Massima Una cosa è dire che un fatto non è più considerato dalla legge come inadempimento-reato, con conseguente necessità di scongiurare non solo la punizione di nuovi, analoghi fatti, ma anche di mettere “in non cale” dal punto di vista degli effetti condanne pregresse, anche in giudicato, che abbiano condannato taluno per i fatti medesimi; altra cosa è dire che ad un inadempimento-reato la legge ne ha sostituito un altro che continua a punire i medesimi fatti storici, seppure con modalità diverse e con un diverso trattamento sanzionatorio, ipotesi al cui cospetto occorre piuttosto ricercare quale sia il trattamento maggiormente di favore per il reo (con possibilità anche in queste evenienze – nondimeno - di revocare la sentenza in giudicato laddove una sanzione pecuniaria abbia sostituito una detentiva). Facile a dirsi, assai più complesso a concretamente verificarsi, dovendosi nella sostanza accertare – quanto alla seconda ipotesi (c.d. abrogatio sine abolitione) - che ad aver avuto luogo sia stata una effettiva “successione” di norme penali (l’una delle quali era vigente prima e l’altra no; l’altra delle quali non era vigente prima e lo è oramai) con conseguente “continuità dell’illecito”, e non piuttosto una abrogazione vera e propria (c.d. abolitio criminis), giusta confronto tra le fattispecie astratte del “prima” e quelle, del pari astratte, del “poi”. Crono-articolo Nel diritto romano, l’abrogazione di norme aventi carattere penale, o la modifica delle stesse, è fenomeno che si inserisce nel più ampio e complessivo quadro in cui tali fattispecie interessano il diritto in generale. Occorre muovere dal concetto di lex rogata che, a differenza della lex data - più antica e concessa dal Magistrato, con struttura dunque unilaterale - viene (solo) proposta dal Magistrato e deve ottenere il consenso del Populus riunito nei comitia, con conseguente struttura bilaterale derivante da reciproco consenso, per l’appunto, tra Magistrato e Populus (analogamente a quanto avviene per il plebiscitum, proposto dai Tribuni e votato nei concilia plebis). Nella lex rogata il Popolo non ha l'iniziativa, che spetta al solo Magistrato, ma attraverso il iussus populi esso partecipa all'approvazione della lex, limitando così i poteri del magistrato proponente, onde - stando anche alle fonti (Gaio, Gellio) - con l'andare del tempo la Lex come fonte del diritto trova vieppiù la propria reale giustificazione ultima nella volontà popolare. Importante soffermarsi sul termine rogatio, che in primo luogo indica appunto la proposta spiccata dal Magistrato, ma che è anche termine volto ad identificare il cuore della legge stessa dal punto di vista testuale, articolandosi tale lex in: a) index et praescriptio legis; b) rogatio, per l’appunto; c) sanctio. La lex rogata, votata dal Populus, ha un valore quasi "sacro" e si tende a mantenerla vigente, rintracciandosi nelle fonti anche delle clausole, per lo più di valore morale, che minacciano sanzioni a chi intenda proporne l'abrogazione, e che sono in realtà funzionali a scoraggiare la desuetudine e ad impedire l'abrogazione tacita, potendo la pertinente eliminazione avvenire solo in modo espresso, giusta nuovo procedimento uguale e contrario a quello che aveva dato vita alla lex che si intende abrogare (con rogatio del Magistrato e pertinente voto del Populus), sfociante in un contrarius consensus espresso dai due protagonisti del procedimento legislativo in parola. Cicerone e Livio sul crinale storico, Ulpiano e Modestino su quello giuridico, parlano in proposito di ab-rogatio per intendere proprio questo procedimento contrario tendente a privare di efficacia una lex vigente; particolarmente interessante in proposito il testo di Ulpiano (Reg. 3), laddove si afferma che una lex "... aut rogatur id est fertur [viene rogata e quindi varata] aut abrogatur idest prior lex tollitur [ab-rogatio: viene eliminata], aut derogatur idest pars primae legis tollitur [de-rogatio: viene parzialmente eliminata] aut subrogatur idest adiicitur aliquid primae [sub-rogatio: vi viene aggiunta una nuova disposizione] aut obrogatur idest mutatur aliquid ex prima lege [ob-rogatio: viene parzialmente modificata]". Ai fini della differenza dunque tra abolitio criminis e modifica della norma penale rileva in particolare il rapporto che i Romani vedono tra la ab-rogatio (eliminazione) e la ob-rogatio (modifica) di una lex. Infine, dal punto di vista lessicale, quella che i Romani chiamano abolitio publica o generalis si appalesa quale istituto più affine all'amnistia (con funzione di clemenza generale) che alla moderna abolitio criminis. 1889 Il 30 giugno viene varato il R.D. n.6133, codice Zanardelli, di impianto liberale, secondo il cui art.2, comma 2, nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisca reato; e, se vi sia stata condanna, ne cessa l'esecuzione e gli effetti penali (abrogazione); se poi – ai sensi del comma 3 - la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori siano diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli all'imputato (modifica). 1930 Il 19 ottobre viene varato il R.D. n.1398, nuovo codice penale, alla stregua del cui art.2, comma 2, nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali, riproponendosi in tema di abrogazione il regime del 1889. Ai sensi del comma 3, se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile; quest’ultimo inciso muta il regime della modifica della norma penale rispetto al codice Zanardelli, giacché l’intervento di una sentenza irrevocabile esplicitamente sterilizza, secondo il nuovo regime, le eventuali modifiche (anche in melius) alla norma penale pertinente. * * * Quello stesso 19 ottobre viene varato il R.D. n.1399, nuovo codice di procedura penale (che sostituisce quello precedente del 1865), secondo il cui art.576, comma 2, sono irrevocabili le sentenze contro le quali non è ammessa impugnazione diversa dalla revisione. Il coordinamento con l’art.2, comma 2, del nuovo codice penale in tema di abolitio criminis consente di affermare che, laddove sia intervenuta una sentenza di condanna irrevocabile e segua appunto l’abolitio criminis del reato per il quale il soggetto è stato condannato, non si ha revoca della sentenza di condanna ridetta, la quale piuttosto cessa di spiegare effetti penali (diviene, nella sostanza, inefficace pur senza essere revocata). 1942 Il 16 marzo viene varato il R.D. n.262, nuovo codice civile, le cui disposizioni preliminari recano una norma, l’art.15, onde le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore. * * * Quello stesso giorno viene varato il R.D. n.267, recante disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa, alcune delle cui fattispecie penalmente rilevanti saranno significative in tema di rapporti tra “abolitio criminis” e “abrogatio sine abolitione”. 1948 Viene varata la Costituzione che prevede la natura personale della responsabilità penale, cui è connessa la funzione tendenzialmente rieducativa della pena (art.27): il condannato deve percepire la pena come tendenzialmente rieducativa per la commissione di un fatto penalmente rilevante che gli viene rimproverato, circostanza da escludersi allorché egli venga punito sulla base di una norma che configurava il proprio contegno quale inadempimento penalmente rilevante quando esso è stato posto in essere, ma che non viene più considerato tale; ovvero viene ormai assunto quale contegno ancora penalmente rilevante, ma meno grave rispetto al passato; ovvero ancora viene assunto più grave, con necessità in quest’ultimo caso di applicare il regime penale pregresso, avvinto alla prevedibilità delle conseguenze del contegno tenuto dal soggetto attivo, per lui più favorevoli, rispetto al nuovo regime che prevede – all’opposto - sanzioni penali più gravose. 1959 Il 30 maggio esce la sentenza delle SSUU, Majer, che chiarisce come tra due fattispecie penali si configuri un rapporto di specialità in duplice possibile foggia, ovvero una specialità “per specificazione”, laddove un rapporto di genere a specie coinvolge uno o più elementi costitutivi delle due diverse fattispecie poste a raffronto, ovvero una specialità “per aggiunta”, laddove la fattispecie speciale annovera un elemento costitutivo che non è invece presente nella fattispecie generale. Si tratta di una presa di posizione che risulterà utile al fine di verificare la presenza di un concorso apparente di norme, laddove le due fattispecie a raffronto siano entrambe contemporaneamente vigenti, ovvero una continuità dell’illecito giusta modifica della norma penale ex art.2, comma 3, c.p. (eventualmente assieme ad una parziale abolitio criminis ex art.2, comma 2, c.p.) laddove le due fattispecie considerate siano in successione cronologica tra loro. 1986 Il 30 dicembre viene varata la legge n.943, recante - norme in materia di collocamento e di trattamento dei lavoratori extracomunitari immigrati e contro le immigrazioni clandestine – alla stregua del cui art.12, comma 2 il datore di lavoro che occupi alle proprie dipendenze lavoratori immigrati extracomunitari sprovvisti dell'autorizzazione al lavoro prevista dalla legge medesima e' punito con un'ammenda da lire 500 mila a lire 2 milioni e, nei casi più gravi, con l'arresto da 3 mesi ad un anno. 1988 Il 22 settembre viene varato il D.p.R. n.477, nuovo codice di procedura penale, il cui art.673 disciplina la revoca della sentenza per abolizione del reato, alla cui stregua in caso di abrogazione – abolitio criminis - (o di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice), il giudice dell'esecuzione revoca la sentenza di condanna o il decreto penale dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti, allo stesso modo dovendo provvedere quando è stata emessa sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere per estinzione del reato o per mancanza di imputabilità. L’abolitio criminis consente dunque di incidere, superandolo, sul giudicato più sfavorevole al reo, circostanza che non si verifica nella diversa ipotesi di modifica della norma penale con continuità dell’illecito (c.d. abrogatio sine abolitione). 1998 Il 25 luglio viene varato il decreto legislativo n.286, recante il testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, secondo il cui art.22, comma 10, il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno previsto dal medesimo articolo, ovvero il cui permesso sia scaduto, revocato o annullato, e' punito con l’arresto da 3 mesi ad 1 anno o con l’ammenda da Lire 2 milioni a Lire 6 milioni. * * * *Il 12 ottobre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione, Forni, che ribadisce come tra due fattispecie penali si configuri un rapporto di specialità in duplice possibile foggia, ovvero una specialità “per specificazione”, laddove un rapporto di genere a specie coinvolge uno o più elementi costitutivi delle due diverse fattispecie poste a raffronto, ovvero una specialità “per aggiunta”, laddove la fattispecie speciale annovera un elemento costitutivo che non è invece presente nella fattispecie generale. Si tratta di una presa di posizione che risulterà utile al fine di verificare la presenza di un concorso apparente di norme, laddove le due fattispecie a raffronto siano entrambe contemporaneamente vigenti, ovvero una continuità dell’illecito giusta modifica della norma penale ex art.2, comma 3, c.p. (eventualmente assieme ad una parziale abolitio criminis ex art.2, comma 2, c.p.) laddove le due fattispecie considerate siano in successione cronologica tra loro. 1999 Il 25 giugno viene varata la legge n.205 il cui articolo 18 abroga i reati di oltraggio a pubblico ufficiale ex art.341 c.p. e di oltraggio a pubblico impiegato ex art.344 c.p. senza che vengano tuttavia contestualmente formulate dal legislatore nuove fattispecie incriminatrici che sostituiscano o modifichino quelle espunte dal sistema. In virtù di tale provvedimento, affiora la c.d. “espansione” di una fattispecie incriminatrice i cui effetti sono stati, fino ad un dato momento, compressi dalla presenza di una disposizione con caratteri “limitanti” la cui abrogazione implica per l’appunto “espansione”, in termini effettuali, della fattispecie in precedenza “limitata”; nel caso di specie, la punizione dell’oltraggio ha impedito fino a questo momento la configurabilità dell’ingiuria aggravata ai danni di un pubblico ufficiale ex art.594 c.p. in combinato disposto con l’art.61, n.10 c.p., fattispecie che trova ora la propria effettualità incriminatrice proprio in virtù dell’abolitio criminis che ha investito l’oltraggio. 2001 L’11 settembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.33539 che si occupa del rapporto tra la fattispecie di cui all’art.12, comma 2, della legge 943.86 (occupazione di lavoratori extracomunitari sprovvisti di autorizzazione al lavoro) e quella, successiva, di cui all’art.22, comma 10, del decreto legislativo n.286.98 (occupazione di lavoratori sprovvisti del permesso di soggiorno). La Corte muove dal presupposto onde – se si fa perno sulla teoria del c.d. “fatto concreto” – in presenza di talune peculiarità del fatto (“concreto”, per l’appunto) siccome commesso nel vigore della legge del 1986, potrebbe giungersi a riconoscere la “doppia punibilità in concreto” del fatto e dunque la relativa rilevanza penale anche dopo l’entrata in vigore del Testo Unico del 1998 (configurando dunque una modifica dell’incriminazione), pur al cospetto della evidente diversità strutturale che connota le due disposizioni in successione cronologica tra loro (e che suggerirebbe piuttosto la configurabilità di una ipotesi di abolitio criminis). Può più in specie accadere che il datore di lavoro, prima dell’entrata in vigore il Testo Unico del 1998, abbia occupato un lavoratore extracomunitario privo dell’autorizzazione al lavoro, l’unica in quel momento richiesta affinché il reato si configuri, e privo anche del permesso di soggiorno (penalmente irrilevante in quel momento): in questa particolare ipotesi, tale datore di lavoro – secondo la teoria della doppia punibilità del fatto “concreto” - resta punibile anche una volta entrato in vigore il Testo Unico del 1998 (il proprio lavoratore essendo infatti privo non solo dell’autorizzazione al lavoro, ma anche del permesso di soggiorno), mentre non viene – all’opposto - assoggettato a punizione quell’altro datore di lavoro che abbia a suo tempo assunto il proprio prestatore privo dell’autorizzazione al lavoro (allora penalmente rilevante, ma irrilevante dopo il Testo Unico) ed in possesso invece del permesso di soggiorno (anche in questo caso, irrilevante ex ante e rilevante solo ex post). Per la Corte occorre piuttosto affidarsi alla teoria che fa perno sul rapporto tra fattispecie astratte onde, una volta abrogata la norma incriminatrice del 1986 che prevede la sanzione penale per il datore di lavoro che occupi uno straniero senza autorizzazione a lavoro, tale condotta resta ormai penalmente irrilevante (abolitio criminis), quand’anche il lavoratore extracomunitario sia stato anche privo del permesso di soggiorno; ciò in considerazione della circostanza onde, mettendo a confronto le rispettive fattispecie astratte, tra i due illeciti non è rinvenibile per la Corte alcun nesso di continuità, palesandosi tutt’affatto eterogenei gli elementi che concorrono a forgiarne gli elementi tipici (e, dunque, la fattispecie astratta). Si tratta infatti di due illeciti che presentano, a livello strutturale di fattispecie astratta, caratterizzazioni differenti, sol che si consideri l’atto amministrativo coinvolto (che nel caso precedente è l’autorizzazione a lavoro, mentre in quello successivo è il permesso di soggiorno); le autorità pubbliche chiamate a svolgere i rispettivi procedimenti e a ad adottare i pertinenti provvedimenti; la diversa ratio sottesa a ciascuno degli interventi normativi considerati. * * * Il 27 giugno esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.29023 che si occupa dei rapporti tra l’oltraggio, ormai fatto oggetto di abolitio criminis nel 1999, e la fattispecie dell’ingiuria aggravata dal fatto di essere stata commessa nei confronti di un pubblico ufficiale, ex art.594 e 61, n.10, c.p.. Per la Corte non può essere seguita la tesi di chi - muovendo dal rapporto strutturale tra la fattispecie abrogata (oltraggio) e quella “espansa” (ingiuria aggravata) - assume non essersi al cospetto di una abolitio criminis ex art.2, comma 2, c.p. quanto piuttosto di una abrogatio sine abolitione ex art.2, comma 3, c.p., dacché gli stessi fatti in precedenza puniti a titolo di oltraggio vengono ormai puniti a titolo di ingiuria aggravata, dovendosi allora applicare a chi abbia commesso il fatto penalmente rilevante prima della novella il trattamento sanzionatorio più favorevole, senza tuttavia mandarlo assolto. Per le SSUU, all’opposto, non può farsi applicazione nel caso di specie dell’art.2, comma 3, c.p. in tema di continuità dell’illecito penale, presupponendo tale disposizione una diversità di norme incriminatrici in successione tra loro, l’una delle quali deve essere sul piano diacronico successiva all’altra, precedente. In sostanza, per la Corte l’art.2, comma 3, c.p. opera laddove le due norme incriminatrici in successione non siano contemporaneamente vigenti, ma trovino vigenza, per l’appunto, in successione l’una rispetto all’altra, circostanza nella quale va applicata la norma più favorevole al reo (la precedente o, alternativamente la successiva), salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile. Diverso il caso dell’oltraggio, che per il Collegio ha subito una vera e propria abolitio criminis dacché l’ingiuria aggravata era già presente nel sistema, onde non si è avuta nessuna successione penalmente rilevante, per l’appunto, tra l’oltraggio e la (previgente) fattispecie dell’ingiuria aggravata, non potendo in sostanza il fenomeno dell’”espansione” ricondursi appunto alla c.d. continuità del tipo di illecito e dunque alla abrogatio sine abolitione. * * * Il 3 ottobre viene varata la legge n.366, recante delega al Governo per la riforma del diritto societario. 2002 L’11 aprile viene varato il decreto legislativo n.61, recante (in esercizio della pertinente delega di cui alla legge 366.01, art.11) la disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali. Viene più in specie modificata la regolamentazione delle c.d. false comunicazioni sociali, e dunque del c.d. falso in bilancio, giusta riformulazione dell’art.2621 c.c. ed introduzione di una nuova fattispecie delittuosa all’art.2622 c.c. La condotta punita, più in specie, resta sempre la medesima (la situazione patrimoniale e finanziaria di una società viene, nei pertinenti documenti contabili, falsamente rappresentata), ma affinché scatti la sanzione penale occorre che siano superate determinate “soglie di tolleranza”, al di sotto delle quali non si ha dunque illecito penale; onde le nuove fattispecie disegnate dal legislatore fanno luogo ad una ipotesi di “specialità per specificazione”, dacché non ogni falsa comunicazione sociale è penalmente rilevante, ma ormai soltanto quella che – in termini di concreta entità dei dati economici falsamente rappresentati e dunque di consistenza della falsificazione perpetrata – superi una certa soglia legalmente prescritta. Ancora, l’art.1, comma 1, modifica l’art.2634 c.c. in tema di c.d. infedeltà patrimoniale, ponendo problemi di esatta configurabilità (anche in termini successori) dei rapporti con il delitto di appropriazione indebita di cui all’art.646 c.p.; la questione concerne in specie le condotte degli amministratori di società che utilizzino riserve di denaro extrabilancio (c.d. fondi neri), costituite all’uopo (di qui l’infedeltà patrimoniale), al fine di distrarle in danno della società che amministrano e a favore di terzi (e qui affiora l’appropriazione indebita), per scopi dunque illeciti o comunque estranei ai fini sociali; si tratta di condotte che prima della riformulazione dell’art.2634 c.c. sono state ricondotte alla fattispecie dell’appropriazione indebita ex art.646 c.p. (assunta estensibile anche alle ipotesi di distrazione) e che, dopo tale riformulazione, vengono ora sussunte sotto la relativa egida precettiva. Stando alla dottrina, nel caso in esame ci si trova dinanzi ad una ipotesi successoria che non si atteggia a c.d. modificazione “immediata” delle leggi penali, laddove si assiste all’abrogazione di norme precedenti con conseguente riformulazione delle fattispecie incriminatrici (occorrendo dunque stabilire se si è al cospetto di una c.d. abolitio criminis ovvero, piuttosto, di una continuità dell’illecito quale effetto di una abrogatio sine abolitione); si configura piuttosto un c.d. “innesto normativo” laddove alla evidente introduzione nel sistema di una nuova fattispecie incriminatrice (la c.d. infedeltà patrimoniale) non fa da contraltare una formale abrogazione della fattispecie pregressa (nel caso di specie, l’appropriazione indebita) che, anzi, continua ad operare nell’ordinamento penale. Anche nelle fattispecie di c.d. “innesto normativo”, nondimeno, la dottrina ridetta identifica una possibile successione di leggi penali che si verifica quando la nuova fattispecie incriminatrice sia avvinta da un rapporto di specialità rispetto a quella pregressa, laddove una classe di oggetti cui era applicabile una determinata fattispecie è ora rimessa alla qualificazione (regolatoria) di una nuova fattispecie. Sul versante del R.D. 267.42 in tema di disciplina del fallimento e delle procedure concorsuali, di rilievo la modifica (ad opera dell’art.4, comma 1) dell’art.223, comma 2, n.1 in materia di bancarotta impropria. Viene innanzi tutto varato un diverso elenco dei reati in materia societaria la cui commissione cagiona, o contribuisce a cagionare, il dissesto della compagine (e dunque, appunto, la bancarotta impropria), non figurandovi più i reati di cui agli articoli 2623 e 2630 c.c.; figurano invece i reati di cui agli articoli 2626, 2627, 2629, 2632, 2633 e 2634 c.c.; con particolare riguardo all’art.2622 c.c. in tema di false comunicazioni sociali in danno dei soci e dei creditori, si supera il testo precedente che si riferiva alla divulgazione di notizie sociali riservate; quanto poi all’art.2628 c.c. in tema di illecite operazioni su azioni o quote sociali o della società controllante, si supera il riferimento di cui al precedente testo alle manovre fraudolente sui titoli della società; importantissima poi la novità concernente il collegamento eziologico tra il reato societario in concreto commesso ed il dissesto della società della cui bancarotta impropria si tratta, dacché nel testo precedente era sufficiente la commissione di uno dei fatti di reato in qualche modo “presupposti” alla quale avesse fatto seguito la dichiarazione di fallimento, mentre nel nuovo testo occorre appunto il nesso causale tra la commissione di uno dei ridetti reati ed il dissesto societario che ne consegue, con necessità che tale nesso consequenziale sia peraltro coperto dall’elemento psicologico nel soggetto agente. * * * Il 16 ottobre esce la sentenza della V Sezione della Cassazione n.34622, in materia di bancarotta impropria, a valle della nuova formulazione della fattispecie di cui al’art.4 del decreto legislativo 61.02, risalente al precedente aprile. Per la Corte, in tema di rapporti tra abolitio criminis e mera modifica della norma penale (in quest’ultimo caso, con permanenza di un rilievo penale per la condotta pertinente), va criticata la teoria dottrinale del c.d. “fatto concreto” e della c.d. “doppia punibilità in concreto”; nessun problema infatti solo laddove, in conseguenza dell’abrogazione, il comportamento concreto che prima costituiva reato diviene del tutto lecito, essendosi in questi casi di sicuro al cospetto di una abolitio criminis. Tuttavia, prosegue la Corte, non sempre la vicenda normativa appare così semplice, potendo residuare una illiceità dello stesso fatto concreto, in ragione di un’altra norma preesistente ovvero di una nuova norma introdotta dalla stessa legge abrogatrice: in questi casi, ove si facesse riferimento al solo fatto concreto, pur in presenza di una successione tra fattispecie eterogenee, si finirebbe con il violare il principio di irretroattività della legge incriminatrice sopravvenuta perché si assegnerebbe rilevanza, in base ad una legge posteriore, a fatti che erano prima irrilevanti (in altri termini, vedere una mera modifica normativa, e non già una abolitio criminis, sulla base della sola circostanza onde il fatto concreto commesso nella specie non ha perso definitivamente rilevanza penale, può significare in taluni casi applicargli retroattivamente una norma penale sopravvenuta), sicché è indispensabile che il raffronto avvenga, per la Corte, a livello piuttosto di fattispecie astratte. La medesima pronuncia critica anche la diversa impostazione – di ascendenza dottrinale soprattutto tedesca – che fa invece perno sulla c.d. “continuità del tipo di illecito” e che guarda all’interesse protetto dalla norma penale ed alle modalità di relativa aggressione, che caratterizzerebbero ciascuna fattispecie criminosa; in questo prisma ermeneutico, non si ha abolitio criminis ma piuttosto modifica della norma penale (e dunque continuità dell’illecito penalmente sanzionato) allorché il legislatore – al cospetto dell’aggressione ad un determinato interesse penalmente tutelato – si limiti a forgiare una mera tecnica di repressione differente; campeggiano qui – chiarisce la Corte - valutazioni di tipo decisamente sostanzialistico che tuttavia finiscono con il lasciare al giudice eccessivi margini di discrezionalità applicativa 2003 Il 16 giugno esce la sentenza delle SSUU n.25887, che – in tema di reati societari - critica l’opzione ermeneutica alla cui stregua, nelle fattispecie di specialità “per aggiunta” (nella nuova fattispecie speciale è presente uno o più elementi aggiuntivi rispetto alla previa fattispecie generale), e diversamente da quanto accade nella specialità “per specificazione” (nella nuova fattispecie speciale gli elementi sono i medesimi della pregressa fattispecie generale, ma uno o più di essi vengono più dettagliatamente “specificati”), o si ha completa “abolitio criminis” ex art. 2, comma 2, c.p. (quando l’elemento “aggiunto” viene valutato dal giudice assumere un peso così connotante in termini innovativi da spiegare un simile effetto abrogativo) o si ha totale continuità dell’illecito ex art.2, comma 3, c.p. (quando l’elemento “aggiunto” viene valutato non assumere un peso così connotante in termini innovativi da spiegare un simile effetto abrogativo, onde si ha sempre continuità dell’illecito). Il ridetto criterio valutativo, quand’anche unito a quello strutturale, presenta infatti per la Corte margini di opinabilità giudiziale tali da non poter essere abbracciato, onde anche per questo caso (come per quello della c.d. specialità per specificazione) occorre piuttosto per il Collegio affidarsi ad un criterio esclusivamente di tipo strutturale, sicché si ha sempre parziale abolitio criminis ex art.2, comma 2, c.p. per quei fatti pregressi che non presentano l’elemento aggiuntivo (reso ex post rilevante, dal punto di vista penale, in via esclusiva: a diversamente opinare si finirebbe infatti per applicare a queste condotte ormai “depenalizzate” la nuova fattispecie in via retroattiva), mentre si ha continuità normativa per quei fatti pregressi che già presentano l’elemento aggiunto specializzante, in relazione ai quali si applica dunque l’art.2, comma 3, c.p. La Corte si occupa peraltro di una ipotesi di specialità per specificazione, e segnatamente di quella derivante dalla successione della disciplina sanzionatoria penale in tema di c.d. falso in bilancio a valle dell’entrata in vigore della riforma di cui alla legge delega 366.01 e del decreto legislativo 61.02, che hanno previsto delle soglie di tolleranza per la rilevanza penale delle pertinenti fattispecie. Per la Corte, a valle dell’introduzione delle soglie di tolleranza, tutto ciò che è ora reato ai sensi dell’art.2621 c.c. (perché sopra soglia) deve assumersi essere stato già punibile sulla base della vecchia disciplina alla cui stregua rilevava penalmente qualsiasi falso, anche quello minimo o comunque sotto la neo introdotta soglia; discorso opposto va fatto invece per tutte le condotte di falsificazione sotto soglia che, punibili nel vecchio regime, sono ora da assumersi non più attratte nell’orbita della sanzione penale. Proprio muovendo da questo presupposto, per le SSUU se il fatto concretamente commesso nel vigore della vecchia disciplina è sopra soglia, esso continua ad essere reato, configurandosi una limitata continuità dell’illecito con conseguente applicazione dell’art.2, comma 3, c.p., mentre nel caso opposto di un fatto concretamente commesso nella vigenza della disciplina anteriore, ma sottosoglia, si configura una (parziale) abolitio criminis, che impone l’applicazione dell’art.2, comma 2, c.p.. Per la Corte, in tema di successione di leggi penali, perché sia applicabile la