Tribunale di Firenze, sezione III penale, 24 settembre 2024
PRINCIPIO DI DIRITTO
Va sollevata la questione di legittimità costituzionale in relazione all’art. 1, comma 1, lett. b) della l. 9 agosto 2024, n. 114 (pubblicata in GU n.187 del 10 agosto 2024 ed entrata in vigore il 25 agosto 2024), nella parte in cui abroga l’art. 323 c.p., per violazione degli articoli 97, 11 e 117, comma 1 Cost. (in relazione agli obblighi discendenti dagli artt. 7, comma 4, 19 e 65, comma 1, della Convenzione delle Nazioni Unite del 2003 contro la corruzione -cd. Convenzione di Merida- adottata dalla Assemblea generale dell’ONU il 31 ottobre 2003 con risoluzione n. 58/4, firmata dallo Stato italiano il 9 dicembre 2003, oggetto di ratifica ed esecuzione in Italia con l. 3 agosto 2009, n. 116)
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
[…]
Il Parlamento, a mezzo dell’art. 1, comma 1, lett. b) della l. 9 agosto 2024, n. 114 (pubblicata in GU n.187 del 10.08.2024 ed entrata in vigore il 25.08.2024), ha abrogato la disposizione di cui all’art. 323 c.p. e, nel contempo, a mezzo dell’art. 1, lett. e) l. cit., ha sostituito l’art. 346-bis c.p. (traffico di influenze illecite), restringendone fortemente l’ambito applicativo.
L’abrogazione della disposizione di cui all’art. 323 c.p. produce un evidente effetto di abolitio criminis, di carattere quasi totale della fattispecie penale dell’abuso d’ufficio; si ritiene il carattere “quasi totale” della abolitio tenuto conto della introduzione dell’art. 314 bis c.p. (Indebita destinazione di denaro o cose mobili) ad opera del d.l. n. 92/2024, entrato in vigore prima dell’abrogazione dell’art. 323 c.p., e del possibile mantenimento di rilevanza penale di alcune condotte tuttora riconducibili sub art. 328 c.p..
Quanto agli effetti dell’abrogazione nel caso in esame, non possono aversi dubbi circa la effettiva rilevanza della questione di legittimità costituzionale di cui si intende investire la norma abrogatrice del reato di abuso d’ufficio.
Quanto al reato contestato al capo 5) e alla specifica rilevanza della questione di costituzionalità con riguardo a tale delitto si osserva sinteticamente quanto segue.
Come visto, è contestato dal P.M. il reato di abuso d’ufficio “per violazione di legge” sia nella forma “di vantaggio” che “di danno”, in concorso tra più soggetti ex art. 110 c.p.
Si precisa subito, per sgombrare il campo da possibili dubbi, che il reato di abuso qui contestato -seppur commesso (stando all’imputazione), tramite l’emissione del decreto di sequestro preventivo d’urgenza adottato il 28.12.16, e dunque in data antecedente alla entrata in vigore del d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, nella legge 11 settembre 2020, n. 120– non è interessato dalla precedente parziale abolitio criminis, intervenuta nel 2020; all’uopo si evidenzia che, come già sopra osservato, sono qui contestate (anche) violazioni di atti aventi forza di legge che non prevedono discrezionalità, essendo in particolare ascritta -quanto al magistrato (omissis) – la violazione “degli artt. 7 e 238 del regio decreto 16/3/42 n. 267 che prevedono l’avvio delle indagini preliminari per i reati fallimentari solo ove sia presentata richiesta di fallimento, dell’art. 326 cp come descritto nelle imputazioni sub 3 e 4” e -quanto agli Ufficiali di PG (omissis) – la violazione “dell’art. 326 cp come descritto nell’imputazione sub. 4”;
(omissis)
Ebbene, il Tribunale, all’esito della lunga istruttoria svolta, è chiamato ad applicare l’art. 323 c.p. per la decisione di merito sulla responsabilità degli imputati.
La depenalizzazione ex art. 1, comma 1, lett. b) della l. 9 agosto 2024, n. 114 incide nel presente giudizio e la sollevata questione di legittimità costituzionale è, quindi, certamente rilevante atteso che:
- a) la depenalizzazione preclude in radice la pronuncia di una eventuale sentenza di condanna e quindi l’applicazione delle sanzioni penali ex 533e 535 c.p.p. ed il vaglio delle richieste risarcitorie avanzate dalle parti civili ex art. 538 c.p.p., in quanto dipendenti da un accertamento di colpevolezza in ordine ad un fatto previsto dalla legge come reato;
- b) correlativamente rispetto a quanto osservato al precedente punto a), la eventuale pronuncia di incostituzionalità della disposizione abrogatrice della fattispecie consentirebbe, in ipotesi di ritenuta sussistenza di responsabilità penale, di pervenire a condanna o, nel caso opposto, di giungere ad assoluzione per cause diverse dalla abolitio criminis e, dunque, con formula diversa da “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”;
- c) la depenalizzazione ex art. 1, comma 1, lett. b) della l. 9 agosto 2024, n. 114 inciderebbe (è il caso di precisarlo, tenuto conto di quanto osservato dalla difesa dell’imputato (omissis) nella memoria depositata all’udienza del 13.9.24 e dalla difesa degli imputati (omissis) nel corso della discussione finale) anche laddove il reato contestato al capo 5) fosse già estinto per intervenuta prescrizione; ciò, tenuto conto che questo collegio sarebbe oggi tenuto a pronunciare necessariamente sentenza di assoluzione “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato” ex 129,comma 2, e 530, comma 1, c.p.p., prevalendo la suddetta causa assolutoria sulla improcedibilità per estinzione del reato per intervenuta prescrizione, stante il carattere di assoluta evidenza della abolitio criminis;
- d) correlativamente rispetto a quanto osservato al precedente punto c), in caso di già maturata prescrizione, la eventuale pronuncia di incostituzionalità della disposizione abrogatrice della fattispecie schiuderebbe, invece, diverse alternative, atteso che, in ipotesi di difetto evidente della sussistenza del fatto o della sua commissione da parte dell’imputato o che il fatto costituisca reato, il Tribunale potrebbe pervenire ad assoluzione ex 129,comma 2 e 530, comma 1 c.p.p. con formule ampiamente liberatorie (che però presuppongono la incriminazione da parte dell’ordinamento del fatto come illecito penale);
mentre, in caso di ritenuta sussistenza di prova di responsabilità penale o, comunque, di dubbio ex art. 530, comma 2, c.p.p. il Tribunale sarebbe tenuto, anche ad istruttoria conclusa, a pronunciare sentenza di non doversi procedere ex artt. 129, comma 1, e 531 c.p.p. [sul punto si veda la consolidata giurisprudenza, secondo cui la sentenza di proscioglimento per prescrizione prevale rispetto alla sentenza di assoluzione anche nel caso in cui la prova del fatto e della responsabilità dell’imputato sia contraddittoria o insufficiente, dovendo il giudice, di contro, assolvere nel merito solo qualora le ragioni militanti in favore di una sentenza ampiamente liberatoria emergano ex actis ed ictu oculi (cfr., ex multis, Sez. 2, Sentenza n. 38049 del 18/07/2014 – Rv. 260586; Cass., Sez. U, Sentenza n. 35490 del 28/05/2009 – Rv. 244274), con il carattere dell’evidenza, ovvero per usare le parole della Cassazione “soltanto nel caso in cui sia rilevabile, con una mera attività ricognitiva, l’assoluta assenza della prova di colpevolezza a carico dell’imputato ovvero la prova positiva della sua innocenza” (Cass., Sez. 6, Sentenza n. 10284 del 22/01/2014 – Rv. 259445 – 01); principio ribadito dalla Suprema Corte anche quando il rilievo della intervenuta prescrizione avvenga all’esito del giudizio dibattimentale con sentenza n. 53354 del 21/11/2018 – Rv. 274497 – 01 che nella parte motiva punti 1.2-1.4. richiama la giurisprudenza costituzionale (Corte Cost. Ordd. n. 300 del 17 giugno 1991 e n. 362 del 11 luglio 1991) e di legittimità anche a Sezioni unite (Cass., Sez. U, n. 17179 del 27/02/2002, Conti D, Rv. 22140301; Cass., Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, (dep. 15/09/2009 ) Tettamanti, Rv. 244275 – 01) escludendo che tale soluzione pregiudichi in alcun modo i diritti dell’imputato o contrasti con valori di rango costituzionale o con il principio del favor rei];
- e) tenuto conto di quanto sin qui osservato, va ricordato -in ordine al giudizio di rilevanza della questione di legittimità nel processo pendente avanti al giudice comune per l’impatto spiegato dalla pronuncia di incostituzionalità sulla diversa formula di proscioglimento in concreto adottabile- che la Corte costituzionale, con sentenza n. 28/2010, ha ribadito il principio, invero già precedentemente enunciato, secondo cui “l’eventuale accoglimento delle questioni relative a norme più favorevoli «verrebbe ad incidere sulle formule di proscioglimento o, quanto meno, sui dispositivi delle sentenze penali»; peraltro, «la pronuncia della Corte non potrebbe non riflettersi sullo schema argomentativo della sentenza penale assolutoria, modificandone la ratio decidendi: poiché in tal caso ne risulterebbe alterato […] il fondamento normativo della decisione, pur fermi restando i pratici effetti di essa» (sentenza n. 148 del 1983)”.
Quanto al reato contestato al capo 6) e alla specifica rilevanza della questione di costituzionalità con riguardo a tale delitto si osserva sinteticamente quanto segue.
Per comprendere la rilevanza dell’abrogazione dell’art. 323 c.p. con riferimento al reato di cui al capo 6) deve riprendersi e svilupparsi quanto già sopra evidenziato in ordine alla specifica formulazione della contestazione e poi darsi brevemente conto degli esiti dell’istruttoria.
Ebbene, come hanno messo in evidenza le difese nel corso della discussione, il contestato accordo corruttivo (c.d. pactum sceleris) era descritto solo in via implicita nella imputazione sub 6), dal quale non emergeva all’inizio del processo in modo inequivoco e diretto se questo avesse in ipotesi coinvolto, oltre (evidentemente) il privato imprenditore (omissis) (quale ipotizzato corruttore), uno solo o piuttosto entrambi i pubblici ufficiali (omissis) e (omissis); non era del tutto chiaro cioè: a) se fosse contestata una corruzione in atti giudiziari con accordo intervenuto tra il magistrato e l’imprenditore, con un ruolo del (omissis) di concorrente eventuale, in ragione dell’attività di intermediazione nella conclusione del patto e del conseguimento delle utilità (ipotesi in astratto certamente configurabile, tenuto conto che i reati di corruzione prevedono la possibilità che l’utilità sia accettata o ricevuta dal pubblico ufficiale corrotto anche “per un terzo”); b) ovvero, se fosse contestato un accordo tra l’imprenditore ed il solo (omissis) (si badi bene, titolare, quale appartenente all’Arma dei Carabinieri, della qualifica soggettiva di pubblico ufficiale, che gli avrebbe consentito in astratto di essere individuato quale parte necessaria dell’accordo bilaterale corruttivo, dovendosi all’uopo ricordare che la fattispecie in contestazione ex art. 319 ter c.p. non è un reato proprio dei magistrati), a cui era poi seguito il compimento degli atti costituenti violazione dei doveri d’ufficio contestati alla imputata (omissis).
