<p style="text-align: justify;"><strong>Massima</strong></p> <p style="text-align: justify;"><em> </em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Una cosa è dire che un fatto non è più considerato dalla legge come inadempimento-reato, con conseguente necessità di scongiurare non solo la punizione di nuovi, analoghi fatti, ma anche di mettere “</em>in non cale<em>” dal punto di vista degli effetti condanne pregresse, anche in giudicato, che abbiano condannato taluno per i fatti medesimi; altra cosa è dire che ad un inadempimento-reato la legge ne ha sostituito un altro che continua a punire i medesimi fatti storici, seppure con modalità diverse e con un diverso trattamento sanzionatorio, ipotesi al cui cospetto occorre piuttosto ricercare quale sia il trattamento maggiormente di favore per il reo (con possibilità anche in queste evenienze – nondimeno - di revocare la sentenza in giudicato laddove una sanzione pecuniaria abbia sostituito una detentiva). Facile a dirsi, assai più complesso a concretamente verificarsi, dovendosi nella sostanza accertare – quanto alla seconda ipotesi (c.d. </em>abrogatio sine abolitione<em>) - che ad aver avuto luogo sia stata una effettiva “</em>successione<em>” di norme penali (l’una delle quali era vigente prima e l’altra no; l’altra delle quali non era vigente prima e lo è oramai) con conseguente “</em>continuità dell’illecito<em>”, e non piuttosto una abrogazione vera e propria (c.d. </em>abolitio criminis<em>), giusta confronto tra le fattispecie astratte del “</em>prima<em>” e quelle, del pari astratte, del “</em>poi<em>”.</em></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Crono-articolo</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;">Nel diritto romano, l’abrogazione di norme aventi carattere penale, o la modifica delle stesse, è fenomeno che si inserisce nel più ampio e complessivo quadro in cui tali fattispecie interessano il diritto in generale. Occorre muovere dal concetto di <em>lex rogata</em> che, a differenza della <em>lex data</em> - più antica e concessa dal Magistrato, con struttura dunque unilaterale - viene (solo) proposta dal Magistrato e deve ottenere il consenso del <em>Populus</em> riunito nei <em>comitia</em>, con conseguente struttura bilaterale derivante da reciproco consenso, per l’appunto, tra Magistrato e <em>Populus</em> (analogamente a quanto avviene per il <em>plebiscitum</em>, proposto dai Tribuni e votato nei <em>concilia plebis</em>). Nella <em>lex rogata</em> il Popolo non ha l'iniziativa, che spetta al solo Magistrato, ma attraverso il <em>iussus populi</em> esso partecipa all'approvazione della <em>lex</em>, limitando così i poteri del magistrato proponente, onde - stando anche alle fonti (Gaio, Gellio) - con l'andare del tempo la <em>Lex</em> come fonte del diritto trova vieppiù la propria reale giustificazione ultima nella volontà popolare.</p> <p style="text-align: justify;">Importante soffermarsi sul termine <em>rogatio</em>, che in primo luogo indica appunto la proposta spiccata dal Magistrato, ma che è anche termine volto ad identificare il cuore della legge stessa dal punto di vista testuale, articolandosi tale <em>lex</em> in: a) <em>index et praescriptio legis; b) </em> <em>rogatio</em>, per l’appunto; c) <em>sanctio</em>. La <em>lex rogata</em>, votata dal <em>Populus</em>, ha un valore quasi "<em>sacro</em>" e si tende a mantenerla vigente, rintracciandosi nelle fonti anche delle clausole, per lo più di valore morale, che minacciano sanzioni a chi intenda proporne l'abrogazione, e che sono in realtà funzionali a scoraggiare la desuetudine e ad impedire l'abrogazione tacita, potendo la pertinente eliminazione avvenire solo in modo espresso, giusta nuovo procedimento uguale e contrario a quello che aveva dato vita alla <em>lex</em> che si intende abrogare (con <em>rogatio</em> del Magistrato e pertinente voto del <em>Populus</em>), sfociante in un <em>contrarius consensus</em> espresso dai due protagonisti del procedimento legislativo in parola. Cicerone e Livio sul crinale storico, Ulpiano e Modestino su quello giuridico, parlano in proposito di <em>ab-rogatio</em> per intendere proprio questo procedimento contrario tendente a privare di efficacia una <em>lex</em> vigente; particolarmente interessante in proposito il testo di Ulpiano (Reg. 3), laddove si afferma che una lex "<em>... aut rogatur id est fertur</em> [viene rogata e quindi varata] <em>aut abrogatur idest prior lex tollitur</em> [<em>ab-rogatio</em>: viene eliminata], <em>aut derogatur idest pars primae legis tollitur</em> [<em>de-rogatio</em>: viene parzialmente eliminata] <em>aut subrogatur idest adiicitur aliquid primae</em> [<em>sub-rogatio</em>: vi viene aggiunta una nuova disposizione] <em>aut obrogatur idest mutatur aliquid ex prima lege</em> [<em>ob-rogatio</em>: viene parzialmente modificata]". Ai fini della differenza dunque tra <em>abolitio criminis</em> e modifica della norma penale rileva in particolare il rapporto che i Romani vedono tra la <em>ab-rogatio</em> (eliminazione) e la <em>ob-rogatio</em> (modifica) di una <em>lex</em>. Infine, dal punto di vista lessicale, quella che i Romani chiamano <em>abolitio publica</em> o <em>generalis</em> si appalesa quale istituto più affine all'amnistia (con funzione di clemenza generale) che alla moderna <em>abolitio criminis</em>.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1889</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 30 giugno viene varato il R.D. n.6133, codice Zanardelli, di impianto liberale, secondo il cui art.2, comma 2, nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisca reato; e, se vi sia stata condanna, ne cessa l'esecuzione e gli effetti penali (abrogazione); se poi – ai sensi del comma 3 - la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori siano diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli all'imputato (modifica).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1930</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 19 ottobre viene varato il R.D. n.1398, nuovo codice penale, alla stregua del cui art.2, comma 2, nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali, riproponendosi in tema di abrogazione il regime del 1889. Ai sensi del comma 3, se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4288.html">sentenza irrevocabile</a>; quest’ultimo inciso muta il regime della modifica della norma penale rispetto al codice Zanardelli, giacché l’intervento di una sentenza irrevocabile esplicitamente sterilizza, secondo il nuovo regime, le eventuali modifiche (anche <em>in melius</em>) alla norma penale pertinente.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Quello stesso 19 ottobre viene varato il R.D. n.1399, nuovo codice di procedura penale (che sostituisce quello precedente del 1865), secondo il cui art.576, comma 2, sono irrevocabili le sentenze contro le quali non è ammessa impugnazione diversa dalla revisione. Il coordinamento con l’art.2, comma 2, del nuovo codice penale in tema di <em>abolitio criminis</em> consente di affermare che, laddove sia intervenuta una sentenza di condanna irrevocabile e segua appunto l’<em>abolitio criminis</em> del reato per il quale il soggetto è stato condannato, non si ha revoca della sentenza di condanna ridetta, la quale piuttosto cessa di spiegare effetti penali (diviene, nella sostanza, inefficace pur senza essere revocata).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1942</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 16 marzo viene varato il R.D. n.262, nuovo codice civile, le cui disposizioni preliminari recano una norma, l’art.15, onde le <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4258.html">leggi</a> non sono <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4278.html">abrogate</a> che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Quello stesso giorno viene varato il R.D. n.267, recante disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa, alcune delle cui fattispecie penalmente rilevanti saranno significative in tema di rapporti tra “<em>abolitio criminis</em>” e “<em>abrogatio sine abolitione</em>”.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1948</strong></p> <p style="text-align: justify;">Viene varata la Costituzione che prevede la natura personale della responsabilità penale, cui è connessa la funzione tendenzialmente rieducativa della pena (art.27): il condannato deve percepire la pena come tendenzialmente rieducativa per la commissione di un fatto penalmente rilevante che gli viene rimproverato, circostanza da escludersi allorché egli venga punito sulla base di una norma che configurava il proprio contegno quale inadempimento penalmente rilevante quando esso è stato posto in essere, ma che non viene più considerato tale; ovvero viene ormai assunto quale contegno ancora penalmente rilevante, ma meno grave rispetto al passato; ovvero ancora viene assunto più grave, con necessità in quest’ultimo caso di applicare il regime penale pregresso, avvinto alla prevedibilità delle conseguenze del contegno tenuto dal soggetto attivo, per lui più favorevoli, rispetto al nuovo regime che prevede – all’opposto - sanzioni penali più gravose.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1959</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 30 maggio esce la sentenza delle SSUU, <em>Majer</em>, che chiarisce come tra due fattispecie penali si configuri un rapporto di specialità in duplice possibile foggia, ovvero una specialità “<em>per specificazione</em>”, laddove un rapporto di genere a specie coinvolge uno o più elementi costitutivi delle due diverse fattispecie poste a raffronto, ovvero una specialità “<em>per aggiunta</em>”, laddove la fattispecie speciale annovera un elemento costitutivo che non è invece presente nella fattispecie generale. Si tratta di una presa di posizione che risulterà utile al fine di verificare la presenza di un concorso apparente di norme, laddove le due fattispecie a raffronto siano entrambe contemporaneamente vigenti, ovvero una continuità dell’illecito giusta modifica della norma penale ex art.2, comma 3, c.p. (eventualmente assieme ad una parziale <em>abolitio criminis</em> ex art.2, comma 2, c.p.) laddove le due fattispecie considerate siano in successione cronologica tra loro.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1986</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 30 dicembre viene varata la legge n.943, recante - norme in materia di collocamento e di trattamento dei lavoratori extracomunitari immigrati e contro le immigrazioni clandestine – alla stregua del cui art.12, comma 2 il datore di lavoro che occupi alle proprie dipendenze lavoratori immigrati extracomunitari sprovvisti dell'autorizzazione al lavoro prevista dalla legge medesima e' punito con un'ammenda da lire 500 mila a lire 2 milioni e, nei casi più gravi, con l'arresto da 3 mesi ad un anno.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1988</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 22 settembre viene varato il D.p.R. n.477, nuovo codice di procedura penale, il cui art.673 disciplina la revoca della sentenza per abolizione del reato, alla cui stregua in caso di <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4278.html">abrogazione</a> – <em>abolitio criminis</em> - (o di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice), il giudice dell'esecuzione revoca la sentenza di condanna o il decreto penale dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti, allo stesso modo dovendo provvedere quando è stata emessa sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere per <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/5752.html">estinzione del reato</a> o per mancanza di <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/6009.html">imputabilità</a>. L’<em>abolitio criminis</em> consente dunque di incidere, superandolo, sul giudicato più sfavorevole al reo, circostanza che non si verifica nella diversa ipotesi di modifica della norma penale con continuità dell’illecito (c.d. <em>abrogatio sine abolitione</em>).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1998</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 25 luglio viene varato il decreto legislativo n.286, recante il testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, secondo il cui art.22, comma 10, il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno previsto dal medesimo articolo, ovvero il cui permesso sia scaduto, revocato o annullato, e' punito con l’arresto da 3 mesi ad 1 anno o con l’ammenda da Lire 2 milioni a Lire 6 milioni.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">*Il 12 ottobre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione, <em>Forni</em>, che ribadisce come tra due fattispecie penali si configuri un rapporto di specialità in duplice possibile foggia, ovvero una specialità “<em>per specificazione</em>”, laddove un rapporto di genere a specie coinvolge uno o più elementi costitutivi delle due diverse fattispecie poste a raffronto, ovvero una specialità “<em>per aggiunta</em>”, laddove la fattispecie speciale annovera un elemento costitutivo che non è invece presente nella fattispecie generale. Si tratta di una presa di posizione che risulterà utile al fine di verificare la presenza di un concorso apparente di norme, laddove le due fattispecie a raffronto siano entrambe contemporaneamente vigenti, ovvero una continuità dell’illecito giusta modifica della norma penale ex art.2, comma 3, c.p. (eventualmente assieme ad una parziale <em>abolitio criminis</em> ex art.2, comma 2, c.p.) laddove le due fattispecie considerate siano in successione cronologica tra loro.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1999</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 25 giugno viene varata la legge n.205 il cui articolo 18 abroga i reati di oltraggio a pubblico ufficiale ex art.341 c.p. e di oltraggio a pubblico impiegato ex art.344 c.p. senza che vengano tuttavia contestualmente formulate dal legislatore nuove fattispecie incriminatrici che sostituiscano o modifichino quelle espunte dal sistema. In virtù di tale provvedimento, affiora la c.d. “<em>espansione</em>” di una fattispecie incriminatrice i cui effetti sono stati, fino ad un dato momento, compressi dalla presenza di una disposizione con caratteri “<em>limitanti</em>” la cui abrogazione implica per l’appunto “<em>espansione</em>”, in termini effettuali, della fattispecie in precedenza “<em>limitata</em>”; nel caso di specie, la punizione dell’oltraggio ha impedito fino a questo momento la configurabilità dell’ingiuria aggravata ai danni di un pubblico ufficiale ex art.594 c.p. in combinato disposto con l’art.61, n.10 c.p., fattispecie che trova ora la propria effettualità incriminatrice proprio in virtù dell’<em>abolitio criminis</em> che ha investito l’oltraggio.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2001</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’11 settembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.33539 che si occupa del rapporto tra la fattispecie di cui all’art.12, comma 2, della legge 943.86 (occupazione di lavoratori extracomunitari sprovvisti di autorizzazione al lavoro) e quella, successiva, di cui all’art.22, comma 10, del decreto legislativo n.286.98 (occupazione di lavoratori sprovvisti del permesso di soggiorno). La Corte muove dal presupposto onde – se si fa perno sulla teoria del c.d. “<em>fatto concreto</em>” – in presenza di talune peculiarità del fatto (“<em>concreto</em>”, per l’appunto) siccome commesso nel vigore della legge del 1986, potrebbe giungersi a riconoscere la “<em>doppia punibilità in concreto</em>” del fatto e dunque la relativa rilevanza penale anche dopo l’entrata in vigore del Testo Unico del 1998 (configurando dunque una modifica dell’incriminazione), pur al cospetto della evidente diversità strutturale che connota le due disposizioni in successione cronologica tra loro (e che suggerirebbe piuttosto la configurabilità di una ipotesi di <em>abolitio criminis</em>).