regola del comma 3 dell’art.2 c.p. occorre che il fatto costituente reato secondo la legge precedente sia tuttora punibile secondo la nuova legge, mentre non sono più punibili i fatti commessi in precedenza e rimasti fuori dal perimetro della nuova fattispecie, tale situazione dovendo essere verificata in base al criterio di coincidenza strutturale tra le fattispecie previste dalla legge siccome succedutesi nel tempo, senza che sia necessario, di regola, fare ricorso a criteri valutativi del bene tutelato o delle modalità dell’offesa. La medesima pronuncia si occupa poi anche del nuovo art.223, comma 2, n.1 della legge fallimentare del 1942, affermando che sussiste in gran parte continuità normativa, e dunque rilievo dell’art.2, comma 3, c.p., tra la disciplina previgente e quella successiva. Più in particolare, in giurisprudenza si è registrata univocità in tema di abolitio criminis ex art.2, comma 2, c.p. per quanto riguarda i fatti pregressi che non integrano le false comunicazioni sociali siccome rimodellate dalla nuova disciplina, o per quelli che non hanno cagionato, né hanno concorso a cagionare il dissesto della società (il nesso causale essendo stato previsto solo con la riforma del diritto penale societario del 2002); divergenze invece sono affiorate per le fattispecie che già nella previgente disciplina contenevano tutti gli elementi richiesti poi dalla nuova disciplina (come ad esempio il ridetto nesso causale): parte della giurisprudenza ha infatti rappresentato, nel senso della continuità dell’illecito (art.2, comma 3, c.p.), che pur non essendo richiesto dalla previgente disciplina in via esplicita il collegamento causale tra la commissione di determinati reati “presupposti” ed il dissesto che ne è scaturito, non è mancato chi lo ha assunto comunque richiesto implicitamente, né chi ha affermato come tale nesso non sia mai stato escluso e sia stato piuttosto oggetto sovente di accertamento da parte del giudice penale; altra parte della giurisprudenza, all’opposto, ha optato per l’abolitio criminis ex art.2, comma 2, c.p., assumendo il nesso causale tra reati “presupposti” e dissesto sociale quale elemento specializzante rispetto alla disciplina pregressa nel cui vigore, pur essendo imprescindibile il fallimento, questo non doveva porsi quale indefettibile conseguenza della condotta criminosa concretante il reato “presupposto”, onde si configura una specialità per aggiunta che implica una integrale abolizione della fattispecie abrogata, stante come l’elemento aggiuntivo compendiato dal rapporto di causalità tra reato presupposto e dissesto sociale configuri una fattispecie del tutto nuova, con un significato lesivo – penalmente rilevante – tutt’affatto diverso rispetto a quello di cui alla fattispecie oggetto di “abrogazione”; anche in tema di nuova formulazione dell’art.2621 c.c. (false comunicazioni sociali), si è al cospetto per questo secondo orientamento di una specialità per specificazione, onde laddove nei fatti commessi anteriormente alla riforma del 2002 si rinvengano tutti i nuovi elementi specializzanti, si ha continuità dell’illecito (art.2, comma 3, c.p.), mentre in caso diverso non può che predicarsi una abolitio criminis ex art.2, comma 2, c.p. Per le SSUU deve invece assumersi configurabile una continuità dell’illecito penale tra la vecchia e la nuova fattispecie di cui all’art.223, comma 2, n.1 della legge fallimentare, dacché la bancarotta resta originata anche dal nuovo (come dal vecchio) reato di false comunicazioni sociali (art.2621 c.c, siccome riformulato nel 2002), mentre sul crinale del nesso causale tra reati c.d. presupposti e dissesto sociale (fallimento), esso non era estraneo alla fattispecie previgente di cui al ridetto art.223 c.p., onde anche in questo caso a rilevare è l’art.2, comma 3, c.p. e dunque la c.d. continuità dell’illecito, senza che possa discorrersi di abolitio criminis ex art.2, comma 2, c.p.. Per quanto più specificamente concerne il nesso causale tra reati presupposti e dissesto societario, per la Corte se esso non era richiesto (e tuttavia – precisa la Corte – non sono mancate voci che hanno comunque cercato di individuare tale nesso normativo tra reato societario e fallimento), certo non poteva dirsi escluso, ed anzi in qualche caso ha formato oggetto di specifico accertamento da parte del giudice penale, circostanza assunta dunque dalle SSUU quale spia della c.d. continuità dell’illecito in luogo dell’abolitio criminis. Su di un piano più ampio e sistematico, la Corte esclude poi che, nelle ipotesi di c.d. specialità per aggiunta, possa annettersi importanza al “peso” che l’elemento aggiuntivo, neo introdotto dal legislatore, rivestirebbe in termini di pregnanza e concreto significato lesivo di cui alla nuova fattispecie di reato, aprendosi in tal guisa la strada ad una interpretazione e ad una applicazione da parte del giudice penale inevitabilmente opinabile, il sotteso criterio valutativo potendo da un lato - quando il ridetto “peso” viene assunto assai consistente - far escludere recisamente ed indiscriminatamente la continuità dell’illecito penale (con conseguente, generalizzata abolitio criminis); e dall’altro - quando il ridetto “peso” è invece assunto scarso - far escludere l’abolizione (quand’anche solo) parziale, così mantenendo la punibilità anche con riguardo a fatti privi dell’elemento specializzante aggiuntivo ed in ultima analisi friggendo con la fondamentale regola della irretroattività alla cui stregua nessuno può essere punito per un fatto (più “generale” commesso prima) che, secondo la legge penale posteriore (solo “speciale”), non costituisce reato. * * * Il 7 ottobre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.38110, che si occupa dei rapporti tra l’appropriazione indebita ex art.646 c.p. e la nuova fattispecie di cui all’art.2634 c.c. in tema di infedeltà patrimoniale. Per la Corte, laddove si accolga una interpretazione estensiva dell’art.646 c.p. con conseguente applicabilità dell’appropriazione indebita anche alle fattispecie di c.d. distrazione, sussiste un rapporto di genere a specie con la nuova fattispecie di cui all’art.2634 c.c. dacché, in difetto di quest’ultima disposizione “speciale”, tutti i fatti da essa puniti rientrerebbero sotto l’egida precettiva (“generale”) dell’art.646 c.p. Si configura più precisamente – per il Collegio - un rapporto di specialità “per specificazione” tra le due fattispecie considerate, dacché la nuova fattispecie contiene variegati elementi specializzanti capaci di restringere l’area di efficacia operativa dell’art.646 c.p., configurando un reato proprio degli amministratori ed ormai anche di sindaci e direttori generali di società e richiedendo come presupposto imprescindibile della pertinente condotta una situazione di conflitto di interessi con la società gestita (o controllata) al quale deve necessariamente fare seguito o il compimento diretto di un atto di disposizione, ovvero (indirettamente) la partecipazione alla deliberazione di tale atto dispositivo; occorre poi che si realizzi un evento compendiantesi nel danno patrimoniale alla società gestita (o controllata) e, sul crinale soggettivo, oltre al dolo specifico dell’ingiusto profitto per sé o di un altro vantaggio, anche il dolo intenzionale del ridetto danno patrimoniale alla società. Per la Corte dunque – applicandosi il criterio strutturale dei rapporti tra fattispecie e configurandosi un rapporto di specialità per specificazione tra il nuovo art.2634 c.c. e la fattispecie di appropriazione indebita ex art.646 c.p. – le due fattispecie ridette si collocano in rapporto di continuità con conseguente possibile applicazione dell’art.2, comma 4, c.p. con salvezza delle condanne rispetto a fatti pregressi già passate in giudicato (che non vanno dunque revocate come laddove si trattasse di una abolitio criminis). Vanno tuttavia tenute per la Corte distinte due ipotesi tutt’affatto diverse tra loro: secondo una prima ipotesi, il fatto commesso prima della riformulazione dell’art.2634 c.c. e nel vigore del solo art.646 c.p. presenta tutti gli elementi specializzanti poi descritti appunto nel nuovo art.2634 c.c., circostanza al cospetto della quale si configura per l’appunto una continuità dell’illecito penale ex art.2, comma 3, c.p. (abrogatio sine abolitione) con esclusione della c.d. abolitio criminis; stando invece ad una seconda e più complessa ipotesi il fatto pregresso, pur riconducibile all’usbergo precettivo dell’art.646 c.p. in tema di appropriazione indebita, non è invece apparentemente normato dal nuovo art.2634 c.c. proprio perché non presenta(va) tutti gli elementi specializzanti richiesti ex novo da tale successiva disposizione penale: in questa ipotesi potrebbe prima facie trovare applicazione il canone scolpito – conformemente al c.d. criterio strutturale - nella pronuncia 25887.03 della Corte, con conseguente limitata continuità dell’illecito penale e parziale abolitio criminis proprio con riguardo ai fatti pregressi non contenenti gli elementi specializzanti propri della nuova norma incriminatrice; senonché tale criterio non può essere invocato in ipotesi, come la presente, in cui si è al cospetto di un “innesto normativo” che, pur riconfigurando una fattispecie penale ex novo, non esclude la persistente vigenza della vecchia norma e dunque, nel caso di specie, dell’art.646 c.p., con conseguente necessità di continuare a punire anche le condotte che non presentino appunto tutti gli elementi specializzanti “nuovi” (in sostanza, in simili ipotesi rileva solo l’art.2, comma 3, c.p., non potendo mai venire in rilievo l’art.2, comma 2, c.p.). Si tratta di una tesi che viene tuttavia criticata da quella parte della dottrina che osserva come – laddove il fatto pregresso non presenti tutti gli elementi specializzanti richiesti dal nuovo art.2634 c.c. – continuare ad interpretare estensivamente l’art.646 c.p. sull’appropriazione indebita alle fattispecie di infedeltà patrimoniale sembra porsi in frizione con la ratio delle scelte di politica criminale che il legislatore ha concretizzato appunto giusta varo del nuovo art.2634 c.c., che ha tipizzato una fattispecie “speciale” di infedeltà patrimoniale societaria conferendole una maggiore “determinatezza” rispetto a quella che è una ordinaria appropriazione indebita, onde per i fatti pregressi privi degli elementi specializzanti successivi sembra piuttosto affiorare una vera e proprio abolitio criminis (ancorché essi possano in qualche modo, de residuo, ancora rientrare nell’area precettiva dell’art.646 c.p.). 2004 Il 14 settembre viene varato il decreto legge n.241, recante disposizioni urgenti in materia di immigrazione, che – tra le altre cose – riscrive l’art.14, comma 5 ter, del decreto legislativo 286.98 (testo unico in materia di immigrazione), trasformando da contravvenzione in delitto la fattispecie criminosa (a forma permanente) compendiantesi nel mancato allontanamento dal territorio nazionale in spregio all’ordine del Questore, con conseguente aggravamento del trattamento sanzionatorio a tale fattispecie avvinto. Nello stesso momento in cui la contravvenzione diviene delitto e le pertinenti pene vengono aggravate, il legislatore prevede tuttavia, in più rispetto alla versione precedente, l’elemento soggettivo (esclusivo) del dolo (che poteva non necessitare nella pregressa fattispecie contravvenzionale, laddove era bastevole la colpa). * * * Il 12 novembre viene varata la legge n.271, che converte in legge con modificazioni il decreto legge n.241. 2006 Il 9 gennaio viene varato il decreto legislativo n.6, recante riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80, il cui art.147, espunge dall’ordinamento la figura dell’amministrazione controllata e, con essa, tutti i riferimenti all’amministrazione controllata ridetta, siccome contenuti nel R.D. 267.42. Da questo momento in poi dunque non è più configurabile, de futuro, il reato di bancarotta fraudolenta in contesto di amministrazione controllata, siccome previsto dall’art.236 del R.D. 267.42, mentre si apre il problema della disciplina applicabile ai fatti commessi prima di tale innovazione legislativa. * * * Il 01 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.3999 che si occupa dei rapporti tra vecchia (contravvenzione) e nuova (delitto) fattispecie di mancato allontanamento dello straniero dal territorio nazionale in spregio al pertinente ordine del Questore, affermando che tra tali fattispecie deve ravvisarsi un rapporto strutturale di continuità dell’illecito, con conseguente esclusione di una abolitio criminis, dacché si tratta di due norme che, sul crinale della fattispecie astratta, presentano la medesima struttura e sono poste a presidio (penale) del medesimo interesse; le differenzia solo il nuovo elemento soggettivo (esclusivo) del dolo ed il differente trattamento sanzionatorio (più grave nella nuova versione delittuosa). Più in particolare, per la Corte il fatto che si sia passati da una fattispecie contravvenzionale ad una omologa ma delittuosa, con conseguente riduzione della sfera di punibilità ai soli fatti caratterizzati da dolo (con esclusione dunque dei fatti meramente colposi) non è circostanza tale da far assumere mutata la struttura del reato, con conseguente non predicabilità di una abolitio criminis. * * * Il 24 febbraio viene varata la legge n.85, recante modifiche al codice penale in materia di reati di opinione, onde (art.14) all'articolo 2 del codice penale, dopo il secondo comma, viene inserito il seguente: «Se vi e' stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell'articolo 135». La norma, dal punto di vista codicistico e “topografico”, implica una “cesura” tra la fattispecie di cui all’art.2, comma 2, c.p., la c.d. abolitio criminis, e quella di cui all’originario comma 3 (modifica della norma penale), che diviene ormai comma 4. Se dunque in caso di abolitio sine abrogazione in genere resta – ai fini della applicabilità della c.d. lex mitior sopravvenuta ai fatti commessi prima della modifica normativa – la necessità che non sia intervenuta sentenza irrevocabile di condanna (ex comma 3, ormai comma 4 dell’art.2: ciò anche al fine di non pregiudicare il principio di certezza immanente ai c.d. rapporti esauriti, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale), quando tale fenomeno sia specifico dal punto di vista sanzionatorio, onde ad un fatto in precedenza punito con pena detentiva (o alternativa) si applica ora solo la pena pecuniaria (nuovo comma 3 dell’art.2 c.p., applicabile in particolare ai reati di opinione), quest’ultima si sostituisce alla pena detentiva a suo tempo irrogata – in forza del meccanismo di conversione scolpito all’art.135 c.p. - anche al cospetto di una pronuncia di condanna ormai irrevocabile. 2009 Il 12 giugno esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.24468 che si occupa del reato di bancarotta fraudolenta impropria commessa in una situazione di amministrazione controllata ex art.236, comma 2, n.1 del R.D. 267.42 (c.d. legge fallimentare). I fatti di bancarotta, nella versione originaria del provvedimento, sono previsti in via generale dall’art.223, venendo poi specificamente ancorati dall’art.236 ad alcune fattispecie peculiari di procedura concorsuale, tra le quali il concordato preventivo ed appunto l’amministrazione controllata. Con il decreto legislativo n.6 del 2006 tuttavia l’amministrazione controllata è stata espunta dal sistema, con la conseguenza onde occorre capire – con riguardo ai fatti di bancarotta impropria fraudolenta commessa in contesto di amministrazione controllata prima della ridetta riforma – se si sia al cospetto di una abolitio criminis (con possibilità di applicare l’art.673 c.p.p. in tema di revoca della sentenza di condanna eventualmente emessa) ovvero di una modifica normativa con continuità dell’illecito penale. Al fine di prevenire possibili contrasti ermeneutici, si esprimono appunto le SSUU che palesano di aderire al criterio strutturale della c.d. specialità e, ad un tempo, di assumere non percorribile la strada che passa per eventuali criteri basati sul valore e dunque “valutativi” e come tali rimessi al giudice penale. Per la Corte il giudice penale, per accertare l’abolitio criminis, deve procedere al confronto strutturale tra le fattispecie legali astratte che si succedono, senza la necessità di ricercare conferme della continuità penal-sanzionatoria facendo ricorso a criteri valutativi dei beni tutelati e delle pertinenti modalità di offesa, questi ultimi assunti dunque inidonei ad assicurare approdi interpretativi certi (e dunque non opinabili). Proprio facendo perno sul criterio strutturale, per la Corte nel caso di specie non può che predicarsi l’abolitio criminis, quale effetto della soppressione dell’istituto dell’amministrazione controllata, con abrogazione del correlato delitto di bancarotta, non avendo il legislatore del 2006 introdotto una nuova fattispecie incriminatrice (c.d. innesto normativo) capace di porsi in relazione di continenza con il reato abrogato. Per la Corte l’abrogazione della norma che prevedeva il reato di bancarotta societaria nell’amministrazione controllata e la mancata introduzione contestuale di una nuova disposizione collegata alla prima escludono qualunque rapporto tra norme in successione temporale e non consentono alcun confronto tra le stesse, essendo stata la detta fattispecie legale espunta dall’ordinamento. Sotto altro profilo, non si registra la riespansione sul crinale effettuale di altre norme incriminatrici presenti nel sistema, e tuttavia “limitate” nella relativa operatività proprio dal quel delitto di bancarotta impropria collegata all’amministrazione controllata dipoi abrogata; fattispecie di “riespansione effettuale” che non potrebbe predicarsi con riguardo alla c.d. bancarotta concordataria (maturata dunque non già in contesto di amministrazione controllata, ma di concordato preventivo), siccome prevista dal medesimo art.236 del R.D. 267.42 e rimasta operante non essendo stata anch’essa espunta dal sistema in occasione della riforma del 2006 che, sopprimendo l’amministrazione controllata, non ha contestualmente soppresso anche il concordato preventivo (la cui area di operatività, in termini di presupposti applicativi, ne è anzi uscita rafforzata). Da questo punto di vista, per le SSUU non può essere seguita l’impostazione ermeneutica fatta propria dal PG che, nella propria requisitoria, ha all’opposto sostenuto il nucleo sostanziale del reato di cui al previgente art.236 della legge fallimentare essere nella sostanza unitario prescindendo, come tale, dalla specifica procedura concorsuale di “contestualizzazione” della bancarotta fraudolenta, sicché la tipologia di procedura non potrebbe caratterizzare tale nucleo sostanziale, con la ulteriore conseguenza onde, avendo il nuovo concordato preventivo “allargato” inglobato anche le fattispecie in precedenza annesse all’amministrazione controllata, si verificherebbe una modifica normativa con continuità del tipo di illecito tale da non imporre – ex art.673 c.p.p. – la revoca del giudicato avente ad oggetto un reato di bancarotta fraudolenta impropria commessa in contesto di amministrazione controllata. Mentre dunque per il PG si è al cospetto di una fattispecie di “abrogatio sine abolizione”, e dunque di continuità dell’illecito penale in presenza di mera modifica normativa (ex art.2, comma 4, c.p.), per le SSUU si è invece dinanzi ad una vera e propria abolitio criminis, dacché vanno debitamente valorizzate le evidenti differenze strutturali e teleologiche che contraddistinguono, rispettivamente, la procedura di amministrazione controllata (ormai espunta dal sistema) e quella di concordato preventivo (rimasta operativa ed anzi ampliata quanto ad annessi presupposti applicativi), onde la bancarotta impropria connessa all’amministrazione controllata non può per la Corte essere omologata alla corrispondente figura della bancarotta “concordataria”, la pertinente norma incriminatrice (l’art.236 della legge fallimentare) prevedendo fattispecie plurime ed autonome tra loro, che fanno specifico richiamo alle due distinte procedure in parola, richiamo che non può essere virtualmente equiparato, come pure si legge nella requisitoria del PG, a quello - generico – a “procedure concorsuali prefallimentari”. 2010 Il 25 febbraio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.7587, che torna ad occuparsi dei rapporti tra l’art.646 c.p. in tema di appropriazione indebita e l’art.2634 c.c. sulla c.d. infedeltà patrimoniale societaria, come riformulato nel 2002. Secondo la Corte - che consolida una giurisprudenza sul punto - si è al cospetto di due fattispecie in relazione di specialità reciproca tra loro, considerazione che deve guidare l’interprete chiamato a verificare, in relazione ai fatti pregressi, se sia configurabile una continuità dell’illecito ovvero una abolitio criminis. La tipizzazione dell’infedeltà patrimoniale ex art.2634 c.c. ha infatti per il Collegio come necessario presupposto la relazione tra un preesistente conflitto di interessi del soggetto agente, attuale e rilevabile, e le finalità di ingiusto profitto od altro vantaggio dell’atto di disposizione posto in essere dal soggetto agente medesimo; l’appropriazione indebita ex art.646 c.p. può a propria volta atteggiarsi a speciale in rapporto alla natura del bene sul quale ricade il reato (denaro o cosa mobile) e che può dunque esclusivamente formarne l’oggetto, oltre che in rapporto al necessario perseguimento di un “profitto” con conseguente irrilevanza di un semplice “vantaggio”, che è invece sufficiente per realizzare la fattispecie di cui all’art.2634 c.c. Si tratta dunque di due fattispecie che – rammenta la Corte – presentano un’area comune riconducibile agli elementi costitutivi della deminutio patrimonii e dell’ingiusto profitto, mentre si caratterizzano reciprocamente (ad esempio) giusta necessaria presenza di un preesistente ed autonomo conflitto di interessi che peculiarizza l’infedeltà patrimoniale ex art.2634 c.c., palesandosi invece non richiesto con riguardo all’appropriazione indebita ex art.646 c.p. La nuova fattispecie incriminatrice di cui al codice civile, e dunque l’infedeltà patrimoniale siccome novellata, ha visto la luce nel più ampio contesto di una globale e complessiva riforma dei reati societari ed allo scopo, da un lato, di ancorare la sanzionabilità penale delle infedeltà al principio di offensività e così di superare la criminalizzazione si scorrettezze solo formali caratterizzate da un mero pericolo presunto e, dall’altro, di ricollocare nel loro ambito naturale figure di reato non destinate in origine a tutelare il patrimonio sociale da condotte abusive ed uso improprio dei beni da parte degli amministratori, così prevenendone possibili applicazioni non conformi al principio di legalità. Fatte queste premesse, osserva il Collegio come il fatto che il legislatore abbia rimodulato la materia degli illeciti societari non sia tuttavia in grado di esaurire la tutela penale nei confronti di aggressioni ai beni sociali da parte di soggetti societari peculiarmente qualificati, rimanendo allora fermo il rilievo penale di tutte quelle condotte che, pur non rientrando nella previsione della normativa speciale (e dunque dell’art.2634 c.c.) risultano comunque punibili secondo il diritto penale comune (art.646 c.p.). Il presupposto della condotta infedele che costituisce illecito penale ex art.2634 c.c. novellato è, per espressa presa di posizione del legislatore, il conflitto di interessi tra amministratori, direttori generali o liquidatori da un lato e società dall’altro, e dunque le ipotesi di eccesso di potere per sviamento; laddove preesista tale conflitto di interessi, viene punito l’atto gestorio – non importa su quali beni concretamente ricada: beni mobili o immobili, diritti reali o diritti di credito – che direttamente (per sé) o indirettamente (per altri) persegua l’interesse confligente di chi agisce e conculca quello della società gestita; il ridetto conflitto di interessi si configura allora quale elemento specializzante della nuova fattispecie incriminatrice di cui all’art.2634 c.c., nel relativo nesso con le finalità sottese all’atto gestorio e perseguite dal soggetto agente. Quando si discorre invece di appropriazione indebita, la natura del bene sul quale tale figura criminosa può ricadere è solo il denaro o la cosa mobile, mentre non è richiesta la presenza di un preesistente ed autonomo conflitto di interessi capace di indirizzare – in termini appunto di sviamento di potere – la deviazione dell’atto gestorio di disposizione dal fine istituzionale ad esso assegnato dal sistema: qui il soggetto agente realizza atti di aggressione del patrimonio societario appropriandosi – dacché ne ha la disponibilità in ragione della propria carica - del denaro o della cosa mobile della società che gestisce, a fini di arricchimento personale. 2011 Il 23 giugno viene varato il decreto legge n.89, recante disposizioni urgenti per il completamento dell'attuazione della direttiva 2004/38/CE sulla libera circolazione dei cittadini comunitari e per il recepimento della direttiva 2008/115/CE sul rimpatrio dei cittadini di Paesi terzi irregolari. Il provvedimento torna ad emendare l’art.14, comma 5 ter, del decreto legislativo 286.98 (testo unico sull’immigrazione). Mentre nel vecchio testo viene punito con la reclusione da 1 a 4 anni lo straniero che, senza giustificato motivo, permanga illegalmente nel territorio dello Stato in violazione dell’ordine impartito dal Questore, laddove l’espulsione o il respingimento siano stati disposti per ingresso illegale nel territorio dello Stato, ovvero per non aver richiesto il permesso di soggiorno o non aver dichiarato la propria presenza sul territorio nazionale, ovvero ancora per essere stato il pertinente permesso di soggiorno revocato o annullato; il nuovo testo punisce invece – salvo che sussista un giustificato motivo – con la multa da Euro 10 mila ad Euro 20 mila, l’inottemperanza all’ordine del Questore in caso di respingimento od espulsione disposta in via amministrativa dal Questore medesimo o qualora lo straniero, ammesso ai programmi di rimpatrio volontario o assistito, vi si sia sottratto. Si tratta di una nuova disciplina che intende adeguare la normativa interna a quella sovranazionale e che introduce in via generalizzata taluni meccanismi intesi ad agevolare la partenza volontaria dello straniero coinvolto, con sostituzione della precedente pena della reclusione con la nuova pena (pecuniaria) della multa. * * * Il 2 agosto viene varata la legge n.129 che converte con modificazioni il decreto legge n.89. * * * Il 10 ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.36446 che i occupa della nuova fattispecie di cui all’art.14, comma 5 ter del decreto legislativo 286.98 in tema di immigrazione, siccome riscritta dal decreto legge n.89. Per la Corte – che aderisce alla tesi già palesata in sede di merito dal Tribunale di Torino - la nuova fattispecie incriminatrice non si pone in continuità normativa con la precedente che ha sostituito, configurando piuttosto una fattispecie incriminatrice nuova che, come tale, può applicarsi solo de futuro, e dunque solo ai fatti posti in essere dopo l’entrata in vigore della novella. Si è infatti al cospetto di una diversità strutturale dei rispettivi presupposti di incriminazione, oltre che di una riscrittura della tipologia di condotta richiesta per far luogo alla responsabilità penale dello straniero, onde si tratta di autentica abolitio criminis; solo infatti a valle dell’infruttuoso esito dei nuovi meccanismi agevolatori della partenza volontaria, ed al decorso di tutto il periodo di trattenimento dello straniero presso uno dei centri a ciò deputati, è possibile intimare l’allontanamento allo straniero medesimo, dalla cui violazione discende l’incriminazione. Si tratta di un approdo fatto proprio anche dalla dottrina maggioritaria, che ha isolato 3 specifici segmenti temporali capaci di scandire in modo caratterizzante l’incriminazione de qua: un primo periodo è quello che precede il termine di recepimento della c.d. “Direttiva rimpatri” (del 2008) e, dunque, il 24 dicembre 2010, torno temporale durante il quale le pertinenti condotte sono state punite con pena detentiva; un secondo periodo, successivo, che va dal 25 dicembre 2010 e l’entrata in vigore del decreto legge 89.11, durante il quale le condotte dello straniero devono assumersi essere state irrilevanti per contrasto della pertinente incriminazione con le disposizioni della menzionata “Direttiva rimpatri” (del 2008) divenute ormai direttamente applicabili nell’ordinamento interno e capaci dunque di far disapplicare, pro reo, le norme penali interne contrastanti; il periodo successivo all’entrata in vigore del decreto legge 89.11 (che recepisce la richiamata “Direttiva rimpatri” del 2008) in cui è ormai operativa la nuova fattispecie incriminatrice, punita con sola pena pecuniaria (e non più con la reclusione). Secondo questa tesi dottrinale, che la Corte sembra abbracciare con la sentenza in parola, poiché l’ordinamento italiano ha accolto il principio della retroattività “in mitius” della “lex intermedia” - e, dunque, della disposizione “ricavabile” dal contrasto tra la disciplina interna e quella comunitaria, che configura una “parentesi di liceità” della pertinente condotta di inottemperanza dello straniero – tutti i fatti commessi antecedentemente alla nuova incriminazione (punita con sola pena pecuniaria) siccome forgiata dal decreto legge 89.11 devono assumersi penalmente irrilevanti per intervenuta abolitio criminis. 