974 del 29/10/2003, Montella, Rv. 228331, la quale, riferendosi al caso in cui il sequestro probatorio divenga inefficace a norma dell’art. 309 c.p.p., comma 10, afferma che le cose sequestrate devono essere restituite all’avente diritto quand’anche ricorra uno dei casi di cui all’art. 240 c.p., comma 2, sul rilievo che il divieto posto dall’art. 324, comma 7, del codice di rito deve intendersi riferito al solo sequestro preventivo e solo alle ipotesi di revoca del provvedimento, anche perché il sequestro probatorio non è suscettibile di revoca, potendo solo essere disposta, ai sensi dell’art. 262 c.p.p., la restituzione delle cose sequestrate. La pronuncia si pone sulla stessa linea della precedente Sez. 6, n. 16 del 10/01/1995, Rv. 200888, Frati, la quale muove anch’essa dall’assunto che, per il sequestro probatorio, non sia prevista la possibilità di chiedere la revoca. E la linea interpretativa secondo cui la previsione, nella disciplina del sequestro probatorio, di un apposito procedimento ex artt. 262 e 263 c.p.p., esclude un potere di revoca in capo al tribunale del riesame perché non titolare di poteri di restituzione è sviluppata in Sez. 6, n. 41627 del 07/10/2009, Furgiuele, Rv. 245494, e in Sez. 3, n. 39714 del 18/09/2003, Hartl, Rv. 226345. Completa il quadro una isolata sentenza, parzialmente dissonante con quelle sopra richiamate, che limita l’applicabilità del divieto di restituzione ai soli casi di perdita di efficacia del sequestro probatorio per motivi formali collegati all’inosservanza dei termini del procedimento (Sez. 3, n. 40190 del 10/10/2007, Giglia, Rv. 237938). I principi elaborati dall’orientamento giurisprudenziale minoritario trovano riscontro in una dottrina - anch’essa minoritaria - che richiama una risalente pronuncia (Sez. 6, n. 3395 del 28/11/1990, Borelli, Rv. 186628). Per tale dottrina, l’applicabilità del richiamato art. 324, comma 7, è da escludere: in primo luogo, perché il sequestro istruttorio è un mezzo di ricerca della prova disposto con provvedimento del pubblico ministero che, essendo atto non giudiziale, non è soggetto a revoca; in secondo luogo, perché la intrinseca pericolosità dei beni sottoposti a sequestro istruttorio non può essere rilevata in sede di riesame, dove è consentito vagliare, esclusivamente, le questioni attinenti alla legittimità ed al merito del provvedimento e dell’attività di esecuzione compiuta. Allo stesso orientamento si ascrive anche Sez. 1, n. 58050 del 18/10/2017, Cerquini, Rv. 271614, secondo cui, "</em>in caso di annullamento del decreto di sequestro probatorio, il tribunale del riesame deve disporre la restituzione del bene, salvo che il vincolo non debba permanere in ragione di un distinto provvedimento di sequestro conservativo o preventivo, non potendo trovare applicazione la regola espressa dall’art. 324 c.p.p., comma 7, in tema di sequestro preventivo<em>". La pronuncia prende le mosse dall’assunto che il richiamato art. 324, come risulta dalla collocazione sistematica e dalla relazione preliminare al codice del 1988, va letto in funzione del sistema in cui è inserito e, in particolare, "</em>dei precedenti artt. 322, che indica i soggetti legittimati a proporre la richiesta di riesame, e 321, che delimita l’oggetto del sequestro preventivo<em>". L’art. 324 è quindi funzionale - prosegue la sentenza - ad assicurare la tutela avverso i provvedimenti di sequestro preventivo emessi a norma dell’art. 321, quando vi è pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso, ovvero agevolare la commissione di altri reati. E l’art. 321 c.p.p., comma 3, stabilisce che "</em>il sequestro è immediatamente revocato a richiesta del pubblico ministero o dell’interessato quando risultano mancanti, anche per fatti sopravvenuti, le condizioni di applicabilità previste dal comma 1<em>"; disposizione che trova un parallelo nell’art. 299, comma 1, che, trattando delle misure coercitive personali, ne prevede l’immediata revoca quando vengono meno le condizioni di applicabilità. In definitiva - si legge nella