Le difese degli imputati coinvolti hanno poi sostenuto, sempre nell’ambito della discussione finale, l’assenza di una correlazione funzionale tra lo svolgimento delle funzioni pubbliche e le utilità, riconducendo la dazione delle stesse ad un solido e risalente rapporto di amicizia e di frequentazione (anche familiare) tra (omissis) e (omissis); in questo senso, le stesse difese hanno contestato l’ammontare delle utilità ricevute dal pubblico ufficiale, che sarebbe stato erroneamente quantificato nell’imputazione in oltre 100 mila euro, ma che all’esito dell’istruttoria andrebbe individuato in un valore tra i 10 e i 20 mila euro, dunque assolutamente compatibile rispetto ad un aiuto amicale del tutto scollegato rispetto all’esercizio di funzioni pubbliche; inoltre, le stesse difese hanno messo in evidenza la netta cesura temporale (di alcuni anni) tra la stipula del presunto accordo ed il compimento dei primi atti asseritamente contrari ai doveri d’ufficio (anni 2008/2009) e il successivo riconoscimento delle utilità (2011/2012), circostanza che deporrebbe per l’assenza di una corrispettività.
Ritiene il Tribunale che all’esito della lunga istruttoria svolta – se è da escludersi in radice il conseguimento di alcuna utilità da parte del magistrato (circostanza d’altronde nemmeno contestata dal P.M.)- non possono dirsi emersi con certezza elementi a sostegno di un accordo tra (omissis) e (omissis) che prevedesse una remunerazione del (omissis), né comunque in ordine alla conoscenza da parte dell’imputata (omissis) delle utilità riconosciute dal (omissis) al (omissis).
È altresì da escludersi pacificamente, sulla base dell’istruttoria svolta, il compimento da parte del (omissis) di atti propri della funzione svolta (di agente di polizia giudiziaria) nell’ambito dei procedimenti penali coinvolgenti a vario titolo il (omissis) e condotti dalla dott.ssa (omissis), specificati nell’imputazione.
Ponendosi in questa ottica, è, dunque, assolutamente concreta l’ipotesi di riqualificazione giuridica favorevole ex art. 521 c.p.p. del fatto di cui al capo 6) in abuso d’ufficio, essendo contestato, in fatto, nella articolata imputazione, e sostenibile, sulla base del compendio probatorio disponibile, il compimento da parte del pubblico ufficiale (ovvero il magistrato) di atti d’ufficio in ipotizzata violazione di legge, in relazione a profili non connotati da discrezionalità (quanto meno laddove si contesta la violazione del segreto d’ufficio per avere la (omissis) “personalmente effettuato, in data 17/7/09, un atto a sorpresa (ispezione locale presso l’abitazione dell’indagato (omissis)) in realtà concordato con il predetto (omissis), che era stato preavvisato”), favorevoli al privato imprenditore, ma non connessi e correlati al mercimonio della pubblica funzione quanto piuttosto, eventualmente, al rapporto di amicizia esistente tra (omissis) e (omissis) (da un lato) e alla “duratura relazione personale” che avrebbe legato il (omissis) e la (omissis) (dall’altro) [evidentemente, la verifica della tenuta di una simile ipotesi ricostruttiva in prospettiva di condanna è riservata alla celebrazione della camera di consiglio, una volta che si sia svolto l’incidente di costituzionalità].
Ciò detto, possono richiamarsi tutte le osservazioni già sopra svolte con riferimento alla rilevanza della questione di legittimità in relazione al capo 5) della rubrica, in punto di incidenza della eventuale sentenza di accoglimento della questione di legittimità costituzionale, anche in caso di già maturata prescrizione del reato.
- AMMISSIBILITÀ DELLA QUESTIONE DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE
Occorre ora affrontare un tema, ben noto al Tribunale ed oggetto di specifiche argomentazioni delle parti, che incide sull’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale.
Si tratta, come è intuibile, della possibilità per la Corte costituzionale, in ipotesi di ritenuta fondatezza delle questioni sollevate per violazione dei parametri di costituzionalità che si andranno oltre ad individuare, di pronunciare una sentenza in materia penale sostanziale (in particolare dichiarativa dell’incostituzionalità di una norma che ha prodotto una abolitio criminis) con effetti in malam partem ed in particolare di riviviscenza di una fattispecie espunta dall’ordinamento per espressa scelta del legislatore.
Il tema, certamente complesso e delicato, involge sia la riserva assoluta di legge (art. 25 Cost.) – che affida all’atto normativo di rango primario e, quindi, al legislatore, la decisione del se incriminare come illecito penale o meno un determinato fatto o condotta- sia il rapporto tra le fonti, che impone il necessario rispetto della Costituzione (le sue disposizioni ed i suoi principi) da parte del legislatore ordinario e, quindi, in definitiva il ruolo del Giudice delle leggi.
La questione, come noto, è stata affrontata in diverse sentenze della Corte costituzionale, anche con riferimento alla abolitio criminis della fattispecie di abuso d’ufficio (allora solo parziale) conseguente alle riforme approvate con l. 234/1997 e con d.l. 76/2020 (conv. in l. 120/2020)- nella sentenza n. 447/1998 e nella recente pronuncia n. 8/2022 del 25.11.21-18.1.22.
In particolare, nella sentenza da ultimo citata n. 8/2022 (§ 7.), la Corte riprende la distinzione tra norme penali di favore e norme penali favorevoli, già affrontata e chiarita dalla sentenza n. 394 del 2006 (in senso conforme, tra le altre, sentenza n. 155 del 2019, n. 57 del 2009 e n. 324 del 2008; ordinanza n. 413 del 2008) e chiarisce che “per norme penali di favore debbono intendersi quelle che stabiliscano, per determinati soggetti o ipotesi, un trattamento penalistico più favorevole di quello che risulterebbe dall’applicazione di norme generali o comuni compresenti nell’ordinamento. […] La qualificazione come norma penale di favore non può essere fatta, di contro, discendere, come nel caso di specie, dal raffronto tra una norma vigente e una norma anteriore, sostituita dalla prima con effetti di restringimento dell’area di rilevanza penale”.
La distinzione conduce a diverse conclusioni in punto di ammissibilità ex art. 25 Cost di una sentenza dichiarativa di illegittimità costituzionale atteso che l’effetto in malam partem, conseguente alla dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme penali di favore, “non vulnera la riserva al legislatore sulle scelte di criminalizzazione, rappresentando una conseguenza dell’automatica riespansione della norma generale o comune, dettata dallo stesso legislatore, al caso già oggetto di ingiustificata disciplina derogatoria”; mentre laddove sia censurata sul piano della legittimità costituzionale una norma penale favorevole (categoria in cui di regola si iscrive una disposizione abolitiva -in misura totale o parziale- di una fattispecie incriminatrice) “la richiesta di sindacato in malam partem non mira a far riespandere una norma tuttora presente nell’ordinamento, ma a ripristinare la norma abrogata, espressiva di una scelta di criminalizzazione non più attuale: operazione preclusa alla Corte (sulla inammissibilità delle questioni volte a conseguire il ripristino di norme incriminatrici abrogate o di discipline penali sfavorevoli, ex plurimis, sentenze n. 37 del 2019, n. 57 del 2009 e n. 324 del 2008; ordinanze n. 282 del 2019, n. 413 del 2008 e n. 175 del 2001)”.
Va precisato, però, – e si tratta di un aspetto di rilievo nel caso di specie, venendo sollevata, come si dirà oltre, questione di legittimità per possibile violazione degli artt. 11 e 117, comma 1, Cost– che la preclusione ex art. 25 Cost. di sentenza costituzionale con effetti penali in malam partem, per costante giurisprudenza costituzionale (come chiarito dalla stessa sentenza Corte Cost. n. 8/2022 e più diffusamente Corte cost., n. 236 del 2018, n. 143/2018 e n. 37/2019), ammette delle deroghe/eccezioni; deroghe che non si esauriscono nelle ipotesi di violazione delle norme sulla produzione o sulla competenza legislativa e al caso delle norme penali di favore, ma tra le quali va annoverata anche la “contrarietà della disposizione censurata a obblighi sovranazionali rilevanti ai sensi dell’art. 11 o dell’art. 117, co. 1 Cost.”.
In particolare, nella sentenza n. 37/2019, la Corte passa in rassegna le diverse ipotesi nelle quali sarebbe possibile un suo intervento in materia penale sostanziale in malam partem:
“Anzitutto, può venire in considerazione la necessità di evitare la creazione di “zone franche” immuni dal controllo di legittimità costituzionale, laddove il legislatore introduca, in violazione del principio di eguaglianza, norme penali di favore, che sottraggano irragionevolmente un determinato sottoinsieme di condotte alla regola della generale rilevanza penale di una più ampia classe di condotte, stabilita da una disposizione incriminatrice vigente, ovvero prevedano per detto sottoinsieme – altrettanto irragionevolmente – un trattamento sanzionatorio più favorevole (sentenza n. 394 del 2006).
Un controllo di legittimità con potenziali effetti in malam partem deve altresì ritenersi ammissibile quando a essere censurato è lo scorretto esercizio del potere legislativo: da parte dei Consigli regionali, ai quali non spetta neutralizzare le scelte di criminalizzazione compiute dal legislatore nazionale (sentenza n. 46 del 2014, e ulteriori precedenti ivi citati); da parte del Governo, che abbia abrogato mediante decreto legislativo una disposizione penale, senza a ciò essere autorizzato dalla legge delega (sentenza n. 5 del 2014); ovvero anche da parte dello stesso Parlamento, che non abbia rispettato i principi stabiliti dalla Costituzione in materia di conversione dei decreti-legge (sentenza n. 32 del 2014). In tali ipotesi, qualora la disposizione dichiarata incostituzionale sia una disposizione che semplicemente abrogava una norma incriminatrice preesistente (come nel caso deciso dalla sentenza n. 5 del 2014), la dichiarazione di illegittimità costituzionale della prima non potrà che comportare il ripristino della seconda, in effetti mai (validamente) abrogata.
Un effetto peggiorativo della disciplina sanzionatoria in materia penale conseguente alla pronuncia di illegittimità costituzionale è stato, altresì, ritenuto ammissibile allorché esso si configuri come «mera conseguenza indiretta della reductio ad legitimitatem di una norma processuale», derivante «dall’eliminazione di una previsione a carattere derogatorio di una disciplina generale» (sentenza n. 236 del 2018).