</p> <p style="text-align: justify;">Può più in specie accadere che il datore di lavoro, prima dell’entrata in vigore il Testo Unico del 1998, abbia occupato un lavoratore extracomunitario privo dell’autorizzazione al lavoro, l’unica in quel momento richiesta affinché il reato si configuri, e privo anche del permesso di soggiorno (penalmente irrilevante in quel momento): in questa particolare ipotesi, tale datore di lavoro – secondo la teoria della doppia punibilità del fatto “<em>concreto</em>” - resta punibile anche una volta entrato in vigore il Testo Unico del 1998 (il proprio lavoratore essendo infatti privo non solo dell’autorizzazione al lavoro, ma anche del permesso di soggiorno), mentre non viene – all’opposto - assoggettato a punizione quell’altro datore di lavoro che abbia a suo tempo assunto il proprio prestatore privo dell’autorizzazione al lavoro (allora penalmente rilevante, ma irrilevante dopo il Testo Unico) ed in possesso invece del permesso di soggiorno (anche in questo caso, irrilevante <em>ex ante</em> e rilevante solo <em>ex post</em>).</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte occorre piuttosto affidarsi alla teoria che fa perno sul rapporto tra fattispecie astratte onde, una volta abrogata la norma incriminatrice del 1986 che prevede la sanzione penale per il datore di lavoro che occupi uno straniero senza autorizzazione a lavoro, tale condotta resta ormai penalmente irrilevante (<em>abolitio criminis</em>), quand’anche il lavoratore extracomunitario sia stato anche privo del permesso di soggiorno; ciò in considerazione della circostanza onde, mettendo a confronto le rispettive fattispecie astratte, tra i due illeciti non è rinvenibile per la Corte alcun nesso di continuità, palesandosi tutt’affatto eterogenei gli elementi che concorrono a forgiarne gli elementi tipici (e, dunque, la fattispecie astratta). Si tratta infatti di due illeciti che presentano, a livello strutturale di fattispecie astratta, caratterizzazioni differenti, sol che si consideri l’atto amministrativo coinvolto (che nel caso precedente è l’autorizzazione a lavoro, mentre in quello successivo è il permesso di soggiorno); le autorità pubbliche chiamate a svolgere i rispettivi procedimenti e a ad adottare i pertinenti provvedimenti; la diversa <em>ratio</em> sottesa a ciascuno degli interventi normativi considerati.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 27 giugno esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.29023 che si occupa dei rapporti tra l’oltraggio, ormai fatto oggetto di <em>abolitio criminis</em> nel 1999, e la fattispecie dell’ingiuria aggravata dal fatto di essere stata commessa nei confronti di un pubblico ufficiale, ex art.594 e 61, n.10, c.p.. Per la Corte non può essere seguita la tesi di chi - muovendo dal rapporto strutturale tra la fattispecie abrogata (oltraggio) e quella “<em>espansa</em>” (ingiuria aggravata) - assume non essersi al cospetto di una <em>abolitio criminis</em> ex art.2, comma 2, c.p. quanto piuttosto di una <em>abrogatio sine abolitione</em> ex art.2, comma 3, c.p., dacché gli stessi fatti in precedenza puniti a titolo di oltraggio vengono ormai puniti a titolo di ingiuria aggravata, dovendosi allora applicare a chi abbia commesso il fatto penalmente rilevante prima della novella il trattamento sanzionatorio più favorevole, senza tuttavia mandarlo assolto. Per le SSUU, all’opposto, non può farsi applicazione nel caso di specie dell’art.2, comma 3, c.p. in tema di continuità dell’illecito penale, presupponendo tale disposizione una diversità di norme incriminatrici in successione tra loro, l’una delle quali deve essere sul piano diacronico successiva all’altra, precedente. In sostanza, per la Corte l’art.2, comma 3, c.p. opera laddove le due norme incriminatrici in successione non siano contemporaneamente vigenti, ma trovino vigenza, per l’appunto, in successione l’una rispetto all’altra, circostanza nella quale va applicata la norma più favorevole al reo (la precedente o, alternativamente la successiva), salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile. Diverso il caso dell’oltraggio, che per il Collegio ha subito una vera e propria <em>abolitio criminis</em> dacché l’ingiuria aggravata era già presente nel sistema, onde non si è avuta nessuna successione penalmente rilevante, per l’appunto, tra l’oltraggio e la (previgente) fattispecie dell’ingiuria aggravata, non potendo in sostanza il fenomeno dell’”espansione” ricondursi appunto alla c.d. continuità del tipo di illecito e dunque alla <em>abrogatio sine abolitione</em>.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 3 ottobre viene varata la legge n.366, recante delega al Governo per la riforma del diritto societario.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2002</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’11 aprile viene varato il decreto legislativo n.61, recante (in esercizio della pertinente delega di cui alla legge 366.01, art.11) la disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali. Viene più in specie modificata la regolamentazione delle c.d. false comunicazioni sociali, e dunque del c.d. falso in bilancio, giusta riformulazione dell’art.2621 c.c. ed introduzione di una nuova fattispecie delittuosa all’art.2622 c.c. La condotta punita, più in specie, resta sempre la medesima (la situazione patrimoniale e finanziaria di una società viene, nei pertinenti documenti contabili, falsamente rappresentata), ma affinché scatti la sanzione penale occorre che siano superate determinate “<em>soglie di tolleranza</em>”, al di sotto delle quali non si ha dunque illecito penale; onde le nuove fattispecie disegnate dal legislatore fanno luogo ad una ipotesi di “<em>specialità per specificazione</em>”, dacché non ogni falsa comunicazione sociale è penalmente rilevante, ma ormai soltanto quella che – in termini di concreta entità dei dati economici falsamente rappresentati e dunque di consistenza della falsificazione perpetrata – superi una certa soglia legalmente prescritta.</p> <p style="text-align: justify;">Ancora, l’art.1, comma 1, modifica l’art.2634 c.c. in tema di c.d. infedeltà patrimoniale, ponendo problemi di esatta configurabilità (anche in termini successori) dei rapporti con il delitto di appropriazione indebita di cui all’art.646 c.p.; la questione concerne in specie le condotte degli amministratori di società che utilizzino riserve di denaro extrabilancio (c.d. fondi neri), costituite all’uopo (di qui l’infedeltà patrimoniale), al fine di distrarle in danno della società che amministrano e a favore di terzi (e qui affiora l’appropriazione indebita), per scopi dunque illeciti o comunque estranei ai fini sociali; si tratta di condotte che prima della riformulazione dell’art.2634 c.c. sono state ricondotte alla fattispecie dell’appropriazione indebita ex art.646 c.p. (assunta estensibile anche alle ipotesi di distrazione) e che, dopo tale riformulazione, vengono ora sussunte sotto la relativa egida precettiva. Stando alla dottrina, nel caso in esame ci si trova dinanzi ad una ipotesi successoria che non si atteggia a c.d. modificazione “<em>immediata</em>” delle leggi penali, laddove si assiste all’abrogazione di norme precedenti con conseguente riformulazione delle fattispecie incriminatrici (occorrendo dunque stabilire se si è al cospetto di una c.d. <em>abolitio criminis</em> ovvero, piuttosto, di una continuità dell’illecito quale effetto di una <em>abrogatio sine abolitione</em>); si configura piuttosto un c.d. “<em>innesto normativo</em>” laddove alla evidente introduzione nel sistema di una nuova fattispecie incriminatrice (la c.d. infedeltà patrimoniale) non fa da contraltare una formale abrogazione della fattispecie pregressa (nel caso di specie, l’appropriazione indebita) che, anzi, continua ad operare nell’ordinamento penale. Anche nelle fattispecie di c.d. “<em>innesto normativo</em>”, nondimeno, la dottrina ridetta identifica una possibile successione di leggi penali che si verifica quando la nuova fattispecie incriminatrice sia avvinta da un rapporto di specialità rispetto a quella pregressa, laddove una classe di oggetti cui era applicabile una determinata fattispecie è ora rimessa alla qualificazione (regolatoria) di una nuova fattispecie.</p> <p style="text-align: justify;">Sul versante del R.D. 267.42 in tema di disciplina del fallimento e delle procedure concorsuali, di rilievo la modifica (ad opera dell’art.4, comma 1) dell’art.223, comma 2, n.1 in materia di bancarotta impropria. Viene innanzi tutto varato un diverso elenco dei reati in materia societaria la cui commissione cagiona, o contribuisce a cagionare, il dissesto della compagine (e dunque, appunto, la bancarotta impropria), non figurandovi più i reati di cui agli articoli 2623 e 2630 c.c.; figurano invece i reati di cui agli articoli 2626, 2627, 2629, 2632, 2633 e 2634 c.c.; con particolare riguardo all’art.2622 c.c. in tema di false comunicazioni sociali in danno dei soci e dei creditori, si supera il testo precedente che si riferiva alla divulgazione di notizie sociali riservate; quanto poi all’art.2628 c.c. in tema di illecite operazioni su azioni o quote sociali o della società controllante, si supera il riferimento di cui al precedente testo alle manovre fraudolente sui titoli della società; importantissima poi la novità concernente il collegamento eziologico tra il reato societario in concreto commesso ed il dissesto della società della cui bancarotta impropria si tratta, dacché nel testo precedente era sufficiente la commissione di uno dei fatti di reato in qualche modo “<em>presupposti</em>” alla quale avesse fatto seguito la dichiarazione di fallimento, mentre nel nuovo testo occorre appunto il nesso causale tra la commissione di uno dei ridetti reati ed il dissesto societario che ne consegue, con necessità che tale nesso consequenziale sia peraltro coperto dall’elemento psicologico nel soggetto agente.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 16 ottobre esce la sentenza della V Sezione della Cassazione n.34622, in materia di bancarotta impropria, a valle della nuova formulazione della fattispecie di cui al’art.4 del decreto legislativo 61.02, risalente al precedente aprile. Per la Corte, in tema di rapporti tra <em>abolitio criminis</em> e mera modifica della norma penale (in quest’ultimo caso, con permanenza di un rilievo penale per la condotta pertinente), va criticata la teoria dottrinale del c.d. “<em>fatto concreto</em>” e della c.d. “<em>doppia punibilità in concreto</em>”; nessun problema infatti solo laddove, in conseguenza dell’abrogazione, il comportamento concreto che prima costituiva reato diviene del tutto lecito, essendosi in questi casi di sicuro al cospetto di una <em>abolitio criminis</em>.</p> <p style="text-align: justify;">Tuttavia, prosegue la Corte, non sempre la vicenda normativa appare così semplice, potendo residuare una illiceità dello stesso fatto concreto, in ragione di un’altra norma preesistente ovvero di una nuova norma introdotta dalla stessa legge abrogatrice: in questi casi, ove si facesse riferimento al solo fatto concreto, pur in presenza di una successione tra fattispecie eterogenee, si finirebbe con il violare il principio di irretroattività della legge incriminatrice sopravvenuta perché si assegnerebbe rilevanza, in base ad una legge posteriore, a fatti che erano prima irrilevanti (in altri termini, vedere una mera modifica normativa, e non già una <em>abolitio criminis</em>, sulla base della sola circostanza onde il fatto concreto commesso nella specie non ha perso definitivamente rilevanza penale, può significare in taluni casi applicargli retroattivamente una norma penale sopravvenuta), sicché è indispensabile che il raffronto avvenga, per la Corte, a livello piuttosto di fattispecie astratte.</p> <p style="text-align: justify;">La medesima pronuncia critica anche la diversa impostazione – di ascendenza dottrinale soprattutto tedesca – che fa invece perno sulla c.d. “<em>continuità del tipo di illecito</em>” e che guarda all’interesse protetto dalla norma penale ed alle modalità di relativa aggressione, che caratterizzerebbero ciascuna fattispecie criminosa; in questo prisma ermeneutico, non si ha <em>abolitio criminis</em> ma piuttosto modifica della norma penale (e dunque continuità dell’illecito penalmente sanzionato) allorché il legislatore – al cospetto dell’aggressione ad un determinato interesse penalmente tutelato – si limiti a forgiare una mera tecnica di repressione differente; campeggiano qui – chiarisce la Corte - valutazioni di tipo decisamente sostanzialistico che tuttavia finiscono con il lasciare al giudice eccessivi margini di discrezionalità applicativa</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2003</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 16 giugno esce la sentenza delle SSUU n.25887, che – in tema di reati societari - critica l’opzione ermeneutica alla cui stregua, nelle fattispecie di specialità “<em>per aggiunta</em>” (nella nuova fattispecie speciale è presente uno o più elementi aggiuntivi rispetto alla previa fattispecie generale), e diversamente da quanto accade nella specialità “<em>per specificazione</em>” (nella nuova fattispecie speciale gli elementi sono i medesimi della pregressa fattispecie generale, ma uno o più di essi vengono più dettagliatamente “<em>specificati</em>”), o si ha completa “<em>abolitio criminis</em>” ex art. 2, comma 2, c.p. (quando l’elemento “<em>aggiunto</em>” viene valutato dal giudice assumere un peso così connotante in termini innovativi da spiegare un simile effetto abrogativo) o si ha totale continuità dell’illecito ex art.2, comma 3, c.p. (quando l’elemento “<em>aggiunto</em>” viene valutato non assumere un peso così connotante in termini innovativi da spiegare un simile effetto abrogativo, onde si ha sempre continuità dell’illecito).</p> <p style="text-align: justify;">Il ridetto criterio valutativo, quand’anche unito a quello strutturale, presenta infatti per la Corte margini di opinabilità giudiziale tali da non poter essere abbracciato, onde anche per questo caso (come per quello della c.d. specialità per specificazione) occorre piuttosto per il Collegio affidarsi ad un criterio esclusivamente di tipo strutturale, sicché si ha sempre parziale <em>abolitio criminis</em> ex art.2, comma 2, c.p. per quei fatti pregressi che non presentano l’elemento aggiuntivo (reso <em>ex post</em> rilevante, dal punto di vista penale, in via esclusiva: a diversamente opinare si finirebbe infatti per applicare a queste condotte ormai “<em>depenalizzate</em>” la nuova fattispecie in via retroattiva), mentre si ha continuità normativa per quei fatti pregressi che già presentano l’elemento aggiunto specializzante, in relazione ai quali si applica dunque l’art.2, comma 3, c.p. La Corte si occupa peraltro di una ipotesi di specialità per specificazione, e segnatamente di quella derivante dalla successione della disciplina sanzionatoria penale in tema di c.d. falso in bilancio a valle dell’entrata in vigore della riforma di cui alla legge delega 366.01 e del decreto legislativo 61.02, che hanno previsto delle soglie di tolleranza per la rilevanza penale delle pertinenti fattispecie. Per la Corte, a valle dell’introduzione delle soglie di tolleranza, tutto ciò che è ora reato ai sensi dell’art.2621 c.c. (perché sopra soglia) deve assumersi essere stato già punibile sulla base della vecchia disciplina alla cui stregua rilevava penalmente qualsiasi falso, anche quello minimo o comunque sotto la neo introdotta soglia; discorso opposto va fatto invece per tutte le condotte di falsificazione sotto soglia che, punibili nel vecchio regime, sono ora da assumersi non più attratte nell’orbita della sanzione penale.</p> <p style="text-align: justify;">Proprio muovendo da questo presupposto, per le SSUU se il fatto concretamente commesso nel vigore della vecchia disciplina è sopra soglia, esso continua ad essere reato, configurandosi una limitata continuità dell’illecito con conseguente applicazione dell’art.2, comma 3, c.p., mentre nel caso opposto di un fatto concretamente commesso nella vigenza della disciplina anteriore, ma sottosoglia, si configura una (parziale) <em>abolitio criminis</em>, che impone l’applicazione dell’art.2, comma 2, c.p.. Per la Corte, in tema di successione di leggi penali, perché sia applicabile la regola del comma 3 dell’art.2 c.p. occorre che il fatto costituente reato secondo la legge precedente sia tuttora punibile secondo la nuova legge, mentre non sono più punibili i fatti commessi in precedenza e rimasti fuori dal perimetro della nuova fattispecie, tale situazione dovendo essere verificata in base al criterio di coincidenza strutturale tra le fattispecie previste dalla legge siccome succedutesi nel tempo, senza che sia necessario, di regola, fare ricorso a criteri valutativi del bene tutelato o delle modalità dell’offesa.