sentenza Cerquini - mutuando una terminologia propria del diritto amministrativo afferente alla possibilità, dettata da ragioni di opportunità o di convenienza, di revocare un atto legittimamente emesso, "</em>il codice impone una costante verifica dell’esigenza della perdurante legittimità della misura imposta, con conseguente costante ed aggiornato adeguamento della necessità di mantenimento del vincolo cautelare, avendo riguardo sia ai fatti sopravvenuti, sia a quelli originari e coevi all’ordinanza impositiva, non conosciuti o non valutati dal giudice<em>". In questo quadro deve essere inserito l’art. 324 c.p.p., comma 7, il quale contempla la revoca, istituto che è diverso dall’annullamento del provvedimento di sequestro probatorio, dal momento che esso si riferisce a ragioni di opportunità o convenienza e non comporta l’eliminazione dell’atto per motivi di legittimità, mentre la vicenda estintiva del vincolo probatorio è collegata anzitutto al venir meno delle esigenze che hanno indotto ad emanare il provvedimento, in ordine al quale l’interessato può invocare la restituzione delle cose sequestrate, disciplinata dall’art. 262 c.p.p..</em><em> La tesi dell’inapplicabilità al riesame del sequestro probatorio dell’art. 324 c.p.p., comma 7, come emerge dalla giurisprudenza e dalla dottrina analizzate, si basa, dunque, su un triplice assunto: la limitazione dell’ambito operativo della disposizione solo all’evenienza della revoca; la non predicabilità della revoca anche in relazione al sequestro probatorio, in specie come esito del riesame del provvedimento che lo ha disposto; in ogni caso, la non rilevabilità d’ufficio, nel procedimento di riesame, della riconducibilità di quanto in sequestro alle categorie dell’art. 240 c.p., comma 2.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Ritengono le Sezioni Unite che il primo dei due orientamenti sopra descritti sia più coerente con il dato normativo. In primo luogo, esso prende le mosse dal tenore letterale dell’art. 257 c.p.p., comma 1, e art. 355 c.p.p., comma 3, i quali, nel disciplinare l’impugnazione del decreto di sequestro probatorio emesso dall’autorità giudiziaria e del decreto di convalida, da parte del pubblico ministero, del sequestro probatorio eseguito su iniziativa della polizia giudiziaria, richiamano il procedimento di riesame delle misure cautelari reali, di cui all’art. 324 c.p.p., senza operare alcuna distinzione tra i vari commi di tale articolo; con la conseguenza che il richiamo deve intendersi evidentemente riferito anche al divieto di restituzione di cui al comma 7. In secondo luogo, l’identità dei rimedi avverso i due tipi di sequestri deriva dalla loro comune matrice e dalla predisposizione di un unico mezzo di impugnazione, il riesame, nel sistema del codice del 1930, nell’ambito del quale il riferimento alla revoca del sequestro trovava giustificazione nella generale previsione della revoca come rimedio fisiologico utilizzabile in sede di riesame; previsione, riprodotta in via meramente tralatizia nel nuovo art. 324, comma 7, pur nell’ambito di un sistema in cui la revoca non rientra più fra gli esiti del procedimento di riesame. Risulta pienamente condivisibile anche l’affermazione secondo cui il divieto di restituzione fissato dall’art. 324 c.p.p., comma 7, va applicato anche al di fuori del procedimento di riesame, anche in mancanza di una espressa previsione in tal senso, perché - come si vedrà più ampiamente </em>ultra<em> - la disposizione è espressione del principio generale secondo cui le cose di cui all’art. 240 c.p., comma 2, non possono comunque essere restituite, essendo comunque oggetto della misura di sicurezza obbligatoria, in conseguenza della loro particolare natura.