2012 Il 6 novembre viene varata la legge n.190 in tema di c.d. “anticorruzione” che, tra le altre cose, riformula – novellandole – talune fattispecie incriminatrici contro la PA, con particolare riguardo alla concussione, sollevando dubbi in tema di successione normativa penalmente rilevante. Più nello specifico, la nuova concussione ex art.317 c.p., perpetrabile dal solo pubblico ufficiale, si configura solo per costrizione (e non più anche per induzione, secondo la fattispecie c.d. “mista alternativa” previgente), con limite edittale minimo di pena detentiva elevato da 4 a 6 anni di reclusione; contestualmente, viene innestato nel sistema il nuovo art.319 quater c.p. che incrimina ex novo la induzione indebita a dare o promettere utilità, collocantesi in un’area di mezzo tra la concussione per costrizione (caratterizzata da sopraffazione del soggetto pubblico agente) e la corruzione di cui agli articoli 318 e 319 c.p., che trova applicazione “salvo che il fatto non costituisca un più grave reato” e che è perpetrabile sia dal pubblico ufficiale che dall’incaricato di pubblico servizio i quali, abusando della loro qualità o dei loro poteri, inducano taluno a dare o promettere indebitamente, a sé o a terzi, denaro o altra utilità, con pena della reclusione da 3 ad 8 anni; in tema di induzione indebita, importante rammentare come sia punito ex art.319 quater, comma 2, c.p., anche il destinatario “indotto” della pretesa avanzata dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio, e dunque il privato che dà o promette denaro od altra utilità che, da persona offesa di cui alla previgente normativa in tema di concussione per induzione, diviene ora piuttosto un concorrente necessario della nuova figura criminosa, per l’appunto, di induzione indebita. 2013 Il 15 febbraio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.7495 che si occupa dei rapporti tra vecchia concussione per induzione ex art.317 c.p. e nuova induzione indebita di cui all’art.319 quater c.p. Per la Corte deve assumersi configurabile una continuità del tipo di illecito, con conseguente applicazione dell’art.2, comma 4, c.p. tra la previa fattispecie di concussione per induzione ed appunto la nuova figura criminosa della induzione indebita a dare o promettere utilità; poiché la nuova disposizione è peraltro più favorevole della precedente, stante l’abbassamento dei pertinenti limiti edittali, essa si applica retroattivamente anche alle fattispecie di concussione per induzione commesse precedentemente all’entrata in vigore del nuovo art.319 quater c.p. Da un punto di vista strutturale, se si prescinde dall’inciso iniziale, per la Corte il legislatore del 2012 non ha fatto altro che riproporre nel nuovo art.319 quater c.p. una descrizione degli elementi costitutivi della nuova “induzione indebita” sostanzialmente corrispondente a quella tracciante gli elementi costitutivi della concussione per induzione di cui al vecchio art.317 c.p.; anche muovendosi sul crinale dei giudizi di valore (rectius, di disvalore della pertinente fattispecie incriminatrice) il legislatore non ha fatto altro che continuare a punire (seppure con mitigazione del pertinente trattamento sanzionatorio) fatti criminosi identici, compendiantisi in una induzione illecita promossa dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio, così delineandosi una identità strutturale tra vecchia e nuova fattispecie, salva la rilevante novità costituita dalla punibilità ormai anche del privato “indotto”, non ravvisabile nella fattispecie ormai soppiantata dalla nuova. Tale ultima novità, pur rilevante, non è tuttavia per la Corte tale da incidere sulla struttura del reato e non è dunque capace di supportare una abolitio criminis della precedente fattispecie: il fatto che il legislatore del 2012 abbia deciso di punire anche il soggetto privato “indotto” e di ridurre il trattamento sanzionatorio del soggetto attivo pubblico che “induce” (rispetto a quello che “costringe”) non implica infatti, per il Collegio, una diverso contorno per le modalità della condotta punibile, che sono rimaste le medesime nel passaggio dalla vecchia alla nuova disciplina, non avendo in specie l’induzione indebita subito veruna modifica strutturale, ed atteggiandosi essa, ora come allora, a fattispecie caratterizzata da “tipizzazione plurisoggettiva”, richiedendo ora come allora il “concorso” del privato indotto (quest’ultimo ora punito, mentre in passato non lo era), quale figura di reato naturalisticamente plurisoggettivo. In sostanza, l’area precettiva penalmente rilevante prima occupata dal solo art.317 c.p. appare oggi rientrare sotto l’egida di due norme distinte, ovvero gli articoli 317 c.p. (nella nuova formulazione: concussione per costrizione) e 319 quater c.p. (induzione indebita); né varrebbe operare dei distinguo (come pure da taluno è stato fatto) tra la induzione di cui al vecchio art.317 c.p. (caratterizzante la concussione, appunto, “per induzione”) e la induzione “indebita” di cui al nuovo art.319 quater c.p.; ai fini della tipologia di successione normativa penalmente rilevante infatti, si è al cospetto di 2 fattispecie nuove che – pur “sdoppiate” – si palesano strutturalmente sovrapponibili all’unica vecchia (la concussione mista e alternativa), circostanza che fa assumere predicabile proprio il criterio strutturale di specialità tra fattispecie con conseguente esclusione di una abolitio criminis ex art.2, comma 2, c.p., non ravvisandosi verun nesso di incompatibilità o comunque di eterogeneità tra le norme in successione tra loro. Le conclusioni non cambiano se si fa riferimento alla peculiare fattispecie della c.d. concussione ambientale, laddove l’agente pubblico prospetti al privato un male contra legem giusta modalità blande (e dunque non eccessivamente invasive) di pressione psicologica: una figura che, se in passato poteva essere ricondotta alla concussione per induzione, non potrebbe oggi – a seguito della novella – che essere ricondotta alla fattispecie della concussione per costrizione, e dunque al nuovo art.317 c.p., stante la natura ingiusta del male per l’appunto prospettato dal soggetto agente pubblico, senza che questa considerazione possa far scattare l’ipotesi dell’abolitio criminis in luogo di quella, più pertinente, della continuità del tipo di illecito ex art.2, comma 4, c.p., e ciò in quanto la medesima condotta se prima del 2012 veniva ricondotta alla concussione “mista alternativa” (sub specie di concussione per induzione), dopo la novella del 2012 va invece ricondotta all’ipotesi di concussione per costrizione (sia pure “ambientale”). * * * *Il 12 marzo esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.11792 e la gemella 11794 che si occupano dei rapporti tra vecchia concussione per induzione ex art.317 c.p. e nuova induzione indebita di cui all’art.319 quater c.p. Per la Corte deve assumersi configurabile una continuità del tipo di illecito, con conseguente applicazione dell’art.2, comma 4, c.p. tra la previa fattispecie di concussione per induzione ed appunto la nuova figura criminosa della induzione indebita a dare o promettere utilità; poiché la nuova disposizione è peraltro più favorevole della precedente, stante l’abbassamento dei pertinenti limiti edittali, essa si applica retroattivamente anche alle fattispecie di concussione per induzione commesse precedentemente all’entrata in vigore del nuovo art.319 quater c.p. Da un punto di vista strutturale, se si prescinde dall’inciso iniziale, per la Corte il legislatore del 2012 non ha fatto altro che riproporre nel nuovo art.319 quater c.p. una descrizione degli elementi costitutivi della nuova “induzione indebita” sostanzialmente corrispondente a quella tracciante gli elementi costitutivi della concussione per induzione di cui al vecchio art.317 c.p.; anche muovendosi sul crinale dei giudizi di valore (rectius, di disvalore della pertinente fattispecie incriminatrice) il legislatore non ha fatto altro che continuare a punire (seppure con mitigazione del pertinente trattamento sanzionatorio) fatti criminosi identici, compendiantisi in una induzione illecita promossa dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio, così delineandosi una identità strutturale tra vecchia e nuova fattispecie, salva la rilevante novità costituita dalla punibilità ormai anche del privato “indotto”, non ravvisabile nella fattispecie ormai soppiantata dalla nuova. Tale ultima novità, pur rilevante, non è tuttavia per la Corte tale da incidere sulla struttura del reato e non è dunque capace di supportare una abolitio criminis della precedente fattispecie: il fatto che il legislatore del 2012 abbia deciso di punire anche il soggetto privato “indotto” e di ridurre il trattamento sanzionatorio del soggetto attivo pubblico che “induce” (rispetto a quello che “costringe”) non implica infatti, per il Collegio, una diverso contorno per le modalità della condotta punibile, che sono rimaste le medesime nel passaggio dalla vecchia alla nuova disciplina, non avendo in specie l’induzione indebita subito veruna modifica strutturale, ed atteggiandosi essa, ora come allora, a fattispecie caratterizzata da “tipizzazione plurisoggettiva”, richiedendo ora come allora il “concorso” del privato indotto (quest’ultimo ora punito, mentre in passato non lo era), quale figura di reato naturalisticamente plurisoggettivo. In sostanza, l’area precettiva penalmente rilevante prima occupata dal solo art.317 c.p. appare oggi rientrare sotto l’egida di due norme distinte, ovvero gli articoli 317 c.p. (nella nuova formulazione: concussione per costrizione) e 319 quater c.p. (induzione indebita); né varrebbe operare dei distinguo (come pure da taluno è stato fatto) tra la induzione di cui al vecchio art.317 c.p. (caratterizzante la concussione, appunto, “per induzione”) e la induzione “indebita” di cui al nuovo art.319 quater c.p.; ai fini della tipologia di successione normativa penalmente rilevante infatti, si è al cospetto di 2 fattispecie nuove che – pur “sdoppiate” – si palesano strutturalmente sovrapponibili all’unica vecchia (la concussione mista e alternativa), circostanza che fa assumere predicabile proprio il criterio strutturale di specialità tra fattispecie con conseguente esclusione di una abolitio criminis ex art.2, comma 2, c.p., non ravvisandosi verun nesso di incompatibilità o comunque di eterogeneità tra le norme in successione tra loro. Le conclusioni non cambiano se si fa riferimento alla peculiare fattispecie della c.d. concussione ambientale, laddove l’agente pubblico prospetti al privato un male contra legem giusta modalità blande (e dunque non eccessivamente invasive) di pressione psicologica: una figura che, se in passato poteva essere ricondotta alla concussione per induzione, non potrebbe oggi – a seguito della novella – che essere ricondotta alla fattispecie della concussione per costrizione, e dunque al nuovo art.317 c.p., stante la natura ingiusta del male per l’appunto prospettato dal soggetto agente pubblico, senza che questa considerazione possa far scattare l’ipotesi dell’abolitio criminis in luogo di quella, più pertinente, della continuità del tipo di illecito ex art.2, comma 4, c.p., e ciò in quanto la medesima condotta se prima del 2012 veniva ricondotta alla concussione “mista alternativa” (sub specie di concussione per induzione), dopo la novella del 2012 va invece ricondotta all’ipotesi di concussione per costrizione (sia pure “ambientale”). 2014 Il 14 marzo esce la sentenza delle SSUU n.12228, Maldera ed altri, che traccia i confini tra la nuova concussione (solo per costrizione) e la – del pari nuova – induzione indebita: la linea di discrimine tra le due fattispecie ruota per la Corte intorno al fatto che, nell’induzione indebita prevista dall’art. 319-quater c.p., si assiste ad una condotta di pressione non irresistibile da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio che lascia al destinatario della stessa un margine significativo di autodeterminazione e si coniuga con il perseguimento di un indebito vantaggio del privato medesimo (che, come tale, è punibile assieme all’agente pubblico); al contrario, nel reato, più grave, della concussione per costrizione si è in presenza di una condotta del pubblico ufficiale che limita radicalmente la libertà di autodeterminazione del privato destinatario (che, come tale, non è in questo caso punibile). Per quanto qui maggiormente di interesse, la Corte riafferma essersi al cospetto – nel raffronto tra disciplina ante e post 2012 – di una successione di norme penali (abrogatio sine abolitione), e non già di una abolitio criminis ex art.2, comma 2, c.p., onde le precedenti sentenze passate in giudicato non possono assumersi travolte in alcun modo. In sostanza, i medesimi fatti continuano ad essere previsti dalla legge come reato, con conseguente mera successione di leggi penali modificative del pertinente regime sanzionatorio, dovendo tuttavia essere a tali fatti applicata la disciplina più favorevole al reo, ai sensi e per gli effetti di cui all’art.2, comma 4, c.p.; in caso di poi concussione per costrizione perpetrata dall’incaricato di pubblico servizio, è ben vero che la nuova disciplina prevede la sola punibilità del pubblico ufficiale, e tuttavia i fatti commessi precedentemente ricadono ormai – alternativamente – nelle fattispecie di estorsione, di violenza privata o di violenza sessuale, tutte aggravate ai sensi dell’art.61, n.9, c.p.; in caso di concussione per induzione perpetrata tanto dal pubblico ufficiale quanto dall’incaricato di pubblico servizio, i relativi fatti pregressi ricadono oggi nell’induzione indebita ai sensi del nuovo art.319 quater c.p., senza che la novità compendiantesi nel fatto che viene ormai punito anche il privato “indotto” sia capace di immutare la struttura del c.d. abuso induttivo riconducibile ai mentovati agenti pubblici. Per la Corte, quello che conta al fine di stabilire se si è al cospetto di una abolitio criminis ex art.2, comma 2, c.p., ovvero di una abrogatio sine abolitione di cui all’art.2, comma 4, c.p. è ancora una volta il nesso strutturale di continenza tra le norme penali in successione tra loro, giusta confronto tra le rispettive fattispecie astratte; muovendo da tale presupposto sistematico, per le SSUU vi è totale continuità normativa tra presente e passato con riguardo alla posizione del soggetto pubblico qualificato, chiamato a rispondere di fatti già riconducibili, in relazione all’epoca di commissione degli stessi, nel paradigma del previgente art.317 c.p. Un discorso diverso va invece, ovviamente, fatto per il soggetto privato “indotto” che sarà punibile ex art.319 quater c.p. solo laddove abbia commesso il fatto penalmente rilevante dopo l’entrata in vigore della riforma del 2012, dovendosi fare applicazione dell’art.2, comma 1, c.p. e dovendosi dunque scongiurare una applicazione retroattiva della novella (contra reum) a fatti pregressi. Per quanto concerne in specie la concussione per costrizione ex art.317 c.p. nuova formulazione, non si assiste per la Corte ad alcuna novità di rilievo, i fatti pregressi di abuso costrittivo commessi dal pubblico ufficiale continuando ad essere puniti secondo il trattamento sanzionatorio più favorevole al reo (quello previgente), mentre quelli commessi dall’incaricato di pubblico servizio, non più riconducibili sotto l’egida precettiva del nuovo art.317 c.p., dovendosi assumere ancora punibili sulla scorta di altre disposizioni incriminatrici, e segnatamente l’art.629 c.p. al cospetto di una deminutio patrimonii della vittima (estorsione aggravata ex art.61, comma 1, n.9, c.p.), l’art.609 bis c.p. al cospetto di prestazioni sessuali pretese dalla vittima (violenza sessuale aggravata ex art.61, comma 1, n.9, c.p.), ovvero ancora, genericamente, l’art.610 c.p. (violenza privata aggravata ex art.61, comma 1, n.9, c.p.). Una continuità normativa (e non dunque una abolitio criminis) appare infine per la Corte predicabile anche per quanto concerne la concussione per induzione, essendo i medesimi fatti – se commessi da pubblico ufficiale o da incaricato di pubblico servizio - in precedenza puniti ex art.317 c.p. e, dopo la riforma del 2012, rimanendo puniti a titolo di nuova induzione indebita ai sensi dell’art.319 quater c.p. (il privato risulta invece punito solo per i fatti commessi dopo l’entrata in vigore della ridetta Legge Severino n.190.12). * * * Il 17 aprile viene varata la legge n.62, che ridisegna la fattispecie di cui all’art.416.ter c.p., siccome originariamente introdotta nel 1992. Secondo la nuova formulazione della norma, chiunque accetta la promessa da parte di terzi di procurargli voti mediante le modalità di cui al comma 3 dell’art.416.bis (e, dunque, esplicitamente con metodo mafioso) in cambio dell’erogazione o della promessa di erogazione da parte sua di denaro o di altra utilità viene penalmente sanzionato, con pena che viene applicata anche a chi promette di procurare voti secondo appunto le modalità di cui all’art.416. bis, comma 3, c.p. (metodo mafioso). Oltre alla maggior proporzione e ragionevolezza della pena applicata (conseguente ad un meno grave disvalore delle condotte incriminate: si passa da una cornice edittale che va da 7 a 12 anni ad un’altra che va da 4 a 10), la nuova formulazione della norma amplia notevolmente l’area della responsabilità penale rispetto alla condotta originaria, facendo poi un esplicito riferimento alla utilizzazione del c.d. metodo mafioso. In sostanza, si assiste ora ad una fattispecie di “voto di scambio” che è ormai una fattispecie c.d. plurisoggettiva propria, essendo punito tanto chi promette di procurare voti avvalendosi del metodo mafioso quanto chi accetta la ridetta promessa di voti; il politico eligendo, in cambio dei voti promessi, non promette o eroga direttamente soltanto denaro, essendo punita anche la promessa o la diretta erogazione, connessa alla promessa di voti, di altre utilità, rilevando per l’appunto (rispetto al passato), anche la sola promessa di denaro o altra utilità, senza che occorra da subito la dazione (peraltro, in passato, del solo denaro). Ormai anche quando il patto politico-mafioso abbia ad oggetto “altre utilità” si rientra nell’art.416.ter, senza dover invocare il combinato disposto degli articoli 110 e 416.bis c.p.; l’art.416.ter c.p. resta nondimeno (anche quando lo scambio con i voti promessi abbia ad oggetto utilità diverse rispetto al denaro, magari anche solo promesse) un reato di mera condotta, che si consuma per effetto della sola stipulazione senza che per il giudice sia necessario accertare gli effetti di eventuale conservazione o rafforzamento strutturale del clan mafioso che promette i voti. Come osserva la dottrina all’indomani del varo della nuova formulazione dell’art.416.ter, il nuovo “scambio elettorale politico mafioso” si colloca in un rapporto di sussidiarietà implicita rispetto al concorso esterno, poiché in entrambi i casi (416.ter da un lato e 110 + 416.bis dall’altro) si assiste ad una medesima aggressione del bene giuridico protetto dal sistema (in termini di tutela dell’ordine pubblico), ma la fattispecie di cui al nuovo art.416.ter palesa una intensità lesiva ed una consistenza in termini di disvalore complessivamente minori. Più nel dettaglio, il concorso esterno in associazione mafiosa resta un reato di evento, onde per la relativa configurazione occorre la prova del rafforzamento del sodalizio criminoso in termini di efficienza causale della condotta di chi lo pone in essere, mentre per la realizzazione della fattispecie di cui all’art.416.ter (patto elettorale politico mafioso), che resta reato di mera condotta, basta la mera stipula dell’accordo, senza che occorra acclarare alcun nesso di causalità in termini di conservazione o rafforzamento strutturale associativo; assistendosi dunque, in questo prisma ermeneutico dottrinale, ad una progressione di offensività avente ad oggetto il medesimo interesse penalmente tutelato, onde laddove lo scambio elettorale politico mafioso abbia prodotto anche, giusta nesso di causalità debitamente accertato, un rafforzamento della compagine criminale, il mero patto politico mafioso (che sarebbe già come tale autonomamente punibile ex art.416.ter c.p.) degrada a mero antefatto non punibile, con operatività del solo combinato disposto degli articoli 110 e 416.bis, e con esclusa applicabilità dell’art.416.ter c.p. (come dimostra anche la meno grave cornice edittale di cui a quest’ultima norma rispetto appunto al c.d. concorso esterno). * * * Il 28 agosto esce la sentenza della Sezione VI della Cassazione n.36382, Antinori, che si occupa della nuova formulazione dell’art.416.ter, laddove prevede la necessità che lo scambio tra politica e mafia sia necessariamente caratterizzato dall’utilizzo del c.d. metodo mafioso (art.416.bis, comma 3, c.p.). Secondo la Corte la novella ha inciso sul contenuto della promessa formulata dal clan mafioso e, per esso, dal relativo esponente che ha concluso l’accordo con il politico, laddove ormai lo scambio ha ad oggetto modalità di procacciamento dei voti in funzione dell’esigenza che il politico eligendo possa contare sul concreto dispiegamento del potere di intimidazione proprio del sodalizio mafioso, con quest’ultimo che nel patto si impegna a farvi ricorso, ove necessario, per il raggiungimento delle finalità elettorali divisate; onde per il Collegio non è più bastevole la semplice firma del patto tra politico e clan, occorrendo piuttosto l’espresso impegno da parte dell’associazione mafiosa procacciatrice di voti a procurarli secondo modalità mafiose, con conseguente necessità quanto meno di esplicitazione delle modalità mafiose che verranno usate in occasione della condizionanda consultazione elettorale. Occorre dunque sul versante soggettivo la piena rappresentazione e volizione da parte dell’imputato di aver concluso uno scambio politico-mafioso a fini elettorali implicante l’impiego da parte del clan mafioso della propria forza di intimidazione e di conseguente costrizione della volontà degli elettori. Poiché si assiste ad una successione di leggi penali, il corollario che la Corte trae dalle proprie precedenti affermazioni è che vanno assunte penalmente irrilevanti tutte le condotte antecedenti alla nuova formulazione della norma che si siano compendiate nella mera stipula del patto politico-mafioso, senza dunque l’espresso riferimento a modalità prevaricatorie o di intimidazione da porsi in campo, a fini elettorali, dall’esponente dell’associazione mafiosa “stipulante”. Si è infatti al cospetto per il Collegio di una relazione di “specialità per specificazione”: già nella originaria versione dell’art.416.ter c.p. doveva assumersi non far difetto il necessario riferimento al metodo mafioso, e tuttavia la nuova versione della norma ha esplicitato, “normativizzandolo”, l’orientamento interpretativo precedente alla cui stregua già ai sensi della originaria versione della norma era necessario che la promessa riconducibile al clan di procacciare voti riguardasse anche il “come”, ovvero l’utilizzo di modalità ed il perseguimento di obiettivi propri dell’associazione mafiosa. La conclusione è quella della irrilevanza penale di patti precedenti che non rechino alcun riferimento al c.d. metodo mafioso, anche laddove a concluderlo sia stato un esponente del clan in grado di impegnare l’associazione mafiosa con la propria promessa. 2015 Il 27 maggio viene varata la legge n.69, che – in tema di reati societari – detta una riforma del c.d. falso in bilancio. Tale riforma introduce 2 autonomi titoli di reato giusta riformulazione degli articoli 2621 e 2622 c.c., entrambi in veste di delitti propri di pericolo (in relazione ai quali non occorre dunque la causazione di un danno ai soci o ai creditori sociali); viene più in specie differenziato il trattamento sanzionatorio penale a seconda che la società che “subisce” il falso in bilancio sia quotata in borsa ovvero non quotata. Ancora, la riforma elimina le soglie di c.d. tollerabilità penale e, con riguardo alle società quotate, elimina la necessità della querela per quanto concerne la procedibilità del pertinente reato. Dal punto di vista della condotta materiale integrante illecito penale, si assiste alla relativa rimodulazione onde, con riguardo ad una delle comunicazioni sociali tipizzate, deve configurarsi o l’esposizione di “fatti materiali non rispondenti al vero” o l’omissione di “fatti materiali la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene”; per quanto concerne le società non quotate (art.2621 c.c.) i fatti materiali non rispondenti al vero o comunque occultati devono essere connotati da “rilevanza”. Sul crinale soggettivo poi le nuove fattispecie di false comunicazioni sociali si atteggiano a delitti a dolo specifico, pur venendo soppressa – rispetto alla disciplina previgente – la necessaria “intenzione di ingannare i soci o i creditori”. Di rilievo inoltre la mancanza, nelle nuove fattispecie criminose, del riferimento alle “valutazioni” di bilancio come possibile oggetto di falsità, in precedenza invece rintracciabile nel testo degli articoli 2621 e 2622 c.c.; per quanto riguarda le false comunicazioni sociali a foggia omissiva, non si parla più di “informazioni” ma di “fatti materiali” omessi. * * * Il 30 luglio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.33774 che si occupa delle nuove fattispecie di c.d. falso in bilancio rispetto alle precedenti fattispecie di cui agli articoli 2621 e 2622 c.c., con particolare riguardo al c.d. falso valutativo. Per la Corte, la soppressione della parola “valutazioni” dal testo delle due norme deve far assumere ormai penalmente irrilevanti le falsità aventi ad oggetto, per l’appunto, le valutazioni di bilancio, con conseguente sopravvenuta non punibilità dei c.d. falsi valutativi, stante il noto brocardo “ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit”. * * * Il 24 settembre esce il decreto legislativo n.158 recante revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell'articolo 8, comma 1, della legge 11 marzo 2014, n. 23. Il provvedimento, tra le altre cose, interviene sul decreto legislativo n.74.00 in materia di reati tributari operando più in specie una elevazione delle soglie di punibilità di talune fattispecie criminose quali ad esempio quelle omissive di cui agli art.10 bis e 10 ter del ridetto decreto legislativo 74.00 (omesso versamento di ritenute certificate ed omesso versamento di Iva). Proprio il fatto che le soglie di punibilità per tali fattispecie delittuose sono state elevate implica che fatti in precedenza punibili, per il relativo atteggiarsi a “sotto-soglia” rispetto alla nuova disciplina, hanno perso la loro rilevanza penale, con abolitio criminis parziale ai sensi dell’art.2, comma 2, c.p.; i relativi procedimenti in corso si concludono dunque con declaratoria immediata di non punibilità pre-dibattimento ex art.129 c.p.p. ovvero, laddove il dibattimento sia stato già aperto, con assoluzione ex art.530, comma 1, c.p.p.; laddove invece sia già intervenuta una pronuncia passata in giudicato, ne scatta la revoca ex art.2, comma 2, c.p. e 673 c.p.p. * * * Il 16 ottobre esce la sentenza della VI Sezione della Cassazione n.41801 che torna ad occuparsi del c.d. metodo mafioso, siccome previsto nella nuova formulazione dell’art.416.ter c.p. in termini di scambio elettorale politico-mafioso; secondo la Corte si è al cospetto di un reato comune, sia dal lato del candidato che vuole garantirsi l’elezione (che può stipulare l’accordo in proprio, ovvero avvalersi di un collaboratore o di un terzo che ne curi gli interessi politici), sia sul versante del clan mafioso che deve garantire i voti necessari, che potrebbe essere rappresentato in sede di pactum sceleris tanto da chi, “autorevole” esponente, è in grado di impegnare il clan con la pertinente promessa, fattispecie nella quale il metodo mafioso deve assumersi (ritraibile per) implicito, senza necessità di esplicita affermazione che ci si avvarrà del ridetto metodo, onde in questa fattispecie restano penalmente rilevanti anche le condotte anteriori alla novella (quando cioè l’esplicitazione dell’utilizzo del metodo mafioso non era ancora prevista in fattispecie incriminatrice); quanto il socio mafioso che agisca come singolo, ovvero il soggetto del tutto estraneo al sodalizio criminale, casi questi in cui è invece necessario l’esplicito riferimento all’utilizzo del metodo mafioso, con conseguente irrilevanza penale delle condotte anteriori alla novella medesima che non abbiano fatto alcun riferimento al ridetto metodo intimidatorio. 