Un controllo di legittimità costituzionale con potenziali effetti in malam partem può, infine, risultare ammissibile ove si assuma la contrarietà della disposizione censurata a obblighi sovranazionali rilevanti ai sensi dell’art. 11 o dell’art. 117, primo comma, Cost. (sentenza n. 28 del 2010; nonché sentenza n. 32 del 2014, ove l’effetto di ripristino della vigenza delle disposizioni penali illegittimamente sostituite in sede di conversione di un decreto-legge, con effetti in parte peggiorativi rispetto alla disciplina dichiarata illegittima, fu motivato anche con riferimento alla necessità di non lasciare impunite «alcune tipologie di condotte per le quali sussiste un obbligo sovranazionale di penalizzazione. Il che determinerebbe una violazione del diritto dell’Unione europea, che l’Italia è tenuta a rispettare in virtù degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.»)….”.
Nella precedente sentenza n. 28/2010 la Corte aveva già affermato che “la retroattività della legge più favorevole non esclude l’assoggettamento di tutte le norme giuridiche di rango primario allo scrutinio di legittimità costituzionale: «Altro […] è la garanzia che i principi del diritto penale-costituzionale possono offrire agli imputati, circoscrivendo l’efficacia spettante alle dichiarazioni d’illegittimità delle norme penali di favore; altro è il sindacato cui le norme stesse devono pur sempre sottostare, a pena di istituire zone franche del tutto impreviste dalla Costituzione, all’interno delle quali la legislazione ordinaria diverrebbe incontrollabile» (sentenza n. 148 del 1983 e sul punto, sostanzialmente nello stesso senso, sentenza n. 394 del 2006).
Nel caso di specie, se si stabilisse che il possibile effetto in malam partem della sentenza di questa Corte inibisce la verifica di conformità delle norme legislative interne rispetto alle norme comunitarie – che sono cogenti e sovraordinate alle leggi ordinarie nell’ordinamento italiano per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. – non si arriverebbe soltanto alla conclusione del carattere non autoapplicativo delle direttive comunitarie sui rifiuti, ma si toglierebbe a queste ultime ogni efficacia vincolante per il legislatore italiano, come effetto del semplice susseguirsi di norme interne diverse, che diverrebbero insindacabili a seguito della previsione, da parte del medesimo legislatore italiano, di sanzioni penali.
La responsabilità penale, che la legge italiana prevede per l’inosservanza delle fattispecie penali connesse alle direttive comunitarie, per dare alle stesse maggior forza, diverrebbe paradossalmente una barriera insuperabile per l’accertamento della loro violazione.
Per superare il paradosso sopra segnalato, occorre quindi distinguere tra controllo di legittimità costituzionale, che non può soffrire limitazioni, se ritualmente attivato secondo le norme vigenti, ed effetti delle sentenze di accoglimento nel processo principale, che devono essere valutati dal giudice rimettente secondo i principi generali che reggono la successione nel tempo delle leggi penali.
Questa Corte ha già chiarito che l’eventuale accoglimento delle questioni relative a norme più favorevoli «verrebbe ad incidere sulle formule di proscioglimento o, quanto meno, sui dispositivi delle sentenze penali»; peraltro, «la pronuncia della Corte non potrebbe non riflettersi sullo schema argomentativo della sentenza penale assolutoria, modificandone la ratio decidendi: poiché in tal caso ne risulterebbe alterato […] il fondamento normativo della decisione, pur fermi restando i pratici effetti di essa» (sentenza n. 148 del 1983).
Occorre precisare inoltre che, nel caso di specie, il giudice rimettente ha posto un problema di conformità di una norma legislativa italiana ad una direttiva comunitaria, evocando i parametri di cui agli artt. 11 e 117 Cost., senza denunciare, né nel dispositivo né nella motivazione dell’atto introduttivo del presente giudizio, la violazione dell’art. 3 Cost. e del principio di ragionevolezza intrinseca delle leggi. Ciò esclude che la questione oggi all’esame di questa Corte comprenda la problematica delle norme penali di favore, quale affrontata dalla sentenza n. 394 del 2006.
Infine va ricordato che, posti i principi di cui all’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, all’art. 25, secondo comma, Cost. ed all’art. 2, quarto comma, del codice penale, la valutazione del modo in cui il sistema normativo reagisce ad una sentenza costituzionale di accoglimento non è compito di questa Corte, in quanto la stessa spetta al giudice del processo principale, unico competente a definire il giudizio da cui prende le mosse l’incidente di costituzionalità”.
Principi che sono ribaditi anche nella successiva sentenza n. 40/2019, laddove la Corte osserva che “non trova riscontro nella giurisprudenza costituzionale l’assunto da cui muove il giudice rimettente per cui la riserva di legge di cui all’art. 25 Cost. precluderebbe in radice a questa Corte la possibilità di intervenire in materia penale con effetti meno favorevoli. Invero, la giurisprudenza di questa Corte, ribadita anche recentemente (sentenze n. 236 del 2018 e n. 143 del 2018), ammette in particolari situazioni interventi con possibili effetti in malam partem in materia penale (sentenze n. 32 e n. 5 del 2014, n. 28 del 2010, n. 394 del 2006), restando semmai da verificare l’ampiezza e i limiti dell’ammissibilità di tali interventi nei singoli casi.
Certamente il principio della riserva di legge di cui all’art. 25 Cost. rimette al legislatore «la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni da applicare» (sentenza n. 5 del 2014), ma non esclude che questa Corte possa assumere decisioni il cui effetto in malam partem non discende dall’introduzione di nuove norme o dalla manipolazione di norme esistenti, ma dalla semplice rimozione di disposizioni costituzionalmente illegittime.
In tal caso, l’effetto in malam partem è ammissibile in quanto esso è una mera conseguenza indiretta della reductio ad legitimitatem di una norma costituzionalmente illegittima, la cui caducazione determina l’automatica riespansione di altra norma dettata dallo stesso legislatore (sentenza n. 236 del 2018)”; sentenza, quella ora in esame n. 40/2019, nella quale la Corte -richiamando la pronuncia n. 32 del 2014- chiarisce la possibilità di declaratoria di incostituzionalità con effetti in malam partem laddove la pronuncia della Consulta si limiti “a rimuovere dall’ordinamento le disposizioni costituzionalmente illegittime sottoposte al suo esame, nello svolgimento del compito assegnatole dall’art. 134 Cost.” e la disciplina applicabile sia “il frutto di precedenti scelte del legislatore che sono tornate ad avere applicazione dopo la declaratoria di illegittimità costituzionale”.
Non parrebbe revocabile in dubbio, quindi, la possibilità per la Corte costituzionale di intervenire con sentenza in malam partem (rectius, l’ammissibilità della relativa questione) laddove la disposizione penale favorevole sospettata di illegittimità costituzionale si ponga in contrasto -come nel caso di specie- con il parametro costituzionale di cui agli artt. 11 e 117 Cost.
Si rimette alla Corte costituzionale la valutazione circa la possibilità o meno di individuare una ulteriore eccezionale ipotesi di suo intervento in materia penale sostanziale in malam partem, in caso di violazione di ulteriori e diversi parametri costituzionali, laddove le violazioni della Carta fondamentale abbiano un effetto grave e sistemico, come quelli che il Tribunale sommessamente evidenzia nella parte della presente ordinanza dedicata allo scrutinio di non manifesta infondatezza della questione di legittimità per violazione dell’art. 97 Cost.
III. NON MANIFESTA INFONDATEZZA DELLA QUESTIONE DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE
Onde comprendere appieno le ragioni processuali e giuridico-costituzionali che hanno portato il Tribunale all’adozione della presente ordinanza -in parte già sopra accennate- e nel contempo perimetrare il vaglio affidato a questo collegio, va doverosamente premesso che sul giudice comune grava un vero e proprio obbligo di sollevazione delle questioni di legittimità costituzionale in caso di serio dubbio di conformità delle disposizioni di legge o degli atti aventi forza di legge rispetto alle disposizioni e ai principi contenuti nella Carta fondamentale.
Spetta, infatti, alla Corte costituzionale, quale Giudice delle leggi, valutare la fondatezza o meno delle questioni di legittimità, dovendosi limitare il giudice a quo a prendere atto (oltre che della rilevanza nel giudizio, di cui si è già detto) della non manifesta infondatezza delle questioni di costituzionalità poste dalle parti o rilevabili d’ufficio.
Il deciso favor dell’ordinamento giuridico-costituzionale in ordine alla sollevazione della questione di costituzionalità in caso di possibile (ovvero dubbio, purché serio) contrasto della normativa di rango primario con la Carta fondamentale emerge chiaramente -non solo dall’art. 1, comma 1, l. cost. 1/1948, che prevede l’obbligo di rimessione della questione (“è rimessa”) quando questa “non sia ritenuta dal giudice manifestamente infondata” e dall’art. 23 l. 87/1953 che, dal canto suo, contempla il potere/dovere di sollevare questione di legittimità “qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale e non ritenga che la questione sollevata sia manifestamente infondata”- ma è indirettamente affermato anche dall’art. 24 l. 87/1953 laddove prevede che “l’ordinanza che respinga l’eccezione di illegittimità costituzionale per manifesta irrilevanza o infondatezza, deve essere adeguatamente motivata”.
A ben vedere, inoltre, il favor dell’ordinamento in merito alla rimessione delle questioni di legittimità da parte del giudice comune è dovuto all’assetto del controllo di costituzionalità, di tipo accentrato, e rimesso ad un organo, la Corte costituzionale, che notoriamente non può svolgere d’ufficio lo scrutinio di legittimità costituzionale, ma di regola è investito di tale compito a seguito di rimessione da parte del giudice comune che rilevi incidentalmente una questione nel corso di un giudizio pendente avanti a sé.
Tale potere-dovere gravante sul giudice comune è sentito massimamente dal Tribunale, considerata la particolare gravità e delicatezza della vicenda sottoposta al vaglio di questa Autorità giudiziaria e vieppiù tenuto conto che il principale soggetto danneggiato e costituito parte civile ha espressamente sollecitato il collegio, attraverso istanza/memoria scritta depositata all’udienza di discussione del 9.9.24, a rimettere la questione di legittimità costituzionale alla Consulta.
Ciò premesso, come si avrà modo di vedere, i dubbi di legittimità costituzionale, per possibile contrasto dell’art. 1 lett. b) l. 9 agosto 2024, n. 114 con la Costituzione repubblicana (non solo in relazione agli artt. 11 e 117 Cost.), connessi all’effetto di abolitio criminis (quasi totale), conseguenti all’abrogazione tout court della fattispecie “di chiusura” del sistema repressivo dei reati contro la pubblica amministrazione, rappresentata per l’appunto dall’abuso d’ufficio ex art. 323 c.p., sono tutt’altro che manifestamente infondati; soprattutto se si considera la contestuale e decisa contrazione dell’ambito applicativo della fattispecie del traffico di influenze illecite, ex art. 346 bis c.p., di cui si fatica ad individuare oggi un concreto spazio applicativo.