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>L’orientamento minoritario sopra esposto si presta, del resto, ad ampie critiche. Deve osservarsi, in primo luogo, che la limitazione dell’ambito operativo dell’art. 324, comma 7, solo all’evenienza della revoca e l’estraneità dell’istituto della revoca rispetto al sequestro probatorio, che costituiscono il fondamento di tale linea interpretativa, non tengono conto della derivazione storica degli attuali poteri del tribunale del riesame in tutti i settori della cautela, non solo reale, dalla L. n. 532 del 1982 (su cui v. supra). E proprio tale riferimento contribuisce a spiegare la ragione, sostanzialmente tralatizia, per cui l’art. 324 c.p.p., comma 7, continui a fare riferimento alla revoca anziché, più appropriatamente, alla caducazione del provvedimento appositivo del vincolo. In ogni caso, la revoca non manifesta, di per sé, un’incompatibilità con il sequestro probatorio: sia perché anche nel procedimento di riesame del provvedimento di sequestro probatorio il vaglio del tribunale del riesame, non diversamente da quanto accade per il provvedimento di sequestro preventivo, può estendersi alla valutazione dell’attuale conformità del vincolo ai presupposti legittimanti; sia perché la parzialità della revoca, di cui alla prima parte del comma 7 richiamato, può trovare giustificazione proprio nel caso in cui una parte delle cose sequestrate non possa essere restituita, perché soggetta a confisca obbligatoria. A tali considerazioni si deve aggiungere la constatazione che i poteri del tribunale del riesame sono fissati - quanto a ogni tipo di sequestro - dall’art. 309 c.p.p., comma 9, (espressamente richiamato dall’art. 324, comma 7), il cui primo periodo prevede che: "</em>Entro dieci giorni dalla ricezione degli atti il tribunale, se non deve dichiarare l’inammissibilità della richiesta, annulla, riforma o conferma l’ordinanza oggetto del riesame decidendo anche sulla base degli elementi addotti dalle parti nel corso dell’udienza<em>". E questa previsione, che non comprende la revoca tra i poteri del tribunale del riesame, conferma il carattere atecnico, meramente tralatizio, del riferimento a tale istituto da parte dell’art. 324, comma 7.</em><em> Quanto all’ulteriore argomento utilizzato dall’orientamento minoritario, basato sulla non rilevabilità d’ufficio, nel procedimento di riesame, della riconducibilità di quanto in sequestro alle categorie dell’art. 240 c.p., comma 2, è evidente come lo stesso si fondi su una petizione di principio, che appare contraddetta proprio dal tenore letterale dell’art. 324, comma 7, che prevede una rilevabilità d’ufficio in tal senso. Nè vi è ragione per differenziare i poteri che possono essere esercitati dal tribunale, a fronte del chiaro dettato normativo, che prevede un procedimento di riesame uniforme per le diverse tipologie di sequestro. Ne consegue che il divieto di restituzione in parola deve essere ritenuto applicabile, oltre che al sequestro preventivo e al sequestro probatorio, anche al sequestro conservativo, perché la materia risulta organicamente disciplinata dagli artt. 324 e 325 c.p.p., - collocati, a livello sistematico, a chiusura della disciplina delle misure cautelari reali - che assurgono, pertanto, a corpus normativo di riferimento ogniqualvolta da parte degli interessati emerga l’esigenza di contestare un provvedimento di sequestro, indipendentemente dalle finalità che attraverso quest’ultimo l’autorità giudiziaria abbia inteso perseguire.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La seconda delle questioni poste riguarda l’ampiezza del divieto di restituzione di cui all’art. 324 c.p.p., comma 7, che si riferisce espressamente ai "</em>casi indicati nell’art. 240 c.p., comma 2<em>", ovvero alle cose soggette a confisca obbligatoria ai sensi di tale comma, ma è stato esteso, da una parte della giurisprudenza di legittimità, anche ad altre categorie di cose soggette a confisca.