Corte di Cassazione, Sez II Penale, 15 gennaio 2025 n. 1784
PRINCIPIO DI DIRITTO
L’abbigliamento di lusso e l’atteggiamento esteriore ingannevole, ampliando l’immagine esterna delle proprie possidenze economiche e determinando la sussistenza del raggiro nella fase della trattativa finalizzata alla commissione del reato, integra il reato di truffa ex art. 640 c.p. e non quello di insolvenza fraudolenta ex art. 641 c.p.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1.Il ricorso è inammissibile perché proposto per motivo manifestamente infondato;
2.E’ pacifico, nella giurisprudenza di legittimità, il principio di diritto secondo cui, il delitto di truffa si distingue da quello di insolvenza fraudolenta perché nella truffa la frode è attuata mediante la simulazione di circostanze e di condizioni non vere, artificiosamente create per indurre altri in errore, mentre nell’insolvenza fraudolenta la frode è attuata con la dissimulazione del reale stato di insolvenza dell’agente (Sez. 5, n. 44659 del 21/10/2021, Cavanna, Rv. 282174 – 01; Sez. 7, n. 16723 del 13/01/2015, Caroli, Rv. 263360-01).
3.Nel caso in esame, sulla base di valutazioni di fatto prive di vizi logici e per questo attratte al merito del giudizio non rivedibile in questa sede, la Corte di appello ha ritenuto che il ricorrente avesse artificiosamente ostentato le proprie disponibilità economiche alla persona offesa al precipuo fine di indurla in errore e di farsi consegnare la bicicletta compendio del delitto;
Tanto è avvenuto presentandosi alla vittima con dei bei vestiti, con una auto di lusso non di sua proprietà, con un carnet di assegni dal quale aveva “disinvoltamente” tratto quello rimasto insoluto;
Si era trattato, quindi, di una condotta positiva volta a suggestionare la persona offesa, ampliando l’immagine esterna delle proprie possidenze economiche in modo furbo e malizioso, circostanza che determina la sussistenza del raggiro nella fase della trattativa finalizzata alla commissione del reato, così correttamente qualificato come truffa;
4.Peraltro, il riscontro ricostruttivo in ordine alla corretta definizione giuridica del fatto ai sensi dell’art. 640 cod. pen., è stato rinvenuto dalla Corte di appello – senza vizi logico-giuridici – valorizzando anche il comportamento successivo del ricorrente, così come descritto dalla persona offesa al processo: l’imputato aveva finto sorpresa allorquando era stato contattato dalla vittima che non aveva potuto incassare l’assegno, l’aveva rassicurata, per poi sparire nel nulla senza restituire la bicicletta o rimborsare il denaro occorrente per il suo acquisto;
Tali comportamenti costituiscono ulteriori modalità dello stesso fatto, non modificato nel suo contenuto essenziale, che risiede nella parte della condotta descritta nel capo di imputazione (con indicazioni dettagliate dell’assegno, della sua consegna, del bene acquistato, delle generalità della persona offesa, del luogo e del tempo del commesso reato), che ne risulta ancor meglio chiarita e confermata senza alcuna violazione del principio di correlazione tra accusa contestata e sentenza così come si pretenderebbe in ricorso;
Infatti, in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto, occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l'”iter” del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, Carelli, Rv. 248051-01; Sez. 3, n. 24932 del 10/02/2023, Gargano, Rv. 284846-04);
5.Infine, a proposito della eccezione di irritualità della querela, formulata dal difensore solo all’odierna udienza di discussione, in relazione alla mera circostanza che la querela sarebbe stata ricevuta non da un ufficiale ma da un agente di polizia giudiziaria, basta richiamare, per comprendere le ragioni della inammissibilità della censura, il principio di diritto secondo il quale, è valida la querela ricevuta da un agente, anziché da un ufficiale di polizia giudiziaria come previsto dall’art. 333, comma secondo, cod. proc. pen., richiamato dall’art. 337, comma primo, cod. proc. pen., purché la presentazione della stessa sia effettuata da un soggetto regolarmente identificato presso un ufficio sottoposto al comando di un ufficiale di polizia giudiziaria, che proceda all’inoltro dell’atto all’autorità competente. (Sez. F, n. 39592 del 10/08/2017, Mosca, Rv. 270751 – 01);
Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila alla Cassa delle Ammende, commisurata all’effettivo grado di colpa dello stesso ricorrente nella determinazione della causa di inammissibilità.