Nella individuazione dei parametri di costituzionalità possibilmente violati e nella valutazione del requisito/condizione della non manifesta infondatezza si procederà muovendo dal possibile contrasto con gli artt. 11 e 117, comma 1 Cost., in quanto oggetto di apposita istanza/eccezione del difensore di una delle parti civili, per poi passare ad illustrare alcune valutazioni officiose di questo collegio giudicante riguardanti un diverso parametro costituzionale.
- LA VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 11 E 117, COMMA 1, COST.
Il patrono della parte civile ha sottoposto al collegio una questione di legittimità costituzionale in ordine alla intervenuta abrogazione dell’art. 323 c.p. a mezzo dell’art. 1, comma 1, lett. b) della l. 9 agosto 2024, n. 114 per violazione degli artt. 11 e 117, comma 1 Cost. in relazione all’art. 19 della Convenzione delle Nazioni Unite del 2003 contro la corruzione (cd. Convenzione di Merida) e all’art. 31 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati.
Nella propria memoria/istanza la parte civile – all’esito di una ampia disamina delle disposizioni contenute nella Convenzione di Merida, lette alla luce delle indicazioni della “Guida Legislativa per la Implementazione della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione” – che costituisce ad avviso dell’istante uno strumento ermeneutico essenziale, ai fini di una corretta esegesi del Trattato del 2003 – nonché del principio di buona fede e di tutti i criteri ermeneutici fissati dall’art 31 della Convenzione di Vienna per l’interpretazione dei Trattati- argomenta come di seguito esposto:
“[…] le previsioni convenzionali, costruite intorno alla formula “Each State Party shall consider adopting”, lungi dal delineare una mera raccomandazione internazionale, per la verità, gravano il singolo Stato aderente di un vero e proprio obbligo internazionale, imponendogli di valutare concretamente la possibilità di implementare una determinata figura di reato nel proprio sistema penale.
Se è in altre parole corretto sostenere che le previsioni in commento hanno un grado di vincolatività minore rispetto alle prescrizioni, compendiate intorno alla diversa formula “Each State Party shall adopt” – le sole suscettive di dar luogo ad un vero e proprio obbligo di criminalizzazione-, è però sbagliato sostenere che queste stesse disposizioni non siano impegnative per i Paesi contraenti. Le sole previsioni convenzionali, inidonee ad originare alcun tipo di obbligo per le Parti aderenti, sono infatti quelle che si fondano sul diverso sintagma “Each State Party may adopt” (v., a titolo esemplificativo, l’art 27 par. 2 e 3 della Convenzione di Merida)”.
La stessa difesa di parte civile mette in evidenza, inoltre, che:
“[…] il cuore del problema, che non sembra essere stato minimamente sfiorato dagli uffici tecnici del Ministero, si sostanzia nella pre-esistenza del modello penale di riferimento, alla ratifica della Convenzione di Merida. Aspetto quest’ultimo gravido di rilevanti, anzi dirimenti, conseguenze giuridiche.
L’art 31 par. I della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati è chiaro, nello stabilire che “Un trattato deve essere interpretato in buona fede, In base al senso comune da attribuire ai termini del trattato nel loro contesto ed alla luce del suo oggetto e del suo scopo -rectius, del suo spirito-“.
L’obiettivo dichiarato della Convenzione di Merida, per quanto emerge dal suo stesso tenore letterale, è quello dí combattere la corruzione in tutte le sue possibili declinazioni (in proposito, v. il punto 6 delle Guida legislativa per l’implementazione della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione), e quindi pure nella forma dell’abuso d’ufficio (a fini meramente interpretativi, valga segnalare che, anche la proposta di Direttiva UE contro la corruzione qualifica esplicitamente l’abuso in atti d’ufficio come una declinazione dell’unitario fenomeno corruttivo -al riguardo v. il punto 2 della Proposta di Direttiva in oggetto, rubricato “Base giuridica, sussidiarietà e proporzionalità“, fg. 6; oltreché l’art 11 di cui alla Proposta di Direttiva in commento, fg. 36-)
All’esito di un opportuno processo ermeneutico, teleologicamente orientato alla stregua dell’art 31 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, l’art 19 della Convenzione di Merida deve allora essere interpretato nel senso che:
– gli Stati aderenti, che non conoscevano il reato d’abuso d’ufficio alla data di ratifica del Trattato, sono tenuti a considerare concretamente la possibilità di adottarlo;
– gli altri Stati aderenti, che a quella data già lo annoveravano nel proprio sistema penale, sono invece obbligati a mantenerlo in vita.
In altri termini, l’art 19, per la prima tipologia di attori statuali, fonda una posizione di obbligo, ricostruibile in questi termini “se il tuo sistema legale non conosce il reato d’abuso d’ufficio, sei tenuto a considerare di introdurlo, o meglio sei tenuto, nei limiti del possibile, ad attivarti per adottarlo, pur non essendo obbligato ad implementarlo”; per il secondo gruppo di Paesi, come l’Italia, a ben vedere, origina un vero e proprio obbligo internazionale di stand still -cioè l’obbligo internazionale di mantenere le cose, così come sono- la cui struttura va riassunta in questi termini: “se il tuo sistema legale già conosce il reato d’abuso d’ufficio, devi mantenere in vigore tale figura delittuosa“.
D’altra parte, diversamente opinando, si giungerebbe all’assurdo per il quale il dovere internazionale di considerare di introdurre una figura di reato, per combattere ogni forma di corruzione, verrebbe a essere interpretato come una mera raccomandazione a tenere un comportamento assolutamente discrezionale, a fronte della quale il legislatore nazionale sarebbe libero di prendersi la licenza – come accaduto- di poter smantellare il proprio arsenale contro il multiforme fenomeno corruttivo, che proprio la Convenzione di Merida è preordinata a fronteggiare.”
Sulla base di tali premesse la parte civile istante conclude come di seguito:
“Lede dunque il buon senso e la logica, ed insieme il diritto internazionale, l’avere asserito, come è stato sinora asserito da fonti governative e parlamentari, che l’obbligo di considerare la necessità di avvalersi del reato d’abuso d’ufficio per combattere la corruzione sarebbe ottemperato, con la sua cancellazione dall’ordinamento. La Convenzione di Merida, insomma, obbligando gli Stati aderenti che non lo prevedevano a valutare la necessità di implementare il reato d’abuso d’ufficio, ha pure obbligato gli Stati aderenti che già lo annoveravano a non riconsiderare la sua esistenza nei rispettivi ordinamenti nazionali.
In definitiva, alla luce dei plurimi rilievi critici sino ad ora mossi, la norma abrogativa dell’abuso d’ufficio, e cioè l’art 1cmma 1 lett.b) della L. agosto 2024, n. 114, deve ritenersi incostituzionale, perché lesiva degli artt. 11 e 117 Cost., in relazione agli artt. 19 della Convenzione di Merida e 31 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati”.
Il Tribunale ritiene la questione posta tutt’altro che manifestamente infondata.
Valgano, a tal fine, le considerazioni giuridiche che seguono.
La Convenzione delle Nazioni Unite del 2003 contro la corruzione (cd. Convenzione di Merida) adottata dalla Assemblea generale dell’ONU il 31 ottobre 2003 con risoluzione n. 58/4, firmata dallo Stato italiano il 9 dicembre 2003, come noto, è stata oggetto di ratifica ed esecuzione in Italia con l. 3 agosto 2009, n. 116.
E’ un dato pacifico che la Convenzione di Merida costituisca un vero e proprio trattato internazionale di natura multilaterale (d’altronde nel linguaggio internazionalistico, come noto, i termini trattato, accordo, patto e convenzione, sono utilizzati indistintamente) e in quanto tale fonte del diritto internazionale particolare, di natura volontaria, vincolante per gli Stati contraenti e che trova il fondamento della sua obbligatorietà nella ben nota norma consuetudinaria cogente pacta sunt servanda (principio peraltro espresso nella Convenzione di Vienna del 23 maggio 1969 sul diritto dei trattati, all’art. 26).
Nell’ambito del titolo terzo e delle misure penali, la Convenzione ha posto in capo agli Stati firmatari l’obbligo di conferire carattere penale a una varietà di infrazioni correlate ad atti di corruzione, qualora esse non siano già nel diritto interno definite come infrazioni penali.
Una specifica caratteristica della Convenzione di Merida è l’ampliamento del relativo campo di applicazione: essa non prende in considerazione solamente forme per così dire “tradizionali” o “classiche” di corruzione, ma anche violazioni “spia”, sintomatiche o agevolatrici della corruzione stessa.
Ciò, del resto, si evince dalla Legislative guide for the implementation of the United Nations Convention against corruption considerato, a buon ragione, documento di “interpretazione autentica” della Convenzione stessa, in considerazione del suo contenuto, della finalità e del fatto che promana dalle stesse Nazioni Unite (Drugs and Crime Office). Tale documento, ovvero la Legislative guide for the implementation of the United Nations Convention against corruption, nella versione consolidata al 2012, al punto 6 (p. 2) prevede espressamente che “The Convention goes on to require the State parties to introduce criminal and other offences to cover a wide range of acts of corruption, to the extent these are not already defined as such under domestic law. The criminalization of some acts is mandatory under the Convention, which also requires that State parties consider the establishment of additional offences. An innovation of the Convention against Corruption is that it addresses not only basic forms of corruption, such as bribery and the embezzlement of public funds, but also acts carried out in support of corruption, obstruction of justice, trading in influence and the concealment or laundering of the proceeds of corruption. Finally, this part of the Convention also deals with corruption in the private sector” (previsione che può essere così traslata: la Convenzione richiede poi agli Stati parti di introdurre reati penali e altri reati per coprire un’ampia gamma di atti di corruzione, nella misura in cui questi non siano già definiti come tali dal diritto interno. La criminalizzazione di alcuni atti è obbligatoria ai sensi della Convenzione, che richiede anche che gli Stati parti considerino l’istituzione di ulteriori reati.
Una novità della Convenzione contro la corruzione è che essa affronta non solo le forme basilari di corruzione, come le concussioni e l’appropriazione indebita di fondi pubblici, ma anche gli atti compiuti a sostegno della corruzione, l’ostruzione alla giustizia, il traffico di influenza e l’occultamento o il riciclaggio dei proventi della corruzione.
Infine, questa parte della Convenzione si occupa anche della corruzione nel settore privato); lo stesso documento a p. 59, di fatto riprendendo quanto previsto dall’art. 65, comma 2, della Convenzione prevede inoltre che “The Convention introduces minimum standards, but States parties are free to go beyond them. It is indeed recognized that States may criminalize or have already criminalized conduct other than the offences listed in this chapter as corrupt conduct” (previsione che può essere così traslata: la Convenzione introduce standard minimi, ma gli Stati parti sono liberi di andare oltre. È infatti riconosciuto che gli Stati possono criminalizzare o hanno già criminalizzato comportamenti diversi dai reati elencati in questo capitolo come condotta di corruzione).