</em><em> Si tratta di una questione ascrivibile essenzialmente all’ambito del diritto sostanziale, che è resa complessa dall’eterogeneità della casistica di cui all’art. 240 c.p., comma 2, nella formulazione attualmente vigente; eterogeneità che rende problematica l’individuazione della ratio del divieto di restituzione, perché, al prezzo del reato e alle cose intrinsecamente criminose confiscabili anche senza condanna, si aggiungono ormai cose dotate di caratteristiche che sarebbero riconducibili, sul piano sistematico, a categorie contemplate da altre disposizioni. Nella formulazione originaria della disposizione penale, erano ricompresi, infatti, il prezzo del reato (n. 1) e le cose la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione delle quali costituisce reato, anche se non è stata pronunciata condanna (n. 2), immediatamente riconducibili, per la loro intrinseca illiceità, alla confisca-misura di sicurezza. La L. 15 febbraio 2012 ha introdotto nel richiamato dell’art. 240 c.p., comma 2, il n. 1-bis), con l’effetto di estendere la confisca obbligatoria anche a oggetti puramente strumentali - altrimenti rientranti nella previsione generale di confisca facoltativa di cui al comma 1 - qualora si tratti di beni e strumenti informatici o telematici utilizzati per la commissione di alcuni reati informatici. In attuazione della direttiva n. 2014/42/UE, in materia di confisca e di congelamento dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’Unione Europea, ed in forza della delega di cui alla L. 7 ottobre 2014, n. 154, il D.Lgs. n. 29 ottobre 2016, n. 202, introducendo un secondo periodo nel disposto dell’art. 240, comma 2, n. 1-bis), ha esteso la confisca obbligatoria anche al profitto e al prodotto dei reati sopraindicati ed ha previsto, in via sussidiaria, la confisca per equivalente di beni di valore pari al profitto o al prodotto di tali reati. La nuova disciplina crea una indubbia commistione delle categorie dell’attuale comma 2, non solo con quelle del comma 1 dello stesso art. 240, che si riferisce alle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e alle cose che ne sono il prodotto o il profitto, ma anche con quella della confisca per equivalente, che ha subito una recente razionalizzazione attraverso l’introduzione nell’art. 240-bis c.p., (da parte del D.Lgs. 1 marzo 2018, n. 21, art. 6, comma 1).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Proprio muovendo dall’evoluzione normativa, un primo orientamento giurisprudenziale, assolutamente minoritario, estende la portata del divieto di restituzione a tutti i casi di confisca obbligatoria. In particolare, la sentenza Sez. 2, n. 16523 del 07/03/2017, Lucente, Rv. 269700, che si riferisce all’ambito del procedimento di restituzione ex art. 262 c.p.p. e non a quello di riesame, afferma che il riferimento dell’art. 324 c.p.p., comma 7, all’art. 240 c.p., comma 2, essendo il primo anteriore al "progressivo arricchimento dell’istituto della confisca obbligatoria" che si è registrato nel tempo, deve intendersi, al di là del dato testuale, all’"</em>impianto concettuale governato dall’art. 240, comma 2, cit. e perciò, in seno a tale impianto, a tutte le forme di confisca obbligatoria previste dal legislatore<em>".</em><em> Ad avviso delle Sezioni unite, tale ricostruzione interpretativa - cui deve essere riconosciuto il merito di avere posto l’accento sulla problematicità dell’individuazione di una ratio comune nell’ambito della casistica di cui all’art. 240 c.p., comma 2, e, conseguentemente nell’ambito del divieto di restituzione di cui all’art. 324 c.p.p., comma 7, - non può essere condivisa. In particolare, si può criticamente osservare, da un lato, che la tendenza all’allargamento dei casi di confisca obbligatoria era già in atto al momento dell’entrata in vigore del codice del 1988, basti pensare alla confisca obbligatoria delle cose mafiose di cui all’art. 416-bis c.p., comma 7; dall’altro lato, che l’insieme delle ipotesi di confisca obbligatoria è eterogeneo, comprendendo anche res che, non solo non hanno alcuna attitudine criminosa intrinseca, ma neppure denunciano indici di pericolosità in collegamento con la disponibilità che determinati soggetti ne abbiano, ben potendo il vincolo cadere persino su beni non manifestanti il minimo collegamento con il singolo fatto di reato (esemplari sono le ipotesi di confisca il D.L. 8 giugno 1992, n. 306, ex art. 