</p> <p style="text-align: justify;">La medesima pronuncia si occupa poi anche del nuovo art.223, comma 2, n.1 della legge fallimentare del 1942, affermando che sussiste in gran parte continuità normativa, e dunque rilievo dell’art.2, comma 3, c.p., tra la disciplina previgente e quella successiva. Più in particolare, in giurisprudenza si è registrata univocità in tema di <em>abolitio criminis</em> ex art.2, comma 2, c.p. per quanto riguarda i fatti pregressi che non integrano le false comunicazioni sociali siccome rimodellate dalla nuova disciplina, o per quelli che non hanno cagionato, né hanno concorso a cagionare il dissesto della società (il nesso causale essendo stato previsto solo con la riforma del diritto penale societario del 2002); divergenze invece sono affiorate per le fattispecie che già nella previgente disciplina contenevano tutti gli elementi richiesti poi dalla nuova disciplina (come ad esempio il ridetto nesso causale): parte della giurisprudenza ha infatti rappresentato, nel senso della continuità dell’illecito (art.2, comma 3, c.p.), che pur non essendo richiesto dalla previgente disciplina in via esplicita il collegamento causale tra la commissione di determinati reati “<em>presupposti</em>” ed il dissesto che ne è scaturito, non è mancato chi lo ha assunto comunque richiesto implicitamente, né chi ha affermato come tale nesso non sia mai stato escluso e sia stato piuttosto oggetto sovente di accertamento da parte del giudice penale; altra parte della giurisprudenza, all’opposto, ha optato per l’<em>abolitio criminis</em> ex art.2, comma 2, c.p., assumendo il nesso causale tra reati “<em>presupposti</em>” e dissesto sociale quale elemento specializzante rispetto alla disciplina pregressa nel cui vigore, pur essendo imprescindibile il fallimento, questo non doveva porsi quale indefettibile conseguenza della condotta criminosa concretante il reato “<em>presupposto</em>”, onde si configura una specialità per aggiunta che implica una integrale abolizione della fattispecie abrogata, stante come l’elemento aggiuntivo compendiato dal rapporto di causalità tra reato presupposto e dissesto sociale configuri una fattispecie del tutto nuova, con un significato lesivo – penalmente rilevante – tutt’affatto diverso rispetto a quello di cui alla fattispecie oggetto di “<em>abrogazione</em>”; anche in tema di nuova formulazione dell’art.2621 c.c. (false comunicazioni sociali), si è al cospetto per questo secondo orientamento di una specialità per specificazione, onde laddove nei fatti commessi anteriormente alla riforma del 2002 si rinvengano tutti i nuovi elementi specializzanti, si ha continuità dell’illecito (art.2, comma 3, c.p.), mentre in caso diverso non può che predicarsi una <em>abolitio criminis</em> ex art.2, comma 2, c.p.</p> <p style="text-align: justify;">Per le SSUU deve invece assumersi configurabile una continuità dell’illecito penale tra la vecchia e la nuova fattispecie di cui all’art.223, comma 2, n.1 della legge fallimentare, dacché la bancarotta resta originata anche dal nuovo (come dal vecchio) reato di false comunicazioni sociali (art.2621 c.c, siccome riformulato nel 2002), mentre sul crinale del nesso causale tra reati c.d. presupposti e dissesto sociale (fallimento), esso non era estraneo alla fattispecie previgente di cui al ridetto art.223 c.p., onde anche in questo caso a rilevare è l’art.2, comma 3, c.p. e dunque la c.d. continuità dell’illecito, senza che possa discorrersi di <em>abolitio criminis</em> ex art.2, comma 2, c.p.. Per quanto più specificamente concerne il nesso causale tra reati presupposti e dissesto societario, per la Corte se esso non era richiesto (e tuttavia – precisa la Corte – non sono mancate voci che hanno comunque cercato di individuare tale nesso normativo tra reato societario e fallimento), certo non poteva dirsi escluso, ed anzi in qualche caso ha formato oggetto di specifico accertamento da parte del giudice penale, circostanza assunta dunque dalle SSUU quale spia della c.d. continuità dell’illecito in luogo dell’<em>abolitio criminis</em>. Su di un piano più ampio e sistematico, la Corte esclude poi che, nelle ipotesi di c.d. specialità per aggiunta, possa annettersi importanza al “<em>peso</em>” che l’elemento aggiuntivo, neo introdotto dal legislatore, rivestirebbe in termini di pregnanza e concreto significato lesivo di cui alla nuova fattispecie di reato, aprendosi in tal guisa la strada ad una interpretazione e ad una applicazione da parte del giudice penale inevitabilmente opinabile, il sotteso criterio valutativo potendo da un lato - quando il ridetto “<em>peso</em>” viene assunto assai consistente - far escludere recisamente ed indiscriminatamente la continuità dell’illecito penale (con conseguente, generalizzata <em>abolitio criminis</em>); e dall’altro - quando il ridetto “<em>peso</em>” è invece assunto scarso - far escludere l’abolizione (quand’anche solo) parziale, così mantenendo la punibilità anche con riguardo a fatti privi dell’elemento specializzante aggiuntivo ed in ultima analisi friggendo con la fondamentale regola della irretroattività alla cui stregua nessuno può essere punito per un fatto (più “<em>generale</em>” commesso prima) che, secondo la legge penale posteriore (solo “<em>speciale</em>”), non costituisce reato.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 7 ottobre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.38110, che si occupa dei rapporti tra l’appropriazione indebita ex art.646 c.p. e la nuova fattispecie di cui all’art.2634 c.c. in tema di infedeltà patrimoniale. Per la Corte, laddove si accolga una interpretazione estensiva dell’art.646 c.p. con conseguente applicabilità dell’appropriazione indebita anche alle fattispecie di c.d. distrazione, sussiste un rapporto di genere a specie con la nuova fattispecie di cui all’art.2634 c.c. dacché, in difetto di quest’ultima disposizione “<em>speciale</em>”, tutti i fatti da essa puniti rientrerebbero sotto l’egida precettiva (“<em>generale</em>”) dell’art.646 c.p. Si configura più precisamente – per il Collegio - un rapporto di specialità “<em>per specificazione</em>” tra le due fattispecie considerate, dacché la nuova fattispecie contiene variegati elementi specializzanti capaci di restringere l’area di efficacia operativa dell’art.646 c.p., configurando un reato proprio degli amministratori ed ormai anche di sindaci e direttori generali di società e richiedendo come presupposto imprescindibile della pertinente condotta una situazione di conflitto di interessi con la società gestita (o controllata) al quale deve necessariamente fare seguito o il compimento diretto di un atto di disposizione, ovvero (indirettamente) la partecipazione alla deliberazione di tale atto dispositivo; occorre poi che si realizzi un evento compendiantesi nel danno patrimoniale alla società gestita (o controllata) e, sul crinale soggettivo, oltre al dolo specifico dell’ingiusto profitto per sé o di un altro vantaggio, anche il dolo intenzionale del ridetto danno patrimoniale alla società.</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte dunque – applicandosi il criterio strutturale dei rapporti tra fattispecie e configurandosi un rapporto di specialità per specificazione tra il nuovo art.2634 c.c. e la fattispecie di appropriazione indebita ex art.646 c.p. – le due fattispecie ridette si collocano in rapporto di continuità con conseguente possibile applicazione dell’art.2, comma 4, c.p. con salvezza delle condanne rispetto a fatti pregressi già passate in giudicato (che non vanno dunque revocate come laddove si trattasse di una <em>abolitio criminis</em>). Vanno tuttavia tenute per la Corte distinte due ipotesi tutt’affatto diverse tra loro: secondo una prima ipotesi, il fatto commesso prima della riformulazione dell’art.2634 c.c. e nel vigore del solo art.646 c.p. presenta tutti gli elementi specializzanti poi descritti appunto nel nuovo art.2634 c.c., circostanza al cospetto della quale si configura per l’appunto una continuità dell’illecito penale ex art.2, comma 3, c.p. (<em>abrogatio sine abolitione</em>) con esclusione della c.d. <em>abolitio criminis</em>; stando invece ad una seconda e più complessa ipotesi il fatto pregresso, pur riconducibile all’usbergo precettivo dell’art.646 c.p. in tema di appropriazione indebita, non è invece apparentemente normato dal nuovo art.2634 c.c. proprio perché non presenta(va) tutti gli elementi specializzanti richiesti <em>ex novo</em> da tale successiva disposizione penale: in questa ipotesi potrebbe <em>prima facie</em> trovare applicazione il canone scolpito – conformemente al c.d. criterio strutturale - nella pronuncia 25887.03 della Corte, con conseguente limitata continuità dell’illecito penale e parziale <em>abolitio criminis</em> proprio con riguardo ai fatti pregressi non contenenti gli elementi specializzanti propri della nuova norma incriminatrice; senonché tale criterio non può essere invocato in ipotesi, come la presente, in cui si è al cospetto di un “<em>innesto normativo</em>” che, pur riconfigurando una fattispecie penale <em>ex novo</em>, non esclude la persistente vigenza della vecchia norma e dunque, nel caso di specie, dell’art.646 c.p., con conseguente necessità di continuare a punire anche le condotte che non presentino appunto tutti gli elementi specializzanti “<em>nuovi</em>” (in sostanza, in simili ipotesi rileva solo l’art.2, comma 3, c.p., non potendo mai venire in rilievo l’art.2, comma 2, c.p.).</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta di una tesi che viene tuttavia criticata da quella parte della dottrina che osserva come – laddove il fatto pregresso non presenti tutti gli elementi specializzanti richiesti dal nuovo art.2634 c.c. – continuare ad interpretare estensivamente l’art.646 c.p. sull’appropriazione indebita alle fattispecie di infedeltà patrimoniale sembra porsi in frizione con la ratio delle scelte di politica criminale che il legislatore ha concretizzato appunto giusta varo del nuovo art.2634 c.c., che ha tipizzato una fattispecie “<em>speciale</em>” di infedeltà patrimoniale societaria conferendole una maggiore “<em>determinatezza</em>” rispetto a quella che è una ordinaria appropriazione indebita, onde per i fatti pregressi privi degli elementi specializzanti successivi sembra piuttosto affiorare una vera e proprio <em>abolitio criminis</em> (ancorché essi possano in qualche modo, <em>de residuo</em>, ancora rientrare nell’area precettiva dell’art.646 c.p.).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2004</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 14 settembre viene varato il decreto legge n.241, recante disposizioni urgenti in materia di immigrazione, che – tra le altre cose – riscrive l’art.14, comma 5 ter, del decreto legislativo 286.98 (testo unico in materia di immigrazione), trasformando da contravvenzione in delitto la fattispecie criminosa (a forma permanente) compendiantesi nel mancato allontanamento dal territorio nazionale in spregio all’ordine del Questore, con conseguente aggravamento del trattamento sanzionatorio a tale fattispecie avvinto. Nello stesso momento in cui la contravvenzione diviene delitto e le pertinenti pene vengono aggravate, il legislatore prevede tuttavia, in più rispetto alla versione precedente, l’elemento soggettivo (esclusivo) del dolo (che poteva non necessitare nella pregressa fattispecie contravvenzionale, laddove era bastevole la colpa).</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 12 novembre viene varata la legge n.271, che converte in legge con modificazioni il decreto legge n.241.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2006</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 9 gennaio viene varato il decreto legislativo n.6, recante riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80, il cui art.147, espunge dall’ordinamento la figura dell’amministrazione controllata e, con essa, tutti i riferimenti all’amministrazione controllata ridetta, siccome contenuti nel R.D. 267.42. Da questo momento in poi dunque non è più configurabile, <em>de futuro</em>, il reato di bancarotta fraudolenta in contesto di amministrazione controllata, siccome previsto dall’art.236 del R.D. 267.42, mentre si apre il problema della disciplina applicabile ai fatti commessi prima di tale innovazione legislativa.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 01 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.3999 che si occupa dei rapporti tra vecchia (contravvenzione) e nuova (delitto) fattispecie di mancato allontanamento dello straniero dal territorio nazionale in spregio al pertinente ordine del Questore, affermando che tra tali fattispecie deve ravvisarsi un rapporto strutturale di continuità dell’illecito, con conseguente esclusione di una <em>abolitio criminis</em>, dacché si tratta di due norme che, sul crinale della fattispecie astratta, presentano la medesima struttura e sono poste a presidio (penale) del medesimo interesse; le differenzia solo il nuovo elemento soggettivo (esclusivo) del dolo ed il differente trattamento sanzionatorio (più grave nella nuova versione delittuosa). Più in particolare, per la Corte il fatto che si sia passati da una fattispecie contravvenzionale ad una omologa ma delittuosa, con conseguente riduzione della sfera di punibilità ai soli fatti caratterizzati da dolo (con esclusione dunque dei fatti meramente colposi) non è circostanza tale da far assumere mutata la struttura del reato, con conseguente non predicabilità di una <em>abolitio criminis</em>.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 24 febbraio viene varata la legge n.85, recante modifiche al codice penale in materia di reati di opinione, onde (art.14) all'articolo 2 del codice penale, dopo il secondo comma, viene inserito il seguente: «<em>Se vi e' stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell'articolo 135</em>». La norma, dal punto di vista codicistico e “<em>topografico</em>”, implica una “<em>cesura</em>” tra la fattispecie di cui all’art.2, comma 2, c.p., la c.d. <em>abolitio criminis</em>, e quella di cui all’originario comma 3 (modifica della norma penale), che diviene ormai comma 4. Se dunque in caso di <em>abolitio sine abrogazione</em> in genere resta – ai fini della applicabilità della c.d. <em>lex mitior</em> sopravvenuta ai fatti commessi prima della modifica normativa – la necessità che non sia intervenuta sentenza irrevocabile di condanna (ex comma 3, ormai comma 4 dell’art.2: ciò anche al fine di non pregiudicare il principio di certezza immanente ai c.d. rapporti esauriti, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale), quando tale fenomeno sia specifico dal punto di vista sanzionatorio, onde ad un fatto in precedenza punito con pena detentiva (o alternativa) si applica ora solo la pena pecuniaria (nuovo comma 3 dell’art.2 c.p., applicabile in particolare ai reati di opinione), quest’ultima si sostituisce alla pena detentiva a suo tempo irrogata – in forza del meccanismo di conversione scolpito all’art.135 c.p. - anche al cospetto di una pronuncia di condanna ormai irrevocabile.