Ciò premesso in via generale, va considerato che all’art. 19 la Convenzione prende in espressa considerazione la fattispecie dell’abuso d’ufficio prevedendo: “Each State Party shall consider adopting such legislative and other measures as may be necessary to establish as a criminal offence, when committed intentionally, the abuse of functions or position, that is, the performance of or failure to perform an act, in violation of laws, by a public official in the discharge of his or her functions, for the purpose of obtaining an undue advantage for himself or herself or for another person or entity” (nella traduzione italiana, rinvenibile in allegato alla legge di autorizzazione alla ratifica ed esecuzione l. 3 agosto 2009, n. 116, la disposizione viene così traslata: “Articolo 19 Abuso d’ufficio Ciascuno Stato Parte esamina l’adozione delle misure legislative e delle altre misure necessarie per conferire il carattere di illecito penale, quando l’atto è stato commesso intenzionalmente, al fatto per un pubblico ufficiale di abusare delle proprie funzioni o della sua posizione, ossia di compiere o di astenersi dal compiere, nell’esercizio delle proprie funzioni, un atto in violazione delle leggi al fine di ottenere un indebito vantaggio per se o per un’altra persona o entità”).
A seguito dell’abrogazione dell’art. 323 c.p. i giuristi e i primi commentatori (ma del resto seri dubbi erano già stati sollevati da Autori e operatori del diritto nella fase di discussione ed approvazione della legge abrogativa) si sono posti il quesito se la abolitio criminis contrasti: a) con un vero e proprio obbligo di criminalizzazione/penalizzazione dell’abuso d’ufficio eventualmente imposto dall’art. 19 della Convenzione di Merida; b) se, in ogni caso, la sopravvenuta abrogazione dell’abuso d’ufficio, reato preesistente in Italia rispetto alla Convenzione di Merida e che attuava l’art. 19 di tale Convenzione, possa integrare comunque una violazione del diritto internazionale (ovvero, altrimenti detto, per usare una efficace espressione di un illustre Autore se “esista un vincolo convenzionale che impedisca al nostro Paese di fare un passo indietro”) e, quindi, vi sia un contrasto con l’art. 117, comma 1 Cost.
Va in questo senso premesso che il diritto internazionale pubblico prevede un procedimento di adattamento del diritto interno al diritto internazionale, soprattutto laddove -come nel caso della Convenzione di Merida- taluni obblighi convenzionali consistano proprio nella doverosa conformazione del diritto interno dello Stato contraente a determinati standard minimi di tutela (anche penale) di beni giuridici presi in considerazione nel trattato internazionale; si tratta, com’è noto, di un procedimento attraverso il quale le norme internazionali trovano applicazione nell’ordinamento di uno Stato contraente o, comunque, mediante il quale quest’ultimo adempie all’obbligo assunto in sede internazionale con la stipula del trattato.
In questo senso l’art. 65, comma 1, della Convenzione “Attuazione della Convenzione” prevede che “Ciascuno Stato Parte adotta le misure necessarie, comprese misure legislative ed amministrative, in conformità con i principi fondamentali del suo diritto interno, per assicurare l’esecuzione dei suoi obblighi ai sensi della presente Convenzione”.
Ebbene, in simili casi l’esecuzione del trattato attraverso l’adattamento può comportare una serie di modifiche all’ordinamento interno dello Stato contraente al fine di renderlo conforme a quello internazionale; adattamento che, secondo la consolidata dottrina internazionalistica, può avvenire con diverse modalità, ovvero per il tramite di:
– produzione di norme interne non ancora esistenti nell’ordinamento interno, che assicurino il rispetto dell’obbligo internazionale assunto dallo Stato contraente con la stipula del trattato internazionale;
– emendamento di norme interne già esistenti nell’ordinamento interno, laddove confliggenti con quelle dettate dal diritto internazionale;
– abrogazione di norme interne esistenti incompatibili con quelle dettate dal diritto internazionale da recepire o a cui lo Stato deve conformarsi.
Ma le procedure di adattamento del diritto interno sopra brevemente richiamate, non rappresentano (questo, come si vedrà, è un aspetto decisivo nel caso di specie) l’unica modalità attraverso cui lo Stato adempie all’obbligo assunto in sede internazionale.
Infatti, secondo la condivisibile dottrina internazionalistica, nella diversa ipotesi in cui l’ordinamento interno preveda già, al momento dell’assunzione dell’obbligo internazionale, una norma interna pienamente conforme a quella internazionale, sullo Stato contraente grava un vero e proprio obbligo, sul piano internazionale, consistente nel non abrogare tale norma, atteso che la efficacia di tale norma interna risulterebbe rafforzata e vincolata dal collegamento esistente con la norma internazionale a cui lo Stato è tenuto ad adeguarsi.
Nel caso della Convenzione di Merida, l’obbligo del mantenimento/non abrogazione delle norme interne preesistenti è peraltro espressamente previsto dall’art. 7, “Settore pubblico” che al comma 4 dispone che […] “4. Ciascuno stato si adopera, conformemente ai principi fondamentali del proprio diritto interno, al fine di adottare, mantenere e rafforzare i sistemi che favoriscono la trasparenza e prevengono i conflitti di interesse”.
Orbene, come condivisibilmente sostiene la parte civile istante nel presente giudizio, la corretta portata dell’art. 19 della Convenzione di Merida può essere colta solo attraverso un’interpretazione rispettosa dell’art. 31 della Convenzione di Vienna del 23 maggio 1969 sul diritto dei trattati e di carattere sistematico, ovvero mediante una lettura congiunta e comparata con le altre disposizioni della Convenzione, nella quale si fa uso di espressioni diverse (“each State Party shall adopt”; “shall consider adopting” or “shall endeavour to”; “may adopt”).
Per la corretta comprensione del significato dell’espressione impiegata dall’art. 19 della Convenzione di Merida (“Each State Party shall consider adopting”) e, quindi, del suo contenuto e, soprattutto, per cogliere la sua portata obbligatoria e vincolante per lo Stato contraente/aderente, deve ricorrersi nuovamente alla Legislative guide for the implementation of the United Nations Convention against corruption, quale atto di “interpretazione autentica” della Convenzione stessa, laddove ai punti ai punti 11 e 12 (p. 4) si chiarisce che l’espressione indicata nell’art. 19 della Convenzione di Merida, con riferimento all’abuso d’ufficio, colloca tale previsione non nell’ambito delle semplici raccomandazioni (“may adopt”):
“11. In establishing their priorities, national legislative drafters and other policymakers should bear in mind that the provisions of the Convention do not all have the same level of obligation. In general, provisions can be grouped into the following three categories:
(a) Mandatory provisions, which consist of obligations to legislate (either absolutely or where specified conditions have been met);
(b) Measures that States parties must consider applying or endeavour to adopt;
(c) Measures that are optional.
- Whenever the phrase “each State Party shall adopt” is used, the reference is to a mandatory provision. Otherwise, the language used in the guide is “shall consider adopting” or “shall endeavour to”, which means that States are urged to consider adopting a certain measure and to make a genuine effort to see whether it would be compatible with their legal system. For entirely optional provisions, the guide employs the term “may adopt”.
[previsione che può essere così traslata: “11. Nello stabilire le loro priorità, i redattori legislativi nazionali e gli altri decisori politici dovrebbero tenere presente che le disposizioni della Convenzione non hanno tutte lo stesso livello di obblighi. In generale, le disposizioni possono essere raggruppate nelle seguenti tre categorie:
(a) disposizioni obbligatorie, che consistono in obblighi di legiferare (in modo assoluto o quando sono soddisfatte determinate condizioni);
(b) Misure che gli Stati parti devono considerare di applicare o tentare di adottare;
(c) Misure facoltative.
- Ogni volta che viene utilizzata l’espressione “ciascuno Stato Parte adotta”, si fa riferimento a una disposizione imperativa. Altrimenti, il linguaggio utilizzato nella guida è “considererà l’adozione” o “si adopera per”, il che significa che gli Stati sono invitati a prendere in considerazione l’adozione di una determinata misura e a compiere uno sforzo reale per vedere se sarebbe compatibile con il loro ordinamento giuridico. Per le disposizioni del tutto facoltative la guida utilizza il termine “può adottare”].
Orbene, come si coglie da una lettura attenta e ragionevole dell’art. 19 della Convenzione di Merida, alla luce delle preziose indicazioni interpretative contenute nella Legislative guide for the implementation of the United Nations Convention against corruption, la portata dell’art. 19 -diretto, anzitutto, (ma non solo, come si dirà) agli Stati contraenti che non avevano già, diversamente dall’Italia, nel proprio ordinamento, la fattispecie di abuso d’ufficio all’atto dell’adesione alla Convenzione stessa- non può considerarsi una mera raccomandazione priva di effetti obbligatori sul piano internazionale e convenzionale: in ragione della espressione impiegata “shall consider adopting”, l’art. 19 della Convenzione non è collocabile tra le disposizioni del tutto facoltative [lett. c) del punto 11 della Legislative guide)], bensì va annoverata tra le “Measures that States parties must consider applying or endeavour to adopt” [lett. b) del punto 11 della Legislative guide].
Categoria quest’ultima che comporta un vero e proprio obbligo in capo allo Stato contraente come emerge – non solo dalla prima parte del punto 11, laddove si afferma in modo inequivoco che le disposizioni della Convenzione prevedono un diverso livello di obblighi (“…the provisions of the Convention do not all have the same level of obligation”) e che, dunque, di obbligo, ancorché di diverso contenuto, si tratta anche in ipotesi non riconducibile a quello contemplato dalla lett. a)- ma anche dalla seconda parte del punto 11, laddove, proprio nella lett. b), si fa impiego del verbo “must” (“Measures that States parties must consider applying or endeavour to adopt”, ovvero: misure che gli Stati parti devono considerare di applicare o tentare di adottare).
Ebbene, il contenuto dell’obbligo giuridico sul piano internazionale discendente dall’art. 19 della Convenzione di Merida -letto ed interpretato in relazione al punto 11 lett. b) e punto 12 della Legislative guide for the implementation of the United Nations Convention against corruption (p. 4)- deve essere individuato tenendo conto di un’altra disposizione della Convenzione di Merida, ovvero il già citato art. 7, “Settore pubblico” che al comma 4 prevede che […] “4. Ciascuno stato si adopera, conformemente ai principi fondamentali del proprio diritto interno, al fine di adottare, mantenere e rafforzare i sistemi che favoriscono la trasparenza e prevengono i conflitti di interesse”.
