<p style="text-align: justify;">Con la sentenza n. 42025 del 14.10.2019, la Suprema Corte si è espressa in ordine alla qualificazione giuridica del delitto derivante dall’impossessamento della borsa di una prostituta da parte del cliente insoddisfatto. Più nel dettaglio, la Corte ha sussunto la fattispecie concreta sotto il delitto di rapina, soffermandosi sull’analisi degli elementi di divergenza rispetto al delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. La Suprema Corte, rifacendosi a pregressi orientamenti in materia, ha osservato che l’elemento distintivo del delitto di rapina da quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone risiede nell’elemento soggettivo, perché nel primo caso l’autore agisce al fine di procurare a sé o ad altri un profitto ingiusto, nella consapevolezza che quanto pretende non gli spetta e non è giuridicamente azionabile, mentre nell’altro agisce nella ragionevole opinione di esercitare un diritto con la coscienza che l’oggetto della pretesa gli competa. Deve però rilevarsi – chiosa la Corte- che fermo restando che la linea di demarcazione tra rapina ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni è sancita dall’elemento intenzionale, non sono indifferenti, ai fini della qualificazione giuridica del fatto, la gravità della violenza e l’intensità della minaccia, che per essere ricondotte alla fattispecie meno grave, non devono trasmodare in manifestazioni sproporzionate e gratuite, travalicanti il ragionevole intento di far valere un diritto. Il Collegio, inoltre, precisa di conoscere -ma di non condividere- quella pronuncia isolata e nel tempo risalente secondo cui in tema di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (artt. 392 e 393 c.p.), l’effettiva azionabilità della pretesa in sede giurisdizionale e la possibilità di realizzarla in virtù di una pronuncia giudiziale non costituiscono presupposto indefettibile per la configurabilità del reato, essendo a tal fine sufficiente la convinzione soggettiva –purché non arbitraria e pretestuosa, cioè tale da palesare che l’opinato diritto mascheri altre finalità, determinanti esse l’applicazione della violenza o il ricorso alla minaccia- dell’esistenza del diritto tutelabile, posto che la possibilità di ricorso al giudice deve intendersi come possibilità di fatto, indipendentemente dalla fondatezza dell’azione e quindi dall’esito eventuale della stessa. Questa pronuncia- chiosa ancora la Corte- è stata sostanzialmente superata dall’elaborazione giurisprudenziale in materia di estorsione connessa al reato di usura, laddove si è evidenziato che nell’ipotesi in cui un soggetto ponga in essere una minaccia per ottenere il pagamento di interessi usurari, è configurabile il delitto di estorsione e non quello di ragion fattasi, poiché l’agente è consapevole di esercitare la minaccia stessa per ottenere il soddisfacimento dell’ingiusto profitto derivante da una pretesa contra ius. Egli non può avere infatti la ragionevole opinione di far valere un diritto tutelabile con l’azione giudiziaria, che gli è negata in considerazione dell’illiceità della pretesa. In conclusione, anche nell’indimostrata ipotesi che la prestazione sessuale pattuita non fosse stata eseguita, l’imputato non avrebbe potuto recuperare, nel rispetto dei principi del diritto civile, la somma già eventualmente versata come corrispettivo, trattandosi di un contratto a causa illecita che non dà diritto alla ripetizione dell’indebito. Deve, peraltro, sottolinearsi che anche in punto di fatto non ricorrono gli estremi di questa specifica ipotesi, poiché dalla sentenza impugnata emerge che l’imputato aveva consumato il rapporto sessuale pattuito e nell’aggredire la donna aveva pronunziato delle frasi del tutto incongrue rispetto al dichiarato fine di ottenere la restituzione della somma versata.</p> <p style="text-align: justify;"><em>Domiziana Pinelli</em></p>