12-sexies, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 1992, n. 356, ora 240-bis c.p., e di confisca di valore). Tenuto presente ciò, il riferimento "</em>ultratestuale<em>" dell’art. 327 c.p.p., comma 7, non all’art. 240 c.p., comma 2, ma all’intero impianto concettuale delle confische obbligatorie risulta eccessivamente ampio, finendo per ricomprendere ipotesi di confisca obbligatoria tuttavia non riconducibili all’alveo della confisca-misura di sicurezza. In altri termini, l’orientamento giurisprudenziale in esame, allargandosi a confische di tipo sanzionatorio, si pone in contrasto sia con il dato letterale attuale sia con la ratio originaria della norma, limitata al prezzo del reato e alle cose intrinsecamente criminose. </em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Un secondo orientamento estende l’applicazione del divieto di restituzione di cui all’art. 324 c.p., comma 7, ai soli casi di confisca obbligatoria riconducibili quanto meno all’art. 240 c.p., comma 1. Si propone, a tale scopo, un’interpretazione teleologica e sistematica delle norme, che considera come speciali le ipotesi di confisca obbligatoria, previste da disposizioni diverse dall’art. 240 c.p., comma 2, che sarebbero altrimenti riconducibili a casi di confisca facoltativa di cui al comma 1 dello stesso articolo. Tali ipotesi e quelle del richiamato comma 2 sarebbero accomunate dalla ratio della obbligatorietà della confisca, pur differenziandosi sotto il profilo della natura delle cose confiscate: proprio tale ratio comune giustificherebbe l’estensione del divieto di restituzione a tutte le ipotesi di confisca obbligatoria, previste da norme speciali, aventi ad oggetto cose che servirono o furono destinate a commettere il reato o cose che ne sono il prodotto o il profitto. L’assunto di fondo su cui si basa tale interpretazione è la sostanziale omogeneità di materia tra le discipline del primo e dell’art. 240 c.p., comma 2. Si nega, in altri termini, che il comma 1 riguardi una confisca a carattere sanzionatorio, priva delle finalità preventive che giustificano nel comma 2 l’inderogabile eliminazione dalla circolazione delle cose di per sé pericolose. Il ragionamento così sintetizzato è fatto proprio, tra le altre: da Sez. 3, n. 17918 del 06/12/2016, dep. 2017, Rena, Rv. 269628, che ha ritenuto applicabile il divieto di cui all’art. 324 c.p.p., comma 7, al mezzo utilizzato per il trasporto illecito di rifiuti, soggetto a confisca obbligatoria ai sensi del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 259, comma 2, laddove, invece, alla luce dell’art. 240 c.p., comma 1, sarebbe soggetto a confisca solo facoltativa; da Sez. 2, n. 35100 del 10/06/2015, Di Domenico, Rv. 264511, che ha ritenuto legittima la mancata restituzione di somme di denaro oggetto dell’ipotizzato reato di riciclaggio siccome sottoposte a confisca obbligatoria ex art. 648-quater c.p., intesa quale ipotesi speciale rispetto allo stesso comma 2 dell’art. 240 c.p., in quanto "</em>confisca pertinenziale, misura di sicurezza<em>"; da Sez. 2, n. 35029 del 26/05/2010, Capirello, Rv. 248237, che ha escluso la restituzione del veicolo utilizzato per il trasporto di prodotti con segni falsi, assoggettato a confisca obbligatoria a norma dell’art. 474-bis c.p., viceversa confiscabile solo facoltativamente ai sensi dell’art. 240 c.p., comma 1.</em><em> Ritiene il Collegio che l’orientamento appena descritto si presti alle stesse critiche già formulate in precedenza. Si tratta, infatti, di una soluzione che, pur avendo una portata più circoscritta, è contraria alla lettera e alla ratio della norma, perché risulta eccessivo impedire che il venire meno di un sequestro cautelare o probatorio abbia in concreto effetto in relazione a cose prive di intrinseca pericolosità, al di fuori dell’elenco contenuto nell’art. 240 c.p., comma 2, da ritenersi tassativo perché il dissonante rispetto all’originaria ratio della disposizione.