Ad avviso del Tribunale, dunque, gli obblighi discendenti dalla Convenzione di Merida (ci si concentra ora su quelli di cui all’art. 19) vanno declinati diversamente, tenuto conto anche dell’art. 7, comma 4 della Convenzione medesima, a seconda del fatto che lo Stato aderente abbia o meno già adottato nel proprio ordinamento la fattispecie di abuso d’ufficio, sicché:
- a) lo Stato parte che non abbia introdotto la fattispecie prima dell’adesione alla Convenzione di Merida, sarà tenuto a valutare concretamente e seriamente la sua introduzione in conformità al proprio diritto interno, dovendo compiere uno sforzo reale per vedere se essa sia compatibile con il proprio ordinamento giuridico; di talché, laddove tale compatibilità sussista, lo Stato contraente, onde intenda adeguarsi all’obbligo internazionale, sarà ragionevolmente tenuto ad introdurlo;
- b) lo Stato parte che invece, come l’Italia, abbia già introdotto la fattispecie prima dell’adesione alla Convenzione di Merida e che ha, dunque, già positivamente valutato la conformità della fattispecie rispetto al proprio diritto interno -dovendo mantenere e rafforzare i sistemi che favoriscono la trasparenza e prevengono i conflitti di interesse (art. 7, comma 4, Convenzione di Merida)- per adeguarsi all’obbligo internazionale di cui all’art. 19, sarà tenuto a non abrogare la fattispecie già vigente, vieppiù senza la contestuale adozione di alcuna misura preventiva e/o repressiva-sanzionatoria caratterizzata da concreta ed effettiva dissuasività.
Ad abundantiam, si rileva che le conclusioni tratte dal Tribunale in ordine alla sussistenza di un obbligo internazionale e di una possibile violazione della Convenzione, proprio in ragione dell’abrogazione dell’art. 323 c.p., convergono col contenuto della Relazione annuale della Commissione U.E. sullo Stato di diritto per il 2024, adottata a Bruxelles il 24.7.2024. Si legge a tal proposito nel Capitolo sulla situazione dello Stato di diritto in Italia – parte II. laddove si esamina il “Quadro anticorruzione” (si riporta lo stralcio della parte di interesse con le relative note):
“….Il Parlamento ha approvato un disegno di legge che abroga la fattispecie dell’abuso d’ufficio e limita l’ambito di applicazione del reato di traffico di influenze illecite. Il 10 luglio 2024 il Parlamento ha approvato un disegno di legge (125) che abroga la fattispecie dell’abuso d’ufficio e limita l’ambito di applicazione del reato di traffico di influenze illecite. Le modifiche dell’ambito di applicazione del reato di traffico di influenze illecite mirano a escludere non solo i casi in cui il mediatore si limita ad asserire di essere in grado di influenzare il pubblico ufficiale, ma anche quelli in cui l’utilità data o promessa non è economica (126). Il Governo osserva che soltanto una percentuale limitata di tutti i procedimenti penali condotti per il reato di abuso d’ufficio si concluderebbe con una condanna (127), il che dimostrerebbe che penalizzare tale comportamento è inefficace in rapporto alle risorse amministrative e finanziarie investite nelle relative attività procedurali (128). Il Governo sostiene inoltre che la fattispecie esercita un effetto paralizzante sulle pubbliche amministrazioni e che altri reati di corruzione forniscono un quadro legislativo abbastanza forte per combattere gli atti che minano l’imparzialità e il corretto funzionamento della pubblica amministrazione (129).
Tuttavia la criminalizzazione dell’abuso d’ufficio e del traffico di influenze illecite è prevista dalle convenzioni internazionali sulla corruzione ed è quindi uno strumento essenziale per le autorità di contrasto e le procure ai fini della lotta contro la corruzione (130). I portatori di interessi hanno osservato che l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio potrebbe comportare una diminuzione dei livelli di rilevamento e investigazione della frode e della corruzione (131). Inoltre (132) la riduzione dell’ambito di applicazione del reato di traffico di influenze illecite dovrebbe essere controbilanciata da norme più rigorose in materia di lobbying (133).
Il 3 luglio 2024 il Governo ha approvato un decreto-legge che introduce la nuova fattispecie di reato di peculato per distrazione, riguardante l’indebita destinazione di denaro o cose mobili da parte di pubblico ufficiale (134)
125 Disegno di legge A.C. 1718, Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all’ordinamento giudiziario e al codice dell’ordinamento militare.
126 Cfr. Relazione sullo Stato di diritto 2023 -Capitolo sulla situazione dello Stato di diritto in Italia, pag.12, nota 87.
127 Sui 5292 procedimenti conclusi per questo reato le condanne sono state soltanto nove e sui 4481 procedimenti conclusi nel 2022 le condanne sono state soltanto 18. Cfr. contributo scritto del Ministero della Giustizia in occasione della visita in Italia, pag.23; Relazione sullo Stato di diritto 2023 -Capitolo sulla situazione dello Stato di diritto in Italia, pag.12, nota 86.
128 Contributo scritto del Ministero della Giustizia in occasione della visita in Italia, pagg.21 e 22. Le disposizioni del codice penale sul reato di abuso d’ufficio sono state modificate almeno cinque volte tra il 1930 e il 2020. Si vedano le audizioni del presidente dell’ANAC del 5 settembre 2023 dinanzi al Senato della Repubblica (pagg. 5 e 6) e del 28 marzo 2024 dinanzi alla Camera dei deputati (pagg. da 5 a 7).
129 Contributo scritto del Ministero della Giustizia in occasione della visita in Italia, pagg.3 e 4.
130 L’abuso di pubblico ufficio e il traffico di influenze illecite figurano nella convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione e il traffico di influenze illecite figura nella convenzione penale del Consiglio d’Europa sulla corruzione. La Commissione ha proposto di criminalizzare tali reati a livello dell’Unione nel maggio 2023, in seguito all’impegno preso dalla sua presidente nel discorso sullo stato dell’Unione del 2022 (COM(2023)234 final del 3 maggio 2023). In occasione dell’audizione di fronte alla Commissione Giustizia del Senato della Repubblica del 5 settembre 2023, il presidente dell’ANAC ha affermato che il disegno di legge sarebbe contrario alla proposta della Commissione e alle convenzioni internazionali anticorruzione. A questo proposito si veda il contributo di Magistrats Européens pour la Démocratie et les Libertés alla Relazione sullo Stato di diritto 2024, pag. 18. L’abuso d’ufficio configura reato in almeno 25 Stati membri: cfr. COM(2023) 234 final, del 3 maggio 2023, pag. 12.
131 Si vedano le audizioni del presidente dell’ANAC del 5 settembre 2023 dinanzi al Senato della Repubblica (pagg. 12 e 13) e del 28 marzo 2024 dinanzi alla Camera dei deputati (pagg. da 12 a 14 e 17) e il contributo scritto dell’ANAC in occasione della visita in Italia, pag. 9.
Si vedano inoltre i contributi dell’EPPO (pag. 34) e di Magistrats Européens pour la Démocratie et les Libertés (pag. 18) alla Relazione sullo Stato di diritto 2024 e il contributo scritto di The Good Lobby in occasione della visita in Italia (pag. 4). Informazione ricevuta anche in occasione della visita in Italia dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, dalla Procura generale presso la Corte suprema di cassazione, da Transparency International Italy e da Openpolis.
In occasione della visita in Italia, la Procura generale presso la Corte suprema di cassazione ha osservato che la differenza tra il numero di procedimenti e il numero di condanne potrebbe anche essere interpretata positivamente come prova dell’accuratezza delle autorità investigative nell’esaminare gli elementi di prova. Il presidente dell’ANAC ha formulato un’osservazione analoga nell’audizione dinanzi alla Camera dei deputati del 28 marzo 2024 (pag. 4).
132 Informazioni ricevute in occasione della visita in Italia da The Good Lobby, da Libera, dall’ANAC e dalla Procura generale presso la Corte suprema di cassazione. Si vedano inoltre il contributo scritto di The Good Lobby in occasione della visita in Italia e i contributi di The Good Lobby “Regulate lobbying to improve democracy” e “Anticorruption Decalogue”; l’audizione del presidente dell’ANAC dinanzi alla Camera dei deputati del 28 marzo 2024 (pagg. 18 e 21)…..”
Si aggiunga, infine, sempre ad abundantiam, che il legislatore italiano nella scelta di abolire la fattispecie di abuso d’ufficio, si colloca in decisa controtendenza, non solo rispetto a quanto avviene sul piano internazionale, ma anche rispetto alle scelte già effettuate dallo stesso legislatore in attuazione di direttive dell’UE:
– de jure condito, deve evidenziarsi che con dlgs. 156/22 il legislatore italiano, in dichiarata attuazione della Direttiva UE 2017/1371, aveva novellato l’art. 322 bis c.p. inserendovi proprio la fattispecie di abuso d’ufficio;
– de jure condendo, si osserva che la recente proposta di Direttiva europea sulla lotta alla corruzione, sostitutiva della decisione quadro 2003/568/GAI e di modifica della direttiva UE 2017/1371, in attuazione proprio della Convenzione ONU di Merida del 2003, all’articolo 11, impegna gli Stati membri a prevedere espressamente come reato l’abuso d’ufficio.
Ritiene, in definitiva, il Tribunale che le ragioni giuridiche sopra esposte portino a dubitare seriamente della conformità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lett. b) della l. 9 agosto 2024, n. 114 nella parte in cui abroga il reato di cui all’art. 323 c.p. per violazione degli artt. 11 e 117, comma 1 Cost., in relazione agli artt. 7, comma 4, 19 e 65, comma 1, della Convenzione delle Nazioni Unite del 2003 contro la corruzione (cd. Convenzione di Merida).
- LA VIOLAZIONE DELL’ART. 97 COST.
Il Tribunale sospetta anche l’incostituzionalità dell’art. 1, comma 1, lett. b) della l. 9 agosto 2024, n. 114, per violazione dell’art. 97 Cost.
Come noto l’art. 323 c.p. negli ultimi decenni è stato oggetto di diversi interventi legislativi: si ricordano le riformulazioni della fattispecie operate con l. 86/1990 e con l. 234/1997; l’inasprimento della pena detentiva massima applicabile fino a 4 anni di reclusione con l. 190/2012; la parziale abolitio criminis con d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, nella legge 11 settembre 2020, n. 120; la fattispecie è stata, infine, abrogata a mezzo dell’art. 1, lett. b) della l. 9 agosto 2024, n. 114, atto normativo che (art. 1, lett. e), nel contempo, ha sostituito l’art. 346-bis c.p., restringendone fortemente l’ambito applicativo.
Concentrandosi sugli interventi normativi più recenti si evidenzia che il punto nodale della riforma del 2020 passava attraverso la sostituzione della locuzione «di norme di legge o di regolamento» con quella «di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità».
In questo modo la novella legislativa aveva ristretto la fattispecie, operando -quantomeno formalmente- su tre distinti fronti: rispetto all’oggetto, atteso che la violazione commessa dal soggetto pubblico doveva riguardare una regola di condotta (e non, ad esempio, una regola organizzativa); rispetto alla fonte, in quanto la regola violata doveva essere specifica ed espressamente prevista da una legge o da un atto avente forza di legge, con esclusione delle norme regolamentari; rispetto al contenuto, atteso che la regola violata non doveva lasciare spazi di discrezionalità.