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2009</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 12 giugno esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.24468 che si occupa del reato di bancarotta fraudolenta impropria commessa in una situazione di amministrazione controllata ex art.236, comma 2, n.1 del R.D. 267.42 (c.d. legge fallimentare). I fatti di bancarotta, nella versione originaria del provvedimento, sono previsti in via generale dall’art.223, venendo poi specificamente ancorati dall’art.236 ad alcune fattispecie peculiari di procedura concorsuale, tra le quali il concordato preventivo ed appunto l’amministrazione controllata. Con il decreto legislativo n.6 del 2006 tuttavia l’amministrazione controllata è stata espunta dal sistema, con la conseguenza onde occorre capire – con riguardo ai fatti di bancarotta impropria fraudolenta commessa in contesto di amministrazione controllata prima della ridetta riforma – se si sia al cospetto di una <em>abolitio criminis</em> (con possibilità di applicare l’art.673 c.p.p. in tema di revoca della sentenza di condanna eventualmente emessa) ovvero di una modifica normativa con continuità dell’illecito penale. Al fine di prevenire possibili contrasti ermeneutici, si esprimono appunto le SSUU che palesano di aderire al criterio strutturale della c.d. specialità e, ad un tempo, di assumere non percorribile la strada che passa per eventuali criteri basati sul valore e dunque “<em>valutativi</em>” e come tali rimessi al giudice penale. Per la Corte il giudice penale, per accertare l’<em>abolitio criminis</em>, deve procedere al confronto strutturale tra le fattispecie legali astratte che si succedono, senza la necessità di ricercare conferme della continuità penal-sanzionatoria facendo ricorso a criteri valutativi dei beni tutelati e delle pertinenti modalità di offesa, questi ultimi assunti dunque inidonei ad assicurare approdi interpretativi certi (e dunque non opinabili).</p> <p style="text-align: justify;">Proprio facendo perno sul criterio strutturale, per la Corte nel caso di specie non può che predicarsi l’<em>abolitio criminis</em>, quale effetto della soppressione dell’istituto dell’amministrazione controllata, con abrogazione del correlato delitto di bancarotta, non avendo il legislatore del 2006 introdotto una nuova fattispecie incriminatrice (c.d. innesto normativo) capace di porsi in relazione di continenza con il reato abrogato. Per la Corte l’abrogazione della norma che prevedeva il reato di bancarotta societaria nell’amministrazione controllata e la mancata introduzione contestuale di una nuova disposizione collegata alla prima escludono qualunque rapporto tra norme in successione temporale e non consentono alcun confronto tra le stesse, essendo stata la detta fattispecie legale espunta dall’ordinamento. Sotto altro profilo, non si registra la riespansione sul crinale effettuale di altre norme incriminatrici presenti nel sistema, e tuttavia “<em>limitate</em>” nella relativa operatività proprio dal quel delitto di bancarotta impropria collegata all’amministrazione controllata dipoi abrogata; fattispecie di “<em>riespansione effettuale</em>” che non potrebbe predicarsi con riguardo alla c.d. bancarotta concordataria (maturata dunque non già in contesto di amministrazione controllata, ma di concordato preventivo), siccome prevista dal medesimo art.236 del R.D. 267.42 e rimasta operante non essendo stata anch’essa espunta dal sistema in occasione della riforma del 2006 che, sopprimendo l’amministrazione controllata, non ha contestualmente soppresso anche il concordato preventivo (la cui area di operatività, in termini di presupposti applicativi, ne è anzi uscita rafforzata).</p> <p style="text-align: justify;">Da questo punto di vista, per le SSUU non può essere seguita l’impostazione ermeneutica fatta propria dal PG che, nella propria requisitoria, ha all’opposto sostenuto il nucleo sostanziale del reato di cui al previgente art.236 della legge fallimentare essere nella sostanza unitario prescindendo, come tale, dalla specifica procedura concorsuale di “<em>contestualizzazione</em>” della bancarotta fraudolenta, sicché la tipologia di procedura non potrebbe caratterizzare tale nucleo sostanziale, con la ulteriore conseguenza onde, avendo il nuovo concordato preventivo “<em>allargato</em>” inglobato anche le fattispecie in precedenza annesse all’amministrazione controllata, si verificherebbe una modifica normativa con continuità del tipo di illecito tale da non imporre – ex art.673 c.p.p. – la revoca del giudicato avente ad oggetto un reato di bancarotta fraudolenta impropria commessa in contesto di amministrazione controllata. Mentre dunque per il PG si è al cospetto di una fattispecie di “<em>abrogatio sine abolizione</em>”, e dunque di continuità dell’illecito penale in presenza di mera modifica normativa (ex art.2, comma 4, c.p.), per le SSUU si è invece dinanzi ad una vera e propria <em>abolitio criminis</em>, dacché vanno debitamente valorizzate le evidenti differenze strutturali e teleologiche che contraddistinguono, rispettivamente, la procedura di amministrazione controllata (ormai espunta dal sistema) e quella di concordato preventivo (rimasta operativa ed anzi ampliata quanto ad annessi presupposti applicativi), onde la bancarotta impropria connessa all’amministrazione controllata non può per la Corte essere omologata alla corrispondente figura della bancarotta “<em>concordataria</em>”, la pertinente norma incriminatrice (l’art.236 della legge fallimentare) prevedendo fattispecie plurime ed autonome tra loro, che fanno specifico richiamo alle due distinte procedure in parola, richiamo che non può essere virtualmente equiparato, come pure si legge nella requisitoria del PG, a quello - generico – a “<em>procedure concorsuali prefallimentari</em>”.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2010</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 25 febbraio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.7587, che torna ad occuparsi dei rapporti tra l’art.646 c.p. in tema di appropriazione indebita e l’art.2634 c.c. sulla c.d. infedeltà patrimoniale societaria, come riformulato nel 2002. Secondo la Corte - che consolida una giurisprudenza sul punto - si è al cospetto di due fattispecie in relazione di specialità reciproca tra loro, considerazione che deve guidare l’interprete chiamato a verificare, in relazione ai fatti pregressi, se sia configurabile una continuità dell’illecito ovvero una <em>abolitio criminis</em>.</p> <p style="text-align: justify;">La tipizzazione dell’infedeltà patrimoniale ex art.2634 c.c. ha infatti per il Collegio come necessario presupposto la relazione tra un preesistente conflitto di interessi del soggetto agente, attuale e rilevabile, e le finalità di ingiusto profitto od altro vantaggio dell’atto di disposizione posto in essere dal soggetto agente medesimo; l’appropriazione indebita ex art.646 c.p. può a propria volta atteggiarsi a speciale in rapporto alla natura del bene sul quale ricade il reato (denaro o cosa mobile) e che può dunque esclusivamente formarne l’oggetto, oltre che in rapporto al necessario perseguimento di un “<em>profitto</em>” con conseguente irrilevanza di un semplice “<em>vantaggio</em>”, che è invece sufficiente per realizzare la fattispecie di cui all’art.2634 c.c. Si tratta dunque di due fattispecie che – rammenta la Corte – presentano un’area comune riconducibile agli elementi costitutivi della <em>deminutio patrimonii</em> e dell’ingiusto profitto, mentre si caratterizzano reciprocamente (ad esempio) giusta necessaria presenza di un preesistente ed autonomo conflitto di interessi che peculiarizza l’infedeltà patrimoniale ex art.2634 c.c., palesandosi invece non richiesto con riguardo all’appropriazione indebita ex art.646 c.p.</p> <p style="text-align: justify;">La nuova fattispecie incriminatrice di cui al codice civile, e dunque l’infedeltà patrimoniale siccome novellata, ha visto la luce nel più ampio contesto di una globale e complessiva riforma dei reati societari ed allo scopo, da un lato, di ancorare la sanzionabilità penale delle infedeltà al principio di offensività e così di superare la criminalizzazione si scorrettezze solo formali caratterizzate da un mero pericolo presunto e, dall’altro, di ricollocare nel loro ambito naturale figure di reato non destinate in origine a tutelare il patrimonio sociale da condotte abusive ed uso improprio dei beni da parte degli amministratori, così prevenendone possibili applicazioni non conformi al principio di legalità. Fatte queste premesse, osserva il Collegio come il fatto che il legislatore abbia rimodulato la materia degli illeciti societari non sia tuttavia in grado di esaurire la tutela penale nei confronti di aggressioni ai beni sociali da parte di soggetti societari peculiarmente qualificati, rimanendo allora fermo il rilievo penale di tutte quelle condotte che, pur non rientrando nella previsione della normativa speciale (e dunque dell’art.2634 c.c.) risultano comunque punibili secondo il diritto penale comune (art.646 c.p.). Il presupposto della condotta infedele che costituisce illecito penale ex art.2634 c.c. novellato è, per espressa presa di posizione del legislatore, il conflitto di interessi tra amministratori, direttori generali o liquidatori da un lato e società dall’altro, e dunque le ipotesi di eccesso di potere per sviamento; laddove preesista tale conflitto di interessi, viene punito l’atto gestorio – non importa su quali beni concretamente ricada: beni mobili o immobili, diritti reali o diritti di credito – che direttamente (per sé) o indirettamente (per altri) persegua l’interesse confligente di chi agisce e conculca quello della società gestita; il ridetto conflitto di interessi si configura allora quale elemento specializzante della nuova fattispecie incriminatrice di cui all’art.2634 c.c., nel relativo nesso con le finalità sottese all’atto gestorio e perseguite dal soggetto agente. Quando si discorre invece di appropriazione indebita, la natura del bene sul quale tale figura criminosa può ricadere è solo il denaro o la cosa mobile, mentre non è richiesta la presenza di un preesistente ed autonomo conflitto di interessi capace di indirizzare – in termini appunto di sviamento di potere – la deviazione dell’atto gestorio di disposizione dal fine istituzionale ad esso assegnato dal sistema: qui il soggetto agente realizza atti di aggressione del patrimonio societario appropriandosi – dacché ne ha la disponibilità in ragione della propria carica - del denaro o della cosa mobile della società che gestisce, a fini di arricchimento personale.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2011</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 23 giugno viene varato il decreto legge n.89, recante disposizioni urgenti per il completamento dell'attuazione della direttiva 2004/38/CE sulla libera circolazione dei cittadini comunitari e per il recepimento della direttiva 2008/115/CE sul rimpatrio dei cittadini di Paesi terzi irregolari. Il provvedimento torna ad emendare l’art.14, comma 5 ter, del decreto legislativo 286.98 (testo unico sull’immigrazione). Mentre nel vecchio testo viene punito con la reclusione da 1 a 4 anni lo straniero che, senza giustificato motivo, permanga illegalmente nel territorio dello Stato in violazione dell’ordine impartito dal Questore, laddove l’espulsione o il respingimento siano stati disposti per ingresso illegale nel territorio dello Stato, ovvero per non aver richiesto il permesso di soggiorno o non aver dichiarato la propria presenza sul territorio nazionale, ovvero ancora per essere stato il pertinente permesso di soggiorno revocato o annullato; il nuovo testo punisce invece – salvo che sussista un giustificato motivo – con la multa da Euro 10 mila ad Euro 20 mila, l’inottemperanza all’ordine del Questore in caso di respingimento od espulsione disposta in via amministrativa dal Questore medesimo o qualora lo straniero, ammesso ai programmi di rimpatrio volontario o assistito, vi si sia sottratto. Si tratta di una nuova disciplina che intende adeguare la normativa interna a quella sovranazionale e che introduce in via generalizzata taluni meccanismi intesi ad agevolare la partenza volontaria dello straniero coinvolto, con sostituzione della precedente pena della reclusione con la nuova pena (pecuniaria) della multa.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 2 agosto viene varata la legge n.129 che converte con modificazioni il decreto legge n.89.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 10 ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.36446 che i occupa della nuova fattispecie di cui all’art.14, comma 5 ter del decreto legislativo 286.98 in tema di immigrazione, siccome riscritta dal decreto legge n.89. Per la Corte – che aderisce alla tesi già palesata in sede di merito dal Tribunale di Torino - la nuova fattispecie incriminatrice non si pone in continuità normativa con la precedente che ha sostituito, configurando piuttosto una fattispecie incriminatrice nuova che, come tale, può applicarsi solo <em>de futuro</em>, e dunque solo ai fatti posti in essere dopo l’entrata in vigore della novella. Si è infatti al cospetto di una diversità strutturale dei rispettivi presupposti di incriminazione, oltre che di una riscrittura della tipologia di condotta richiesta per far luogo alla responsabilità penale dello straniero, onde si tratta di autentica <em>abolitio criminis</em>; solo infatti a valle dell’infruttuoso esito dei nuovi meccanismi agevolatori della partenza volontaria, ed al decorso di tutto il periodo di trattenimento dello straniero presso uno dei centri a ciò deputati, è possibile intimare l’allontanamento allo straniero medesimo, dalla cui violazione discende l’incriminazione.</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta di un approdo fatto proprio anche dalla dottrina maggioritaria, che ha isolato 3 specifici segmenti temporali capaci di scandire in modo caratterizzante l’incriminazione <em>de qua</em>: un primo periodo è quello che precede il termine di recepimento della c.d. “<em>Direttiva rimpatri</em>” (del 2008) e, dunque, il 24 dicembre 2010, torno temporale durante il quale le pertinenti condotte sono state punite con pena detentiva; un secondo periodo, successivo, che va dal 25 dicembre 2010 e l’entrata in vigore del decreto legge 89.11, durante il quale le condotte dello straniero devono assumersi essere state irrilevanti per contrasto della pertinente incriminazione con le disposizioni della menzionata “<em>Direttiva rimpatri</em>” (del 2008) divenute ormai direttamente applicabili nell’ordinamento interno e capaci dunque di far disapplicare, <em>pro reo</em>, le norme penali interne contrastanti; il periodo successivo all’entrata in vigore del decreto legge 89.11 (che recepisce la richiamata “<em>Direttiva rimpatri</em>” del 2008) in cui è ormai operativa la nuova fattispecie incriminatrice, punita con sola pena pecuniaria (e non più con la reclusione). Secondo questa tesi dottrinale, che la Corte sembra abbracciare con la sentenza in parola, poiché l’ordinamento italiano ha accolto il principio della retroattività “<em>in mitius</em>” della “<em>lex intermedia</em>” - e, dunque, della disposizione “<em>ricavabile</em>” dal contrasto tra la disciplina interna e quella comunitaria, che configura una “<em>parentesi di liceità</em>” della pertinente condotta di inottemperanza dello straniero – tutti i fatti commessi antecedentemente alla nuova incriminazione (punita con sola pena pecuniaria) siccome forgiata dal decreto legge 89.11 devono assumersi penalmente irrilevanti per intervenuta <em>abolitio criminis</em>.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2012</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 6 novembre viene varata la legge n.190 in tema di c.d. “<em>anticorruzione</em>” che, tra le altre cose, riformula – novellandole – talune fattispecie incriminatrici contro la PA, con particolare riguardo alla concussione, sollevando dubbi in tema di successione normativa penalmente rilevante. Più nello specifico, la nuova concussione ex art.317 c.p., perpetrabile dal solo pubblico ufficiale, si configura solo per costrizione (e non più anche per induzione, secondo la fattispecie c.d. “<em>mista alternativa</em>” previgente), con limite edittale minimo di pena detentiva elevato da 4 a 6 anni di reclusione; contestualmente, viene innestato nel sistema il nuovo art.319 quater c.p. che incrimina <em>ex novo</em> la induzione indebita a dare o promettere utilità, collocantesi in un’area di mezzo tra la concussione per costrizione (caratterizzata da sopraffazione del soggetto pubblico agente) e la corruzione di cui agli articoli 318 e 319 c.p., che trova applicazione “<em>salvo che il fatto non costituisca un più grave reato</em>” e che è perpetrabile sia dal pubblico ufficiale che dall’incaricato di pubblico servizio i quali, abusando della loro qualità o dei loro poteri, inducano taluno a dare o promettere indebitamente, a sé o a terzi, denaro o altra utilità, con pena della reclusione da 3 ad 8 anni; in tema di induzione indebita, importante rammentare come sia punito ex art.319 quater, comma 2, c.p., anche il destinatario “<em>indotto</em>” della pretesa avanzata dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio, e dunque il privato che dà o promette denaro od altra utilità che, da persona offesa di cui alla previgente normativa in tema di concussione per induzione, diviene ora piuttosto un concorrente necessario della nuova figura criminosa, per l’appunto, di induzione indebita.