2016 Il 12 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.890 alla cui stregua, andando in contrario avviso rispetto al precedente del luglio 2015, anche a valle della riforma del “falso in bilancio” ex legge 69.15 devono assumersi tuttora penalmente rilevanti i c.d. falsi valutativi. Il fatto che la ridetta legge abbia espunto dal testo delle norme incriminatrici l’inciso “ancorché oggetto di valutazioni”, con conseguente esclusivo riferimento – quale oggetto di falsa rappresentazione – ai c.d. “fatti materiali” non ha comunque reso penalmente irrilevanti gli enunciati di bilancio di natura valutativa che, tutto all’opposto, ben possono per la Corte essere assunti falsi quando siano in frizione con criteri valutativi normativamente cristallizzati, ovvero comunque tecnicamente indiscussi. Per il Collegio, il soppresso inciso “ancorché oggetto di valutazioni” va ritenuto come proposizione di natura tipicamente concessiva, con funzione esplicativa e chiarificatrice del nucleo sostanziale della proposizione principale, onde alcun effetto di abolitio può essere annesso alla pertinente espunzione dal testo normativo. * * * Il 25 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.3098 che si occupa della formula assolutoria da utilizzare nel caso in cui si tratti di dichiarare la irresponsabilità penale di chi abbia commesso reati tributari omissivi “sotto-soglia” così realizzando fattispecie ormai oggetto di abolitio criminis dopo l’intervento del decreto legislativo 158.15. Per la Corte, pur trattandosi di abolitio criminis, non può utilizzarsi la tradizionale formula onde il fatto “non è previsto dalla legge come reato”, essendo piuttosto pertinente la formula più ampia onde il fatto “non sussiste” (come tale spendibile anche in sede diversa da quella penale) e ciò in quanto difetta uno degli elementi oggettivi costitutivi del pertinente reato, compendiantesi nel superamento appunto della soglia di punibilità. Per la Corte, in sostanza, quando uno degli elementi costitutivi del reato avente natura oggettiva viene meno si è al cospetto di un fatto che “non sussiste”, ed è il caso di specie, mentre potrebbe affermarsi che il fatto “non è previsto dalla legge come reato” allorché la fattispecie astratta non si sia mai configurata, ovvero sia stata abrogata, ovvero sia stata dichiarata costituzionalmente illegittima. Si tratta di una presa di posizione criticata da parte della dottrina che denuncia come, a così voler ragionare - pur al cospetto di una chiara identità di ratio, oltre che del palmare dato testuale di cui all’art.673 c.p.p., che non sembra fare distinzioni ai fini della revoca della pertinente sentenza – si finirebbe con l’artatamente (ed illogicamente) distinguere gli effetti (meno ampi) di una abolitio criminis totale, onde “il fatto non è previsto dalla legge come reato”, da quelli (più ampi) di una abolitio criminis parziale, onde “il fatto non sussiste”. Per questa opzione ermeneutica l’opzione preferibile anche nel caso di abolitio criminis parziale per sopravvenuto innalzamento delle soglie di punibilità è quella di utilizzare la formula “il fatto non è previsto dalla legge come reato”. * * * Il 27 maggio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.22474 che si occupa del contrasto insorto tra le sezioni semplici della Corte in ordine al c.d. falso valutativo, essendosene predicata la abolitio criminis da un lato, e la modifica con continuità sanzionatoria penale, dall’altro. Per le SSUU occorre ribadire la punibilità dei c.d. falsi di bilancio valutativi senza possibilità di affermare una pertinente abolitio criminis, dovendosi più a monte procedere ad una lettura organica, sistematica e tendenzialmente unitaria e coerente di tutta la materia societaria con riguardo appunto al bilancio. Quest’ultimo, in tutte le relative componenti, deve riguardarsi come documento il cui contenuto è essenzialmente valutativo, l’intera normativa civilistica pertinente presupponendo o comunque prescrivendo proprio il momento “valutativo” nella relativa redazione, e provvedendo peraltro a dettare in larga parte i criteri cui deve ispirarsi tale valutazione, circostanza capace di rendere palese la fallacia dell’opzione ermeneutica che intenderebbe contrapporre i fatti materiali esposti in bilancio (penalmente rilevanti ove falsificati) alle valutazioni che del pari in bilancio compaiono, dovendosi rammentare – prosegue il Collegio – che un bilancio “non contiene fatti, ma il racconto di tali fatti”. Per il Collegio dunque, pur dopo le modifiche di cui alla legge 69.15, va confermata la rilevanza penale del c.d. falso valutativo, configurandosi il delitto di false comunicazioni sociali (anche) con riguardo alla esposizione ovvero alla omissione di fatti oggetto di valutazione laddove – in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati – il soggetto agente se ne discosti in modo consapevole senza darne adeguata informazione giustificativa, sì da porre in essere una condotta concretamente idonea ad indurre in errore i destinatari delle pertinenti comunicazioni sociali. * * * Il 7 novembre esce la sentenza delle SSUU n.46688 alla cui stregua in caso di sentenza di condanna relativa a un reato successivamente abrogato e qualificato come illecito civile, sottoposto a sanzione pecuniaria civile, ai sensi del Decreto Legislativo 15 gennaio 2016, n. 7, il giudice della impugnazione (che è giudice di cognizione), nel dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, deve revocare anche i capi della sentenza che concernono gli interessi civili. Il giudice della esecuzione, viceversa, per la Corte deve revocare, con la stessa formula, la sentenza di condanna o il decreto irrevocabili, lasciando tuttavia ferme le disposizioni e i capi che concernono gli interessi civili. 2017 Il 13 luglio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.34362 che si occupa della formula assolutoria da utilizzare nel caso in cui si tratti di dichiarare la irresponsabilità penale di chi abbia commesso reati tributari omissivi “sotto-soglia” così realizzando fattispecie ormai oggetto di abolitio criminis dopo l’intervento del decreto legislativo 158.15. Per la Corte, trattandosi appunto di abolitio criminis, non può che utilizzarsi la tradizionale formula onde il fatto “non è previsto dalla legge come reato”. 2018 Il 5 dicembre esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 223 che dichiara costituzionalmente illegittimo - per violazione degli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 7 CEDU - l'art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005, nella parte in cui stabilisce che la confisca per equivalente prevista dall'art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, si applica, allorché il procedimento penale non sia stato definito, alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della medesima legge, anche quando il complessivo trattamento sanzionatorio conseguente all'intervento di depenalizzazione risulti in concreto più sfavorevole di quello applicabile in base alla disciplina previgente. La presunzione di maggior favore del trattamento sanzionatorio amministrativo rispetto al previgente trattamento sanzionatorio penale deve intendersi, oggi, come meramente relativa, dovendosi sempre lasciare spazio alla possibilità di dimostrare, caso per caso, che il nuovo trattamento risulti in concreto più gravoso. Nel caso di specie, relativa al nuovo illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate commesse da insider secondari, la Cassazione rimettente aveva evidenziato il carattere in concreto deteriore del nuovo trattamento transitorio scaturito dall'intervento di depenalizzazione, che appariva con particolare evidenza laddove si ponga mente alla sorte dell'insider primario nei procedimenti a quibus, sanzionato con una semplice multa, beneficiando tra l'altro del provvedimento di indulto. La comparazione tra la gravità di due discipline sanzionatorie (quella penale previgente, e quella amministrativa successiva) è ben possibile, e anzi doverosa, onde evitare l'applicazione retroattiva all'autore dell'illecito di una disciplina di carattere punitivo - al di là della sua formale qualificazione - più gravosa di quella in vigore al momento del fatto, in contrasto con il principio costituzionale di irretroattività sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost. Al diritto sanzionatorio amministrativo si estende la fondamentale garanzia di irretroattività sancita dall'art. 25, secondo comma, Cost., interpretata anche alla luce delle indicazioni derivanti dal diritto internazionale dei diritti umani, e in particolare dalla giurisprudenza della Corte EDU relativa all'art. 7 CEDU. Anche rispetto alle sanzioni amministrative a carattere punitivo si impone infatti la medesima esigenza, di cui tradizionalmente si fa carico il sistema penale in senso stretto, di non sorprendere la persona con una sanzione non prevedibile al momento della commissione del fatto. Sottolinea infine la Corte che, se, in via generale, la tecnica legislativa delle leggi di depenalizzazione, di prevedere, a mezzo di apposite discipline transitorie, l'applicabilità retroattiva delle nuove sanzioni ai fatti commessi prima della loro entrata in vigore - ancorché di natura sostanzialmente punitiva, e in quanto tali attratte dall'orbita di garanzia dell'art. 25, secondo comma, Cost. - è di solito compatibile con la norma costituzionale indicata, tuttavia il generale maggior favore di un apparato sanzionatorio di natura formalmente amministrativa rispetto all'apparato sanzionatorio previsto per i reati non può essere dato per pacifico in ogni singolo caso, perché l'impatto delle sanzioni amministrative sui diritti fondamentali delle persone non può essere sottovalutato, ed è anzi andato crescendo nella legislazione più recente. 2019 Il 21 marzo esce la sentenza della Corte costituzionale n.63, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, del decreto legislativo 12 maggio 2015, n. 72 (Attuazione della direttiva 2013/36/UE, che modifica la direttiva 2002/87/CE e abroga le direttive 2006/48/CE e 2006/49/CE, per quanto concerne l’accesso all’attività degli enti creditizi e la vigilanza prudenziale sugli enti creditizi e sulle imprese di investimento. Modifiche al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 e al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58), nella parte in cui esclude l’applicazione retroattiva delle modifiche apportate dal comma 3 dello stesso art. 6 alle sanzioni amministrative previste per l’illecito disciplinato dall’art. 187-bis del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52); dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015, nella parte in cui esclude l’applicazione retroattiva delle modifiche apportate dal comma 3 dello stesso art. 6 alle sanzioni amministrative previste per l’illecito di cui all’art. 187-ter del d.lgs. n. 58 del 1998; dichiara invece inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015, sollevata, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Milano. Per il Collegio va premesso che - anche a prescindere dal rilievo che l’art. 49, paragrafo 1, CDFUE non è richiamato, nel caso di specie, nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione, ove il giudice a quo ha inteso formulare in termini chiari e definitivi le questioni sottoposte all’esame della Corte - occorre ribadire – sulla scorta dei principi già affermati nelle sentenze n. 269 del 2017 e n. 20 del 2019 – che alla Corte medesima non può ritenersi precluso l’esame nel merito delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento sia a parametri interni, anche mediati dalla normativa interposta convenzionale, sia – per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. – alle norme corrispondenti della Carta che tutelano, nella sostanza, i medesimi diritti; e ciò fermo restando il potere del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, e – ricorrendone i presupposti – di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al relativo esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta. Laddove però sia stato lo stesso giudice comune a sollevare una questione di legittimità costituzionale che coinvolga anche le norme della Carta, la Corte non può esimersi, eventualmente previo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, dal fornire una risposta a tale questione con gli strumenti che le sono propri: strumenti tra i quali si annovera anche la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione ritenuta in contrasto con la Carta (e pertanto con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.), con conseguente eliminazione dall’ordinamento, con effetti erga omnes, di tale disposizione, da ciò conseguendone l’ammissibilità, anche sotto questo profilo, delle questioni prospettate dal GO rimettente. Prima di esaminare il merito di tali questioni, è peraltro necessario per il Collegio vagliare la possibile rilevanza nel giudizio a quo dello ius superveniens rappresentato dal d.lgs. n. 107 del 2018, su cui si sono soffermate le parti nelle memorie depositate in prossimità dell’udienza e nella discussione orale. Come già rammentato, l’art. 4, comma 9, del d.lgs. n. 107 del 2018 ha nuovamente modificato il quadro sanzionatorio previsto dall’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998, in particolare tenendo fermo il minimo edittale di ventimila euro, ma innalzando il massimo da tre a cinque milioni di euro, salva la possibilità di ulteriori aumenti nei casi previsti dal comma 5 dello stesso art. 187-bis. Nulla ha disposto, però, il legislatore del 2018 in merito all’applicazione nel tempo della nuova disciplina, facendo così ritenere che abbia inteso assegnarle efficacia soltanto per il futuro. Ciò esclude che sia necessario restituire gli atti al giudice a quo. Nel merito, per la Corte, le questioni sono fondate, in relazione a entrambi i parametri invocati dal rimettente. Il principio della retroattività della lex mitior in materia penale è infatti fondato, secondo la giurisprudenza della Corte, tanto sull’art. 3 Cost., quanto sull’art. 117, primo comma, Cost., eventuali deroghe a tale principio dovendo superare un vaglio positivo di ragionevolezza in relazione alla necessità di tutelare di controinteressi di rango costituzionale. Il principio in questione deve ritenersi applicabile anche alle sanzioni amministrative che abbiano natura “punitiva”. Le sanzioni amministrative previste per l’abuso di informazioni privilegiate di cui all’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998 hanno natura “punitiva”, e rientrano come tali nell’ambito di applicazione del principio della retroattività in mitius. La deroga alla retroattività in mitius stabilita dall’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015, qui censurato, non supera il “vaglio positivo di ragionevolezza” ed è, pertanto, costituzionalmente illegittima, nella parte in cui esclude l’applicazione retroattiva delle modifiche in mitius apportate alle sanzioni amministrative previste per l’illecito di abuso di informazioni privilegiate di cui all’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998. Invero, secondo la costante giurisprudenza della Corte (sentenze n. 236 del 2011, n. 215 del 2008 e n. 393 del 2006), la regola della retroattività della lex mitior in materia penale non è riconducibile alla sfera di tutela dell’art. 25, secondo comma, Cost., che sancisce piuttosto il principio – apparentemente antinomico – secondo cui «[n]essuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso». Tale principio deve, invero, essere interpretato nel senso di vietare l’applicazione retroattiva delle sole leggi penali che stabiliscano nuove incriminazioni, ovvero che aggravino il trattamento sanzionatorio già previsto per un reato, non ostando così a una possibile applicazione retroattiva di leggi che, all’opposto, aboliscano precedenti incriminazioni ovvero attenuino il trattamento sanzionatorio già previsto per un reato. L’applicazione retroattiva della lex mitior non può, però, ritenersi imposta dall’art. 25, secondo comma, Cost., la cui ratio immediata è – in parte qua – quella di tutelare la libertà di autodeterminazione individuale, garantendo al singolo di non essere sorpreso dall’inflizione di una sanzione penale per lui non prevedibile al momento della commissione del fatto. Una simile garanzia non è posta in discussione dall’applicazione di una norma penale, pur più gravosa di quelle entrate in vigore successivamente, che era comunque in vigore al momento del fatto: e ciò «per l’ovvia ragione che, nel caso considerato, la lex mitior sopravviene alla commissione del fatto, al quale l’autore si era liberamente autodeterminato sulla base del pregresso (e per lui meno favorevole) panorama normativo» (sentenza n. 394 del 2006). Cionondimeno, prosegue la Corte, la regola dell’applicazione retroattiva della lex mitior in materia penale – sancita, a livello di legislazione ordinaria, dall’art. 2, secondo, terzo e quarto comma, del codice penale – non è sprovvista di fondamento costituzionale: fondamento che la costante giurisprudenza della Corte ravvisa anzitutto nel principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., «che impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’abolitio criminis o la modifica mitigatrice» (sentenza n. 394 del 2006). Ciò in quanto, in via generale, «[n]on sarebbe ragionevole punire (o continuare a punire più gravemente) una persona per un fatto che, secondo la legge posteriore, chiunque altro può impunemente commettere (o per il quale è prevista una pena più lieve)» (sentenza n. 236 del 2011). La riconduzione della retroattività della lex mitior in materia penale all’alveo dell’art. 3 Cost. anziché a quello dell’art. 25, secondo comma, Cost., segna però anche il limite della garanzia costituzionale della quale la regola in parola costituisce espressione. Mentre, infatti, l’irretroattività in peius della legge penale costituisce un «valore assoluto e inderogabile», la regola della retroattività in mitius della legge penale medesima «è suscettibile di limitazioni e deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli» (sentenza n. 236 del 2011). Il criterio di valutazione della legittimità costituzionale di eventuali deroghe legislative alla retroattività della lex mitior in materia penale, alla stregua dell’art. 3 Cost., è stato oggetto di approfondita analisi da parte della Corte nella sentenza n. 393 del 2006. In quell’occasione, la Corte osservò che la retroattività in mitius della legge penale è ormai affermata non solo, a livello di legislazione ordinaria, dall’art. 2 cod. pen., ma trova ampi riconoscimenti nel diritto internazionale e nel diritto dell’Unione europea. La retroattività della lex mitior in materia penale è in particolare enunciata tanto dall’art. 15, comma 1, terzo periodo, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, concluso a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881; quanto dall’art. 49, paragrafo 1, terzo periodo, CDFUE. Ciò ha indotto la Corte a concludere che il valore tutelato dal principio in parola «può essere sacrificato da una legge ordinaria solo in favore di interessi di analogo rilievo […]. Con la conseguenza che lo scrutinio di costituzionalità ex art. 3 Cost., sulla scelta di derogare alla retroattività di una norma più favorevole al reo deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo a tal fine sufficiente che la norma derogatoria non sia manifestamente irragionevole» (sentenza n. 393 del 2006). In applicazione di tale criterio, la stessa sentenza n. 393 del 2006 giudicò non ragionevole, e pertanto costituzionalmente illegittima, la deroga alla retroattività delle modifiche più favorevoli, introdotte dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), alla disciplina della prescrizione del reato, con riferimento ai processi pendenti in primo grado in cui fosse stata già dichiarata l’apertura del dibattimento. La successiva sentenza n. 72 del 2008 escluse invece l’incostituzionalità di tale deroga rispetto ai processi già pendenti in grado di appello, in ragione dell’esigenza di tutelare gli interessi di rango costituzionale dell’efficienza e della salvaguardia dei diritti dei destinatari della funzione giurisdizionale, potenzialmente pregiudicati dalla dispersione delle attività processuali già svolte che sarebbe conseguita all’applicazione generalizzata dei nuovi e più brevi termini di prescrizione a processi già conclusi in primo grado. La questione della legittimità costituzionale della deroga alla retroattività, per i processi pendenti in grado di appello, delle più favorevoli disposizioni in materia di prescrizione introdotte dalla legge n. 251 del 2005 tornò qualche anno più tardi all’esame della Corte, in ragione del fatto nuovo rappresentato dalla sentenza della Grande Camera della Corte EDU, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia. Tale pronuncia aveva, per la prima volta, dedotto dall’art. 7 CEDU il principio secondo cui «se la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato»; il che aveva indotto la Corte di cassazione a sollevare questione di legittimità costituzionale della medesima disciplina transitoria già giudicata legittima, quanto ai parametri allora dedotti, dalla sentenza n. 72 del 2008, sotto il profilo – questa volta – di un relativo possibile contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 7 CEDU, come interpretato dalla sentenza Scoppola. Con la già menzionata sentenza n. 236 del 2011, la Corte affermò che – proprio in seguito alla sentenza Scoppola – il «principio di retroattività in mitius» ha, «attraverso l’art. 117, primo comma, Cost, acquistato un nuovo fondamento con l’interposizione dell’art. 7 della CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo»; aggiungendo, peraltro, che – anche nel prisma del diritto convenzionale – a tale principio non può riconoscersi carattere assoluto, ben potendo il legislatore «introdurre deroghe o limitazioni alla sua operatività, quando siano sorrette da una valida giustificazione». La sentenza n. 236 del 2011 ritenne, per l’appunto, sussistere una simile valida giustificazione per la deroga legislativa alla retroattività in mitius sottoposta nuovamente al relativo esame; e ciò per le medesime ragioni che avevano condotto la sentenza n. 72 del 2008 a risolvere in senso positivo la questione della sua compatibilità con l’art. 3 Cost. La giurisprudenza costituzionale è, in tal modo, giunta ad assegnare al principio della retroattività della lex mitior in materia penale un duplice, e concorrente, fondamento. L’uno – di matrice domestica – riconducibile allo spettro di tutela del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., nel cui alveo peraltro la sentenza n. 393 del 2006, in epoca immediatamente precedente alle sentenze “gemelle” n. 348 e n. 349 del 2007, aveva già fatto confluire gli obblighi internazionali derivanti dall’art. 15, comma 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e dall’art. 49, paragrafo 1, CDFUE, considerati in quell’occasione come criteri interpretativi (sentenza n. 15 del 1996) delle stesse garanzie costituzionali. L’altro – di origine internazionale, ma avente ora ingresso nel nostro ordinamento attraverso l’art. 117, primo comma, Cost. – riconducibile all’art. 7 CEDU, nella lettura offertane dalla giurisprudenza di Strasburgo (oltre alla sentenza Scoppola, Corte europea dei diritti dell’uomo, decisione 27 aprile 2010, Morabito contro Italia; sentenza 24 gennaio 2012, Mihai Toma contro Romania; sentenza 12 gennaio 2016, Gouarré Patte contro Andorra; sentenza 12 luglio 2016, Ruban contro Ucraina), nonché alle altre norme del diritto internazionale dei diritti umani vincolanti per l’Italia che enunciano il medesimo principio, tra cui gli stessi artt. 15, comma 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e 49, paragrafo 1, CDFUE, quest’ultimo rilevante nel nostro ordinamento anche ai sensi dell’art. 11 Cost. A tale pluralità di basi normative nel testo costituzionale fa, peraltro, da contraltare la comune ratio della garanzia in questione, identificabile in sostanza nel diritto dell’autore del reato a essere giudicato, e se del caso punito, in base all’apprezzamento attuale dell’ordinamento relativo al disvalore del fatto da lui realizzato, anziché in base all’apprezzamento sotteso alla legge in vigore al momento della relativa commissione. Comune è altresì il limite della tutela assicurata, assieme, dalla Costituzione e dalle carte internazionali a tale garanzia: tutela che la giurisprudenza della Corte ritiene non assoluta, ma aperta a possibili deroghe, purché giustificabili al metro di quel «vaglio positivo di ragionevolezza» richiesto dalla sentenza n. 393 del 2006, in relazione alla necessità di tutelare interessi di rango costituzionale prevalenti rispetto all’interesse individuale in gioco. Se poi, ed eventualmente in che misura – prosegue la Corte - il principio della retroattività della lex mitior sia applicabile anche alle sanzioni amministrative, è questione recentemente esaminata funditus dalla sentenza n. 193 del 2016. In quell’occasione, la Corte ha rilevato come la giurisprudenza di Strasburgo non abbia «mai avuto ad oggetto il sistema delle sanzioni amministrative complessivamente considerato, bensì singole e specifiche discipline sanzionatorie, ed in particolare quelle che, pur qualificandosi come amministrative ai sensi dell’ordinamento interno, siano idonee ad acquisire caratteristiche “punitive” alla luce dell’ordinamento convenzionale». In difetto, pertanto, di alcun «vincolo di matrice convenzionale in ordine alla previsione generalizzata, da parte degli ordinamenti interni dei singoli Stati aderenti, del principio della retroattività della legge più favorevole, da trasporre nel sistema delle sanzioni amministrative», la sentenza n. 193 del 2016 ha giudicato non fondata una questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), del quale il giudice a quo sospettava il contrasto con gli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU, nella parte in cui non prevede una regola generale di applicazione della legge successiva più favorevole agli autori degli illeciti amministrativi: regola generale la cui introduzione, secondo la valutazione della Corte, avrebbe finito «per disattendere la necessità della preventiva valutazione della singola sanzione (qualificata “amministrativa” dal diritto interno) come “convenzionalmente penale”, alla luce dei cosiddetti criteri Engel». Rispetto, però, a singole sanzioni amministrative che abbiano natura e finalità “punitiva”, il complesso dei principi enucleati dalla Corte di Strasburgo a proposito della “materia penale” – ivi compreso, dunque, il principio di retroattività della lex mitior, nei limiti appena precisati – non potrà per il Collegio che estendersi anche a tali sanzioni. A tale conclusione non osta l’assenza, sino a questo momento, di precedenti specifici nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Come la Corte ha avuto recentemente occasione di affermare, infatti, «è da respingere l’idea che l’interprete non possa applicare la CEDU, se non con riferimento ai casi che siano già stati oggetto di puntuali pronunce da parte della Corte di Strasburgo» (sentenza n. 68 del 2017). L’estensione del principio di retroattività della lex mitior in materia di sanzioni amministrative aventi natura e funzione “punitiva” è, del resto, conforme alla logica sottesa alla giurisprudenza costituzionale sviluppatasi, sulla base dell’art. 3 Cost., in ordine alle sanzioni propriamente penali. Laddove, infatti, la sanzione amministrativa abbia natura “punitiva”, di regola non vi sarà ragione per continuare ad applicare nei confronti di costui tale sanzione, qualora il fatto sia successivamente considerato non più illecito; né per continuare ad applicarla in una misura considerata ormai eccessiva (e per ciò stesso sproporzionata) rispetto al mutato apprezzamento della gravità dell’illecito da parte dell’ordinamento. E ciò salvo che sussistano ragioni cogenti di tutela di controinteressi di rango costituzionale, tali da resistere al medesimo «vaglio positivo di ragionevolezza», al cui metro debbono essere in linea generale valutate le deroghe al principio di retroattività in mitius nella materia penale. Non v’è dubbio – prosegue la Corte venendo al caso di specie - che la sanzione amministrativa prevista dall’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998 abbia natura punitiva, e soggiaccia pertanto alle garanzie che la Costituzione e il diritto internazionale dei diritti umani assicurano alla materia penale, ivi compresa la garanzia della retroattività della lex mitior. La Corte dichiara di avere già avuto occasione di affermare, in due distinte occasioni, la