È conscio il Tribunale di quanto affermato dalla Corte costituzionale nella già citata sentenza n. 8/2022 proprio nello scrutinio di ammissibilità e fondatezza della questione sollevata con riferimento (anche) all’art. 97 cost. in riferimento alla parziale abolitio criminis intervenuta con d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, nella legge 11 settembre 2020, n. 120; in tale pronuncia la Corte ha chiarito “come una censura di illegittimità costituzionale non possa basarsi sul pregiudizio che la formulazione, in assunto troppo restrittiva, di una norma incriminatrice, recherebbe a valori di rilievo costituzionale, quali, nella specie, l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione. Le esigenze costituzionali di tutela non si esauriscono, infatti, nella tutela penale, ben potendo essere soddisfatte con altri precetti e sanzioni: l’incriminazione costituisce anzi un’extrema ratio, cui il legislatore ricorre quando, nel suo discrezionale apprezzamento, lo ritenga necessario per l’assenza o l’inadeguatezza di altri mezzi di tutela (sentenza n. 447 del 1998; in senso analogo, con riferimento all’abrogazione del reato di ingiuria, sentenza n. 37 del 2019; si vedano pure la sentenza n. 273 del 2010 e l’ordinanza n. 317 del 1996)”.
Il quadro normativo di fronte al quale si trova oggi il Tribunale è, però, mutato rispetto a quello scrutinato dalla Corte nella sentenza n. 8/2022.
Valgano a tal fine le brevi considerazioni giuridiche di cui appresso, ad avviso del Tribunale decisive in ordine alla possibile violazione dell’art. 97 Cost., per frustrazione dei principi di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione:
1) la riforma odierna abolisce la fattispecie di cui all’art. 323 c.p., sia nella forma dell’abuso “per violazione di legge” che “per omessa astensione”, sia dell’abuso “di danno” che “di vantaggio”; a ben vedere le uniche condotte finora incriminate sub art. 323 c.p. a rimanere sanzionate penalmente sono costituite dal c.d. peculato per distrazione (limitata alla distrazione di denaro o cose mobili), in forza della quasi contestuale (ma antecedente) introduzione dell’art. 314 bis c.p. (Indebita destinazione di denaro o cose mobili) ad opera del d.l. n. 92/2024, entrato in vigore prima dell’abrogazione dell’art. 323 c.p. e dalle forme di abuso d’ufficio per omissione, tuttora incriminato sub art. 328 c.p.;
2) è dunque inibita la repressione e la tutela sul piano penale -non solo nelle ipotesi di violazione di legge (ultimamente ormai limitate alle più gravi, obiettive e conclamate, in ragione della riformulazione introdotta nel 2020) intenzionalmente poste in essere dal pubblico ufficiale (o incaricato di pubblico servizio) per danneggiare o favorire taluno- ma addirittura nei casi di mancata astensione, in caso di conflitto di interessi o di situazioni di incompatibilità;
3) l’abrogazione dell’art. 323 c.p. pare addirittura depotenziare, sebbene in via indiretta, lo stesso obbligo di astensione del pubblico ufficiale in caso di conflitto di interessi, tenuto conto che – come riconosciuto dalla condivisibile giurisprudenza di legittimità- la disposizione abrogata fungeva, in un tempo, da norma repressiva della violazione dell’obbligo di astensione (ove ricorressero gli altri elementi costitutivi della fattispecie, s’intende) e da norma fondativa dell’obbligo stesso, specialmente in settori nei quali l’obbligo non era oggetto di una specifica disciplina (“L’art. 323 cod. pen. ha introdotto nell’ordinamento, in via diretta e generale, un dovere di astensione per i pubblici agenti che si trovino in una situazione di conflitto di interessi, con la conseguenza che l’inosservanza del dovere di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto integra il reato anche se manchi, per il procedimento ove l’agente è chiamato ad operare, una specifica disciplina dell’astensione, o ve ne sia una che riguardi un numero più ridotto di ipotesi o che sia priva di carattere cogente” Cass., Sez. 6, Sentenza n. 14457 del 15/03/2013 – Rv. 255324 – 01);
4) nel contempo la l. 9 agosto 2024, n. 114 (art. 1, lett. e), ha sostituito l’art. 346-bis c.p., restringendone fortemente l’ambito applicativo (o, per usare l’efficace espressione di un autorevole commentatore, il “soffocamento applicativo della fattispecie”) atteso che:
- a) la nuova fattispecie si riferisce solo alle relazioni esistenti e, pertanto, non dà più rilievo ai fatti commessi da faccendieri (o trafficanti di influenze) millantatori;
- b) la nuova formulazione dell’ 346 bis c.p., precisa che l’utilizzazione delle relazioni deve avvenire “intenzionalmente allo scopo” di porre in essere le condotte che integrano la fattispecie delittuosa; espressione con cui il legislatore pare aver voluto restringere l’ambito di applicazione della fattispecie aggiungendo il requisito del dolo intenzionale in rapporto all’utilizzazione delle relazioni con il pubblico funzionario;
- c) con la 114/2024, l’utilità data o promessa al mediatore, in alternativa al denaro, deve essere economica, di talché non sarà più punibile il mediatore che fa dare o promettere a sé o ad altri un’utilità non economica (si pensi agli esempi enucleati dai primi commentatori: un rapporto sessuale, o vantaggi sociali o di natura meramente politica);
- d) il nuovo 346 bis c.p.lascia fuori dall’ambito applicativo della fattispecie, il fatto commesso in rapporto all’esercizio dei soli poteri del pubblico funzionario, e non anche delle sue funzioni; come acutamente osservato dalla dottrina nei primi commenti, la rilevanza di questa modifica, forse più limitata rispetto alle altre già viste, si fonda sulla distinzione tra funzioni e poteri dei soggetti rivestiti di qualifiche pubblicistiche e garantisce l’impunità al trafficante di influenze che abbia di mira la remunerazione del funzionario pubblico in relazione all’esercizio dei suoi soli poteri e non anche delle sue funzioni;
- e) il legislatore ha introdotto, poi, una definizione legale di “mediazione illecita” rappresentata da quella posta in essere “per indurre il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio…a compiere un atto contrario ai doveri d’ufficio costituente reato dal quale possa derivare un vantaggio indebito”; definizione evidentemente restrittiva che subisce, per di più, una grave limitazione indiretta, data dal fatto che l’“atto contrario ai doveri d’ufficio costituente reato dal quale possa derivare un vantaggio indebito” era finora di regola rappresentato da un fatto qualificabile come abuso d’ufficio (delitto oggi depenalizzato e dunque insuscettibile di rilevare ai fini della integrazione di una mediazione illecita), e non potendo essere configurata una mediazione illecita ex art. 346 bis c.p.finalizzata alla induzione alla corruzione, atteso che si configurerebbe per l’appunto una ipotesi di concorso nella corruzione stessa;
5) in definitiva, per il tramite del medesimo intervento legislativo, il Parlamento ha de facto abrogato espressamente il delitto di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) – di cui sopravvivono ormai solo marginali ed invero infrequenti ipotesi, quale il peculato per distrazione (art. 314 bis c.p.) – e indirettamente anche il traffico di influenze illecite (art. 346 bis c.p.);
6) il legislatore è intervenuto in modo così pesante sul sistema dei reati contro la pubblica amministrazione, eliminando importanti presidi penali a tutela del buon andamento ed imparzialità della pubblica amministrazione, nella dichiarata intenzione di perseguire una più efficace e libera azione amministrativa, senza adeguatamente considerare, però, gli effetti della parziale abolitio approvata nel 2020 e delle altre riforme medio tempore entrate in vigore;
non sembra in particolare essersi tenuto conto:
- a) dell’esiguo numero di procedimenti incardinati dopo la riforma del 2020 e delle introdotte tutele, anche sul piano economico, in favore di funzionari prosciolti (nel corso dell’audizione avanti alla competente commissione parlamentare il Procuratore Generale della Suprema Corte di cassazione ha osservato che “Conforta tale conclusione la considerazione dell’alto tasso di archiviazione e la riduzione delle iscrizioni del 39,3% dal 2016 al 2021. Nel 2022 abbiamo avuto il 79% di archiviazioni; nel 2021 18 condanne (nel 2016 erano state 82) e 256 assoluzioni o proscioglimenti. Nel caso di archiviazione e di assoluzione, all’amministratore pubblico è poi garantito il rimborso delle spese legali, garanzia certo di rilievo con riguardo alle preoccupazioni in esame”);
- b) della profonda revisione della giurisprudenza di legittimità che, soprattutto a seguito della sentenza Corte cost. n. 8/2022, si era doverosamente attestata sulla irrilevanza delle violazioni di principi generali di imparzialità, buon andamento e trasparenza o di generici obblighi comportamentali sanciti nei confronti dei pubblici impiegati dall’art. 13 d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 [in questo senso si vedano: Cass., Sez. 6 -, Sentenza n. 28402 del 10/06/2022 Ud. (dep. 19/07/2022 ) Rv. 283359 – 01; Cass., Sez. 6 – , Sentenza n. 23794 del 07/04/2022 Ud. (dep. 20/06/2022 ) Rv. 283285 – 01; Cass., Sez. 6 – , Sentenza n. 13136 del 17/02/2022 Ud. (dep. 06/04/2022 ) Rv. 282945 – 01];
- c) delle maggiori tutele introdotte dal lgs. 150/22a garanzia: di iscrizioni tempestive e nel contempo non avventate nel registro delle notizie di reato da parte degli uffici di procura (artt. 335,335 ter e 335 quater c.p.p.); dell’assenza di effetti pregiudizievoli discendenti dalla semplice iscrizione nel registro delle notizie di reato (art. 335 bis c.p.), peraltro enfatizzata nella recente sentenza n. 41/2024 con cui la Corte Costituzionale ha chiarito che “la mera iscrizione nel registro delle notizie di reato che consegue all’acquisizione di una notitia criminis non implica ancora che il pubblico ministero abbia effettuato alcun vaglio, per quanto provvisorio, sulla sua fondatezza: tant’è vero che l’art. 335-bis cod. proc. pen. esclude oggi espressamente qualsiasi effetto pregiudizievole di natura civile o amministrativa per l’interessato in ragione di tale iscrizione, la quale è un atto dovuto una volta che il pubblico ministero abbia ricevuto una notizia di reato attribuita a una persona specifica.
Più in generale, l’iscrizione nel registro è – e deve essere considerata – atto “neutro”, dal quale sarebbe affatto indebito far discendere effetti lesivi della reputazione dell’interessato, e che comunque non può in alcun modo essere equiparato ad una “accusa” nei suoi confronti.