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2013</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 15 febbraio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.7495 che si occupa dei rapporti tra vecchia concussione per induzione ex art.317 c.p. e nuova induzione indebita di cui all’art.319 quater c.p. Per la Corte deve assumersi configurabile una continuità del tipo di illecito, con conseguente applicazione dell’art.2, comma 4, c.p. tra la previa fattispecie di concussione per induzione ed appunto la nuova figura criminosa della induzione indebita a dare o promettere utilità; poiché la nuova disposizione è peraltro più favorevole della precedente, stante l’abbassamento dei pertinenti limiti edittali, essa si applica retroattivamente anche alle fattispecie di concussione per induzione commesse precedentemente all’entrata in vigore del nuovo art.319 quater c.p. Da un punto di vista strutturale, se si prescinde dall’inciso iniziale, per la Corte il legislatore del 2012 non ha fatto altro che riproporre nel nuovo art.319 quater c.p. una descrizione degli elementi costitutivi della nuova “<em>induzione indebita</em>” sostanzialmente corrispondente a quella tracciante gli elementi costitutivi della concussione per induzione di cui al vecchio art.317 c.p.; anche muovendosi sul crinale dei giudizi di valore (<em>rectius</em>, di disvalore della pertinente fattispecie incriminatrice) il legislatore non ha fatto altro che continuare a punire (seppure con mitigazione del pertinente trattamento sanzionatorio) fatti criminosi identici, compendiantisi in una induzione illecita promossa dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio, così delineandosi una identità strutturale tra vecchia e nuova fattispecie, salva la rilevante novità costituita dalla punibilità ormai anche del privato “<em>indotto</em>”, non ravvisabile nella fattispecie ormai soppiantata dalla nuova. Tale ultima novità, pur rilevante, non è tuttavia per la Corte tale da incidere sulla struttura del reato e non è dunque capace di supportare una <em>abolitio criminis</em> della precedente fattispecie: il fatto che il legislatore del 2012 abbia deciso di punire anche il soggetto privato “<em>indotto</em>” e di ridurre il trattamento sanzionatorio del soggetto attivo pubblico che “<em>induce</em>” (rispetto a quello che “<em>costringe</em>”) non implica infatti, per il Collegio, una diverso contorno per le modalità della condotta punibile, che sono rimaste le medesime nel passaggio dalla vecchia alla nuova disciplina, non avendo in specie l’induzione indebita subito veruna modifica strutturale, ed atteggiandosi essa, ora come allora, a fattispecie caratterizzata da “<em>tipizzazione plurisoggettiva</em>”, richiedendo ora come allora il “<em>concorso</em>” del privato indotto (quest’ultimo ora punito, mentre in passato non lo era), quale figura di reato naturalisticamente plurisoggettivo. In sostanza, l’area precettiva penalmente rilevante prima occupata dal solo art.317 c.p. appare oggi rientrare sotto l’egida di due norme distinte, ovvero gli articoli 317 c.p. (nella nuova formulazione: concussione per costrizione) e 319 quater c.p. (induzione indebita); né varrebbe operare dei distinguo (come pure da taluno è stato fatto) tra la induzione di cui al vecchio art.317 c.p. (caratterizzante la concussione, appunto, “<em>per induzione</em>”) e la induzione “<em>indebita</em>” di cui al nuovo art.319 quater c.p.; ai fini della tipologia di successione normativa penalmente rilevante infatti, si è al cospetto di 2 fattispecie nuove che – pur “<em>sdoppiate</em>” – si palesano strutturalmente sovrapponibili all’unica vecchia (la concussione mista e alternativa), circostanza che fa assumere predicabile proprio il criterio strutturale di specialità tra fattispecie con conseguente esclusione di una <em>abolitio criminis</em> ex art.2, comma 2, c.p., non ravvisandosi verun nesso di incompatibilità o comunque di eterogeneità tra le norme in successione tra loro. Le conclusioni non cambiano se si fa riferimento alla peculiare fattispecie della c.d. concussione ambientale, laddove l’agente pubblico prospetti al privato un male <em>contra legem</em> giusta modalità blande (e dunque non eccessivamente invasive) di pressione psicologica: una figura che, se in passato poteva essere ricondotta alla concussione per induzione, non potrebbe oggi – a seguito della novella – che essere ricondotta alla fattispecie della concussione per costrizione, e dunque al nuovo art.317 c.p., stante la natura ingiusta del male per l’appunto prospettato dal soggetto agente pubblico, senza che questa considerazione possa far scattare l’ipotesi dell’<em>abolitio criminis</em> in luogo di quella, più pertinente, della continuità del tipo di illecito ex art.2, comma 4, c.p., e ciò in quanto la medesima condotta se prima del 2012 veniva ricondotta alla concussione “<em>mista alternativa</em>” (<em>sub specie</em> di concussione per induzione), dopo la novella del 2012 va invece ricondotta all’ipotesi di concussione per costrizione (sia pure “<em>ambientale</em>”).</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">*Il 12 marzo esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.11792 e la gemella 11794 che si occupano dei rapporti tra vecchia concussione per induzione ex art.317 c.p. e nuova induzione indebita di cui all’art.319 quater c.p. Per la Corte deve assumersi configurabile una continuità del tipo di illecito, con conseguente applicazione dell’art.2, comma 4, c.p. tra la previa fattispecie di concussione per induzione ed appunto la nuova figura criminosa della induzione indebita a dare o promettere utilità; poiché la nuova disposizione è peraltro più favorevole della precedente, stante l’abbassamento dei pertinenti limiti edittali, essa si applica retroattivamente anche alle fattispecie di concussione per induzione commesse precedentemente all’entrata in vigore del nuovo art.319 quater c.p. Da un punto di vista strutturale, se si prescinde dall’inciso iniziale, per la Corte il legislatore del 2012 non ha fatto altro che riproporre nel nuovo art.319 quater c.p. una descrizione degli elementi costitutivi della nuova “<em>induzione indebita</em>” sostanzialmente corrispondente a quella tracciante gli elementi costitutivi della concussione per induzione di cui al vecchio art.317 c.p.; anche muovendosi sul crinale dei giudizi di valore (<em>rectius</em>, di disvalore della pertinente fattispecie incriminatrice) il legislatore non ha fatto altro che continuare a punire (seppure con mitigazione del pertinente trattamento sanzionatorio) fatti criminosi identici, compendiantisi in una induzione illecita promossa dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio, così delineandosi una identità strutturale tra vecchia e nuova fattispecie, salva la rilevante novità costituita dalla punibilità ormai anche del privato “<em>indotto</em>”, non ravvisabile nella fattispecie ormai soppiantata dalla nuova. Tale ultima novità, pur rilevante, non è tuttavia per la Corte tale da incidere sulla struttura del reato e non è dunque capace di supportare una <em>abolitio criminis</em> della precedente fattispecie: il fatto che il legislatore del 2012 abbia deciso di punire anche il soggetto privato “<em>indotto</em>” e di ridurre il trattamento sanzionatorio del soggetto attivo pubblico che “<em>induce</em>” (rispetto a quello che “<em>costringe</em>”) non implica infatti, per il Collegio, una diverso contorno per le modalità della condotta punibile, che sono rimaste le medesime nel passaggio dalla vecchia alla nuova disciplina, non avendo in specie l’induzione indebita subito veruna modifica strutturale, ed atteggiandosi essa, ora come allora, a fattispecie caratterizzata da “<em>tipizzazione plurisoggettiva</em>”, richiedendo ora come allora il “<em>concorso</em>” del privato indotto (quest’ultimo ora punito, mentre in passato non lo era), quale figura di reato naturalisticamente plurisoggettivo. In sostanza, l’area precettiva penalmente rilevante prima occupata dal solo art.317 c.p. appare oggi rientrare sotto l’egida di due norme distinte, ovvero gli articoli 317 c.p. (nella nuova formulazione: concussione per costrizione) e 319 quater c.p. (induzione indebita); né varrebbe operare dei distinguo (come pure da taluno è stato fatto) tra la induzione di cui al vecchio art.317 c.p. (caratterizzante la concussione, appunto, “<em>per induzione</em>”) e la induzione “<em>indebita</em>” di cui al nuovo art.319 quater c.p.; ai fini della tipologia di successione normativa penalmente rilevante infatti, si è al cospetto di 2 fattispecie nuove che – pur “<em>sdoppiate</em>” – si palesano strutturalmente sovrapponibili all’unica vecchia (la concussione mista e alternativa), circostanza che fa assumere predicabile proprio il criterio strutturale di specialità tra fattispecie con conseguente esclusione di una <em>abolitio criminis</em> ex art.2, comma 2, c.p., non ravvisandosi verun nesso di incompatibilità o comunque di eterogeneità tra le norme in successione tra loro. Le conclusioni non cambiano se si fa riferimento alla peculiare fattispecie della c.d. concussione ambientale, laddove l’agente pubblico prospetti al privato un male <em>contra legem</em> giusta modalità blande (e dunque non eccessivamente invasive) di pressione psicologica: una figura che, se in passato poteva essere ricondotta alla concussione per induzione, non potrebbe oggi – a seguito della novella – che essere ricondotta alla fattispecie della concussione per costrizione, e dunque al nuovo art.317 c.p., stante la natura ingiusta del male per l’appunto prospettato dal soggetto agente pubblico, senza che questa considerazione possa far scattare l’ipotesi dell’<em>abolitio criminis</em> in luogo di quella, più pertinente, della continuità del tipo di illecito ex art.2, comma 4, c.p., e ciò in quanto la medesima condotta se prima del 2012 veniva ricondotta alla concussione “<em>mista alternativa</em>” (<em>sub specie</em> di concussione per induzione), dopo la novella del 2012 va invece ricondotta all’ipotesi di concussione per costrizione (sia pure “<em>ambientale</em>”).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2014</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 14 marzo esce la sentenza delle SSUU n.12228, <em>Maldera ed altri</em>, che traccia i confini tra la nuova concussione (solo per costrizione) e la – del pari nuova – induzione indebita: la linea di discrimine tra le due fattispecie ruota per la Corte intorno al fatto che, nell’induzione indebita prevista dall’art. 319-quater c.p., si assiste ad una condotta di pressione non irresistibile da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio che lascia al destinatario della stessa un margine significativo di autodeterminazione e si coniuga con il perseguimento di un indebito vantaggio del privato medesimo (che, come tale, è punibile assieme all’agente pubblico); al contrario, nel reato, più grave, della concussione per costrizione si è in presenza di una condotta del pubblico ufficiale che limita radicalmente la libertà di autodeterminazione del privato destinatario (che, come tale, non è in questo caso punibile). Per quanto qui maggiormente di interesse, la Corte riafferma essersi al cospetto – nel raffronto tra disciplina <em>ante</em> e <em>post</em> 2012 – di una successione di norme penali (<em>abrogatio sine abolitione</em>), e non già di una <em>abolitio criminis</em> ex art.2, comma 2, c.p., onde le precedenti sentenze passate in giudicato non possono assumersi travolte in alcun modo. In sostanza, i medesimi fatti continuano ad essere previsti dalla legge come reato, con conseguente mera successione di leggi penali modificative del pertinente regime sanzionatorio, dovendo tuttavia essere a tali fatti applicata la disciplina più favorevole al reo, ai sensi e per gli effetti di cui all’art.2, comma 4, c.p.; in caso di poi concussione per costrizione perpetrata dall’incaricato di pubblico servizio, è ben vero che la nuova disciplina prevede la sola punibilità del pubblico ufficiale, e tuttavia i fatti commessi precedentemente ricadono ormai – alternativamente – nelle fattispecie di estorsione, di violenza privata o di violenza sessuale, tutte aggravate ai sensi dell’art.61, n.9, c.p.; in caso di concussione per induzione perpetrata tanto dal pubblico ufficiale quanto dall’incaricato di pubblico servizio, i relativi fatti pregressi ricadono oggi nell’induzione indebita ai sensi del nuovo art.319 quater c.p., senza che la novità compendiantesi nel fatto che viene ormai punito anche il privato “<em>indotto</em>” sia capace di immutare la struttura del c.d. abuso induttivo riconducibile ai mentovati agenti pubblici.</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte, quello che conta al fine di stabilire se si è al cospetto di una <em>abolitio criminis</em> ex art.2, comma 2, c.p., ovvero di una <em>abrogatio sine abolitione</em> di cui all’art.2, comma 4, c.p. è ancora una volta il nesso strutturale di continenza tra le norme penali in successione tra loro, giusta confronto tra le rispettive fattispecie astratte; muovendo da tale presupposto sistematico, per le SSUU vi è totale continuità normativa tra presente e passato con riguardo alla posizione del soggetto pubblico qualificato, chiamato a rispondere di fatti già riconducibili, in relazione all’epoca di commissione degli stessi, nel paradigma del previgente art.317 c.p. Un discorso diverso va invece, ovviamente, fatto per il soggetto privato “<em>indotto</em>” che sarà punibile ex art.319 quater c.p. solo laddove abbia commesso il fatto penalmente rilevante dopo l’entrata in vigore della riforma del 2012, dovendosi fare applicazione dell’art.2, comma 1, c.p. e dovendosi dunque scongiurare una applicazione retroattiva della novella (<em>contra reum</em>) a fatti pregressi. Per quanto concerne in specie la concussione per costrizione ex art.317 c.p. nuova formulazione, non si assiste per la Corte ad alcuna novità di rilievo, i fatti pregressi di abuso costrittivo commessi dal pubblico ufficiale continuando ad essere puniti secondo il trattamento sanzionatorio più favorevole al reo (quello previgente), mentre quelli commessi dall’incaricato di pubblico servizio, non più riconducibili sotto l’egida precettiva del nuovo art.317 c.p., dovendosi assumere ancora punibili sulla scorta di altre disposizioni incriminatrici, e segnatamente l’art.629 c.p. al cospetto di una <em>deminutio patrimonii</em> della vittima (estorsione aggravata ex art.61, comma 1, n.9, c.p.), l’art.609 bis c.p. al cospetto di prestazioni sessuali pretese dalla vittima (violenza sessuale aggravata ex art.61, comma 1, n.9, c.p.), ovvero ancora, genericamente, l’art.610 c.p. (violenza privata aggravata ex art.61, comma 1, n.9, c.p.). Una continuità normativa (e non dunque una <em>abolitio criminis</em>) appare infine per la Corte predicabile anche per quanto concerne la concussione per induzione, essendo i medesimi fatti – se commessi da pubblico ufficiale o da incaricato di pubblico servizio - in precedenza puniti ex art.317 c.p. e, dopo la riforma del 2012, rimanendo puniti a titolo di nuova induzione indebita ai sensi dell’art.319 quater c.p. (il privato risulta invece punito solo per i fatti commessi dopo l’entrata in vigore della ridetta Legge Severino n.190.12).