natura sostanzialmente punitiva della confisca per equivalente prevista per l’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate (sentenze n. 223 del 2018 e n. 68 del 2017); ma tale qualificazione deve necessariamente estendersi anche alla sanzione amministrativa pecuniaria prevista per il medesimo illecito, che qui viene immediatamente in considerazione. Tale sanzione non può essere considerata come una misura meramente ripristinatoria dello status quo ante, né semplicemente mirante alla prevenzione di nuovi illeciti. Si tratta, infatti, di sanzione dall’elevatissima carica afflittiva, che può giungere, oggi, sino a cinque milioni di euro (a loro volta elevabili sino al triplo ovvero al maggior importo di dieci volte il profitto conseguito o le perdite evitate), e che è comunque sempre destinata, nelle intenzioni del legislatore, a eccedere il valore del profitto in concreto conseguito dall’autore, a propria volta oggetto, di separata confisca. Una simile carica afflittiva si spiega soltanto in chiave di punizione dell’autore dell’illecito in questione, in funzione di una finalità di deterrenza, o prevenzione generale negativa, che è certamente comune anche alle pene in senso stretto. Del resto, proprio in considerazione della «finalità repressiva» di questa sanzione amministrativa e del relativo «elevato carico di severità», la Corte di giustizia UE ha recentemente affermato la relativa natura «penale» ai sensi dell’art. 50 CDFUE (Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 20 marzo 2018, Di Puma e altri, in cause C-596/16 e C-596/16, paragrafo 38). Resta, dunque, da verificare se la deroga, stabilita dalla disposizione in questa sede censurata, alla retroattività in mitius del più favorevole regime sanzionatorio introdotto dal d.lgs. n. 72 del 2015 (il cui principale effetto pratico, come più sopra evidenziato, consiste nella “dequintuplicazione” delle sanzioni amministrative previste dal d.lgs. n. 58 del 1998) possa ritenersi legittima al metro del vaglio positivo di ragionevolezza di cui si è detto. A tale quesito non può tuttavia, per la Corte, che rispondersi negativamente. Nella relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo, in attuazione della legge n. 154 del 2014, il Governo dichiarò la propria intenzione di non introdurre nel decreto il principio del favor rei «sia per la sospetta irragionevolezza dell’introduzione di detto principio con riferimento solo ad alcune disposizioni, sia per evitarne l’applicazione a tutti i procedimenti ancora sub iudice», con conseguente «rischio di ripercussioni negative su procedimenti sanzionatori in corso». La prima ragione è ictu oculi infondata: è semmai la mancata generalizzata previsione della retroattività delle modifiche sanzionatorie in melius a essere sospetta di irragionevolezza, e bisognosa pertanto di una specifica giustificazione in termini di necessità di tutela di controinteressi costituzionalmente rilevanti. Tali controinteressi non possono, d’altra parte, identificarsi semplicemente nell’esigenza di evitare «ripercussioni negative su procedimenti sanzionatori in corso», posto che l’influenza della lex mitior sui procedimenti sanzionatori non ancora conclusi al momento della relativa entrata in vigore è la conseguenza necessaria del principio di retroattività della lex mitior stessa. Né la scelta del legislatore di posporre l’entrata in vigore delle modifiche al regime sanzionatorio degli illeciti previsti dalla Parte V del d.lgs. n. 58 del 1998 al momento dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni regolamentari della Banca d’Italia e della CONSOB appare essa stessa sorretta dalla finalità di tutelare cogenti controinteressi di rango costituzionale, di importanza assimilabile a quella che legittimò, nella valutazione delle citate sentenze n. 72 del 2008 e n. 236 del 2011, la deroga alla retroattività delle disposizioni più favorevoli in materia di prescrizione del reato introdotte dalla legge n. 251 del 2005 con riferimento ai giudizi pendenti in grado di appello (ove si trattava di evitare, per effetto della maturazione dei più brevi termini di prescrizione introdotti dalla nuova disciplina, la dispersione di tutte le attività processuali svolte nei giudizi già conclusi in primo grado, rispetto a fatti che continuavano a essere considerati come reato e a essere puniti con la medesima pena in vigore al momento della loro commissione). I menzionati regolamenti della Banca d’Italia e della CONSOB, infatti, concernono pressoché esclusivamente la procedura di accertamento della sanzione, e non influiscono sulla configurazione degli illeciti, né – se non in misura marginalissima – sulla modalità di determinazione delle sanzioni amministrative pecuniarie, che qui viene direttamente in considerazione. Conseguentemente, la scelta del legislatore del 2015 di derogare alla retroattività dei nuovi e più favorevoli quadri sanzionatori risultanti dal d.lgs. n. 72 del 2015 sacrifica irragionevolmente il diritto degli autori dell’illecito di abuso di informazioni privilegiate a vedersi applicare una sanzione proporzionata al disvalore del fatto, secondo il mutato apprezzamento del legislatore. Mutato apprezzamento che riflette, evidentemente, la consapevolezza del carattere non proporzionato di un minimo edittale di centomila euro. Da ciò consegue l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015, nella parte in cui esclude l’applicazione retroattiva delle modifiche apportate dal comma 3 dello stesso art. 6 alle sanzioni amministrative previste per l’illecito disciplinato dall’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998. La dichiarazione di illegittimità costituzionale deve per la Corte essere estesa in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), alla mancata previsione – da parte del censurato art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015 – della retroattività delle modifiche apportate dal comma 3 dello stesso art. 6 alle corrispondenti sanzioni amministrative previste per l’illecito di cui all’art. 187-ter (Manipolazione del mercato) del d.lgs. n. 58 del 1998. Tale illecito è, infatti, corredato da un quadro sanzionatorio identico a quello previsto dall’art. 187-bis, rispondente esso pure a un’evidente logica punitiva, già riconosciuta come tale dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri contro Italia, paragrafi 94-101), dalla Corte di giustizia UE (Grande sezione, sentenza 20 marzo 2018, Garlsson e altri, in causa C-537/16, paragrafi 34-35) e dalla stessa Corte di cassazione (sezione quinta civile, sentenza 30 ottobre 2018, n. 27564). Anche rispetto alla disciplina sanzionatoria dell’illecito amministrativo previsto dall’art. 187-ter, d’altra parte, la deroga al principio della retroattività della lex mitior apportata dal legislatore delegato non supera il vaglio positivo di ragionevolezza, per le medesime ragioni già evidenziate a proposito del parallelo illecito di cui all’art. 187-bis. Dal che, per l’appunto, la necessità di dichiarare la illegittimità costituzionale della disciplina transitoria dettata dalla disposizione censurata anche nella parte in cui essa esclude l’applicazione retroattiva delle modifiche in melius apportate alle sanzioni previste per l’illecito di cui all’art. 187-ter. * * * Il 25 marzo esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 12881 che si allinea al recente orientamento interpretativo secondo cui in tema di giudizio abbreviato, l'art. 442, comma 2, c.p.p., come novellato dalla legge n. 103 del 2017 - nella parte in cui prevede che, in caso di condanna per una contravvenzione, la pena che il giudice determina tenendo conto di tutte le circostanze è diminuita della metà, anziché di un terzo come previsto dalla previgente disciplina - si applica anche alle fattispecie anteriori, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile, ai sensi dell'art. 2, comma 4, c.p., in quanto, pur essendo norma di carattere processuale, ha effetti sostanziali, comportando un trattamento sanzionatorio più favorevole seppure collegato alla scelta del rito. Come precisato in motivazione da Sez. Un. n. 18821 del 24/10/2013, l'art. 442, comma 2, c.p.p., pur essendo norma di carattere processuale, ha effetti sostanziali, "disciplinando la severità della pena da infliggere in caso di condanna secondo il rito abbreviato", per cui "deve soggiacere al principio di legalità convenzionale di cui all'art. 7, § 1, CEDU, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo, vale a dire irretroattività della previsione più severa (principio già contenuto nell'art. 25, comma secondo, Cost.), ma anche, e implicitamente, retroattività o ultrattività della previsione meno severa". È stato anche sottolineato che, sebbene l'art. 442 c.p.p. si inserisca nell'ambito della disciplina processuale e non di quella sostanziale e preveda, in modo peculiare, un più favorevole trattamento penale in considerazione di una condotta dell'imputato successiva al reato, da un lato, la diminuzione o sostituzione della pena è senz'altro un aspetto sostanziale, che ricade, dunque, nell'ambito applicativo dell'art. 25, secondo comma, Cost., sicché ne consegue che i profili processuali sono intimamente ed inscindibilmente connessi a quelli sostanziali. In definitiva, è ormai acquisito nel nostro sistema giuridico il principio secondo cui il trattamento sanzionatorio, anche laddove collegato alla scelta del rito, finisce sempre con avere ricadute sostanziali ed è, dunque, soggetto alla complessiva disciplina di cui all'art. 2 c.p., pur restando tuttora confermato che la riduzione di pena prevista dall'art. 442 comma secondo c.p.p., essendo finalizzata alla produzione di effetti puramente premiali in funzione di una specifica scelta processuale operata dall'imputato, va applicata per ultima, sulla pena quantificata dal giudice, comprensiva anche dell'eventuale aumento per la ritenuta continuazione, e che, comunque, la necessaria retroattività della disposizione più favorevole, affermata 3 dalla sentenza CEDU del 17 settembre 2009 nel caso Scoppola contro Italia, non è applicabile in relazione alla disciplina dettata da norme processuali. Pertanto, riguardo a tale ultima questione, Sez. 1, n. 8350 del 27/11/2013 dep. il 2014, Rv. 259543, ha ritenuto inammissibile il ricorso avverso il rigetto dell'istanza tesa ad ottenere, in sede esecutiva, la riduzione di pena ex art. 442 c.p.p. in favore del condannato a pena detentiva diversa dall'ergastolo al quale era stato negato l'accesso al rito abbreviato per mancato consenso del pubblico ministero, in epoca precedente alla sostituzione del testo dell'art. 438 c.p.p., per effetto della legge 16 dicembre 1999, n. 479, in quanto la natura sostanziale della diminuente premiale per il rito abbreviato, predicata dalla CEDU nella sentenza in data 17 settembre 2009 (caso Scoppola c. Italia), non implica la trasformazione della natura processuale di tutta la restante normativa concernente i presupposti, i termini e le modalità di accesso al rito, aspetti rimessi alla scelta del legislatore nazionale e non immutati dalla giurisprudenza comunitaria. * * * Il 16 aprile esce la sentenza della III Sezione della Cassazione n.16477 in tema di atti contrari alla pubblica decenza (fattispecie in cui un cittadino marocchino ha orinato sul muro di cinta di un cimitero), alla cui stregua, poiché il d.lgs. 8/2016 ha depenalizzato il reato di cui all'art. 726 cod. pen., prevedendo all'art. 2 la relativa riformulazione come illecito amministrativo, ai sensi del successivo art. 8 di tale decreto la pertinente depenalizzazione colpisce, per la Corte, anche gli illeciti anteriori all'entrata in vigore del decreto legislativo ridetto, imponendosi pertanto l'annullamento della sentenza impugnata perché il fatto non è (più) previsto dalla legge come reato e la trasmissione degli atti all’Amministrazione (Prefetto di Bergamo) per le determinazioni di relativa competenza. * * * Il 17 aprile esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.16896 che affronta l’ulteriore questione di diritto se l'art. 80 del d.lgs. n. 159 del 2011, relativo all'obbligo, per i soggetti già sottoposti a misura di prevenzione personale ex lege n. 1423 del 1956, di comunicare le variazioni del proprio patrimonio, la cui omissione è penalmente sanzionata dall'art. 76, comma 7, del d.lgs. n. 159 del 2011, si applichi anche quando il provvedimento che ha disposto la misura sia divenuto definitivo in data anteriore all'introduzione di tale obbligo. La soluzione della questione prospettata – precisa la Corte - richiede la previa illustrazione delle disposizioni succedutesi nel tempo. Occorre, in primo luogo, precisare che: - nel caso in esame, la misura di prevenzione è stata applicata in forza dell'art. 1, legge 27 dicembre 1956, n. 1423 e che la legge 22 maggio 1975, n. 152, con l'art. 19, ha esteso l'applicabilità delle disposizioni di cui alla legge 31 maggio 1965, n. 575 anche alle persone indicate nell'articolo 1, numeri 1) e 2) della legge n. 1423 del 1956; - l'art. 30 della legge 13 settembre 1982, n. 646, nella relativa originaria formulazione, stabiliva che le persone sottoposte ad una misura di prevenzione disposta ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, e i condannati con sentenza definitiva per il delitto previsto dall'articolo 416-bis cod. pen., sono tenuti a comunicare per 10 anni, ed entro 30 giorni dal fatto, al nucleo di polizia tributaria che ha compiuto gli accertamenti di cui all'articolo 2-bis della legge 31 maggio 1965, n. 575, tutte le variazioni nella entità e nella composizione del patrimonio concernenti elementi di valore non inferiore ad un certo importo (stabilendo, altresì, un obbligo di comunicazione entro il 31 gennaio per le variazioni intervenute nell'anno precedente concernenti elementi di valore non inferiore ad un determinato limite e con esclusione dei beni destinati al soddisfacimento dei bisogni quotidiani); - il termine decennale decorre dalla data del decreto, ovvero dalla data della sentenza definitiva di condanna, mentre gli obblighi previsti nel primo comma cessano quando la misura di prevenzione è revocata a seguito di ricorso in appello o in cassazione; - l'omessa comunicazione è sanzionata dall'art. 31 della stessa legge. L'ambito di operatività della disposizione – prosegue il Collegio - era originariamente limitato ai soggetti condannati per il reato di cui all'art. 416-bis cod. pen. ed ai destinatari di misura di prevenzione in quanto indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, come si deduce dal fatto che il legislatore individua, quale soggetto destinatario delle comunicazioni concernenti le variazioni patrimoniali, il «nucleo di polizia tributaria che ha compiuto gli accertamenti di cui all'articolo 2-bis della legge 31 maggio 1965, n. 575». Tale ultimo articolo, infatti, è stato introdotto dall'art. 14 della legge n. 646 del 1982 e faceva riferimento, nella relativa prima stesura, alle «persone nei cui confronti possa essere proposta una misura di prevenzione perché indiziate di appartenere ad associazioni di tipo mafioso o ad alcuna delle associazioni previste dall'articolo 1» e, successivamente, dopo le modifiche apportate dalla legge n. 55 del 1990, ai «soggetti indicati all'articolo 1 nei cui confronti possa essere proposta la misura di prevenzione della sorveglianza speciale della pubblica sicurezza con o senza divieto od obbligo di soggiorno». L'art. 1 riguardava a propria volta, originariamente, «gli indiziati di appartenere ad associazioni mafiose» e tale generico richiamo veniva successivamente puntualizzato mediante un più dettagliato riferimento agli «indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, alla camorra o ad altre associazioni, comunque localmente denominate, che perseguono finalità o agiscono con metodi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso» (modifica apportata dalla legge n. 646 del 1982). Le ulteriori, successive modifiche a tale disposizione non rilevano, per quel che ora interessa, in quanto la legge 19 marzo 1990, n. 55, con l'art. 11, ha sostituito il comma 1 dell'art. 30, legge n. 646 del 1982, indicando come soggette all'obbligo di comunicazione «le persone condannate con sentenza definitiva per il reato di cui all'articolo 416-bis del codice penale o già sottoposte, con provvedimento definitivo, ad una misura di prevenzione ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, in quanto indiziate di appartenere alle associazioni previste dall'articolo 1 di tale legge» A quel tempo, pertanto, detto obbligo veniva quindi chiaramente limitato, quanto ai soggetti sottoposti a misura di prevenzione, a quelli raggiunti da un provvedimento definitivo, specificando, altresì, che la misura considerata è quella applicata agli indiziati di appartenenza alle associazioni di tipo mafioso. Si tratta, dunque, di una puntualizzazione che ha individuato espressamente quei soggetti, destinatari degli obblighi di comunicazione, che già l'originaria stesura dell'articolo 30 consentiva di determinare attraverso i richiami ad altre disposizioni di cui si è già detto. Un'ulteriore modifica del comma 1 dell'art. 30 è stata apportata dall'art. 7, comma 1, lett. b) della legge 13 agosto 2010 n. 136, prevedendo l'obbligo di comunicazione non soltanto per i soggetti già sottoposti, con provvedimento definitivo, ad una misura di prevenzione ai sensi della legge n. 575 del 1965, ma anche alle persone condannate, con sentenza definitiva, per taluno dei reati previsti dall'articolo 51, comma 3 -bis, cod. proc. pen., ovvero per il delitto di cui all'articolo 12 -quinquies, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356. Estendendone l'ambito di applicazione soggettivo, l'art. 30 veniva dunque adeguato ai contenuti del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125 e della legge 15 luglio 2009, n. 94, che avevano ampliato il novero dei possibili destinatari delle misure di prevenzione apportando modifiche all'art. 1 della legge n. 575 del 1965. La stessa legge n. 136 del 2010 conferiva anche una delega al Governo per l'emanazione di un codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, cui veniva data attuazione mediante il d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, che ha abrogato, con l'art. 120, le leggi n. 1423 del 1956 e 575 del 1965, lasciando intatta la legge n. 646 del 1982 (fatta eccezione per l'art. 16). L'art. 80 del citato decreto legislativo, infatti, fa salvo quanto già previsto dall'art. 30 della legge n. 646 del 1982, stabilendo che «le persone già sottoposte, con provvedimento definitivo, ad una misura di prevenzione, sono tenute a comunicare per dieci anni, ed entro trenta giorni dal fatto, al nucleo di polizia tributaria (ora nucleo di polizia economico finanziaria ai sensi dell'art. 35, comma 8, lett. a), d.lgs. 29 maggio 2017, n. 95, n.d.r.) del luogo di dimora abituale, tutte le variazioni nell'entità e nella composizione del patrimonio concernenti elementi di valore non inferiore ad euro 10.329,14. Entro il 31 gennaio di ciascun anno, i soggetti di cui al periodo precedente sono altresì tenuti a comunicare le variazioni intervenute nell'anno precedente, quando concernono complessivamente elementi di valore non inferiore ad euro 10.329,14. Sono esclusi i beni destinati al soddisfacimento dei bisogni quotidiani. Il termine di dieci anni decorre dalla data del decreto ovvero dalla data della sentenza definitiva di condanna. Gli obblighi previsti nel comma 1 cessano quando la misura di prevenzione è a qualunque titolo revocata». Le sanzioni in caso di violazione dell'obbligo sono stabilite dall'art. 76, comma 7 del medesimo decreto. L'introduzione del menzionato art. 80 ha determinato uno scorporo dell'originaria fattispecie, la quale, per ciò che concerne i soggetti sottoposti a misura di prevenzione, è stata trasfusa nel decreto legislativo (artt. 80 e 76, comma 7), restando invece intatta negli artt. 30 e 31 della legge n. 646 del 1982 relativamente ai soggetti condannati con sentenza definitiva. Dalla disamina delle richiamate disposizioni emerge dunque, precisa a questo punto la Corte, che fino all'intervento modificativo apportato dalla legge n. 136 del 2010 (entrata in vigore il 7 settembre 2010), l'ambito di operatività dell'art. 30 della legge n. 646 del 1982 era limitato ai soli soggetti condannati per il reato di cui all'art. 416-bis cod. pen. ed ai destinatari di misura di prevenzione in quanto indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso e solo successivamente è stata estesa agli altri soggetti di cui si è detto in precedenza. Occorre osservare, a tale proposito, che nell'ordinanza di rimessione si afferma, non condividendosi quanto sostenuto dal Tribunale di Bologna nel provvedimento impugnato, che l'intervento modificativo ad opera della legge n. 136 del 2010 - pur avendo accresciuto i «reati/fonte» a seguito dell'abolizione della precisazione, circa la correlazione tra imposizione dell'obbligo e indizio di appartenenza alla organizzazione mafiosa, apportata dal legislatore del 1990 - avrebbe lasciato comunque intatto il testo dell'articolo 30, vigente tra il 2010 e il 2011, il quale continuava a fare riferimento ai destinatari di misura di prevenzione applicata ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, con la conseguenza che ciò non autorizzerebbe una interpretazione ampliativa (pur agganciata alla riemersa vigenza, dopo il decreto legge 92 del 23 maggio 2008, del testo originario dell'art. 19 legge n. 152 del 1975 in tema di applicabilità ai pericolosi semplici di talune disposizioni della legge n. 575 del 1965), stante il generale principio di tassatività e la tecnica descrittiva del presupposto di incriminazione. Si assume, in definitiva, che, per quanto riguarda le misure di prevenzione, l'estensione dell'obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali sarebbe avvenuta nel 2011 con l'entrata in vigore del d.lgs. n. 159 Come si è detto in precedenza, l'estensione dell'ambito di applicazione soggettivo dell'art. 30 rispondeva ad un esigenza di adeguamento della norma all'incremento, operato dal c.d. pacchetto sicurezza, dei possibili destinatari delle misure di prevenzione, poiché, a seguito delle modifiche apportate dall'art. 10, comma 1, lettera a), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 e dall'art. 2, comma 4, della legge 15 luglio 2009, n. 94, l'art. 1 della legge 575/1965 stabiliva che le misure di prevenzione disposte dalla medesima legge 575/1965 potessero essere applicate - oltre che agli indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, alla camorra, alla 'ndrangheta o ad altre associazioni, comunque localmente denominate, che perseguono finalità o agiscono con metodi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso - anche ai soggetti indiziati di uno dei reati previsti dall'art. 51, comma 3 -bis, cod. proc. pen. e dall'art. 12 -quinquies, comma 1, del decreto-legge 306/1992 (trasferimento fraudolento di valori). Con l'entrata in vigore della legge n. 136 del 2010, dunque, per effetto delle modifiche apportate, era stato realizzato uno stabile coordinamento tra le diverse disposizioni. Considerata dunque, chiosa ancora la Corte, la successione delle varie modifiche che hanno interessato le richiamate disposizioni, vanno considerati i contenuti dei diversi orientamenti, segnalati dall'ordinanza di rimessione, circa l'incidenza dell'estensione dell'obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali di cui si è detto. Si tratta di considerazioni che la giurisprudenza ha espresso con riferimento all'incremento del novero dei reati per i quali è richiesta la condanna definitiva, ma che, come rilevato nell'ordinanza di rimessione, assumono rilievo anche riguardo al corrispondente ampliamento delle ipotesi in cui è possibile l'applicazione delle misure di prevenzione. Un primo orientamento (espresso da Sez. 6, n. 41113 del 18/09/2013, Giustozzi, Rv. 256137) ha escluso la sussistenza del reato di cui all'art. 31 della legge n. 646 del 1982 nel caso in cui la condanna per il delitto presupposto (nella fattispecie, quello di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti di cui all'art. 260 d.lgs. 152/06, ora 452 -quaterdecies cod. pen., introdotto ex novo dall'art. 7, comma primo, lett. b) della legge n. 136 del 2010) sia intervenuta prima dell'entrata in vigore della legge n. 136, ritenendo altresì non rilevante il fatto che i beni e le disponibilità oggetto dell'omessa comunicazione siano entrati nel patrimonio del condannato per il delitto presupposto in data successiva alla predetta normativa del 2010. Nella richiamata decisione si assume che, in presenza delle condizioni di cui all'art. 30 della legge n. 646 del 1982, il termine decennale, decorrente, nel caso esaminato in quell'occasione, dalla sentenza definitiva di condanna, è elemento costitutivo della fattispecie sanzionatoria, in quanto integra e delimita l'ambito temporale «di sospetto e di attenzione» che il legislatore ha individuato nella relativa discrezionalità tecnica al fine di consentire un quadro dinamico ed aggiornato di controllo sulle variazioni patrimoniali, oltre un certo rilievo, soltanto di determinati soggetti (coloro i quali abbiano commesso uno dei reati tassativamente indicati nel catalogo delle violazioni del suindicato art. 30), con la conseguenza che esso deve essere accertato, nella relativa sussistenza, al tempo dell'entrata in vigore della norma penale che stabilisce la sanzione (7 settembre 2010, data dalla quale la violazione dell'art. 260 d.lgs. 152/06 era stata inserita nel novero dei reati presupposto). Viene conseguentemente ritenuto contrastante con il disposto dell'art. 2 cod. pen. e dell'art. 25, comma secondo, Cost. il diverso orientamento, prospettato nel provvedimento poi annullato, ove veniva valorizzato il fatto che gli obblighi di comunicazione avrebbero dovuto comunque essere adempiuti dalla data di entrata in vigore della norma incriminatrice, tanto che, nella fattispecie, si erano considerati soltanto i movimenti patrimoniali successivi a tale data (anche Sez. 6, n. 6744 del 7/11/2013, dep. 2014, D'Angelo, Rv 258991 qualifica l'art. 30 della legge 646/82 quale norma integratrice del precetto penale, ancorché la sanzione per la sua violazione sia contenuta nel successivo art. 31). Un secondo indirizzo interpretativo pone, invece, in evidenza la natura di reato omissivo istantaneo del delitto in esame, la consumazione del quale deve essere collocata nel momento e nel luogo in cui le comunicazioni delle variazioni patrimoniali andavano effettuate, poiché ciò che rileva è la condotta omissiva di colui che, nel momento in cui non provvede alla comunicazione, si trovi nelle condizioni soggettive ed oggettive richieste dalla legge (Sez. 6, n. 37114 del 06/06/2012, Salvaggio, Rv. 253538. Nello stesso senso, Sez. 2, n. 28104 del 09/04/2015, Dangeli e altro, Rv. 264137, ove viene dato conto del diverso orientamento espresso dalla sentenza n. 41113/2013). La natura di reato omissivo istantaneo della violazione in esame era stata d'altronde già affermata in precedenti occasioni (Sez. 6, n. 24874 del 30/10/2014, dep. 2015, Lo Bello, Rv. 264164. V. anche Sez. 5, n. 3079 del 17/01/2005, Cesaro, Rv. 231417), peraltro, in un caso (Sez. 1, n. 2440 del 20/12/2007, dep. 2008, Nocera, Rv. 239209), richiamando analoghe conclusioni cui si era pervenuti in tema di omesso versamento di ritenute previdenziali (Sez. 1, n. 6850 del 04/12/1997, dep. 1998, Langeli, Rv. 209538; Sez. 3, n. 3985 del 24/11/2000, dep. 2001, Pignatti, Rv. 218321). Va a questo punto rilevato per le SSUU come la natura del reato in esame sia stata presa in considerazione più volte dalla giurisprudenza di legittimità. Si è, in primo luogo, affermato che la legge 22 maggio 1975, n. 152, estendendo, con l'art. 19, l'applicabilità delle disposizioni di cui alla legge 31 maggio 1965, n. 575 anche alle persone indicate nell'articolo 1, numeri 1) e 2) della legge n. 1423 del 1956, ha operato una completa equiparazione tra soggetti pericolosi in quanto indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso e soggetti pericolosi in quanto ritenuti abitualmente dediti a traffici delittuosi da cui traggono, almeno in parte, i mezzi di vita, attraverso l'estensione a questi ultimi della disciplina introdotta per i primi (lo ricorda, in particolare, Sez. 5, n. 8768 del 23/01/2018, Delli Carri, Rv. 272311, richiamando i principi precedentemente espressi da Sez. 5, n. 38 del 12/01/1999, Galasso, Rv. 212341; Sez. 1, n. 950 del 23/02/1994, Russo, Rv. 196838; Sez. 1, n. 5166 del 29/11/1993, dep. 1994, Catalfamo, Rv. 196098). Si è anche chiarito (Sez. 6, n. 41113 del 18/09/2013, Giustozzi, Rv. 256137) che la condotta sanzionata, concernente la violazione dell'obbligo di comunicazione di variazioni patrimoniali da parte di persone condannate per uno dei delitti indicati nell'art. 30, non costituisce una pena accessoria del reato presupposto, stante la relativa