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Alle ricostruzioni interpretative appena analizzate si contrappone il più restrittivo orientamento maggioritario, che interpreta in senso quasi letterale la locuzione "</em>nei casi indicati nell’art. 240 c.p., comma 2<em> ", contenuta nell’art. 324 c.p.p., comma 7, consentendo che il divieto di restituzione ivi previsto sia esteso al più alle ipotesi di confisca previste da norme speciali, ma comunque riconducibili, nella sostanza, alla categoria dell’art. 240 c.p., comma 2, (Sez. 6, n. 54792 del 15/11/2018, Rizzo, Rv. 274637; Sez. 4, n. 34459 del 12/07/2011, Zamora Guevara, Rv. 251102; Sez. 3, n. 18545 del 07/04/2010, De Bosi, Rv. 247156; Sez. 3, n. 44279 del 07/11/2007, Mazzotta, Rv. 238287; Sez. 3, n. 2949 del 11/01/2005, Gazziero, Rv. 230868).</em><em> La più risalente delle menzionate pronunce valorizza, in particolare, la circostanza che, con l’art. 324, comma 7, il legislatore abbia inteso fare richiamo all’art. 240 c.p., comma 2, anziché alla confisca generalmente intesa, come nel precedente art. 321 c.p.p., comma 2. Si puntualizza, altresì, che, per la confisca obbligatoria - nel testo dell’art. 240 c.p., comma 2, all’epoca vigente - l’obbligatorietà trova giustificazione, pur con le innegabili differenze tra le ipotesi indicate al n. 1) e quelle indicate al n. 2), nella circostanza che la misura concerne cose intrinsecamente pericolose, in quanto la detenzione o l’uso di esse assume di per sé carattere criminoso. L’obbligatorietà risponde, dunque, in tali casi, ad una logica preventiva, perché la loro restituzione rappresenterebbe la premessa per la commissione di un nuovo reato. Per contro, sul piano generale, si individua come elemento comune alle altre ipotesi di confisca obbligatoria una funzione punitivo - repressiva, che prescinde dalla pericolosità intrinseca della cosa. E tale differenza si coglie con evidenza se si considerano i diversi effetti delle disposizioni in esame; solo la confisca delle cose oggettivamente criminose prescinde, infatti, dalla sentenza di condanna e può trovare applicazione anche nel caso di estinzione del reato. L’art. 324 c.p.p., comma 7, si inserisce coerentemente in questo quadro, perché ha la finalità di evitare in ogni caso la restituzione di cose oggettivamente criminose, comprimendo di fatto l’ambito e gli effetti del riesame, che viene a concentrarsi sull’accertamento dell’illiceità intrinseca del bene in sequestro, mentre diviene irrilevante la verifica della motivazione del sequestro o della convalida. Ben diversa è la situazione negli altri casi di confisca obbligatoria, nei quali la confiscabilità del bene dipende pur sempre dall’accertamento dell’esistenza di un’attività vietata. L’orientamento giurisprudenziale in esame chiarisce, sul punto, che postulare il divieto di restituzione per un bene la cui detenzione o il cui uso non presenta profili di illiceità ha l’effetto di privare di rilevanza lo stesso giudizio di riesame; il che si pone in una logica antitetica rispetto a quella che ha spinto le Sezioni Unite della Corte (Sentenza n. 5876 del 28/01/2004, Bevilacqua, Rv. 226713) ad affermare la necessità che il sequestro, anche se probatorio, sia sempre supportato da adeguata motivazione circa le finalità del vincolo (orientamento più di recente ribadito da Sez. U, n. 36072 del 19/04/2018, Botticelli, Rv. 273548). Si specifica, in ogni caso, che le considerazioni che precedono non valgono nei casi in cui le singole disposizioni prevedano anch’esse la confisca di beni comunque riconducibili nel novero di quelli indicati all’art. 240 citato, comma 2. Ed è ampia la casistica - evidentemente solo esemplificativa - delle confische obbligatorie previste da leggi speciali per le quali il divieto di restituzione in parola non trova applicazione secondo l’orientamento in esame: il fucile sequestrato per la violazione della legge sulla caccia, ai sensi della L. 11 febbraio 1992, n. 157, art. 28, comma 2, è soggetto a confisca solo in caso di condanna (sentenza De Bosi); il divieto non si applica con riferimento al sequestro, disposto prima dell’entrata in vigore della L. 29 