</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 17 aprile viene varata la legge n.62, che ridisegna la fattispecie di cui all’art.416.ter c.p., siccome originariamente introdotta nel 1992. Secondo la nuova formulazione della norma, chiunque accetta la promessa da parte di terzi di procurargli voti mediante le modalità di cui al comma 3 dell’art.416.bis (e, dunque, esplicitamente con metodo mafioso) in cambio dell’erogazione o della promessa di erogazione da parte sua di denaro o di altra utilità viene penalmente sanzionato, con pena che viene applicata anche a chi promette di procurare voti secondo appunto le modalità di cui all’art.416. bis, comma 3, c.p. (metodo mafioso). Oltre alla maggior proporzione e ragionevolezza della pena applicata (conseguente ad un meno grave disvalore delle condotte incriminate: si passa da una cornice edittale che va da 7 a 12 anni ad un’altra che va da 4 a 10), la nuova formulazione della norma amplia notevolmente l’area della responsabilità penale rispetto alla condotta originaria, facendo poi un esplicito riferimento alla utilizzazione del c.d. metodo mafioso. In sostanza, si assiste ora ad una fattispecie di “<em>voto di scambio</em>” che è ormai una fattispecie c.d. plurisoggettiva propria, essendo punito tanto chi promette di procurare voti avvalendosi del metodo mafioso quanto chi accetta la ridetta promessa di voti; il politico eligendo, in cambio dei voti promessi, non promette o eroga direttamente soltanto denaro, essendo punita anche la promessa o la diretta erogazione, connessa alla promessa di voti, di altre utilità, rilevando per l’appunto (rispetto al passato), anche la sola promessa di denaro o altra utilità, senza che occorra da subito la dazione (peraltro, in passato, del solo denaro).</p> <p style="text-align: justify;">Ormai anche quando il patto politico-mafioso abbia ad oggetto “<em>altre utilità</em>” si rientra nell’art.416.ter, senza dover invocare il combinato disposto degli articoli 110 e 416.bis c.p.; l’art.416.ter c.p. resta nondimeno (anche quando lo scambio con i voti promessi abbia ad oggetto utilità diverse rispetto al denaro, magari anche solo promesse) un reato di mera condotta, che si consuma per effetto della sola stipulazione senza che per il giudice sia necessario accertare gli effetti di eventuale conservazione o rafforzamento strutturale del clan mafioso che promette i voti. Come osserva la dottrina all’indomani del varo della nuova formulazione dell’art.416.ter, il nuovo “<em>scambio elettorale politico mafioso</em>” si colloca in un rapporto di sussidiarietà implicita rispetto al concorso esterno, poiché in entrambi i casi (416.ter da un lato e 110 + 416.bis dall’altro) si assiste ad una medesima aggressione del bene giuridico protetto dal sistema (in termini di tutela dell’ordine pubblico), ma la fattispecie di cui al nuovo art.416.ter palesa una intensità lesiva ed una consistenza in termini di disvalore complessivamente minori. Più nel dettaglio, il concorso esterno in associazione mafiosa resta un reato di evento, onde per la relativa configurazione occorre la prova del rafforzamento del sodalizio criminoso in termini di efficienza causale della condotta di chi lo pone in essere, mentre per la realizzazione della fattispecie di cui all’art.416.ter (patto elettorale politico mafioso), che resta reato di mera condotta, basta la mera stipula dell’accordo, senza che occorra acclarare alcun nesso di causalità in termini di conservazione o rafforzamento strutturale associativo; assistendosi dunque, in questo prisma ermeneutico dottrinale, ad una progressione di offensività avente ad oggetto il medesimo interesse penalmente tutelato, onde laddove lo scambio elettorale politico mafioso abbia prodotto anche, giusta nesso di causalità debitamente accertato, un rafforzamento della compagine criminale, il mero patto politico mafioso (che sarebbe già come tale autonomamente punibile ex art.416.ter c.p.) degrada a mero antefatto non punibile, con operatività del solo combinato disposto degli articoli 110 e 416.bis, e con esclusa applicabilità dell’art.416.ter c.p. (come dimostra anche la meno grave cornice edittale di cui a quest’ultima norma rispetto appunto al c.d. concorso esterno).</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 28 agosto esce la sentenza della Sezione VI della Cassazione n.36382, <em>Antinori</em>, che si occupa della nuova formulazione dell’art.416.ter, laddove prevede la necessità che lo scambio tra politica e mafia sia necessariamente caratterizzato dall’utilizzo del c.d. metodo mafioso (art.416.bis, comma 3, c.p.). Secondo la Corte la novella ha inciso sul contenuto della promessa formulata dal clan mafioso e, per esso, dal relativo esponente che ha concluso l’accordo con il politico, laddove ormai lo scambio ha ad oggetto modalità di procacciamento dei voti in funzione dell’esigenza che il politico eligendo possa contare sul concreto dispiegamento del potere di intimidazione proprio del sodalizio mafioso, con quest’ultimo che nel patto si impegna a farvi ricorso, ove necessario, per il raggiungimento delle finalità elettorali divisate; onde per il Collegio non è più bastevole la semplice firma del patto tra politico e clan, occorrendo piuttosto l’espresso impegno da parte dell’associazione mafiosa procacciatrice di voti a procurarli secondo modalità mafiose, con conseguente necessità quanto meno di esplicitazione delle modalità mafiose che verranno usate in occasione della condizionanda consultazione elettorale. Occorre dunque sul versante soggettivo la piena rappresentazione e volizione da parte dell’imputato di aver concluso uno scambio politico-mafioso a fini elettorali implicante l’impiego da parte del clan mafioso della propria forza di intimidazione e di conseguente costrizione della volontà degli elettori. Poiché si assiste ad una successione di leggi penali, il corollario che la Corte trae dalle proprie precedenti affermazioni è che vanno assunte penalmente irrilevanti tutte le condotte antecedenti alla nuova formulazione della norma che si siano compendiate nella mera stipula del patto politico-mafioso, senza dunque l’espresso riferimento a modalità prevaricatorie o di intimidazione da porsi in campo, a fini elettorali, dall’esponente dell’associazione mafiosa “<em>stipulante</em>”. Si è infatti al cospetto per il Collegio di una relazione di “<em>specialità per specificazione</em>”: già nella originaria versione dell’art.416.ter c.p. doveva assumersi non far difetto il necessario riferimento al metodo mafioso, e tuttavia la nuova versione della norma ha esplicitato, “<em>normativizzandolo</em>”, l’orientamento interpretativo precedente alla cui stregua già ai sensi della originaria versione della norma era necessario che la promessa riconducibile al clan di procacciare voti riguardasse anche il “<em>come</em>”, ovvero l’utilizzo di modalità ed il perseguimento di obiettivi propri dell’associazione mafiosa. La conclusione è quella della irrilevanza penale di patti precedenti che non rechino alcun riferimento al c.d. metodo mafioso, anche laddove a concluderlo sia stato un esponente del clan in grado di impegnare l’associazione mafiosa con la propria promessa.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2015</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 27 maggio viene varata la legge n.69, che – in tema di reati societari – detta una riforma del c.d. falso in bilancio. Tale riforma introduce 2 autonomi titoli di reato giusta riformulazione degli articoli 2621 e 2622 c.c., entrambi in veste di delitti propri di pericolo (in relazione ai quali non occorre dunque la causazione di un danno ai soci o ai creditori sociali); viene più in specie differenziato il trattamento sanzionatorio penale a seconda che la società che “<em>subisce</em>” il falso in bilancio sia quotata in borsa ovvero non quotata. Ancora, la riforma elimina le soglie di c.d. tollerabilità penale e, con riguardo alle società quotate, elimina la necessità della querela per quanto concerne la procedibilità del pertinente reato. Dal punto di vista della condotta materiale integrante illecito penale, si assiste alla relativa rimodulazione onde, con riguardo ad una delle comunicazioni sociali tipizzate, deve configurarsi o l’esposizione di “<em>fatti materiali non rispondenti al vero</em>” o l’omissione di “<em>fatti materiali la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene</em>”; per quanto concerne le società non quotate (art.2621 c.c.) i fatti materiali non rispondenti al vero o comunque occultati devono essere connotati da “<em>rilevanza</em>”. Sul crinale soggettivo poi le nuove fattispecie di false comunicazioni sociali si atteggiano a delitti a dolo specifico, pur venendo soppressa – rispetto alla disciplina previgente – la necessaria “<em>intenzione di ingannare i soci o i creditori</em>”. Di rilievo inoltre la mancanza, nelle nuove fattispecie criminose, del riferimento alle “<em>valutazioni</em>” di bilancio come possibile oggetto di falsità, in precedenza invece rintracciabile nel testo degli articoli 2621 e 2622 c.c.; per quanto riguarda le false comunicazioni sociali a foggia omissiva, non si parla più di “<em>informazioni</em>” ma di “<em>fatti materiali</em>” omessi.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 30 luglio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.33774 che si occupa delle nuove fattispecie di c.d. falso in bilancio rispetto alle precedenti fattispecie di cui agli articoli 2621 e 2622 c.c., con particolare riguardo al c.d. falso valutativo. Per la Corte, la soppressione della parola “<em>valutazioni</em>” dal testo delle due norme deve far assumere ormai penalmente irrilevanti le falsità aventi ad oggetto, per l’appunto, le valutazioni di bilancio, con conseguente sopravvenuta non punibilità dei c.d. falsi valutativi, stante il noto brocardo “<em>ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 24 settembre esce il decreto legislativo n.158 recante revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell'articolo 8, comma 1, della legge 11 marzo 2014, n. 23. Il provvedimento, tra le altre cose, interviene sul decreto legislativo n.74.00 in materia di reati tributari operando più in specie una elevazione delle soglie di punibilità di talune fattispecie criminose quali ad esempio quelle omissive di cui agli art.10 bis e 10 ter del ridetto decreto legislativo 74.00 (omesso versamento di ritenute certificate ed omesso versamento di Iva). Proprio il fatto che le soglie di punibilità per tali fattispecie delittuose sono state elevate implica che fatti in precedenza punibili, per il relativo atteggiarsi a “<em>sotto-soglia</em>” rispetto alla nuova disciplina, hanno perso la loro rilevanza penale, con <em>abolitio criminis</em> parziale ai sensi dell’art.2, comma 2, c.p.; i relativi procedimenti in corso si concludono dunque con declaratoria immediata di non punibilità pre-dibattimento ex art.129 c.p.p. ovvero, laddove il dibattimento sia stato già aperto, con assoluzione ex art.530, comma 1, c.p.p.; laddove invece sia già intervenuta una pronuncia passata in giudicato, ne scatta la revoca ex art.2, comma 2, c.p. e 673 c.p.p.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 16 ottobre esce la sentenza della VI Sezione della Cassazione n.41801 che torna ad occuparsi del c.d. metodo mafioso, siccome previsto nella nuova formulazione dell’art.416.ter c.p. in termini di scambio elettorale politico-mafioso; secondo la Corte si è al cospetto di un reato comune, sia dal lato del candidato che vuole garantirsi l’elezione (che può stipulare l’accordo in proprio, ovvero avvalersi di un collaboratore o di un terzo che ne curi gli interessi politici), sia sul versante del clan mafioso che deve garantire i voti necessari, che potrebbe essere rappresentato in sede di <em>pactum sceleris</em> tanto da chi, “<em>autorevole</em>” esponente, è in grado di impegnare il clan con la pertinente promessa, fattispecie nella quale il metodo mafioso deve assumersi (ritraibile per) implicito, senza necessità di esplicita affermazione che ci si avvarrà del ridetto metodo, onde in questa fattispecie restano penalmente rilevanti anche le condotte anteriori alla novella (quando cioè l’esplicitazione dell’utilizzo del metodo mafioso non era ancora prevista in fattispecie incriminatrice); quanto il socio mafioso che agisca come singolo, ovvero il soggetto del tutto estraneo al sodalizio criminale, casi questi in cui è invece necessario l’esplicito riferimento all’utilizzo del metodo mafioso, con conseguente irrilevanza penale delle condotte anteriori alla novella medesima che non abbiano fatto alcun riferimento al ridetto metodo intimidatorio.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2016</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 12 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.890 alla cui stregua, andando in contrario avviso rispetto al precedente del luglio 2015, anche a valle della riforma del “<em>falso in bilancio</em>” ex legge 69.15 devono assumersi tuttora penalmente rilevanti i c.d. falsi valutativi. Il fatto che la ridetta legge abbia espunto dal testo delle norme incriminatrici l’inciso “<em>ancorché oggetto di valutazioni</em>”, con conseguente esclusivo riferimento – quale oggetto di falsa rappresentazione – ai c.d. “<em>fatti materiali</em>” non ha comunque reso penalmente irrilevanti gli enunciati di bilancio di natura valutativa che, tutto all’opposto, ben possono per la Corte essere assunti falsi quando siano in frizione con criteri valutativi normativamente cristallizzati, ovvero comunque tecnicamente indiscussi. Per il Collegio, il soppresso inciso “<em>ancorché oggetto di valutazioni</em>” va ritenuto come proposizione di natura tipicamente concessiva, con funzione esplicativa e chiarificatrice del nucleo sostanziale della proposizione principale, onde alcun effetto di <em>abolitio</em> può essere annesso alla pertinente espunzione dal testo normativo.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 25 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.3098 che si occupa della formula assolutoria da utilizzare nel caso in cui si tratti di dichiarare la irresponsabilità penale di chi abbia commesso reati tributari omissivi “<em>sotto-soglia</em>” così realizzando fattispecie ormai oggetto di <em>abolitio criminis</em> dopo l’intervento del decreto legislativo 158.15. Per la Corte, pur trattandosi di <em>abolitio criminis</em>, non può utilizzarsi la tradizionale formula onde il fatto “<em>non è previsto dalla legge come reato</em>”, essendo piuttosto pertinente la formula più ampia onde il fatto “<em>non sussiste</em>” (come tale spendibile anche in sede diversa da quella penale) e ciò in quanto difetta uno degli elementi oggettivi costitutivi del pertinente reato, compendiantesi nel superamento appunto della soglia di punibilità. Per la Corte, in sostanza, quando uno degli elementi costitutivi del reato avente natura oggettiva viene meno si è al cospetto di un fatto che “<em>non sussiste</em>”, ed è il caso di specie, mentre potrebbe affermarsi che il fatto “<em>non è previsto dalla legge come reato</em>” allorché la fattispecie astratta non si sia mai configurata, ovvero sia stata abrogata, ovvero sia stata dichiarata costituzionalmente illegittima. Si tratta di una presa di posizione criticata da parte della dottrina che denuncia come, a così voler ragionare - pur al cospetto di una chiara identità di ratio, oltre che del palmare dato testuale di cui all’art.673 c.p.p., che non sembra fare distinzioni ai fini della revoca della pertinente sentenza – si finirebbe con l’artatamente (ed illogicamente) distinguere gli effetti (meno ampi) di una <em>abolitio criminis</em> totale, onde “<em>il fatto non è previsto dalla legge come reato</em>”, da quelli (più ampi) di una <em>abolitio criminis</em> parziale, onde “<em>il fatto non sussiste</em>”. Per questa opzione ermeneutica l’opzione preferibile anche nel caso di <em>abolitio criminis</em> parziale per sopravvenuto innalzamento delle soglie di punibilità è quella di utilizzare la formula “<em>il fatto non è previsto dalla legge come reato</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 27 maggio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.22474 che si occupa del contrasto insorto tra le sezioni semplici della Corte in ordine al c.d. falso valutativo, essendosene predicata la <em>abolitio criminis</em> da un lato, e la modifica con continuità sanzionatoria penale, dall’altro. Per le SSUU occorre ribadire la punibilità dei c.d. falsi di bilancio valutativi senza possibilità di affermare una pertinente <em>abolitio criminis</em>, dovendosi più a monte procedere ad una lettura organica, sistematica e tendenzialmente unitaria e coerente di tutta la materia societaria con riguardo appunto al bilancio. Quest’ultimo, in tutte le relative componenti, deve riguardarsi come documento il cui contenuto è essenzialmente valutativo, l’intera normativa civilistica pertinente presupponendo o comunque prescrivendo proprio il momento “<em>valutativo</em>” nella relativa redazione, e provvedendo peraltro a dettare in larga parte i criteri cui deve ispirarsi tale valutazione, circostanza capace di rendere palese la fallacia dell’opzione ermeneutica che intenderebbe contrapporre i fatti materiali esposti in bilancio (penalmente rilevanti ove falsificati) alle valutazioni che del pari in bilancio compaiono, dovendosi rammentare – prosegue il Collegio – che un bilancio “<em>non contiene fatti, ma il racconto di tali fatti</em>”. Per il Collegio dunque, pur dopo le modifiche di cui alla legge 69.15, va confermata la rilevanza penale del c.d. falso valutativo, configurandosi il delitto di false comunicazioni sociali (anche) con riguardo alla esposizione ovvero alla omissione di fatti oggetto di valutazione laddove – in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati – il soggetto agente se ne discosti in modo consapevole senza darne adeguata informazione giustificativa, sì da porre in essere una condotta concretamente idonea ad indurre in errore i destinatari delle pertinenti comunicazioni sociali.