autonomia rispetto a quest'ultimo, richiamandone la natura «sanzionatoria», ovvero «pregiudizievole», o ancora configurabile alla stregua di una «conseguenza giuridica negativa», dell'imposizione di comunicare ogni variazione patrimoniale che consegue di diritto alla condanna per il delitto di associazione mafiosa, e, dall'altro, che detto obbligo risponde ad esigenze di tutela e ad interessi del tutto analoghi a quelli posti a base dell'incriminazione cui è riferita la condanna a tale fine rilevante. Il bene giuridico tutelato è stato individuato nell'ordine pubblico (Sez. 6, n. 24874 del 30/10/2014, dep. 2015, Lo Bello, Rv. 264164; Sez. 2, n. 14332 del 05/04/2006, D'Aiello, Rv. 234248; Sez. 1, n. 45798 del 22/11/2001, Messina, Rv. 220377). Quanto all'elemento soggettivo del reato, si è sostenuto (Sez. 6, n. 36659 del 17/06/2015, Anzalone, Rv. 264666) che il delitto in esame è integrato dal semplice dolo generico, sicché non è richiesto che l'autore agisca allo specifico scopo di occultare alla polizia tributaria le informazioni cui l'obbligo imposto si riferisce (conf. Sez. 5, n. 2506 del 24/11/2016, dep. 2017, Incardona, Rv. 269074; Sez. 5, n. 38098 del 29/5/2015, Clemente, Rv. 264998; Sez. 6, n. 33590 del 15/6/2012, Picone, Rv. 253199; Sez. 1, n. 23213 del 19/05/2010, Calabro', Rv. 247570; Sez. 2, n. 27196 del 18/05/2010, Curto, Rv. 247842). Risulta, inoltre, ormai consolidato l'orientamento secondo il quale il dolo non può escludersi in caso di variazioni patrimoniali documentate da atti pubblici (Sez. 5, n. 15220 del 18/02/2003, Gallico, Rv. 224379; Sez. 2, n. 14332 del 05/04/2006, D'Aiello, Rv. 234248; Sez. 1, n. 12433 del 17/02/2009, Cannamela, Rv. 243486; Sez. 1, n. 10432 del 24/02/2010, Iaconis, Rv. 246398; Sez. 5, n. 792 del 18/10/2012, dep. 2013, Seidita, Rv. 254387; Sez. 2, n. 25974 del 21/05/2013, Mazzagatti, Rv. 256655) rispetto a quello che lo escludeva (Sez. 1, n. 10024 del 30/01/2002, Le Pera, Rv. 221494; Sez. 6, n. 11398 del 05/02/2003, Libri e altro, Rv. 224007), specificando, peraltro, che l'incertezza derivante da tali contrastanti arresti giurisprudenziali non consente di invocare la condizione soggettiva d'ignoranza inevitabile della legge penale, poiché al contrario, tale situazione deve indurre ad un atteggiamento più attento, fino cioè, secondo quanto emerge dalla sentenza n. 364 del 1988 della Corte Costituzionale, all'astensione dall'azione se, nonostante tutte le informazioni assunte, permanga tale incertezza, dato che il dubbio, non essendo equiparabile allo stato d'inevitabile ed invincibile ignoranza, è inidoneo ad escludere la consapevolezza dell'illiceità (Sez. 5, n. 2506 del 24/11/2016, dep. 2017, Incardona, Rv. 269074. V. anche Sez. 6, n. 33590 del 15/06/2012, Picone, Rv. 253200; Sez. 6, n. 6744 del 07/11/2013, D'Angelo, Rv. 258991). In particolare, la sentenza Picone dando conto dei diversi criteri - oggettivo, soggettivo e misto- elaborati dalla giurisprudenza di legittimità alla luce della sentenza n. 364 del 1988 della Corte Costituzionale ha rilevato, sulla scorta del primo, ravvisabile nelle situazioni connotate da oscurità o contraddittorietà del testo legislativo, generalizzato caos interpretativo o assoluta estraneità del contenuto precettivo ai valori correnti nella società, che la norma in esame offre un contenuto precettivo sufficientemente chiaro e non si discosta dai valori correnti nella società in misura tale da non trovare nessuna rispondenza nella c.d. sfera parallela laica, alla quale è noto che la legge prevede una serie di controlli e di cautele nei confronti dei soggetti condannati per reati di mafia. L'operatività del criterio soggettivo, legato alle condizioni personali dell'agente che abbiano influito sulla conoscenza del precetto penale, come l'elevato deficit culturale, alla luce, ad esempio, della condizione di straniero proveniente da aree socio-culturali molto distanti dalla nostra e da poco in Italia, o l'incolpevole carenza di socializzazione è stata pure esclusa, così come l'applicabilità del parametro misto, comprensivo delle ipotesi in cui, in varia misura e con diverso spessore, operano entrambi i criteri, oggettivo e soggettivo, escludendo che l'esimente della buona fede possa essere integrata dal semplice comportamento passivo dell'agente, essendo, invece, necessario che egli si adoperi al fine di adeguarsi all'ordinamento giuridico, ad esempio, informandosi presso gli uffici competenti o consultando esperti in materia. Il reato, inoltre, è stato qualificato come omissivo proprio «di pura creazione legislativa» (Sez. 2, n. 25974 del 21/05/2013, Mazzagatti, Rv. 256655) e, ricordando la differenza intercorrente con i reati omissivi propri «naturali», si è preso in considerazione l'elemento soggettivo, evidenziando come l'accertamento della coscienza e volontà della condotta debba effettuarsi considerando lo specifico contesto in cui il comportamento omissivo, meramente «formale», si è concretamente realizzato e le peculiarità scaturenti dagli specifici connotati che caratterizzano l'inosservanza dell'obbligo di fare imposto e rimasto inadempiuto, giungendo, sulla base di tali considerazioni, alla conclusione, in fattispecie relativa a misura cautelare reale, che il reato può ritenersi sussistente, quanto al relativo fumus, in presenza di una semplice condotta omissiva riconducibile ad un fatto volontario, residuando in capo all'autore del fatto omissivo un onere di allegazione di circostanze che valgano ad escludere, in termini di evidenza, la coscienza e volontà del fatto-reato. Sulla base del tenore letterale dell'art. 80 del d.lgs. n. 159 del 2011 e dell'art. 30 della legge n. 646 del 1982 (dopo le modifiche apportate dalla legge n. 55 del 1990) si è pure ritenuto (Sez. 5, n. 8768 del 23/01/2018, Delli Carri, Rv. 272311) che l'obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali decorre dal momento in cui la misura è diventata definitiva e non da quello in cui la stessa è posta in esecuzione, che può essere anche diverso e successivo. Tale obbligo, peraltro, sorge con riferimento a qualsiasi modifica dell'assetto patrimoniale non inferiore alla soglia individuata dalla legge e non limitata a quelle che comportano un effettivo incremento, assumendo rilievo anche quelle in apparenza ininfluenti sull'entità del patrimonio, in quanto costituite da elementi contrapposti che entrano in compensazione, ed anche di quelle passive, che comunque incidono sulla consistenza dei beni posseduti e, quindi, sulla composizione del patrimonio e valgono a segnalare perdite fittizie o illeciti trasferimenti di componenti attivi, sicché, oltre ai finanziamenti sotto qualsiasi forma, privati o pubblici ed i conti correnti, anche il mutuo, l'affidamento bancario ed il mutuo ipotecario restano soggetti all'obbligo di comunicazione (così, Sez. 6, n. 31817 del 22/04/2009, Elefante, Rv. 244404. Conf. Sez. 5, n. 40338 del 21/09/2011, Raso, Rv. 251724). Va a questo punto considerata per la Corte anche la lettura delle disposizioni in esame offerta dalla Corte costituzionale, più volte chiamata a verificare la legittimità costituzionale degli artt. 30 e 31 della legge n. 646 del 1982, dichiarando, in un primo tempo, manifestamente infondate le questioni proposte (ordinanze n. 442 del 2001 e n. 362 e 143 del 2002), considerando che le disposizioni scrutinate «costituivano esercizio, non manifestamente arbitrario o irragionevole, dell'ampia discrezionalità spettante al legislatore in tema di configurazione degli illeciti penali e di determinazione delle relative sanzioni» e dando conto del fatto che la giurisprudenza di legittimità aveva ritenuto conforme a Costituzione una interpretazione delle stesse che escludeva la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato quando la pubblicità sia comunque assicurata e, dunque, sia di per sé impossibile l'occultamento degli atti soggetti a comunicazione. Con una successiva pronuncia (sent. n. 81 del 2014) veniva dato atto di un diverso indirizzo giurisprudenziale, ormai consolidato, secondo il quale il delitto deve ritenersi configurato anche nel caso in cui l'omessa comunicazione riguardi operazioni effettuate mediante atti pubblici, soggetti ad un regime di pubblicità, trattandosi di atti comunque non destinati ad essere portati a conoscenza del nucleo di polizia tributaria competente né ad opera del pubblico ufficiale rogante, né di altri. Nella citata sentenza veniva altresì ricordata la natura di reato di pericolo presunto che la medesima giurisprudenza aveva attribuito al delitto in esame, attraverso il quale si è inteso garantire una effettiva e sollecita conoscenza, da parte del nucleo di polizia tributaria, delle variazioni patrimoniali relative a soggetti di accertata pericolosità sociale (e non semplicemente che le possa conoscere, effettuando indagini di propria iniziativa), nonché l'obbligatorietà, per l'amministrazione, di una verifica, altrimenti solo eventuale (v., in tema, Sez. 1, n. 23213 del 19/05/2010, Calabro', Rv. 247570; Sez. 1, n. 10024 del 30/01/2002, Le Pera, Rv. 221494), specificando che l'elemento soggettivo richiesto è il dolo generico, caratterizzato dalla mera cognizione della qualità di condannato o di sottoposto a misura di prevenzione del soggetto obbligato e del superamento della soglia di rilevanza dell'operazione, presupposti di fatto da cui sorge l'obbligo di comunicazione, senza che sia necessario il perseguimento del fine di occultamento delle informazioni, con l'ulteriore precisazione che l'ignoranza, da parte dell'interessato, della stessa esistenza dell'obbligo di comunicazione va ritenuta non scusabile, trattandosi di errore di diritto vertente su norma integratrice del precetto penale (in tal senso, v. Sez. 5, n. 13077 del 03/12/2015 - dep. 2016, Artale, Rv. 266381, con richiami ai precedenti). Da ultimo (sent. n. 99 del 2017), considerando la legittimità costituzionale dell'art. 31 della legge n. 646 del 1982, laddove indica, come penalmente rilevante, anche l'omessa comunicazione relativa a variazioni patrimoniali compiute con atti pubblici, soggette a trascrizione nei registri immobiliari e a registrazione a fini fiscali, ritenute, per tale ragione, inoffensive, la Corte costituzionale, ribadendo quanto già osservato nella sentenza n. 81 del 2014, ha respinto tale assunto, richiamando, ancora una volta, la giurisprudenza di legittimità, la quale ha individuato le finalità della norma incriminatrice nel consentire l'esercizio di un controllo patrimoniale penetrante e analitico della polizia tributaria nei confronti di persone ritenute particolarmente pericolose al fine di accertare tempestivamente se le variazioni patrimoniali dipendano o meno dall'eventuale svolgimento di attività illecite, escludendo che tale scopo possa essere raggiunto per la pubblicità dell'atto dispositivo, che non implica una diretta e immediata informazione del nucleo di polizia tributaria del luogo di dimora abituale della persona obbligata alla comunicazione e non consente un constante monitoraggio, dovendosi anche escludere che gravi sul destinatario della comunicazione un onere di consultazione permanente di tutti i pubblici registri. La Corte costituzionale ha comunque precisato come - sempre che non possa escludersi il dolo - spetti comunque al giudice di rilevare la offensività in concreto della condotta con riferimento al caso specifico, verificando se la singola omissione sia assolutamente inidonea a porre in pericolo il bene giuridico protetto dalla norma, tenendo conto delle finalità che la stessa persegue. Tanto premesso, la Corte ritiene di condividere il secondo degli indirizzi interpretativi in precedenza richiamati. L'estensione ad altri soggetti, operata dalla legge 136\2010 degli obblighi di comunicazione è pacificamente indicativa di una scelta del legislatore di ampliare l'ambito di applicazione della fattispecie incriminatrice. Occorre tuttavia stabilire se tale intervento abbia o meno inciso sulla struttura essenziale del reato, integrando il precetto penale ed a tale domanda deve darsi risposta negativa. Deve ritenersi che, riguardo al reato in esame, la selezione dei fatti penalmente rilevanti è stata operata dal legislatore facendo riferimento ai sottoposti a misura di prevenzione (o ai condannati con sentenza definitiva), posizione soggettiva preventivamente individuata, che resta indifferente ad eventuali modifiche normative riguardanti le preliminari condizioni per la relativa attribuzione, la quale, a sua volta, è conseguenza di un provvedimento giudiziale ormai definitivo, così come del tutto immutata resta l'essenza stessa del reato. In altre parole, la condizione di sottoposto a misura di prevenzione (o condannato definitivo) è del tutto indipendente dal contenuto delle disposizioni che ne disciplinano l'applicazione, costituendo un mero presupposto per l'insorgenza degli obblighi comunicativi e rispetto al quale la fisionomia del reato e le finalità perseguite dal legislatore restano inalterate, poiché l'incidenza degli interventi normativi succedutesi nel tempo ha solo ridefinito l'ambito di operatività del precetto. La condotta sanzionata è, infatti, quella di chiunque, essendovi in quel momento tenuto, omette di comunicare, nei termini specificati, le variazioni patrimoniali eccedenti i limiti indicati e le modifiche apportate nel tempo hanno riguardato esclusivamente il presupposto per l'insorgenza dell'obbligo, intervenendo sulla individuazione dei soggetti tenuti alla relativa osservanza, lasciando però inalterata la struttura della fattispecie ed il giudizio di disvalore formulato dal legislatore. Le finalità perseguite dal legislatore, lo si è detto, sono quelle di assicurare un capillare e continuativo controllo patrimoniale su soggetti ritenuti pericolosi al fine di verificare se le operazioni compiute siano correlate con attività illecite e ciò avviene mediante l'imposizione di un obbligo di comunicazione. Non si pone, conseguentemente, un problema di applicabilità dell'art. 2, comma quarto cod. pen., che presuppone una modifica della fattispecie incriminatrice che le richiamate disposizioni non hanno determinato. Va a tale proposito rilevato che la giurisprudenza di legittimità è pervenuta, in diverse occasioni, a conclusioni analoghe, seppure alla luce delle specifiche caratteristiche delle disposizioni prese in esame nel caso trattato. In tema di infortuni sul lavoro, ad esempio, si è affermato che le disposizioni che disciplinano gli obblighi ai quali devono uniformarsi i soggetti cui è demandata la tutela della salute dei lavoratori non hanno una funzione integratrice del precetto penale, poiché si limitano ad individuare le persone cui è attribuito il compito di osservare e fare osservare le regole cautelari, sicché una rimodulazione degli obblighi dei vari soggetti non può avere, quale conseguenza, quella di rendere legittima una condotta precedentemente vietata al fine di valutare la responsabilità dell'imputato (Sez. 4, n. 2604 del 25/10/2006, dep. 2007, Cazzarolli, Rv. 235780) Riguardo al delitto di cui all'art. 464 cod. pen. si è affermato che la legge sul bollo integra un elemento della norma incriminatrice quanto all'individuazione solo dei valori di bollo, non pure dei casi in cui ne è richiesto l'uso, con la conseguenza che la modificazione o l'abrogazione della disciplina di tali casi non configura una successione di leggi penali ai sensi dell' art. 2 cod. pen., in quanto la successione di norme extra-penali determina esclusivamente una variazione del contenuto del precetto con decorrenza dall'entrata in vigore della legge successiva o dall'emanazione del successivo provvedimento amministrativo di attuazione e che, in tale ipotesi, non viene meno il disvalore penale del fatto anteriormente commesso (Sez. 5, n. 18068 del 03/04/2002, Versace, Rv. 221917; conf. Sez. 5, n. 4634 del 18/12/2003, dep. 2004, Campicelli, Rv. 227454; Sez. 5, n. 26652 del 07/05/2004, Oliveri, Rv. 229880). A conclusioni analoghe si era in precedenza pervenuti in tema di responsabilità per la gestione di centri trasfusionali con riguardo al reato di cui all'art. 17 della legge 4 marzo 1990 n. 107, configurato per inosservanza di norme regolamentari contenute nel d.m. 27 dicembre 1990, poi sostituito dal d.m. 25 gennaio 2001, osservando che la normativa secondaria richiamata nella rubrica di reato, successivamente abrogata, aveva avuto incidenza esclusivamente sulla portata del comando, modificato nel relativi contenuti a far data dal provvedimento innovativo, lasciando però inalterato il disvalore ed il rilievo penale del fatto anteriormente commesso, sicché il controllo sull'antigiuridicità della condotta andava effettuato sul perimetro dei divieti esistenti al momento del fatto (Sez. 3, n. 18193 del 12/3/2002, Pata V, Rv. 221943). La necessaria distinzione tra norme integratici del precetto penale e quelle che non sono tali è stata posta in evidenza anche dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 2451 del 27/09/2007, dep. 2008, P.G. in proc. Magera, Rv. 238197, che individua le prime come modificazioni mediate della norma incriminatrice, da trattare, alla stregua dell'art. 2 cod. pen. come una successione di norme penali. e Sez. U, n. 19601 del 28/02/2008, Niccoli, Rv. 239398 che la richiama), mentre altre pronunce delle sezioni semplici, giunte sostanzialmente alle medesime conclusioni, hanno riguardato, ad esempio, la materia degli stupefacenti (Sez. 4, n. 17230 del 22/02/2006, Sepe, Rv. 234029), l'introduzione di armi in area protetta (Sez. 3, n. 15481 del 11/01/2011, Guttà, Rv. 250119), l'usura (Sez. 2, n. 46669 del 23/11/2011, De Masi, Rv. 252194), la bancarotta (Sez. 5, n. 11905 del 16/11/2015, dep. 2016, Branchi, Rv. 266474); il reato di cui all'art. 16, comma 1, del decreto legislativo n. 96 del 2003 (Sez. 3, n. 28681 del 27/01/2017, Peverelli, Rv. 270335). Resta da considerare – chiosa ancora il Collegio - che la soluzione interpretativa adottata non sembra porsi in contrasto con i principi stabiliti dalla Corte EDU con riferimento all'art. 7 della Convenzione e richiamati dalla Sezione rimettente sotto il profilo della concreta prevedibilità della sanzione (si richiama, a tale proposito, la sentenza Del Rio Prada c. Spagna del 21/10/2013). Invero, per le ragioni dianzi esposte, il precetto penale è chiaro nell'individuare, quali obbligati alle comunicazioni delle variazioni patrimoniali oltre una determinata soglia di valore, le persone sottoposte a misura di prevenzione (o a condanna), che restano soggette a tale obbligo per un periodo di tempo anch'esso specificato. L'inosservanza dell'obbligo è penalmente sanzionata. La fattispecie incriminatrice è pertanto sufficientemente definita (anche nei termini individuati dalle sentenze della Corte EDU Scoppola c. Italia del 17/9/2009 e De Tommaso c. Italia del 23/2/2017) e la mera condizione di soggetto sottoposto a misura di prevenzione richiede, conseguentemente, a fronte di tale previsione normativa, quantomeno una verifica della portata del precetto e delle eventuali conseguenze di una relativa inosservanza e ciò anche nel caso in cui gli effetti della misura siano cessati, essendo altrettanto chiaramente indicato dalla norma che l'obbligo di comunicazione permane per 10 anni. Analogamente, deve escludersi che abbia avuto in qualche modo incidenza negativa la sussistenza del contrasto giurisprudenziale che ha condotto all'odierna decisione, essendo sufficiente richiamare quanto condivisibilmente ribadito in una recente pronuncia (Sez. 5, n. 37857 del 24/04/2018, Fabbrizzi, Rv. 273876), richiamata anche nell'ordinanza di rimessione, osservando, dopo aver richiamato plurimi precedenti, che la non prevedibilità di una decisione giudiziale che ne preclude l'applicazione retroattiva deve certamente escludersi in una situazione di contrasto giurisprudenziale, in cui l'esito interpretativo, seppur controverso, è comunque presente, come avvenuto nel caso in esame, peraltro con un numero di decisioni decisamente contenuto. Alla stregua di quanto precede, può per le SSUU enunciarsi il seguente principio di diritto: l'art. 80 del d.lgs. n. 159 del 2011, relativo all'obbligo, per i soggetti già sottoposti a misura di prevenzione personale ex lege n. 1423 del 1956, di comunicare le variazioni del proprio patrimonio, la cui omissione è penalmente sanzionata dall'art. 76, comma 7, del d.lgs. n. 159 del 2011, si applica anche quando il provvedimento che ha disposto la misura è divenuto definitivo in data anteriore all'introduzione di tale obbligo. * * * Il 30 aprile esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.17980 alla cui stregua sussiste continuità normativa tra l’abrogata fattispecie del millantato credito ex art.346 c.p. ed il neo introdotto reato di traffico di influenze illecite di cui all’art.346 bis c.p. La Corte rammenta come con la legge 9 gennaio 2019, n. 3, il legislatore abbia abrogato l'art. 346 cod. pen. (che appunto prevedeva il delitto di millantato credito) ed abbia inglobato la condotta ivi prevista nell'art. 346-bis cod. pen., che sanziona il traffico di influenze illecite. Nella Relazione introduttiva al Disegno di legge poi diventato legge n. 3 del 2019, chiosa ancora la Corte, si evidenzia come uno degli scopi principali dell'intervento legislativo sia quello di adeguare la normativa interna agli obblighi convenzionali imposti al nostro Paese dalla Convenzione penale sulla corruzione del Consiglio d'Europa, firmata a Strasburgo il 27 gennaio 1999 e, in particolare, all'Addenda al Second Compliance Report sull'Italia approvato il 18 giugno 2018, nella sua ottantesima assemblea plenaria, dal GRECO (Group of States against Corruption' istituito dal Consiglio d'Europa nel 1999), all'esito della procedura volta a verificare l'adeguamento del nostro ordinamento alle indicazioni già impartite in precedenza dallo stesso organismo. Nell'Addenda al Second Compliance Report, il GRECO aveva difatti evidenziato come - salvi gli ambiti in relazione ai quali il legislatore nazionale ha legittimamente esercitato il diritto di riserva ex art. 37 - permanessero ancora difformità tra il diritto interno e gli obblighi convenzionali imposti dalla Convenzione (specificamente all'art. 12) ed aveva, pertanto, sollecitato lo Stato italiano ad intervenire su diversi specifici temi, in particolare, anche a conformare la disciplina del traffico di influenze illecite agli obblighi internazionali assunti dal nostro Paese. Recependo tali indicazioni, il legislatore ha dunque riscritto la formulazione del delitto di traffico di influenze illecite previsto dall'art. 346-bis cod. pen. e vi ha inglobato la condotta già sanzionata sotto forma di millantato credito nella disposizione precedente. In particolare, avendo riguardo alla sola condotta passiva (che viene in rilievo nell'ipotesi di specie), il comma primo dell'art. 346-bis punisce la condotta di chi "sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite con un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all'articolo 322-bis, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità come prezzo della propria mediazione illecita verso un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all'articolo 322-bis, ovvero per remunerarlo in relazione all'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri". In altri termini, la "nuova" ipotesi di traffico di influenze illecite punisce anche la condotta del soggetto che si sia fatto dare o promettere da un privato vantaggi personali - di natura economica o meno -, rappresentandogli la possibilità di intercedere a suo vantaggio presso un pubblico funzionario, a prescindere dall'esistenza o meno di una relazione con quest'ultimo. Ciò a condizione - fatta oggetto di un'espressa clausola di riserva ("fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 318, 319, 319-ter e nei reati di corruzione di cui all'articolo 322-bis") - che l'agente non eserciti effettivamente un'influenza sul pubblico ufficiale o sul soggetto equiparato e non vi sia mercimonio della pubblica funzione, dandosi, altrimenti, luogo a taluna delle ipotesi di corruzione previste da detti articoli. La norma – prosegue la Corte - equipara, dunque, sul piano penale la mera vanteria di una relazione o di credito con un pubblico funzionario soltanto asserita ed in effetti insussistente (dunque la relazione solo millantata) alla rappresentazione di una relazione realmente esistente con il pubblico ufficiale da piegare a vantaggio del privato. Risultano dunque superate le difficoltà, spesso riscontrate nella prassi giudiziaria, nel tracciare in concreto il discrimen fra il delitto di millantato credito previsto dall'art. 346 cod. pen. e quello di traffico di influenze, di cui all'art. 346- bis cod. pen., scaturenti dalla difficoltà di verificare l'esistenza - reale o solo ostentata - della possibilità di influire sul pubblico agente. Stante la delineata parificazione a fini penali delle diverse situazioni, rimane dunque rimessa al prudente apprezzamento del giudicante la graduazione della risposta sanzionatoria in funzione dell'effettiva gravità in concreto dei fatti. Delineato l'ambito della recente riforma in materia, evidente si appalesa per la Corte la continuità normativa fra il previgente art. 346 ed il rinovellato art. 346-bis cod. pen.; ed invero, salvo che per la previsione della punibilità del soggetto che intenda trarre vantaggi da tale influenza ai sensi del comma secondo del "nuovo" 346-bis cod. pen. (non prevista nella pregressa ipotesi di millantato credito, nell'ambito della quale questi assumeva anzi la veste di danneggiato dal reato) e la non perfetta coincidenza fra le figure verso le quali la millanteria poteva essere espletata (atteso che l'abrogato art. 346 aveva riguardo al credito millantato presso il "pubblico ufficiale" e l'"impiegato che presti un pubblico servizio", mentre nell'attuale fattispecie rileva la rappresentata possibilità di condizionare il "pubblico ufficiale" e l"incaricato di un pubblico servizio", a prescindere dal fatto che sia un "impiegato"), la norma di cui all'art. 346-bis di recente riformulata sanziona le medesime condotte già contemplate dall'art. 346 abrogato. In particolare, la fattispecie incriminatrice di traffico d'influenze come riscritta punisce la condotta di chi "sfruttando o vantando relazioni esistenti o assenti" con un funzionario pubblico "indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro od altra utilità come prezzo della propria mediazione illecita" "ovvero per remunerarlo in relazione all'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri". Detta condotta certamente ingloba la precedente contemplata dall'art.346 cod. pen., là dove sanzionava la condotta di chi "millantando credito" presso un funzionario pubblico (con la differenza quanto all'impiegato di cui si è già detto) "riceve o fa dare o fa promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione" (comma primo) ovvero "col pretesto di dover comprare il favore di un pubblico ufficiale o impiegato, o di doverlo remunerare" (comma secondo). Sostanzialmente sovrapponibili sono, invero, tanto la condotta "strumentale" (stante l'equipollenza semantica fra le espressioni "sfruttando o vantando relazioni (...) asserite" e quella "millantando credito"), quanto la condotta "principale" di ricezione o di promessa, per sé o per altri, di denaro o altra utilità. Conclusivamente, deve essere affermato il principio di diritto secondo il quale, in relazione alla condotta di chi, vantando un'influenza - effettiva o meramente asserita - presso un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio, si faccia dare denaro e/o altre utilità come prezzo della propria mediazione, sussiste piena continuità normativa tra la fattispecie di cui all'art. 346 cod. pen. formalmente abrogata dall'art. 1, comma 1 lett. s), legge 9 gennaio 2019, n. 3, e la fattispecie di cui all'art. 346-bis cod. pen., come novellato dall'art. 1, comma 1 lett. t), stessa legge. Tanto premesso, quanto alla continuità normativa fra la previgente incriminazione di millantato credito di cui all'art. 346 e quella di cui al riformato delitto di traffico d'influenze previsto dall'art. 346-bis, non può sfuggire per la Corte come diverso e più mite sia il trattamento sanzionatorio previsto da quest'ultima disposizione. Da un lato, la fattispecie vigente è punita con la sola pena detentiva mentre il previgente millantato credito era sanzionato congiuntamente con le pene detentiva e pecuniaria; dall'altro lato, l'attuale incriminazione prevede la pena massima di 4 anni e 6 mesi di reclusione, mentre il massimo edittale della pena detentiva del previgente art. 346 era fissato in 5 anni. Essendo mutati i parametri sanzionatori di riferimento, in ossequio al disposto dell'art. 2 cod. pen., la pena applicata dai giudici lombardi nel caso di specie risulta pertanto per la Corte illegale; va invero ribadito che il diritto dell'imputato, desumibile dall'art. 2, comma quarto, cod. pen., ad essere giudicato in base al trattamento