Parallelamente, il provvedimento di archiviazione, con cui il GIP si limita a disporre la chiusura delle indagini preliminari conformemente alla richiesta del pubblico ministero, costituisce nella sostanza null’altro che un contrarius actus rispetto a quello – l’iscrizione nel registro delle notizie di reato – che determina l’apertura delle indagini preliminari.
Se “neutro” è il provvedimento iniziale, altrettanto “neutro” non può che essere il provvedimento conclusivo.
Ad ogni effetto giuridico” (punto 3.7); e laddove la stessa Corte ha precisato che “un elementare principio di civiltà giuridica impone che tutti gli elementi raccolti dal pubblico ministero in un’indagine sfociata in un provvedimento di archiviazione debbano sempre essere oggetto di attenta rivalutazione nell’ambito di eventuali diversi procedimenti (civili, penali, amministrativi, disciplinari, contabili, di prevenzione) in cui dovessero essere in seguito utilizzati, dovendosi in particolare assicurare all’interessato le più ampie possibilità di contraddittorio, secondo le regole procedimentali o processuali vigenti nel settore ordinamentale coinvolto.
E ciò tenendo sempre conto che durante le indagini preliminari la persona sottoposta alle indagini ha possibilità assai limitate per esercitare un reale contraddittorio rispetto all’attività di ricerca della prova del pubblico ministero e ai suoi risultati (riassunti o meno che siano in un provvedimento di archiviazione), i quali dunque non potranno sic et simpliciter essere utilizzati in diversi procedimenti senza che l’interessato possa efficacemente contestarli, anche mediante la presentazione di prove contrarie” (punto 3.8); infine, del ben più rilevante “filtro” effettuato, sia in fase di indagini preliminari ex art. 408, comma 1, c.p.p., sia in udienza preliminare, ex art. 425 comma 3 c.p.p., con archiviazione e declaratoria di non luogo a procedere, in difetto di ragionevole previsione di condanna;
7) la decisa contrazione dell’area penalmente rilevante ad opera della l. 114/24 non è stata in alcun modo “compensata” dalla introduzione di appositi illeciti amministrativi o dal potenziamento delle misure di prevenzione di condotte gravemente lesive del buon andamento e della imparzialità della pubblica amministrazione o di una disciplina delle attività di lobbying, come del resto rilevato anche nella già citata Relazione annuale della Commissione U.E. sullo Stato di diritto per il 2024 adottata a Bruxelles il 24.7.2024.
8) sono piuttosto gravi gli effetti sistemici connessi all’abrogazione dell’art. 323 c.p., potendosi qui osservare sinteticamente che:
- a) la disciplina di cui all’ 323 c.p.non trovava applicazione solo ai funzionari pubblici addetti all’amministrazione, ma a tutti i pubblici ufficiali, compresi quelli (si pensi appunto al caso che ci occupa, ovvero agli ufficiali di polizia giudiziaria e ai magistrati) ai quali la legge attribuisce poteri rilevantissimi in grado di incidere pesantemente su diritti inviolabili, costituzionalmente garantiti, in primis la libertà personale (art. 13 Cost.) ed il patrimonio (art. 41 Cost.);
- b) è innegabile la profonda differenza della tutela e dell’effetto deterrente offerte dal presidio penale sinora previsto dalla legge, non solo per le sanzioni ben più dissuasive di quelle che oggi l’ordinamento contempla, ma soprattutto per ciò che esso indirettamente comportava, ovvero: l’accertamento affidato alla magistratura, ovvero ad un ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere, che dispone direttamente della polizia giudiziaria e che deve necessariamente perseguire gli illeciti (artt. 104,107e 112 Cost.); la procedibilità d’ufficio ex art. 50 c.p.p.; la disponibilità di penetranti strumenti di indagine (in primis perquisizioni e sequestri); il potere-dovere, in caso di persistenza nell’attività criminosa e/o di sussistenza delle esigenze cautelari, di intervento da parte della polizia giudiziaria (mediante impedimento dell’aggravamento delle conseguenze del reato ex art. 55 c.p.p. con possibilità di arresto facoltativo in flagranza ex art. 381, comma 1, c.p.p.) e dell’Autorità giudiziaria (mediante ad es. adozione delle misure cautelari ex 273 e ss.
c.p.p. dalla sospensione dall’esercizio del pubblico ufficio ex art. 289 c.p.p. fino alla più grave applicabile, in ragione dell’aumento di pena massima edittale fino a 4 anni di reclusione, giusta l. 190/12, degli arresti domiciliari ex artt. 280, comma 1, e 284 c.p.p., con eccezionale possibilità di ricorrere alla custodia in carcere in deroga alle condizioni ordinarie ex artt. 276,280, comma 3, 275, comma 2 bis c.p.p. nella patologica ipotesi di violazione delle prescrizioni cautelari);
- c) in ogni caso il rimedio giurisdizionale (civile o amministrativo) concesso al privato giammai, in termini di tutela del bene giuridico di cui all’ 97 Cost., potrebbe supplire all’assenza della tutela penale fino ad oggi garantita dall’art. 323 c.p., anche in considerazione dell’assenza di quegli incisivi poteri investigativi, già sopra richiamati, di regola assolutamente necessari per l’accertamento delle dinamiche illecite sottese all’esercizio illegittimo del potere amministrativo; tali rimedi e forme alternative di tutela, infatti, di regola prendono spunto e avvio proprio dalle indagini penali (come del resto accaduto nel caso di specie, in cui, a seguito di accertamenti in ordine alla responsabilità penale, sono venuti in rilievo anche profili di possibile responsabilità civile, disciplinare ed erariale del magistrato);
- d) anche tenendo in considerazione la esistenza di rimedi e forme alternative di tutela, il legislatore ha di fatto lasciato alla sola iniziativa privata (del terzo danneggiato, tra l’altro solo eventuale) la tutela di un bene giuridico pubblico e collettivo sottratto alla disponibilità del privato medesimo, ponendo a carico dei cittadini i costi, anche sul piano economico, connessi all’adozione di iniziative volte al ripristino della legalità, in ipotesi violata da condotte poste in essere da pubblici dipendenti, funzionari e pubblici ufficiali, che dovrebbero esercitare i compiti assegnati nel rispetto della legge e con onore e disciplina ( 54 Cost.) e che invece avrebbero agito in dispregio del buon andamento e della imparzialità della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.);
- e) infine, per questa via, l’ordinamento di fatto rinuncia a perseguire in concreto tutte quelle gravissime violazioni di legge o del dovere di astensione che comportino un vantaggio per il terzo privato, in assenza o all’insaputa di eventuali soggetti contro-interessati che possano intraprendere un’azione volta a far accertare l’illegittimità di quella condotta.
Valutato attentamente il quadro normativo oggi vigente, col quale il Tribunale deve necessariamente confrontarsi -come visto, profondamente mutato rispetto a quello che aveva a riferimento la Corte costituzionale nella citata sentenza n. 8/2022– ritiene il collegio che l’affermazione per cui in astratto le esigenze costituzionali di tutela non si esauriscono nella tutela penale, ben potendo essere soddisfatte con altri precetti e sanzioni, non basti a suturare lo strappo oggi consumato rispetto ai valori costituzionali ed in particolare all’art. 97 Cost.: tale assunto, certamente corretto e condivisibile in astratto, non può in concreto “colmare” il vuoto di tutela lasciato dall’abrogazione tout court dell’art. 323 c.p. e dalla sostanziale inapplicabilità del novellato art. 346 bis c.p.
In definitiva, la scelta legislativa di abrogazione del delitto di cui all’art. 323 c.p. non pare riconducibile ad un legittimo esercizio della discrezionalità del legislatore, ma si prospetta come arbitraria, atteso che:
da un lato, non si è tenuto di conto che le ragioni poste a sostegno della spinta riformatrice (la c.d. “paura della firma” o “burocrazia difensiva”) erano di fatto venute meno (sopravvivendo, forse, solo sul piano, del tutto irrilevante, soggettivo e psicologico di singoli funzionari) in ragione delle recenti riforme e del successivo (ed ormai consolidato) orientamento giurisprudenziale di legittimità e dei principi enunciati dalla Corte costituzionale;
dall’altro lato, non appare adeguatamente ponderato (e men che meno contenuto o neutralizzato) l’effetto dirompente che può avere la riforma, per il venir meno dell’effetto general-preventivo spiegato dalla presenza nell’ordinamento di una norma di chiusura che -seppur ormai relegata ad operare in casi eccezionali di particolare ed obiettiva gravità- evitava il dilagare di condotte dolosamente arbitrarie e lasciava ai cittadini uno strumento attraverso cui ricorrere alla magistratura.
- IMPOSSIBILITÀ DI UN’INTERPRETAZIONE CONFORME
Non risultano percorribili interpretazioni della norma qui censurata in senso conforme alle citate disposizioni della Costituzione e alle norme ad essa interposte, trattandosi di norma chiaramente abolitiva (in misura quasi totale) di una fattispecie penale, dunque favorevole per gli odierni imputati ex art. 2, comma 2 c.p., che il giudice penale non potrebbe interpretare diversamente da quanto emerge dalla lettera, né tantomeno disapplicare.
- SOSPENSIONE DEL GIUDIZIO E DELLA PRESCRIZIONE – STATUIZIONI CONNESSE
In via conclusiva, ritenuta la questione rilevante e non manifestamente infondata, in virtù del combinato disposto dagli artt. 23 l. 87/1953 e 159 c.p., deve ordinarsi la sospensione del giudizio in corso nei confronti degli imputati e la conseguente sospensione della prescrizione con riferimento a tutti i reati contestati nel presente procedimento, dunque non solo con riguardo ai delitti contestati ai capi 5) e 6) di rubrica -per i quali rileva, per motivi diversi, la questione di legittimità sollevata- ma anche in relazione a quelli contestati ai capi 3) e 4), essendo essi strettamente connessi al reato contestato sub 5) e quindi non definibili separatamente.
In punto di sospensione della prescrizione si precisa che il Tribunale aderisce ed intende dare attuazione al principio giurisprudenziale, condivisibile ed ormai consolidato, secondo cui “In tema di prescrizione, nel caso di sospensione del procedimento a seguito di trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per la risoluzione di una questione di legittimità costituzionale, la data di cessazione dell’effetto sospensivo e, pertanto, la data finale del periodo di sospensione del termine prescrizionale coincide con quella in cui gli atti sono restituiti al giudice remittente” (Cass., Sez. 5, Sentenza n. 7553 del 14/11/2012 Ud. (dep. 15/02/2013 ) Rv. 255017 – 01; conf. Cass., Sez. 4, Sentenza n. 3086 del 14/11/1979 Ud. (dep. 04/03/1980 ) Rv. 144559 – 01).
Deve, infine, disporsi ai sensi dell’art. 23, comma 4, l. 87/1953 l’immediata trasmissione degli atti del procedimento alla Corte Costituzionale, mandandosi la Cancelleria per la notificazione della presente ordinanza al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché per la comunicazione ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica e per la successiva trasmissione del fascicolo processuale alla Corte Costituzionale.
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