luglio 2010, n. 120, di un’auto in relazione alla contestazione del reato di cui all’art. 186 C.d.S., comma 2, lett. c), (sentenza Zamora Guevara); il divieto di restituzione "non si estende all’ipotesi speciale di confisca del provento del reato, prevista dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 7-bis" (sentenza Rizzo). Analoghe considerazioni valgono per: il sequestro di un’area adibita a discarica abusiva di rifiuti (sentenza Mazzotta); l’ipotesi contemplata dal D.P.R. n. 43 del 1973, art. 301, in materia di contrabbando doganale, in relazione alle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e alle cose che ne sono l’oggetto ovvero il prodotto o il profitto (ex plurimis, Sez. 3, n. 35784 del 15/02/2017, Volpi, Rv. 270727; Sez. 3, n. 27139 del 22/04/2015, Lan, Rv. 264186; Sez. 3, n. 41200 del 10/10/2008, Tringali, Rv. 241531); i prodotti alimentari confezionati in barattoli recanti etichetta mendace ma genuini, di cui agli artt. 517-quater e 474-bis c.p. (Sez. 3, n. 7673 del 10/01/2012, Napoletano, Rv. 252093); la fattispecie del D.L. 8 giugno 1992, n. 306, art. 12-sexies, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 1992, n. 356 (Sez. 4, n. 1640 del 22/05/1998, Toracca, Rv. 210989).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Ad avviso delle Sezioni Unite, tale ultimo orientamento, non a caso maggioritario, deve essere preferito, perché più rispondente alla lettera e alla ratio della disposizione. Risulta, infatti, insuperabile, sul piano letterale il riferimento alle sole confische di cui all’art. 240 c.p., comma 2, aventi ad oggetto, nella formulazione originaria della norma, le cose intrinsecamente pericolose, per le quali la restituzione è comunque esclusa ben al di là della fase cautelare e indipendentemente dall’esito del giudizio di merito. Ed è questa intrinseca pericolosità che distingueva, nell’originaria intenzione del legislatore, tali tipologie di confisca dalle confische obbligatorie previste da altre disposizioni. Il quadro era complicato, già in origine, dalla compresenza, nell’ambito del richiamato comma 2, del n. 1), riferito al prezzo del reato, di per sé normalmente rappresentato da denaro o beni fungibili e, dunque, privo di intrinseca pericolosità. Sul punto, conformemente a quanto statuito dalle sentenze Sez. U, n. 5 del 25/03/1993, Carlea, Rv. 193119, e Sez. U, n. 38834 del 10/07/2008, De Maio, Rv. 240565, ha a lungo dominato l’opinione per cui la confisca del prezzo del reato si distingueva dalla confisca delle cose ai sensi del n. 2) dell’art. 240 c.p., esigendo, a differenza di queste, una sentenza di condanna, al cospetto della quale scattava la previsione di obbligatorietà. Tale ricostruzione si basava sulla valorizzazione del dato letterale, per cui l’utilizzazione dell’avverbio "</em>sempre<em>", all’inizio dell’art. 240 c.p., comma 2, intende rendere obbligatoria, diversamente da quanto previsto dal comma 1 del medesimo articolo, una confisca che altrimenti sarebbe stata facoltativa; mentre solo nei casi indicati nel n. 2) del comma 2 dell’articolo l’obbligatorietà è destinata ad operare "</em>anche se non è stata pronunciata condanna<em>". A ciò si aggiungeva, per sostenere l’affermazione secondo cui l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione impedisce la confisca delle cose che costituiscono il prezzo del reato, il rilievo che la misura ablativa è prevista non in ragione dell’intrinseca illiceità delle stesse bensì in forza del loro peculiare collegamento con il reato, il cui positivo accertamento è necessario presupposto (argomento ex Sez. 1, n. 7860 del 20/01/2015, Meli, Rv. 262759; Sez. 6, n. 8382 del 09/02/2011, Ferone, Rv. 249590).