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 7 novembre esce la sentenza delle SSUU n.46688 alla cui stregua in caso di sentenza di condanna relativa a un reato successivamente abrogato e qualificato come illecito civile, sottoposto a sanzione pecuniaria civile, ai sensi del <strong><a href="https://www.altalex.com/documents/news/2016/01/25/depenalizzazioni-decreto-7">Decreto Legislativo 15 gennaio 2016, n. 7</a></strong>, il giudice della impugnazione (che è giudice di cognizione), nel dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, deve revocare anche i capi della sentenza che concernono gli interessi civili. Il giudice della esecuzione, viceversa, per la Corte deve revocare, con la stessa formula, la sentenza di condanna o il decreto irrevocabili, lasciando tuttavia ferme le disposizioni e i capi che concernono gli interessi civili.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2017</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 13 luglio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.34362 che si occupa della formula assolutoria da utilizzare nel caso in cui si tratti di dichiarare la irresponsabilità penale di chi abbia commesso reati tributari omissivi “<em>sotto-soglia</em>” così realizzando fattispecie ormai oggetto di <em>abolitio criminis</em> dopo l’intervento del decreto legislativo 158.15. Per la Corte, trattandosi appunto di <em>abolitio criminis</em>, non può che utilizzarsi la tradizionale formula onde il fatto “<em>non è previsto dalla legge come reato</em>”.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2019</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 16 aprile esce la sentenza della III Sezione della Cassazione n.16477 in tema di atti contrari alla pubblica decenza (fattispecie in cui un cittadino marocchino ha orinato sul muro di cinta di un cimitero), alla cui stregua, poiché il d.lgs. 8/2016 ha depenalizzato il reato di cui all'art. 726 cod. pen., prevedendo all'art. 2 la relativa riformulazione come illecito amministrativo, ai sensi del successivo art. 8 di tale decreto la pertinente depenalizzazione colpisce, per la Corte, anche gli illeciti anteriori all'entrata in vigore del decreto legislativo ridetto, imponendosi pertanto l'annullamento della sentenza impugnata perché il fatto non è (più) previsto dalla legge come reato e la trasmissione degli atti all’Amministrazione (Prefetto di Bergamo) per le determinazioni di relativa competenza.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 30 aprile esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.17980 alla cui stregua sussiste continuità normativa tra l’abrogata fattispecie del millantato credito ex art.346 c.p. ed il neo introdotto reato di traffico di influenze illecite di cui all’art.346 bis c.p. La Corte rammenta come con la legge 9 gennaio 2019, n. 3, il legislatore abbia abrogato l'art. 346 cod. pen. (che appunto prevedeva il delitto di millantato credito) ed abbia inglobato la condotta ivi prevista nell'art. 346-bis cod. pen., che sanziona il traffico di influenze illecite. Nella Relazione introduttiva al Disegno di legge poi diventato legge n. 3 del 2019, chiosa ancora la Corte, si evidenzia come uno degli scopi principali dell'intervento legislativo sia quello di adeguare la normativa interna agli obblighi convenzionali imposti al nostro Paese dalla Convenzione penale sulla corruzione del Consiglio d'Europa, firmata a Strasburgo il 27 gennaio 1999 e, in particolare, all'Addenda al <em>Second Compliance Report</em> sull'Italia approvato il 18 giugno 2018, nella sua ottantesima assemblea plenaria, dal GRECO (<em>Group of States against Corruption'</em> istituito dal Consiglio d'Europa nel 1999), all'esito della procedura volta a verificare l'adeguamento del nostro ordinamento alle indicazioni già impartite in precedenza dallo stesso organismo. Nell'<em>Addenda al Second Compliance Report</em>, il GRECO aveva difatti evidenziato come - salvi gli ambiti in relazione ai quali il legislatore nazionale ha legittimamente esercitato il diritto di riserva ex art. 37 - permanessero ancora difformità tra il diritto interno e gli obblighi convenzionali imposti dalla Convenzione (specificamente all'art. 12) ed aveva, pertanto, sollecitato lo Stato italiano ad intervenire su diversi specifici temi, in particolare, anche a conformare la disciplina del traffico di influenze illecite agli obblighi internazionali assunti dal nostro Paese. Recependo tali indicazioni, il legislatore ha dunque riscritto la formulazione del delitto di traffico di influenze illecite previsto dall'art. 346-bis cod. pen. e vi ha inglobato la condotta già sanzionata sotto forma di millantato credito nella disposizione precedente. In particolare, avendo riguardo alla sola condotta passiva (che viene in rilievo nell'ipotesi di specie), il comma primo dell'art. 346-bis punisce la condotta di chi "<em>sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite con un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all'articolo 322-bis, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità come prezzo della propria mediazione illecita verso un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all'articolo 322-bis, ovvero per remunerarlo in relazione all'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri</em>". In altri termini, la "<em>nuova</em>" ipotesi di traffico di influenze illecite punisce anche la condotta del soggetto che si sia fatto dare o promettere da un privato vantaggi personali - di natura economica o meno -, rappresentandogli la possibilità di intercedere a suo vantaggio presso un pubblico funzionario, a prescindere dall'esistenza o meno di una relazione con quest'ultimo. Ciò a condizione - fatta oggetto di un'espressa clausola di riserva ("<em>fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 318, 319, 319-ter e nei reati di corruzione di cui all'articolo 322-bis</em>") - che l'agente non eserciti effettivamente un'influenza sul pubblico ufficiale o sul soggetto equiparato e non vi sia mercimonio della pubblica funzione, dandosi, altrimenti, luogo a taluna delle ipotesi di corruzione previste da detti articoli. La norma – prosegue la Corte - equipara, dunque, sul piano penale la mera vanteria di una relazione o di credito con un pubblico funzionario soltanto asserita ed in effetti insussistente (dunque la relazione solo millantata) alla rappresentazione di una relazione realmente esistente con il pubblico ufficiale da piegare a vantaggio del privato. Risultano dunque superate le difficoltà, spesso riscontrate nella prassi giudiziaria, nel tracciare in concreto il <em>discrimen</em> fra il delitto di millantato credito previsto dall'art. 346 cod. pen. e quello di traffico di influenze, di cui all'art. 346- bis cod. pen., scaturenti dalla difficoltà di verificare l'esistenza - reale o solo ostentata - della possibilità di influire sul pubblico agente. Stante la delineata parificazione a fini penali delle diverse situazioni, rimane dunque rimessa al prudente apprezzamento del giudicante la graduazione della risposta sanzionatoria in funzione dell'effettiva gravità in concreto dei fatti. Delineato l'ambito della recente riforma in materia, evidente si appalesa per la Corte la continuità normativa fra il previgente art. 346 ed il rinovellato art. 346-bis cod. pen.; ed invero, salvo che per la previsione della punibilità del soggetto che intenda trarre vantaggi da tale influenza ai sensi del comma secondo del "<em>nuovo</em>" 346-bis cod. pen. (non prevista nella pregressa ipotesi di millantato credito, nell'ambito della quale questi assumeva anzi la veste di danneggiato dal reato) e la non perfetta coincidenza fra le figure verso le quali la millanteria poteva essere espletata (atteso che l'abrogato art. 346 aveva riguardo al credito millantato presso il "<em>pubblico ufficiale</em>" e l'"<em>impiegato che presti un pubblico servizio</em>", mentre nell'attuale fattispecie rileva la rappresentata possibilità di condizionare il "<em>pubblico ufficiale</em>" e l"<em>incaricato di un pubblico servizio</em>", a prescindere dal fatto che sia un "<em>impiegato</em>"), la norma di cui all'art. 346-bis di recente riformulata sanziona le medesime condotte già contemplate dall'art. 346 abrogato. In particolare, la fattispecie incriminatrice di traffico d'influenze come riscritta punisce la condotta di chi "<em>sfruttando o vantando relazioni esistenti o assenti</em>" con un funzionario pubblico "<em>indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro od altra utilità come prezzo della propria mediazione illecita</em>" "<em>ovvero per remunerarlo in relazione all'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri</em>". Detta condotta certamente ingloba la precedente contemplata dall'art.346 cod. pen., là dove sanzionava la condotta di chi "<em>millantando credito</em>" presso un funzionario pubblico (con la differenza quanto all'impiegato di cui si è già detto) "<em>riceve o fa dare o fa promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione</em>" (comma primo) ovvero "<em>col pretesto di dover comprare il favore di un pubblico ufficiale o impiegato, o di doverlo remunerare</em>" (comma secondo). Sostanzialmente sovrapponibili sono, invero, tanto la condotta "<em>strumentale</em>" (stante l'equipollenza semantica fra le espressioni "<em>sfruttando o vantando relazioni</em> (...) <em>asserite</em>" e quella "<em>millantando credito</em>"), quanto la condotta "<em>principale</em>" di ricezione o di promessa, per sé o per altri, di denaro o altra utilità. Conclusivamente, deve essere affermato il principio di diritto secondo il quale, in relazione alla condotta di chi, vantando un'influenza - effettiva o meramente asserita - presso un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio, si faccia dare denaro e/o altre utilità come prezzo della propria mediazione, sussiste piena continuità normativa tra la fattispecie di cui all'art. 346 cod. pen. formalmente abrogata dall'art. 1, comma 1 lett. s), legge 9 gennaio 2019, n. 3, e la fattispecie di cui all'art. 346-bis cod. pen., come novellato dall'art. 1, comma 1 lett. t), stessa legge. Tanto premesso, quanto alla continuità normativa fra la previgente incriminazione di millantato credito di cui all'art. 346 e quella di cui al riformato delitto di traffico d'influenze previsto dall'art. 346-bis, non può sfuggire per la Corte come diverso e più mite sia il trattamento sanzionatorio previsto da quest'ultima disposizione. Da un lato, la fattispecie vigente è punita con la sola pena detentiva mentre il previgente millantato credito era sanzionato congiuntamente con le pene detentiva e pecuniaria; dall'altro lato, l'attuale incriminazione prevede la pena massima di 4 anni e 6 mesi di reclusione, mentre il massimo edittale della pena detentiva del previgente art. 346 era fissato in 5 anni. Essendo mutati i parametri sanzionatori di riferimento, in ossequio al disposto dell'art. 2 cod. pen., la pena applicata dai giudici lombardi nel caso di specie risulta pertanto per la Corte illegale; va invero ribadito che il diritto dell'imputato, desumibile dall'art. 2, comma quarto, cod. pen., ad essere giudicato in base al trattamento più favorevole tra quelli succedutisi nel tempo, comporta per il giudice della cognizione il dovere di applicare la <em>lex mitior</em> anche nel caso in cui la pena inflitta con la legge previgente rientri nella nuova cornice sopravvenuta, in quanto la finalità rieducativa della pena ed il rispetto dei principi di uguaglianza e di proporzionalità impongono di rivalutare la misura della sanzione, precedentemente individuata, sulla base dei parametri edittali modificati dal legislatore in termini di minore gravità (Sez. U n. 46663 del 26/06/2015, Della Fazia, Rv. 265110).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Questioni intriganti</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come si differenzia – in seno all’art.2 c.p. - la fattispecie cui dell’abrogazione o <em>abolitio criminis</em> (comma 2) dalla mera modifica della norma penale con continuità dell’illecito (comma 4, già comma 3)?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>occorre muovere dal presupposto che, dinanzi ad una fattispecie successoria di norme penali, affermare che si ha <em>abolitio criminis</em> vuol dire non punire (più), mentre all’opposto affermare di essere al cospetto di una modifica del regime penale della ridetta fattispecie vuol dire continuare a punire, seppure – <em>pro reo</em> - comunque selezionando il miglior trattamento sanzionatorio per il soggetto agente (c.d. <em>abrogatio sine abolitione</em>);</li> <li>una prima tesi muove dal c.d. “<em>fatto concreto</em>”, occorrendo nella sostanza fare riferimento in modo determinante al nucleo della condotta concretamente tenuta dal soggetto agente, che esprime il disvalore normativo sanzionato dalla norma penale astratta, la quale lo configura quale inadempimento-reato; se la condotta concretamente tenuta dal soggetto agente non è più inadempimento reato, si ha <em>abolitio criminis</em>, mentre nel caso in cui entrambe le disposizioni penali succedutesi continuino a configurarlo inadempimento reato, seppure con effetti sanzionatori diversi, si ha “<em>mera</em>” modifica della norma penale; per scrutinare gli effetti dello <em>ius superveniens</em>, su questo crinale occorre dunque fare riferimento al fatto concretamente commesso dal soggetto agente, prescindendo dalle fattispecie astratte di reato, sicché a rigore anche al cospetto di fattispecie astratte succedutesi nel tempo e palesanti elementi del tutto eterogenei potrebbe essersi in realtà al cospetto di una successione di norme penalmente rilevante (e non già di una <em>abolitio criminis</em>); si parla in proposito di c.d. “<em>doppia punibilità in concreto</em>”, onde è guardando al fatto concreto che può e deve verificarsi se un dato comportamento sia da intendersi ancora penalmente rilevante e con quali effetti; si tratta di una tesi che produce, nondimeno, dei possibili e gravi inconvenienti segnalati dalla dottrina più accorta, che ne ha criticato le conclusioni rappresentando come sia ben possibile che il fatto siccome concretamente commesso dal soggetto agente sia in effetti contemplato da entrambe le due norme incriminatrici in successione temporale tra loro, e tuttavia per aspetti diversi; in simili circostanze, potrebbe affiorare una larvata retroattività <em>in peius</em> della nuova norma incriminatrice, come tale inammissibile, quante volte il fatto concreto, pur essendo contemplato dalla norma precedente, non costituiva allora inadempimento reato (perché la pertinente disposizione, pur prendendo in considerazione tale “<em>fatto concreto</em>”, lo faceva ad effetti diversi da una immediata incriminazione), mentre lo costituisce secondo la nuova norma penale; ammettere in questi casi la “<em>continuità</em>” del rilievo penale della fattispecie (in sostanza, dire che si è al cospetto di una mera modifica, e