più favorevole tra quelli succedutisi nel tempo, comporta per il giudice della cognizione il dovere di applicare la lex mitior anche nel caso in cui la pena inflitta con la legge previgente rientri nella nuova cornice sopravvenuta, in quanto la finalità rieducativa della pena ed il rispetto dei principi di uguaglianza e di proporzionalità impongono di rivalutare la misura della sanzione, precedentemente individuata, sulla base dei parametri edittali modificati dal legislatore in termini di minore gravità (Sez. U n. 46663 del 26/06/2015, Della Fazia, Rv. 265110). * * * Il 20 maggio esce la sentenza della II sezione civile della Cassazione n. 13509 secondo cui, in tema di sanzioni amministrative per violazione delle norme antiriciclaggio, nel caso di mancata contestazione immediata della violazione stessa, l'attività di accertamento dell'illecito non coincide con il momento in cui viene acquisito il "fatto" nella sua materialità, ma deve essere intesa come comprensiva del tempo necessario alla valutazione dei dati acquisiti e afferenti agli elementi (oggettivi e soggettivi) dell'infrazione e, quindi, della fase finale di deliberazione, correlata alla complessità delle indagini tese a riscontrare la sussistenza dell'infrazione medesima e ad acquisire piena conoscenza della condotta illecita sì da valutarne la consistenza agli effetti della corretta formulazione della contestazione. Compete, poi, al giudice di merito determinare il tempo ragionevolmente necessario all'Amministrazione per giungere a una simile completa conoscenza, individuando il dies a quo di decorrenza del termine, e tenendo conto della maggiore o minore difficoltà del caso concreto e della necessità che tali indagini, pur nell'assenza di limiti temporali predeterminati, avvengano entro un termine congruo essendo il relativo giudizio sindacabile, in sede di legittimità, solo sotto il profilo del vizio di motivazione. Peraltro, la Corte evidenzia come la disciplina portata dal d.lgs. 90/2017, che ha innovato le disposizioni legislative presenti nel d.lgs. 231/2007, trovi applicazione anche ai procedimenti pendenti di opposizione alla sanzione amministrativa irrogata nella vigenza della precedente normativa. Difatti, con chiarezza, all'art 69 del vigente testo normativo risulta posto, in via generale, il principio del favor rei, consentendo anche per le sanzioni amministrative correlate alla normativa antiriciclaggio l'immediata applicazione della normativa sopravvenuta, se più favorevole, così derogando al principio generale sino ad oggi ritenuto per le sanzioni amministrative del tempus regit actum. La lettera dell'art. 69 citato appare perspicua nel disciplinare appositamente la sorte delle condotte illecite poste in essere precedentemente alla sua entrata in vigore ma ancora pendenti, ribadendo bensì il principio della loro soggezione alla disciplina vigente al momento della commissione del fatto, ma solamente quando questa sia più favorevole al soggetto sanzionato, sicché in difetto di tale presupposto trova applicazione la nuova disciplina in quanto sia più favorevole. Viene quindi espresso il seguente principio di diritto “In materia di sanzioni amministrative, le norme sopravvenute nella pendenza del giudizio di legittimità che dispongano retroattivamente un trattamento sanzionatorio più favorevole devono essere applicate anche d'ufficio dalla Corte di Cassazione, atteso che la natura e lo scopo squisitamente pubblicistici del principio del favor rei devono prevalere sulle preclusioni derivanti dalle ordinarie regole in tema d'impugnazione; né tale conclusione contrasta con i principi in materia di rapporto fra jus superveniens e cosa giudicata, perché la statuizione sulla misura della sanzione è dipendente dalla statuizione sulla responsabilità del sanzionato e pertanto, ai sensi dell'articolo 336 c.p.c., è destinata ad essere travolta dall'eventuale caducazione di quest'ultima, cosicché essa non può passare in giudicato fino a quando l'accertamento della responsabilità del sanzionato non sia a propria volta passata in giudicato". * * * Il 21 giugno esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 155 secondo cui l'inammissibilità di questioni di legittimità costituzionale con potenziali effetti in malam partem – perché miranti a conseguire il ripristino nell'ordinamento di norme incriminatrici abrogate, la creazione di nuove norme penali o l'estensione del loro ambito applicativo a casi non previsti (o non più previsti) dal legislatore, o, ancora, l'aggravamento delle conseguenze sanzionatorie o della complessiva disciplina del reato - non può essere considerata come principio assoluto. In particolare, il sindacato della Corte costituzionale è stato ammesso laddove il legislatore introduca norme penali di favore, che sottraggano irragionevolmente un determinato sottoinsieme di condotte alla regola della generale rilevanza penale di una più ampia classe di condotte, stabilita da una disposizione incriminatrice vigente, ovvero prevedano per detto sottoinsieme - altrettanto irragionevolmente - un trattamento sanzionatorio più favorevole. In tal caso, l'effetto in malam partem non discende dall'introduzione di nuove norme o dalla manipolazione di norme esistenti da parte della Corte, la quale si limita a rimuovere la disposizione giudicata lesiva dei parametri costituzionali; esso rappresenta, invece, una conseguenza dell'automatica riespansione della norma generale o comune, dettata dallo stesso legislatore, al caso già oggetto di una incostituzionale disciplina derogatoria. * * * Il 25 giugno esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 27897 che si allinea all’orientamento secondo cui, in tema di patteggiamento, la sopravvenuta abolitio criminis su alcune delle fattispecie che abbiano formato oggetto della sentenza di applicazione della pena su richiesta comporta che tale patto debba essere sciolto non potendo superare indenne, nella sua globalità, il vaglio del giudice di legittimità. In caso di patteggiamento per una pluralità di reati, qualora nel corso del giudizio il reato base o una delle violazioni "satellite" vengano depenalizzati, il venir meno di uno dei termini essenziali del contenuto dell'accordo che ha portato al patteggiamento travolge l'intero provvedimento e impone l'annullamento della sentenza per una nuova valutazione delle parti, poiché l'abolizione incide in modo significativo in ordine sia alla determinazione dell'aumento in continuazione, che alla valutazione complessiva della condotta contestata. * * * Il 1° ottobre esce la sentenza della sezione feriale della Cassazione n. 40140 secondo cui l'entrata in vigore del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati (d'ora in avanti: Regolamento), ha profondamente innovato la materia, con disposizioni aventi ovviamente diretta ed immediata applicazione nell'ordinamento interno: interessa qui subito evidenziare che il Regolamento ha tra l'altro introdotto (art. 83) un sistema di sanzioni amministrative pecuniarie sia per le violazioni degli obblighi da parte dei soggetti investiti del dovere di garantire l'efficace tutela dei dati personali, sia le violazioni dei principi base del trattamento dei dati stessi (compresi quelli relativi al consenso e ai diritti degli interessati: cfr. artt. 5 ss. Del Regolamento). Quest'ultimo ha peraltro anche rimesso alla potestà sanzionatoria degli Stati membri (art. 84) la possibilità di introdurre ulteriori sanzioni per la violazione di disposizioni diverse da quelle già sanzionate dal Regolamento stesso, facendo espresso riferimento alla possibilità che tali ulteriori disposizioni sanzionatorie abbiano natura penale, ed afferiscano a violazione di norme nazionali adottate in virtù ed entro i limiti del Regolamento (cfr. il Considerando n. 149). In tale quadro, è intervenuta la legge n. 163 del 2017 (legge di delegazione europea 2016-2017), che ha delegato il Governo ad intervenire sul Codice della Privacy, anche al fine di adeguare il sistema sanzionatorio ivi previsto alla normativa di matrice europea. Il legislatore delegato, con il d.lgs. n. 101 del 2018, ha profondamente modificato il predetto Codice, sia abrogando numerosissime disposizioni ormai superate dall'impianto normativo contenuto nel Regolamento, sia intervenendo in termini assai significativi sull'impianto sanzionatorio. Sono state infatti introdotte, da un lato, una serie di ulteriori ipotesi di illecito amministrativo per la violazione di alcune disposizioni del Codice, dettagliatamente indicate nel novellato art. 166. D'altro lato - ed è quel che specificamente interessa in questa sede - il d.lgs. n. 101 ha considerevolmente ridotto l'ambito della risposta sanzionatoria penale: il nuovo testo dell'art. 167 - che nei due commi della previgente formulazione sanzionava anche la violazione delle disposizioni, oggi abrogate, di cui agli artt. 18, 19, 23 (primo comma), 17, 20, 21, 22, 26, 27, 45 (secondo comma) - ha tenuto ferma la rilevanza penale solo di alcuni specifici comportamenti. In particolare, continuano ad essere penalmente sanzionate, ai sensi del primo comma dell'art. 167, solo le violazioni – purché sorrette dal dolo specifico di trarre per sé o per altri profitto, o di recare all'interessato un danno, e purché produttive di "nocumento" a quest'ultimo - delle norme relative al trattamento dei dati relativi al traffico, riguardanti contraenti ed utenti trattati dal fornitore di una rete pubblica di comunicazioni o di un servizio di comunicazione elettronica accessibile al pubblico (cd. tabulati, art. 123 del Codice); al trattamento dei dati relativi all'ubicazione, diversi da quelli relativi al traffico, riguardanti i medesimi soggetti (art. 126); alle cd. comunicazioni indesiderate (art. 130); nonché le violazioni dei provvedimenti del Garante in tema di inserimento ed utilizzo dei dati personali negli elenchi cartacei o elettronici a disposizione del pubblico (art. 129). Il novellato secondo comma dell'art. 167 punisce altresì, più gravemente, la violazione delle disposizioni in tema di trattamento dei dati sensibili e dei dati giudiziari, mentre le nuove disposizioni introdotte al terzo comma dell'art. 167, all'art. 167-bis e all'art. 167-ter prevedono, rispettivamente, sanzioni penali per la violazione delle disposizioni in tema di trasferimento dei dati personali verso un paese terzo o un'organizzazione internazionale, in tema di comunicazione e diffusione illecite, e di acquisizione fraudolenta, di un archivio automatizzato o di una sua parte sostanziale, che contenga dati personali oggetto di trattamento su larga scala. 2020 Il 16 gennaio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 1628 ove il Collegio, dopo aver richiamato e condiviso la giurisprudenza in merito all'applicabilità dell'art. 2 cod. pen. in riferimento alla modifica apportata dal D.Lgs. n. 36/2018 al testo dell'art. 646 cod. pen. ed all'interpretazione della querela quale istituto di natura sia sostanziale, che processuale, tale da concorrere a determinare i presupposti per l'attuazione del precetto penale nel caso concreto e da consentire l'applicazione retroattiva delle disposizioni favorevoli all'imputato anche in tema di sostituzione del regime di procedibilità di ufficio con quello di procedibilità a querela (Sez. U, n. 40150 del 21/06/2018), osserva però che tale orientamento è stato espresso in riferimento a rapporti processuali pendenti in sede di cognizione per reati commessi in data antecedente e non è validamente riferibile alla fase di esecuzione. È infatti da escludere che il giudice dell'esecuzione possa revocare la condanna, rilevando la mancata integrazione dei presupposti di procedibilità. E ciò per la dirimente considerazione che il sopravvenuto regime di procedibilità a querela, non integrando un elemento costitutivo della fattispecie penale, da cui dipenda la sua accertabile esistenza, non è idoneo ad operare l'abolitio criminis, capace di prevalere per la sua funzione abrogatrice sul giudicato e da determinare la revoca della sentenza di condanna in sede esecutiva ai sensi dell'art. 673 c.p.p.. * * * Il 4 febbraio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 4772 che ritiene esserci piena continuità normativa tra l’art. 223 l.fall. (bancarotta fraudolenta) e l’art. 329 del Codece della crisi d’impresa e dell’insolvenza, non potendosi quindi ravvisare un fenomeno di abolitio criminis. * * * Il 7 febbraio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 5221 che richiama il consolidato orientamento secondo cui sussiste continuità normativa tra il reato di millantato credito, formalmente abrogato dall'art. 1, comma 1, lett. s), I. 9 gennaio 2019, n. 3, e quello di traffico di influenze di cui al novellato art. 346-bis cod. pen., atteso che in quest'ultima fattispecie risultano attualmente ricomprese le condotte già previste in detta norma penale, incluse quelle di chi, vantando un'influenza, effettiva o meramente asserita, presso un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, si faccia dare denaro ovvero altra utilità quale prezzo della propria mediazione. Posto quanto sopra, il Collegio ritiene che vada esclusa la continuità normativa tra la fattispecie di cui all'art. 346, secondo comma, cod. pen. e l'attuale art. 346-bis cod. pen.. Ed invero, l'ipotesi di cui all'art. 346, secondo comma, cod. pen., rispetto a quella di cui al primo comma, risultava integrare una autonoma fattispecie penale ricalcata sullo schema della truffa. Parte della giurisprudenza ha avuto modo di osservare, in continuità con conformi precedenti, come il delitto di truffa dovesse ritenersi assorbito in quello di millantato credito previsto dall'art. 346, comma secondo, cod. pen. proprio a cagione dell'impossibilità di configurare il concorso formale tra i due reati; ciò in quanto la condotta sanzionata dall'art. 346, comma secondo, cod. pen., a differenza di quella prevista dal primo comma, consiste in una forma di raggiro nei confronti del soggetto passivo che viene indotto ad un accordo che lo impegna ad una prestazione patrimoniale in quanto determinato da una falsa rappresentazione della realtà. La ragione per cui, infatti, la fattispecie già prevista dal secondo comma dell'art. 346 cod. pen. è stata sempre ritenuta quale ipotesi autonoma rispetto a quella di cui al comma primo risiede nel fatto che la norma in esame censura penalmente la condotta di chi si fa dare o promettere per sé o per altri «denaro o altra utilità, col pretesto di dover comprare il favore del pubblico ufficiale o impiegato, o di doverlo remunerare»; condotta che, a differenza di quella ricompresa nella fattispecie di cui al primo comma, non può che realizzarsi attraverso artifici e raggiri propri della truffa, contegno fraudolento ben evidente là dove la norma fa espresso e significativo riferimento al "pretesto", termine che evoca la rappresentazione di una falsa causa posta a base della richiesta decettiva idonea ad indurre in errore la vittima che si determina alla prestazione patrimoniale. Il comportamento truffaldino risulta palese nella parte in cui ciò che assume rilevanza nella complessiva dinamica dell'operazione che si conclude con il depauperamento patrimoniale della vittima, non è tanto l'ipotetico futuro rapporto, che si deve ritenere inesistente, tra il millantatore ed il pubblico funzionario, quanto l'eminente tutela patrimoniale accordata dalla norma al truffato. Seppure, allora, risulta evidente che intenzione del legislatore (in tal senso la Relazione di accompagnamento al disegno di legge, in cui si dà atto della continuità normativa tra l'abrogato millantato credito di cui all'art. 346 cod. pen. e la fattispecie di nuovo conio ex art. 346-bis cod. pen.) fosse proprio quella di inglobare la fattispecie di cui all'art. 346, primo e secondo comma, nella fattispecie di cui all'art. 346-bis cod. pen. attraverso l'enunciazione dei distinti sintagmi che evocherebbero il contenuto di detta norma, plurimi risultano i dati che depongono per una discontinuità tra la vecchia fattispecie di cui all'art. 346, comma secondo, e quella di cui all'attuale art. 346-bis cod. pen., norma inserita dall'art. 1, comma 75, lett. r), I. 6 novembre 2012, n. 190, e modificata, previa abrogazione dell'art. 346 cod. pen., dall'art. 1, comma 1, lett. t), n. 1, 1.9 gennaio 2019, n. 3. Innanzitutto deve osservarsi che non indifferente risulta la circostanza che la norma inglobante l'abrogata fattispecie di cui all'art. 346 cod. pen. preveda la punizione di condotte afferenti al traffico di influenze illecite, attività che il legislatore ha ritenuto essere prodromiche alle più gravi condotte di corruzione, circostanza resa ancor più evidente proprio dalla riserva di legge posta ad apertura della norma con riferimento agli artt. 318, 319, 319-ter e nei reati di cui all'art. 322-bis cod. pen.; anche l'attuale inserimento con la medesima legge del 9 gennaio 2019, n. 3, dell'art. 318 cod. pen., in precedenza non previsto, tra le norme ricomprese nella riserva di legge, rafforza tale convincimento. Per mezzo della nuova ipotesi di reato di legislatore ha inteso anticipare la soglia di punibilità rispetto a condotte che difficilmente avrebbero potuto integrare il delitto di corruzione (neppure nella forma tentata) e che fanno chiaramente presagire come la tutela sia eminentemente volta a salvaguardare l'attività della pubblica amministrazione nella sue varie articolazioni nazionali ed internazionali. Sotto tale aspetto, allora, non può che osservarsi che un reato che era rivolto in maniera preponderante alla tutela del patrimonio della vittima truffata dal «venditore di fumo», difficilmente si presta a realizzare un vulnus alla pubblica funzione e di necessitare di una tutela rispetto a fatti che nessun collegamento, sia in astratto che in concreto, potrebbero avere con gli interessi pubblici teleologicamente tutelati dalla norma penale in esame. In secondo luogo deve osservarsi che il comma secondo dell'art. 346-bis cod. pen. ha previsto la punizione con identica pena (da un anno a quattro anni e sei mesi di reclusione) del soggetto che "indebitamente" dà o promette denaro o altra utilità, fattispecie penale che mal si concilia con un'ipotesi -seppur particolare - di truffa. Poiché, infatti, l'agente pone in essere raggiri per indurre il soggetto passivo in errore sull'esistenza di una rapporto con un soggetto pubblico in realtà inesistente, non si comprende come possa ipotizzarsi da parte del «truffato» un'aggressione al bene giuridico che la norma intende preservare. Preponderante risulta, al fine di negare continuità normativa a condotte in precedenza ricomprese nel secondo comma e pur in presenza di una esplicitata intenzione del legislatore di una «abrogatio sine abolitione», la non esatta corrispondenza tra la condotta in precedenza prevista dalla norma abrogata e quella attualmente inglobata nel primo comma dell'art. 346-bis cod. pen., nella parte in cui è stato riprodotto il sintagma: «sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite con un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all'art. 322-bis cod. pen., indebitamente fa dare o promettere a sé o ad altri, denaro o altra utilità (...) per remunerarlo in relazione all'esercizio delle sui funzioni o dei suoi poteri». La mancata riproposizione del termine "pretesto" contenuto nella precedente ipotesi di reato o altro di natura equipollente, che come sopra osservato, fondava il carattere autonomo della fattispecie di reato di cui all'art. 346, comma secondo, cod. pen. - inserendo la stessa in una storicamente riconosciuta particolare ipotesi di truffa, tanto da ritenersi l'assorbimento della fattispecie di cui all'art. 640 cod. pen. quando nessuna relazione tra millantatore ed il pubblico ufficiale o impiegato sussisteva - fa ritenere che non vi sia identità tra la norma abrogata e quella oggi prevista dall'art. 346-bis cod. pen. per come modificata dalla I. 9 gennaio 2019, n 3. Omissione che non può valutarsi indifferente neppure ove si assegni alla parte della norma che fa riferimento al vanto di relazioni asserite (testualmente «vantando relazioni [...] asserite»), il significato di ritenere che tali relazioni siano meramente enunciate dall'agente. Sotto tale aspetto invero, come anche affermato da autorevole dottrina, deve osservarsi che il riferimento "al vanto a relazioni asserite" non può essere intesa come condotta sovrapponibile a quella posta in essere con l'inganno (resa palese con il termine "pretesto"), dovendosi ritenere che l'enunciazione da parte del mediatore-faccendiere al rapporto con l pubblici poteri non sia rivolto ad indurre in errore per mezzo di artifici e raggiri il cliente, quanto necessariamente a prospettare, seppure non in termini di certezza, la concreta possibilità di influire sull'agente pubblico; condotta tesa non a sfruttare una relazione inesistente ma a vantare la concreta possibilità di riuscire ad influenzare l'agente pubblico, comportamento che si pone, a ben osservare, nella fase immediatamente prodromica rispetto ad un eventuale reale coinvolgimento dell'agente pubblico, circostanza che, qualora si realizzi, integra le fattispecie di cui agli artt. 318, 319, 319-ter e nei reati di corruzione di cui all'art. 322-bis cod. pen. enunciati nella riserva contenuta nell'incipit della norma penale di cui all'art. 346-bis cod. pen. Deve, allora, riconoscersi che non c'è continuità normativa tra l'abrogata ipotesi di millantato credito già prevista nell'art. 346, secondo comma, cod. pen. nella condotta dell'agente che si riceve o fa dare o promettere denaro o altra utilità, col pretesto di dover comprare il pubblico ufficiale o impiegato o doverlo comunque remunerare e quella prevista nell'art. 346-bis cod. pen. nella parte in cui punisce il faccendiere che sfruttando o vantando relazioni asserite con l'agente pubblico si fa dare o promettere indebitamente denaro o altra utilità per remunerare l'agente pubblico in relazione all'esercizio delle sue funzioni; condotta che, in considerazione della intervenuta abrogazione del secondo comma dell'art. 346 cod. pen., deve ritenersi integrare il delitto di cui all'art. 640, primo comma, cod. pen. allorché l'agente, mediante artifici e raggiri, induca in errore la parte offesa che si determina a corrispondere denaro o altra utilità a colui che vanti rapporti neppure ipotizzabili con il pubblico agente. * * * Il 20 maggio esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 96 sulla tematica della cosiddetta successione impropria tra norme penali e norme sanzionatorie amministrative, originata dagli interventi di depenalizzazione. I molteplici provvedimenti, generali o settoriali, di trasformazione di reati in illeciti amministrativi, che da oltre un quarantennio si susseguono nel nostro ordinamento, hanno generato, in effetti, un interrogativo ricorrente: quale sia, cioè, la sorte dei fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge depenalizzatrice. Esclusa pacificamente l’ultrattività delle vecchie sanzioni penali, perché abolite (art. 2, secondo comma, cod. pen.), l’alternativa ermeneutica che si è posta è se – in assenza di un’apposita disciplina transitoria – i fatti pregressi debbano ritenersi soggetti alle nuove sanzioni amministrative o restino, invece, esenti da qualsiasi sanzione. In contrasto con l’indirizzo già adottato sullo specifico tema dalle sezioni civili della Corte di cassazione, le sezioni penali della medesima Corte – escludendo che possa ravvisarsi una “continuità” tra il vecchio illecito penale e il nuovo illecito amministrativo – si sono orientate, in modo largamente prevalente, a favore della seconda soluzione (quella della completa impunità dei fatti pregressi). Ciò, sia alla luce del principio di legalità enunciato dall’art. 1 della legge n. 689 del 1981, che impedisce di applicare le sanzioni amministrative a fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge che le ha introdotte; sia in ragione della ritenuta impossibilità di estendere al fenomeno considerato il principio di retroattività della legge più favorevole al reo, di cui all’art. 2, quarto comma, cod. pen., trattandosi di principio circoscritto alla successione di leggi entrambe penali. Tale orientamento, già recepito dalle sezioni unite penali con una pronuncia del 1994 (Corte di cassazione, sezioni unite penali, 16 marzo-27 giugno 1994, n. 7394), può considerarsi allo stato consolidato, dopo che esso è stato più di recente ribadito dal medesimo consesso (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 29 marzo-28 giugno 2012, n. 25457). L’esito della totale impunità dei fatti pregressi – postulato dalla giurisprudenza di legittimità penale sulla base delle coordinate generali del sistema vigente – può porre, però, sul piano sostanziale, problemi di coerenza con la ratio dell’intervento di depenalizzazione. Diversamente, infatti, che nel caso della mera abolitio criminis, nel caso della depenalizzazione il legislatore continua indubbiamente ad annettere un disvalore alla condotta, tale da giustificare tuttora la sua punizione, sia pure con una sanzione di grado inferiore (amministrativa, anziché penale). Ciò non vale a spiegare perché chi ha commesso il fatto quando era represso in modo (tendenzialmente) più severo debba rimanere totalmente impunito, laddove invece chi lo commette quando è punito in modo (tendenzialmente) più mite soggiace, comunque sia, a una sanzione. Proprio per scongiurare un simile risultato è divenuta, quindi, prassi ricorrente quella di corredare gli interventi di depenalizzazione con un’apposita disciplina transitoria, volta a rendere applicabili le nuove sanzioni amministrative, da essi introdotte per gli illeciti depenalizzati, anche ai fatti anteriori. Questa soluzione è stata, in fatto, ripetutamente adottata in occasione del varo di provvedimenti di depenalizzazione a carattere generale, a cominciare dal primo (art. 15 della legge 24 dicembre 1975, n. 706, recante «Sistema sanzionatorio delle norme che prevedono contravvenzioni punibili con l’ammenda») e poi seguito da altri (artt. 40 e 41 della legge n. 689 del 1981; art. 4 della legge 28 dicembre 1993, n. 561, recante «Trasformazione di reati minori in illeciti amministrativi»; artt. 100, 101 e 102 del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507, recante «Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell’articolo 1 della legge 25 giugno 1999, n. 205»). Alla medesima strategia si uniforma anche il d.lgs. n. 8 del 2016. Tale decreto legislativo – adottato sulla base della delega conferita dall’art. 2 della legge n. 67 del 2014 – attua una depenalizzazione ad ampio spettro, che investe tutti i reati previsti da leggi speciali per i quali è comminata la sola pena pecuniaria (cosiddetta “depenalizzazione cieca”: art. 1), nonché una serie di reati, anche del codice penale, individuati singulatim (cosiddetta “depenalizzazione nominativa”: artt. 2 e 3). Per quanto interessa ai presenti fini, la “depenalizzazione cieca” ha determinato la trasformazione in illecito amministrativo, tra gli altri, del reato di guida senza patente, di cui all’art. 116, comma 15, cod. strada. La guida di veicoli in difetto del prescritto titolo abilitativo, precedentemente punita con la sola ammenda da 2.257 a 9.032 euro, è ora soggetta – in forza dell’art. 1, comma 5, lettera b), del d.lgs. n. 8 del 2016 – alla sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 30.000 euro (salvi i successivi aggiornamenti disposti ai sensi dell’art. 195 cod. strada). L’intervento di depenalizzazione è accompagnato, anche in questo caso, da una disciplina transitoria, recata segnatamente dagli artt. 8 e 9 del d.lgs. n. 8 del 2016: disciplina contro la quale si rivolgono le censure del rimettente. L’art. 8, comma 1, stabilisce, in particolare, che «[l]e disposizioni del presente decreto che sostituiscono sanzioni penali con sanzioni amministrative si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto stesso, sempre che il procedimento penale non sia stato definito con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili». Il successivo comma 3 dello stesso art. 8 pone, peraltro, un limite all’applicazione retroattiva delle sanzioni amministrative ai fatti anteriori, inteso a mantenere tale previsione nella logica del principio di retroattività della lex mitior, evitando che da essa possano viceversa sortire effetti peggiorativi del trattamento sanzionatorio. In quest’ottica, si prevede che «[a]i fatti commessi prima della data di entrata in vigore del presente decreto non può essere applicata una sanzione amministrativa pecuniaria per un importo superiore al massimo della pena originariamente inflitta per il reato, tenuto conto del criterio di ragguaglio di cui all’art. 135 del codice penale. A tali fatti non si applicano le sanzioni amministrative accessorie introdotte dal presente decreto, salvo che le stesse sostituiscano corrispondenti pene accessorie». Nell’ambito della formula «massimo della pena originariamente inflitta per