</em><em> L’orientamento in questione è, però, superato da Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264434, secondo cui il giudice può applicare, a norma dell’art. 240 c.p., comma 2, n. 1), la confisca del prezzo del reato e, a norma dell’art. 322 ter, la confisca del prezzo o del profitto del reato, sempre che si tratti di confisca diretta e vi sia stata una precedente pronuncia di condanna, rispetto alla quale il giudizio di merito permanga inalterato quanto alla sussistenza del reato, alla responsabilità dell’imputato ed alla qualificazione del bene da confiscare come profitto o prezzo del reato (in senso conforme, Sez. 2, n. 51088, del 20/10/2017, Marrazzo). E tale interpretazione garantisce una maggiore uniformità alle due categorie dei numeri 1) e 2) del richiamato comma 2, giacché per entrambe la confisca può prescindere dalla condanna, anche se in relazione al prezzo presuppone necessariamente che vi sia stato un accertamento di responsabilità comunque divenuto definitivo. In tale quadro sistematico si inserisce nella già delineata evoluzione del testo dell’art. 240 c.p., comma 2, sulla quale è necessaria una precisazione. Come già evidenziato, si tratta, infatti, di un percorso che non appare del tutto coerente, in quanto, al nucleo essenziale del prezzo del reato e delle cose intrinsecamente pericolose di cui ai nn. 1) e 2), si sono venute aggiungendo cose che certamente presentano caratteristiche diverse (n. 1-bis). Ne consegue un’indubbia tensione rispetto all’originaria ratio della disposizione quanto alla natura di misura di sicurezza della confisca ivi prevista, che giustificava con chiarezza il divieto di restituzione di cui all’art. 324, comma 7. Per contro, deve rilevarsi che l’effetto della riconduzione di categorie eterogenee di cose oggetto di confisca alla disposizione dell’art. 240 c.p., comma 2 è comunque quello di non consentirne la restituzione anche all’esito del giudizio di merito; cosicché, almeno sotto questo profilo, permane un parallelismo con quanto avviene in sede cautelare. L’orientamento maggioritario merita di essere condiviso e confermato anche nella parte in cui - evidentemente valorizzando la ratio originaria della disposizione - consente di ritenere comprese nel divieto di restituzione anche quelle confische che, pur previste da disposizioni diverse, riguardino cose intrinsecamente pericolose, perché tali cose rientrerebbero comunque nell’ambito di applicazione dell’art. 240 c.p., comma 2, se non fossero contemplate da leggi speciali. A tali rilievi deve aggiungersi la considerazione, di carattere generale, che l’estensione del divieto di cui all’art. 324 c.p.p., comma 7, a tutti i casi di confisca obbligatoria, diversi da quelli ricadenti nella previsione dell’art. 240 c.p., comma 2, costituirebbe un’applicazione analogica della norma, che non appare corretta sul piano ermeneutico, perché, pur trattandosi di disposizione processuale, deve essere considerata la particolare funzione che il divieto di restituzione assolve. Un ulteriore argomento a favore della tesi qui condivisa deriva dalla giurisprudenza in materia di decreto penale di condanna, la quale, nella quasi totalità dei casi, interpreta in senso restrittivo l’art. 460 c.p.p., comma 2, che prevede, con una formula sostanzialmente identica a quella dell’art. 324 c.p.p., comma 7, che: "</em>Con il decreto di condanna il giudice<em> (...) </em>ordina la confisca, nei casi previsti dall’art. 240 c.p., comma 2, o la restituzione delle cose sequestrate<em>". Si nega, in particolare, che possa essere disposta con decreto la confisca obbligatoria del mezzo utilizzato per il trasporto abusivo di rifiuti (Sez. 3, n. 43547 del 27/04/2016, Gardelli, Rv. 267923; Sez. 3, n. 18774 del 29/02/2012, Staicue, Rv. 252622; Sez. 3, n. 36063 del 07/07/2009, Renna, Rv. 244607; contra Sez. 3, n. 4545 del 04/12/2007, dep. 2008, Pennino, Rv. 238852), ovvero dell’area adibita a discarica abusiva (Sez. 3, n. 24659 del 19/03/2009, Mongardi, Rv. 244019; Sez. 3, n. 26548 del 22/05/2008, Mazzucato, Rv. 240343). Nè può dirsi che la soluzione qui prospettata presenti inconvenienti di carattere pratico, perché, al fine di evitare la restituzione di cose soggette a confisca ma non sottoposte al divieto dell’art. 324, comma 7, il pubblico ministero potrà sempre assumere - ricorrendone i presupposti - l’iniziativa di un nuovo sequestro. </em></p>