non di una <em>abolitio criminis</em>) significa violare l’art.25, comma 2, Cost. ed applicare retroattivamente una norma incriminatrice introdotta in epoca successiva rispetto alla commissione del c.d. “<em>fatto concreto</em>”; altra critica a questa impostazione del “<em>fatto concreto</em>” si appunta sul relativo empirismo e sulla casualità che la connota, onde un determinato comportamento resta penalmente rilevante in relazione a parametri non prevedibili, mentre sarebbe meglio fare riferimento a comportamenti astratti, e dunque a tipologie di condotta previamente determinate, che conferiscono maggiore certezza alla valutazione alternativa tra <em>abolitio criminis</em> e continuità del rilievo penale della condotta in parola;</li> <li>altra opzione – di ascendenza dottrinale soprattutto tedesca - fa invece perno sulla c.d. “<em>continuità del tipo di illecito</em>”; si guarda in questo prisma ermeneutico all’interesse protetto dalla norma penale ed alle modalità di relativa aggressione, che caratterizzano ciascuna fattispecie criminosa; da questo punto di vista, non si ha <em>abolitio criminis</em> ma piuttosto modifica della norma penale allorché il legislatore – al cospetto dell’aggressione ad un determinato interesse penalmente tutelato – si limita a forgiare una mera tecnica di repressione differente rispetto a quella precedente; campeggiano dunque valutazioni di tipo decisamente sostanzialistico che tuttavia, secondo la dottrina più critica, lasciano al giudice eccessivi margini di discrezionalità applicativa; si tratta peraltro di un criterio che sembra non potersi applicare in via esclusiva e che, se applicato in modo rigoroso e restrittivo (anche al fine di scongiurare incertezze ed opinabilità applicative <em>ope iudicis</em>), finisce col trovare spazio solo, paradossalmente, nel caso in cui si verifichi una perfetta sovrapposizione tra norme identiche tra loro, unica circostanza in cui sarebbe predicabile quella “<em>continuità del tipo di illecito</em>” implicante “<em>modifica</em>” al di fuori della quale non residuerebbe che l’<em>abolitio criminis</em>;</li> <li>la tesi più accreditata in dottrina e in giurisprudenza resta quella c.d. strutturale, articolantesi in modo bifasico e che guarda <em>in primis</em> al rapporto di continenza tra fattispecie astratta antecedente e fattispecie astratta successiva, allorché la prima sia generica ovvero specifica rispetto alla seconda (che si atteggia dunque a specifica o, all’opposto, a generica rispetto alla prima); in sostanza tra le due fattispecie astratte occorre anzitutto che si configuri un rapporto di genere a specie, circostanza che consente di predicare la possibilità di trovarsi dinanzi ad una successione modificativa della norma penale (art.2, comma 4, c.p.) con condotta ancora punibile, al contrario di quanto accade nell’ipotesi in cui il rapporto tra fattispecie astratte in successione sia di incompatibilità-eterogeneità, ipotesi nella quale si configura piuttosto una <em>abolitio criminis</em> (art.2, comma 2, c.p.); tale rapporto di continenza tra fattispecie astratte, in questo prisma ermeneutico, è condizione necessaria e tuttavia non ancora sufficiente per poter predicare la successione modificativa (e dunque la persistenza della sanzione penale), trattandosi di operazione “<em>a monte</em>” ed “<em>in astratto</em>”, alla quale deve poi seguire una operazione “<em>a valle</em>” ed “<em>in concreto</em>” orientata alla verifica che la specifica condotta della cui punibilità si tratta sia ricompresa sotto l’usbergo precettivo di entrambe le disposizioni penali in successione tra loro; solo dal combinato disposto di queste 2 operazioni è infatti possibile evincere che – pur al cospetto delle modifiche normative astratte – il disvalore penale del fatto siccome concretamente commesso, nel relativo nucleo di pertinente consistenza, è rimasto sostanzialmente immutato, facendo così luogo a quella continuità del tipo di illecito che in questo caso non resta incerta ed opinabile, palesandosi piuttosto ancorata al parametro certo del rapporto di continenza tra le fattispecie astratte che (entrambe) ricomprendono il fatto commesso in successione tra loro;</li> <li>nell’ambito della tesi c.d. strutturale, meno problemi offre l’ipotesi, per vero più rara, in cui si passi da una fattispecie anteriore specifica ad una posteriore generica: in questa ipotesi, tutti i fatti ricompresi nella fattispecie specifica anteriore vengono puniti anche dalla fattispecie generica posteriore, configurandosi pertanto una continuità dell’illecito ex art.2, comma 4, c.p., onde l’unico problema è quello di scongiurare che fatti puniti solo nel vigore della fattispecie generica posteriore possano essere puniti anche, retroattivamente, laddove commessi sotto il vigore della fattispecie specifica anteriore (che non li puniva come tali);</li> <li>sempre nell’ambito della tesi c.d. strutturale, e per quanto invece concerne le diverse ipotesi (più frequenti) in cui si trascorra da una fattispecie generica anteriore ad una specifica posteriore - c.d. specialità tra fattispecie - occorre distinguere 2 ipotesi, ovvero la specialità c.d. “<em>per specificazione</em>” e la specialità c.d. “<em>per aggiunta</em>”;</li> <li>d. specialità per specificazione: date due fattispecie penalmente rilevanti, uno o più elementi delle fattispecie medesime sono tra loro in rapporto di genere a specie; in queste ipotesi, normalmente interviene una norma penale successiva a quella preesistente che è speciale rispetto ad essa perché descrive un fatto contenente gli identici elementi costitutivi della previa fattispecie generale, specificando tuttavia uno o taluni di tali elementi costitutivi; in queste fattispecie dunque non ci sono elementi aggiuntivi costitutivi della fattispecie penale, che sono anzi i medesimi in entrambe le fattispecie considerate, con la sola precisazione che uno o taluni di tali elementi sono nella secondo speciali rispetto a quelli, generali, della prima; l’esempio di questo tipo di rapporto tra fattispecie che viene normalmente portato in dottrina è tra la fattispecie di cui all’art.276 c.p. in tema di attentato contro il Presidente della Repubblica (generale) e quella di cui al successivo art.277 c.p. in tema di offesa alla libertà del Presidente della Repubblica (speciale); in queste peculiari ipotesi, laddove la norma antecedente sia generale e quella successiva speciale, si assiste secondo l’opinione più accreditata ad una parziale <em>abolitio criminis</em> per quanto riguarda i fatti già puniti sulla base della norma generale, e che non lo sono più sulla base della nuova norma speciale, in quanto privi degli elementi specializzanti richiesti dalla nuova disciplina (si applica l’art.2, comma 2, c.p.), e parallelamente, ad una parziale modifica normativa per quanto riguarda i fatti puniti sia nel vigore della precedente norma generale che in quello della successiva norma speciale, per il relativo annoverare già allora tutti gli elementi specializzanti di cui alla nuova disciplina (si applica l’art.2, comma 4, c.p.); non è mancato chi ha predicato in queste ipotesi piuttosto una generale <em>abolitio criminis</em>, anche con riguardo ai fatti già contenenti gli elementi specializzanti nel vigore della disciplina generale, dovendosi scongiurare l’applicazione retroattiva proprio della disposizione specializzante che ne ha previsto la (specifica) rilevanza penale; si è tuttavia obiettato che in realtà tutti gli elementi “<em>specificati</em>” dalla successiva disciplina “<em>specializzante</em>” erano invero già presenti nella previa disciplina generale, onde se da un lato non può parlarsi di intervento penale retroattivo per i fatti pregressi già connotati nel vigore della disciplina generale dai ridetti elementi “<em>specializzanti</em>”, dall’altro si configura piuttosto una <em>abolitio criminis</em> per tutte le fattispecie “<em>generali</em>” anteriori prive degli elementi specializzanti previsti solo – in termini di sottofattispecie – dalla disciplina “<em>speciale</em>” successiva; in sostanza dunque della norma generale antecedente occorre distinguere due porzioni, quella non coincidente con la norma speciale successiva, in quanto priva degli elementi specializzanti (e come tale punita “<em>prima</em>” non più punita “<em>poi</em>”: <em>abolitio criminis</em>) da quella coincidente con la norma speciale successiva perché già annoverante gli elementi specializzanti poi previsti in via esclusiva dalla seconda (e come tale punita sia “<em>prima</em>” che “<em>poi</em>”: modifica della norma penale e dunque continuità dell’illecito penalmente sanzionato); con riguardo dunque ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della norma penale speciale, il giudice penale deve sul crinale astratto verificare che sussista un rapporto tra le due fattispecie in successione in termini di specialità per specificazione; e, sul crinale concreto, verificare se gli elementi specializzanti (resi esclusivi <em>ex post</em> a fini di sanzione penale) siano stati presenti nella ridetta condotta antecedente, in caso negativo concludendo per l’<em>abolitio criminis</em> ex art.2, comma 2, c.p. ed in caso affermativo concludendo, all’opposto, per la modifica normativa ex art.2, comma 4, c.p.;</li> <li>d. specialità per aggiunta: la fattispecie speciale (normalmente, successiva) presenta uno o più elementi strutturali aggiuntivi rispetto alla fattispecie generale (normalmente precedente); in questo caso dunque la fattispecie speciale contiene tutti gli elementi costitutivi della fattispecie generale, con l’aggiunta di altri che nella prima non si riscontrano; l’esempio di questo tipo di rapporto tra fattispecie che viene normalmente portato in dottrina è tra la fattispecie di cui all’art.605 c.p. in tema di sequestro di persona (generale) e quella di cui al successivo art.630 c.p. in tema di sequestro di persona a scopo di estorsione (speciale); qui – allo scopo di verificare entro quali limiti si verifica una <em>abolitio criminis</em> rispetto alla disciplina penale previgente – parte della dottrina propone di prestare massima attenzione, in termini di scandaglio valutativo, all’elemento aggiuntivo che connota la nuova norma speciale, che potrebbe “<em>colorare</em>” la fattispecie di una lesività nuova tale da far ritenere essersi al cospetto di una globale <em>abolitio criminis</em> rispetto alla norma generale pregressa (senza dunque la possibilità in questi casi che possa configurarsi un mix tra <em>abolitio criminis</em> e continuità dell’illecito penale); al consueto criterio strutturale, questa opzione dottrinale affianca dunque anche un criterio di tipo valutativo, orientato ad affermare se – stante la specialità per aggiunta strutturale (e dunque l’acclarata continenza tra le fattispecie successive raffrontate) – l’”<em>aggiunta</em>” sia di tale, diversificata forza innovativa in termini di pregnanza lesiva della condotta rispetto agli interessi protetti da far ritenere abrogata la norma generale previgente, con effetto di incondizionata ed onnicomprensiva <em>abolitio criminis</em>; solo laddove tale significato lesivo della condotta considerata dalla nuova disposizione “<em>speciale per aggiunta</em>” non sia così nuovo e diverso rispetto a quello di cui alla condotta disegnata dalla norma pregressa potrebbe dunque discorrersi di modifica normativa e, in ultima analisi, di continuità dell’illecito penale, con applicazione dell’art.2, comma 4, c.p.; secondo questa opzione ermeneutica dunque, nella specialità “<em>per aggiunta</em>”, diversamente da quanto accade nella specialità “<em>per specificazione</em>”, o si ha completa “<em>abolitio criminis</em>” (quando l’elemento “<em>aggiunto</em>” viene valutato assumere un peso così connotante in termini innovativi da spiegare un simile effetto abrogativo) o si ha totale continuità dell’illecito (quando l’elemento “<em>aggiunto</em>” viene valutato non assumere un peso così connotante in termini innovativi da spiegare un simile effetto abrogativo); il criterio valutativo, unito a quello strutturale, presenta nondimeno margini di opinabilità giudiziale tali da non trovare d’accordo altra parte della dottrina, la quale assume anche per questo caso (come per quello della c.d. specialità per specificazione) la necessità di affidarsi ad un criterio esclusivamente di tipo strutturale, onde si ha sempre parziale <em>abolitio criminis</em> ex art.2, comma 2, c.p. per quei fatti pregressi che non presentano l’elemento aggiuntivo (reso <em>ex post</em> rilevante, dal punto di vista penale, in via esclusiva: a diversamente opinare si finirebbe infatti per applicare a queste condotte ormai “<em>depenalizzate</em>” la nuova fattispecie in via retroattiva), mentre si ha continuità normativa per quei fatti pregressi che già presentano l’elemento aggiunto specializzante, in relazione ai quali si applica dunque l’art.2, comma 4, c.p.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Che problemi pone in particolare il nuovo art.2, comma 3, c.p. come novellato nel 2006, specie in rapporto al nuovo comma 4 (ex comma 3) della medesima norma?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>dovendosi convertire una pregressa pena detentiva in nuova pena pecuniaria (se del caso, con superamento del giudicato), occorre in primo luogo – sul crinale formale - un provvedimento giurisdizionale di competenza del giudice dell’esecuzione (adito ex art.666 c.p.p.), l’unico capace di incidere per l’appunto sul trattamento sanzionatorio (per l’appunto, “<em>in esecuzione”) </em>giusta conversione della pena da detenzione a “<em>pecunia</em>”;</li> <li>tra le varie critiche al nuovo innesto normativo avanzate da parte della dottrina, quella “<em>tassonomica</em>” si impernia sull’evenienza onde - stante come il nuovo comma 3 rappresenti l’eccezione ed il nuovo comma 4 (ex comma 3) la regola - a livello di formulazione il legislatore avrebbe dovuto procedere in modo invertito, collocando la regola prima della pertinente eccezione;</li> <li>quest’ultima peraltro opera in quanto tale, e dunque quale “<em>eccezione</em>”, palesandosi di stretta interpretazione e non potendosi applicare allorché il nuovo trattamento sanzionatorio preveda una pena pecuniaria, e tuttavia non sola ma piuttosto alternativa alla pena detentiva;</li> <li>altra censura è stata addotta da chi vorrebbe operare un discorso analogo a quello frutto della <em>voluntas legis</em> - la nuova pena pecuniaria, qualitativamente diversa, supera anche il giudicato pregresso implicante pena detentiva – pure ai casi in cui l’avvicendarsi sia non già qualitativo (da pena detentiva a pena pecuniaria) ma, piuttosto, quantitativo, come nel caso di chi sia stato condannato, per un fatto commesso in precedenza, ad una pena detentiva con limite edittale massimo più elevato (ad esempio, 10 anni di reclusione) ed entri dipoi in vigore una novella che preveda, per il medesimo fatto, un limite edittale massimo più ridotto (ad esempio, 7 anni di reclusione), sicché – in questo prisma ermeneutico – la retroattività <em>in mitius</em> dovrebbe applicarsi anche a chi , quand’anche con sentenza ormai irrevocabile, sia stato - per quel fatto commesso nel vigore della pregressa disciplina - condannato ad una pena inferiore al limite edittale massimo pregresso, ma superiore al limite edittale massimo sopravvenuto (per rimanere all’esempio fatto, 8 anni di reclusione), conformemente peraltro all’art.5, n.3 del c.d. “<em>progetto Pagliaro</em>”;</li> <li>non manca chi sottolinea che potrebbe anche verificarsi il caso in cui, a valle della conversione della pena detentiva in pena pecuniaria, in sede di ragguaglio per un fatto X pregresso originariamente punito con pena detentiva venga applicata una pena pecuniaria quantitativamente maggiore rispetto a quella eventualmente prevista, per quel medesimo fatto ed in termini massimi, dalla medesima novella normativa (che ha appunto sostituito la pena detentiva in pecuniaria); ciò stante come il nuovo art.2, comma 3, c.p. nulla dica in termini di necessità che tale ragguaglio si ponga comunque al di sotto dell’asticella massima di pena pecuniaria tracciata dalla nuova disposizione che la prevede in luogo di quella detentiva.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p>