il reato» il participio «inflitta» non può che essere inteso come sinonimo di «comminata» in astratto dal legislatore: rispetto a una pena ormai determinata in concreto dal giudice non avrebbe, infatti, senso parlare di «massimo» e di «minimo». Di conseguenza, i fatti di guida senza patente anteriori al decreto di depenalizzazione restano soggetti a una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 5.000 a euro 9.032, tale essendo il massimo edittale della vecchia ammenda. L’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 8 del 2016 – ponendosi anch’esso nel solco di molteplici precedenti provvedimenti di depenalizzazione – stabilisce, infine, che «[n]ei casi previsti dall’articolo 8, comma 1, l’autorità giudiziaria, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, dispone la trasmissione all’autorità amministrativa competente degli atti dei procedimenti penali relativi ai reati trasformati in illeciti amministrativi, salvo che il reato risulti prescritto o estinto per altra causa alla medesima data». Le relative modalità procedurali sono regolate dai successivi commi 2 e 3: in particolare, nel caso in cui l’azione penale sia già stata esercitata il giudice pronuncia, ai sensi dell’art. 129 del codice di procedura penale, sentenza inappellabile di proscioglimento perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, disponendo la trasmissione degli atti a norma del comma 1 (comma 3). Le disposizioni transitorie licenziate dal Governo, sulla scia dei precedenti legislativi, non contrastano con gli indirizzi generali della legge delega: esse costituiscono, all’opposto, un coerente sviluppo e completamento delle scelte del delegante: evitare che si produca una completa impunità dei fatti pregressi risponde alla logica degli interventi di depenalizzazione, trattandosi di esito contrario alla ratio legis, che è quella di modificare in senso (tendenzialmente) mitigativo – e non già di eliminare – la sanzione per un fatto che resta, comunque sia, illecito. Ricorda ancora la Corte che a partire dalla sentenza n. 196 del 2010 è stato riconosciuto che il duplice divieto insito nella previsione dall’art. 25, secondo comma, Cost. – di applicazione retroattiva di una legge che incrimini un fatto in precedenza penalmente irrilevante e di applicazione retroattiva di una legge che punisca più severamente un fatto già precedentemente incriminato (sentenza n. 223 del 2018) – si presta ad essere esteso, data l’ampiezza della sua formulazione («[n]essuno può essere punito […]»), alle misure a carattere punitivo-afflittivo, anche se qualificate come amministrative. Ciò, in assonanza con le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, riguardo alla nozione di «materia penale» agli effetti dell’art. 7 CEDU: indicazioni a loro volta suscettibili di assumere autonomo rilievo costituzionale interno attraverso la “mediazione” dell’art. 117, primo comma, Cost. Anche rispetto alle sanzioni amministrative a carattere punitivo «si impone infatti la medesima esigenza, di cui tradizionalmente si fa carico il sistema penale in senso stretto, di non sorprendere la persona con una sanzione non prevedibile al momento della commissione del fatto» (sentenza n. 223 del 2018; sulla riferibilità del principio di irretroattività, stabilito dall’art. 25, secondo comma, Cost., alle sanzioni amministrative a carattere punitivo, altresì, sentenze n. 68 del 2017 e n. 104 del 2014; e, a livello argomentativo, sentenze n. 112 del 2019 e n. 121 del 2018; ordinanza n. 117 del 2019). In questo nuovo panorama, è emerso quindi il problema della legittimità della normativa transitoria collegata agli interventi di depenalizzazione, in ragione della possibilità che la prevista applicazione retroattiva delle nuove sanzioni amministrative determini una modifica in peius del trattamento sanzionatorio del fatto. In precedenza la Corte ha rilevato che, nel caso particolare della successione della norma sanzionatoria amministrativa a una norma penale, la previsione dell’applicazione retroattiva delle nuove sanzioni è di solito compatibile con la Costituzione. Normalmente essa implica, infatti, l’applicazione di un trattamento, non già più severo, ma più mite di quello previsto al momento del fatto. La sanzione penale si caratterizza, infatti, «sempre per la sua incidenza, attuale o potenziale, sul bene della libertà personale (la stessa pena pecuniaria potendo essere convertita, in caso di mancata esecuzione, in sanzioni limitative della libertà personale stessa), incidenza che è, invece, sempre esclusa per la sanzione amministrativa». La pena possiede, inoltre, «un connotato speciale di stigmatizzazione, sul piano etico-sociale, del comportamento illecito, che difetta alla sanzione amministrativa» (sentenza n. 223 del 2018). La presunzione di maggior favore del trattamento sanzionatorio amministrativo, sottesa alla disciplina transitoria in questione, deve intendersi, tuttavia, come meramente relativa, rimanendo aperta la possibilità di dimostrare che il nuovo trattamento sanzionatorio amministrativo previsto dalla legge di depenalizzazione – considerato nel suo complesso (sentenza n. 68 del 2017) – risulta in concreto più gravoso di quello previgente: ipotesi nella quale la disposizione transitoria che ne preveda l’indefettibile applicazione ai fatti pregressi verrebbe a porsi in contrasto con gli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost. (sentenza n. 223 del 2018). In quest’ottica, spetta peraltro al giudice di merito il compito di accertare e adeguatamente motivare, caso per caso, la sussistenza della condizione dianzi indicata: rimanendo, in difetto, la questione sollevata inammissibile. 2021 L’8 gennaio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 442 che analizza gli effetti della nuova formulazione dell’art. 323 cod. pen. a seguito della novella introdotta dal d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito dalla legge 11 settembre 2020, n. 120, che ha modificato il reato di abuso di ufficio, sostituendo le parole «di norme di legge o di regolamento» con quelle «di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità». Premesso che la ragion d'essere della figura di reato delineata da una norma di chiusura, come l'art. 323 cod. pen., è ravvisata nell'obiettivo di tutelare i valori fondanti dell'azione della Pubblica Amministrazione, che l'art. 97 della Costituzione indica nel buon andamento e nella imparzialità, i nuovi elementi di fattispecie oggetto della violazione penalmente rilevante - introdotti dalla più recente riforma - sono costituiti dalle «specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità». In luogo del generico richiamo della previgente disciplina alla indeterminata violazione «di norme di legge o di regolamento», si pretende oggi che la condotta produttiva di responsabilità penalle del pubblico funzionario sia connotata, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, dalla violazione di regole cogenti per l'azione amministrativa, che per un verso siano fissate dalla legge (non rilevano dunque i regolamenti, né eventuali fonti subprimarie o secondarie) e per altro verso siano specificamente disegnate in termini completi e puntuali. Di qui il lineare corollario della limitazione di responsabilità penale del pubblico funzionario, qualora le regole comportamentali gli consentano di agire in un contesto di discrezionalità amministrativa, anche tecnica: intesa, questa, nel suo nucleo essenziale come autonoma scelta di merito - effettuata all'esito di una ponderazione comparativa tra gli interessi pubblici e quelli privati - dell'interesse primario pubblico da perseguire in concreto. Beninteso: sempreché l'esercizio del potere discrezionale non trasmodi tuttavia in una vera e propria distorsione funzionale dai fini pubblici - c.d. sviamento di potere o violazione dei limiti esterni della discrezionalità – laddove risultino perseguiti, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, interessi oggettivamente difformi e collidenti con quelli per i quali soltanto il potere discrezionale è attribuito; oppure si sostanzi nell'alternativa modalità della condotta, rimasta penalmente rilevante, dell'inosservanza dell'obbligo di astensione in situazione di conflitto di interessi. La nuova disposizione normativa ha dunque un ambito applicativo ben più ristretto rispetto a quello definito con la previgente definizione della modalità della condotta punibile, sottraendo al giudice penale tanto l'apprezzamento dell'inosservanza di principi generali o di fonti normative di tipo regolamentare o subprimario (neppure secondo il classico schema della eterointegrazione, cioè della violazione "mediata" di norme di legge interposte), quanto il sindacato del mero "cattivo uso" - la violazione dei limiti interni nelle modalità di esercizio - della discrezionalità amministrativa. La nuova formulazione della fattispecie dell'abuso di ufficio, restringendone l'ambito di operatività con riguardo al diverso atteggiarsi delle modalità della condotta, determina all'evidenza serie questioni di diritto intertemporale. In linea di principio, non può seriamente dubitarsi che si realizzi una parziale abolitio criminis in relazione ai fatti commessi prima dell'entrata in vigore della riforma, che non siano più riconducibili alla nuova versione dell'art. 323 cod. pen., siccome realizzati mediante violazione di norme regolamentari o di norme di legge generali e astratte, dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse o che comunque lascino residuare margini di discrezionalità. Con il lineare corollario per cui all'abolizione del reato, ai sensi dell'art. 2, comma 2 cod. pen., consegue nei processi in corso il proscioglimento dell'imputato, con la formula "perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato". * * * Il 1° marzo esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 7988 onde la disposizione dell'art.3, comma 4, del d.l. 23 febbraio 2020, n.6 – che qualificava "reato" punibile ai sensi dell'art.650 c.p. il mancato rispetto delle misure di contenimento emanate per fronteggiare lo stato di emergenza dovuto alla diffusione del Covid-19 - è stata sostituita dall'art.4, comma 1, del d.l. 25 marzo 2020, n.19, in vigore dal giorno successivo e convertito con modificazioni dalla legge 22 maggio 2020, n.35, che ha depenalizzato, trasformandola in illecito amministrativo, la condotta di mancato rispetto delle citate misure di contenimento. Questioni intriganti Come si differenzia – in seno all’art.2 c.p. - la fattispecie cui dell’abrogazione o abolitio criminis (comma 2) dalla mera modifica della norma penale con continuità dell’illecito (comma 4, già comma 3)? a) occorre muovere dal presupposto che, dinanzi ad una fattispecie successoria di norme penali, affermare che si ha abolitio criminis vuol dire non punire (più), mentre all’opposto affermare di essere al cospetto di una modifica del regime penale della ridetta fattispecie vuol dire continuare a punire, seppure – pro reo - comunque selezionando il miglior trattamento sanzionatorio per il soggetto agente (c.d. abrogatio sine abolitione); b) una prima tesi muove dal c.d. “fatto concreto”, occorrendo nella sostanza fare riferimento in modo determinante al nucleo della condotta concretamente tenuta dal soggetto agente, che esprime il disvalore normativo sanzionato dalla norma penale astratta, la quale lo configura quale inadempimento-reato; se la condotta concretamente tenuta dal soggetto agente non è più inadempimento reato, si ha abolitio criminis, mentre nel caso in cui entrambe le disposizioni penali succedutesi continuino a configurarlo inadempimento reato, seppure con effetti sanzionatori diversi, si ha “mera” modifica della norma penale; per scrutinare gli effetti dello ius superveniens, su questo crinale occorre dunque fare riferimento al fatto concretamente commesso dal soggetto agente, prescindendo dalle fattispecie astratte di reato, sicché a rigore anche al cospetto di fattispecie astratte succedutesi nel tempo e palesanti elementi del tutto eterogenei potrebbe essersi in realtà al cospetto di una successione di norme penalmente rilevante (e non già di una abolitio criminis); si parla in proposito di c.d. “doppia punibilità in concreto”, onde è guardando al fatto concreto che può e deve verificarsi se un dato comportamento sia da intendersi ancora penalmente rilevante e con quali effetti; si tratta di una tesi che produce, nondimeno, dei possibili e gravi inconvenienti segnalati dalla dottrina più accorta, che ne ha criticato le conclusioni rappresentando come sia ben possibile che il fatto siccome concretamente commesso dal soggetto agente sia in effetti contemplato da entrambe le due norme incriminatrici in successione temporale tra loro, e tuttavia per aspetti diversi; in simili circostanze, potrebbe affiorare una larvata retroattività in peius della nuova norma incriminatrice, come tale inammissibile, quante volte il fatto concreto, pur essendo contemplato dalla norma precedente, non costituiva allora inadempimento reato (perché la pertinente disposizione, pur prendendo in considerazione tale “fatto concreto”, lo faceva ad effetti diversi da una immediata incriminazione), mentre lo costituisce secondo la nuova norma penale; ammettere in questi casi la “continuità” del rilievo penale della fattispecie (in sostanza, dire che si è al cospetto di una mera modifica, e non di una abolitio criminis) significa violare l’art.25, comma 2, Cost. ed applicare retroattivamente una norma incriminatrice introdotta in epoca successiva rispetto alla commissione del c.d. “fatto concreto”; altra critica a questa impostazione del “fatto concreto” si appunta sul relativo empirismo e sulla casualità che la connota, onde un determinato comportamento resta penalmente rilevante in relazione a parametri non prevedibili, mentre sarebbe meglio fare riferimento a comportamenti astratti, e dunque a tipologie di condotta previamente determinate, che conferiscono maggiore certezza alla valutazione alternativa tra abolitio criminis e continuità del rilievo penale della condotta in parola; c) altra opzione – di ascendenza dottrinale soprattutto tedesca - fa invece perno sulla c.d. “continuità del tipo di illecito”; si guarda in questo prisma ermeneutico all’interesse protetto dalla norma penale ed alle modalità di relativa aggressione, che caratterizzano ciascuna fattispecie criminosa; da questo punto di vista, non si ha abolitio criminis ma piuttosto modifica della norma penale allorché il legislatore – al cospetto dell’aggressione ad un determinato interesse penalmente tutelato – si limita a forgiare una mera tecnica di repressione differente rispetto a quella precedente; campeggiano dunque valutazioni di tipo decisamente sostanzialistico che tuttavia, secondo la dottrina più critica, lasciano al giudice eccessivi margini di discrezionalità applicativa; si tratta peraltro di un criterio che sembra non potersi applicare in via esclusiva e che, se applicato in modo rigoroso e restrittivo (anche al fine di scongiurare incertezze ed opinabilità applicative ope iudicis), finisce col trovare spazio solo, paradossalmente, nel caso in cui si verifichi una perfetta sovrapposizione tra norme identiche tra loro, unica circostanza in cui sarebbe predicabile quella “continuità del tipo di illecito” implicante “modifica” al di fuori della quale non residuerebbe che l’abolitio criminis; d) la tesi più accreditata in dottrina e in giurisprudenza resta quella c.d. strutturale, articolantesi in modo bifasico e che guarda in primis al rapporto di continenza tra fattispecie astratta antecedente e fattispecie astratta successiva, allorché la prima sia generica ovvero specifica rispetto alla seconda (che si atteggia dunque a specifica o, all’opposto, a generica rispetto alla prima); in sostanza tra le due fattispecie astratte occorre anzitutto che si configuri un rapporto di genere a specie, circostanza che consente di predicare la possibilità di trovarsi dinanzi ad una successione modificativa della norma penale (art.2, comma 4, c.p.) con condotta ancora punibile, al contrario di quanto accade nell’ipotesi in cui il rapporto tra fattispecie astratte in successione sia di incompatibilità-eterogeneità, ipotesi nella quale si configura piuttosto una abolitio criminis (art.2, comma 2, c.p.); tale rapporto di continenza tra fattispecie astratte, in questo prisma ermeneutico, è condizione necessaria e tuttavia non ancora sufficiente per poter predicare la successione modificativa (e dunque la persistenza della sanzione penale), trattandosi di operazione “a monte” ed “in astratto”, alla quale deve poi seguire una operazione “a valle” ed “in concreto” orientata alla verifica che la specifica condotta della cui punibilità si tratta sia ricompresa sotto l’usbergo precettivo di entrambe le disposizioni penali in successione tra loro; solo dal combinato disposto di queste 2 operazioni è infatti possibile evincere che – pur al cospetto delle modifiche normative astratte – il disvalore penale del fatto siccome concretamente commesso, nel relativo nucleo di pertinente consistenza, è rimasto sostanzialmente immutato, facendo così luogo a quella continuità del tipo di illecito che in questo caso non resta incerta ed opinabile, palesandosi piuttosto ancorata al parametro certo del rapporto di continenza tra le fattispecie astratte che (entrambe) ricomprendono il fatto commesso in successione tra loro; e) nell’ambito della tesi c.d. strutturale, meno problemi offre l’ipotesi, per vero più rara, in cui si passi da una fattispecie anteriore specifica ad una posteriore generica: in questa ipotesi, tutti i fatti ricompresi nella fattispecie specifica anteriore vengono puniti anche dalla fattispecie generica posteriore, configurandosi pertanto una continuità dell’illecito ex art.2, comma 4, c.p., onde l’unico problema è quello di scongiurare che fatti puniti solo nel vigore della fattispecie generica posteriore possano essere puniti anche, retroattivamente, laddove commessi sotto il vigore della fattispecie specifica anteriore (che non li puniva come tali); f) sempre nell’ambito della tesi c.d. strutturale, e per quanto invece concerne le diverse ipotesi (più frequenti) in cui si trascorra da una fattispecie generica anteriore ad una specifica posteriore - c.d. specialità tra fattispecie - occorre distinguere 2 ipotesi, ovvero la specialità c.d. “per specificazione” e la specialità c.d. “per aggiunta”; g) c.d. specialità per specificazione: date due fattispecie penalmente rilevanti, uno o più elementi delle fattispecie medesime sono tra loro in rapporto di genere a specie; in queste ipotesi, normalmente interviene una norma penale successiva a quella preesistente che è speciale rispetto ad essa perché descrive un fatto contenente gli identici elementi costitutivi della previa fattispecie generale, specificando tuttavia uno o taluni di tali elementi costitutivi; in queste fattispecie dunque non ci sono elementi aggiuntivi costitutivi della fattispecie penale, che sono anzi i medesimi in entrambe le fattispecie considerate, con la sola precisazione che uno o taluni di tali elementi sono nella secondo speciali rispetto a quelli, generali, della prima; l’esempio di questo tipo di rapporto tra fattispecie che viene normalmente portato in dottrina è tra la fattispecie di cui all’art.276 c.p. in tema di attentato contro il Presidente della Repubblica (generale) e quella di cui al successivo art.277 c.p. in tema di offesa alla libertà del Presidente della Repubblica (speciale); in queste peculiari ipotesi, laddove la norma antecedente sia generale e quella successiva speciale, si assiste secondo l’opinione più accreditata ad una parziale abolitio criminis per quanto riguarda i fatti già puniti sulla base della norma generale, e che non lo sono più sulla base della nuova norma speciale, in quanto privi degli elementi specializzanti richiesti dalla nuova disciplina (si applica l’art.2, comma 2, c.p.), e parallelamente, ad una parziale modifica normativa per quanto riguarda i fatti puniti sia nel vigore della precedente norma generale che in quello della successiva norma speciale, per il relativo annoverare già allora tutti gli elementi specializzanti di cui alla nuova disciplina (si applica l’art.2, comma 4, c.p.); non è mancato chi ha predicato in queste ipotesi piuttosto una generale abolitio criminis, anche con riguardo ai fatti già contenenti gli elementi specializzanti nel vigore della disciplina generale, dovendosi scongiurare l’applicazione retroattiva proprio della disposizione specializzante che ne ha previsto la (specifica) rilevanza penale; si è tuttavia obiettato che in realtà tutti gli elementi “specificati” dalla successiva disciplina “specializzante” erano invero già presenti nella previa disciplina generale, onde se da un lato non può parlarsi di intervento penale retroattivo per i fatti pregressi già connotati nel vigore della disciplina generale dai ridetti elementi “specializzanti”, dall’altro si configura piuttosto una abolitio criminis per tutte le fattispecie “generali” anteriori prive degli elementi specializzanti previsti solo – in termini di sottofattispecie – dalla disciplina “speciale” successiva; in sostanza dunque della norma generale antecedente occorre distinguere due porzioni, quella non coincidente con la norma speciale successiva, in quanto priva degli elementi specializzanti (e come tale punita “prima” non più punita “poi”: abolitio criminis) da quella coincidente con la norma speciale successiva perché già annoverante gli elementi specializzanti poi previsti in via esclusiva dalla seconda (e come tale punita sia “prima” che “poi”: modifica della norma penale e dunque continuità dell’illecito penalmente sanzionato); con riguardo dunque ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della norma penale speciale, il giudice penale deve sul crinale astratto verificare che sussista un rapporto tra le due fattispecie in successione in termini di specialità per specificazione; e, sul crinale concreto, verificare se gli elementi specializzanti (resi esclusivi ex post a fini di sanzione penale) siano stati presenti nella ridetta condotta antecedente, in caso negativo concludendo per l’abolitio criminis ex art.2, comma 2, c.p. ed in caso affermativo concludendo, all’opposto, per la modifica normativa ex art.2, comma 4, c.p.; h) c.d. specialità per aggiunta: la fattispecie speciale (normalmente, successiva) presenta uno o più elementi strutturali aggiuntivi rispetto alla fattispecie generale (normalmente precedente); in questo caso dunque la fattispecie speciale contiene tutti gli elementi costitutivi della fattispecie generale, con l’aggiunta di altri che nella prima non si riscontrano; l’esempio di questo tipo di rapporto tra fattispecie che viene normalmente portato in dottrina è tra la fattispecie di cui all’art.605 c.p. in tema di sequestro di persona (generale) e quella di cui al successivo art.630 c.p. in tema di sequestro di persona a scopo di estorsione (speciale); qui – allo scopo di verificare entro quali limiti si verifica una abolitio criminis rispetto alla disciplina penale previgente – parte della dottrina propone di prestare massima attenzione, in termini di scandaglio valutativo, all’elemento aggiuntivo che connota la nuova norma speciale, che potrebbe “colorare” la fattispecie di una lesività nuova tale da far ritenere essersi al cospetto di una globale abolitio criminis rispetto alla norma generale pregressa (senza dunque la possibilità in questi casi che possa configurarsi un mix tra abolitio criminis e continuità dell’illecito penale); al consueto criterio strutturale, questa opzione dottrinale affianca dunque anche un criterio di tipo valutativo, orientato ad affermare se – stante la specialità per aggiunta strutturale (e dunque l’acclarata continenza tra le fattispecie successive raffrontate) – l’”aggiunta” sia di tale, diversificata forza innovativa in termini di pregnanza lesiva della condotta rispetto agli interessi protetti da far ritenere abrogata la norma generale previgente, con effetto di incondizionata ed onnicomprensiva abolitio criminis; solo laddove tale significato lesivo della condotta considerata dalla nuova disposizione “speciale per aggiunta” non sia così nuovo e diverso rispetto a quello di cui alla condotta disegnata dalla norma pregressa potrebbe dunque discorrersi di modifica normativa e, in ultima analisi, di continuità dell’illecito penale, con applicazione dell’art.2, comma 4, c.p.; secondo questa opzione ermeneutica dunque, nella specialità “per aggiunta”, diversamente da quanto accade nella specialità “per specificazione”, o si ha completa “abolitio criminis” (quando l’elemento “aggiunto” viene valutato assumere un peso così connotante in termini innovativi da spiegare un simile effetto abrogativo) o si ha totale continuità dell’illecito (quando l’elemento “aggiunto” viene valutato non assumere un peso così connotante in termini innovativi da spiegare un simile effetto abrogativo); il criterio valutativo, unito a quello strutturale, presenta nondimeno margini di opinabilità giudiziale tali da non trovare d’accordo altra parte della dottrina, la quale assume anche per questo caso (come per quello della c.d. specialità per specificazione) la necessità di affidarsi ad un criterio esclusivamente di tipo strutturale, onde si ha sempre parziale abolitio criminis ex art.2, comma 2, c.p. per quei fatti pregressi che non presentano l’elemento aggiuntivo (reso ex post rilevante, dal punto di vista penale, in via esclusiva: a diversamente opinare si finirebbe infatti per applicare a queste condotte ormai “depenalizzate” la nuova fattispecie in via retroattiva), mentre si ha continuità normativa per quei fatti pregressi che già presentano l’elemento aggiunto specializzante, in relazione ai quali si applica dunque l’art.2, comma 4, c.p. Che problemi pone in particolare il nuovo art.2, comma 3, c.p. come novellato nel 2006, specie in rapporto al nuovo comma 4 (ex comma 3) della medesima norma? a) dovendosi convertire una pregressa pena detentiva in nuova pena pecuniaria (se del caso, con superamento del giudicato), occorre in primo luogo – sul crinale formale - un provvedimento giurisdizionale di competenza del giudice dell’esecuzione (adito ex art.666 c.p.p.), l’unico capace di incidere per l’appunto sul trattamento sanzionatorio (per l’appunto, “in esecuzione”) giusta conversione della pena da detenzione a “pecunia”; b) tra le varie critiche al nuovo innesto normativo avanzate da parte della dottrina, quella “tassonomica” si impernia sull’evenienza onde - stante come il nuovo comma 3 rappresenti l’eccezione ed il nuovo comma 4 (ex comma 3) la regola - a livello di formulazione il legislatore avrebbe dovuto procedere in modo invertito, collocando la regola prima della pertinente eccezione; c) quest’ultima peraltro opera in quanto tale, e dunque quale “eccezione”, palesandosi di stretta interpretazione e non potendosi applicare allorché il nuovo trattamento sanzionatorio preveda una pena pecuniaria, e tuttavia non sola ma piuttosto alternativa alla pena detentiva; d) altra censura è stata addotta da chi vorrebbe operare un discorso analogo a quello frutto della voluntas legis - la nuova pena pecuniaria, qualitativamente diversa, supera anche il giudicato pregresso implicante pena detentiva – pure ai casi in cui l’avvicendarsi sia non già qualitativo (da pena detentiva a pena pecuniaria) ma, piuttosto, quantitativo, come nel caso di chi sia stato condannato, per un fatto commesso in precedenza, ad una pena detentiva con limite edittale massimo più elevato (ad esempio, 10 anni di reclusione) ed entri dipoi in vigore una novella che preveda, per il medesimo fatto, un limite edittale massimo più ridotto (ad esempio, 7 anni di reclusione), sicché – in questo prisma ermeneutico – la retroattività in mitius dovrebbe applicarsi anche a chi , quand’anche con sentenza ormai irrevocabile, sia stato - per quel fatto commesso nel vigore della pregressa disciplina - condannato ad una pena inferiore al limite edittale massimo pregresso, ma superiore al limite edittale massimo sopravvenuto (per rimanere all’esempio fatto, 8 anni di reclusione), conformemente peraltro all’art.5, n.3 del c.d. “progetto Pagliaro”; e) non manca chi sottolinea che potrebbe anche verificarsi il caso in cui, a valle della conversione della pena detentiva in pena pecuniaria, in sede di ragguaglio per un fatto X pregresso originariamente punito con pena detentiva venga applicata una pena pecuniaria quantitativamente maggiore rispetto a quella eventualmente prevista, per quel medesimo fatto ed in termini massimi, dalla medesima novella normativa (che ha appunto sostituito la pena detentiva in pecuniaria); ciò stante come il nuovo art.2, comma 3, c.p. nulla dica in termini di necessità che tale ragguaglio si ponga comunque al di sotto dell’asticella massima di pena pecuniaria tracciata dalla nuova disposizione che la prevede in luogo di quella detentiva.