<p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Massima</strong></p> <p style="text-align: justify;"><em> </em></p> <p style="text-align: justify;"><em>L’atto amministrativo solo apparentemente vive di vita propria: il principio di legalità impone che esso sia fondato sulla normativa primaria (legge, decreto legge, decreto legislativo), subendo in qualche modo le influenze – e le sorti – di quest’ultima, che potrebbe essere incostituzionale, anti-europea, provvisoria e soggetta a decadenza (come nel caso del decreto legge non convertito nei termini); talvolta l’atto medesimo è poi “</em>fondato<em>” su altri atti precedenti che esso indefettibilmente presuppone, e dai quali resta ancora una volta condizionato. Ne discendono fattispecie di c.d. invalidità “</em>derivata<em>”, che arriva in qualche modo “</em>dal passato<em>”, cui si giustappongono fattispecie di c.d. invalidità “</em>sopravvenuta<em>”, laddove il vizio giunge invece “</em>dal futuro<em>” rispetto al momento in cui l’atto è stato adottato; in entrambi i casi si pongono delicati problemi di coordinamento con il regime processuale dell’atto amministrativo che, laddove non automaticamente “</em>caducato<em>”, deve comunque essere gravato entro un precipuo termine di decadenza, pena un grave </em>vulnus<em> al canone della certezza che presidia l’</em>agere<em> pubblico.</em></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Crono-articolo</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1940</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 28 ottobre viene varato il R.D. n.1443, nuovo codice di procedura civile, alla stregua del cui art.159 la <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/5624.html">nullità</a> di un atto non importa quella degli atti precedenti, né di quelli successivi che ne sono indipendenti <a href="https://www.brocardi.it/codice-di-procedura-civile/libro-primo/titolo-vi/capo-iii/art159.html#nota_7553">(comma 1)</a>; del pari, la nullità di una parte dell'atto non colpisce le altre parti che ne sono indipendenti <a href="https://www.brocardi.it/codice-di-procedura-civile/libro-primo/titolo-vi/capo-iii/art159.html#nota_7554">(comma 2)</a>. Inoltre, se il vizio di un atto impedisce un determinato effetto, l'atto può tuttavia produrre gli altri effetti ai quali è idoneo.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1948</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 01 gennaio entra in vigore la Costituzione repubblicana il cui art.113, dopo aver premesso al comma 1 che contro gli atti della PA è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa precisa al comma 2 che tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti ed al comma 3 affida alla legge il compito di determinare quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa. Ne affiora la indefettibilità della tutela del privato contro ogni atto della PA e la centralità della relativa declinazione caducatoria, compendiantesi nell’annullamento dell’atto amministrativo medesimo.</p> <p style="text-align: justify;">Su altro crinale, alla stregua dell’art.77, il Governo non può, senza delegazione delle Camere [<em>cfr. art. <a href="https://www.senato.it/1025?sezione=127&articolo_numero_articolo=76">76</a></em>], emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria (comma 1); tuttavia quando, in casi straordinari di necessità e di urgenza, il Governo adotta, sotto la propria responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni (comma 2); tali decreti perdono efficacia sin dall'inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione, le Camere potendo tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti (comma 3).</p> <p style="text-align: justify;">Ancora, stando al successivo art.136, quando la Corte costituzionale dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione (comma 1); la decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali (comma 2).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1957</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’8 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.118, che - pronunciandosi in tema di interpretazione autentica da parte del legislatore - dichiara non fondate nel caso di specie le questioni di legittimità costituzionale della legge 29 maggio 1956, n. 500, contenente "<em>Norme interpretative in materia di consegna e riconsegna delle scorte vive nei contratti di mezzadria</em>", in riferimento agli artt. 3, 23, 24, 25, 41, 42, 75, 101, 102, 104, 136 della Costituzione.</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte, le norme di interpretazione autentica non costituiscono una interferenza illegittima nella sfera del potere giudiziario, onde anche la legge di interpretazione autentica, come le altre leggi, presenta un proprio carattere innovativo e modificativo dell’ordine legislativo preesistente. Per la Corte, più nel dettaglio, non è “<em>… esatto che l'emanazione di leggi interpretative incida necessariamente sul principio della divisione dei poteri, interferendo necessariamente nella sfera del potere giudiziario. Non diversamente dalle altre leggi, anche la legge interpretativa innova all'ordine legislativo preesistente: il </em>quid novi<em> che essa introduce in tale ordine consiste nell'attribuire a certe norme anteriori un significato obbligatorio per tutti (con conseguente esclusione di ogni altra possibile interpretazione). Altra é la funzione del potere giudiziario: la quale consiste nella adozione di decisioni vincolate all'ordinamento normativo</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte dunque il fatto della emanazione di una legge interpretativa non rappresenta, di per sé sola, una interferenza nella sfera del potere giudiziario. É certo comunque che non può esser considerata lesiva di tale sfera una legge interpretativa che rispetti i giudicati (la legge in esame fa salvi i rapporti "<em>definiti</em>") e non appaia mossa dall'intento di interferire nei giudizi in corso.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1963</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’8 aprile esce la nota sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n.8, alla cui stregua l’atto amministrativo, quale manifestazione di autonomia del potere esecutivo, ha una propria vita ed una propria individualità e non resta direttamente travolto dalla cessazione di efficacia della legge che segue ad una declaratoria incostituzionalità.</p> <p style="text-align: justify;">Per il Collegio, essendo la incostituzionalità della legge e la legittimità dell’atto amministrativo adottato in base alla legge medesima situazioni reciprocamente autonome, anche se la seconda è influenzata dalla prima, i ricorsi impostati sulla intervenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale vanno decisi dal giudice amministrativo tenendo presente che l’atto amministrativo continua ad avere una vita autonoma finché non sia rimosso con uno egli strumenti a ciò idonei e che persiste l’interesse di chi ne ha chiesto l’annullamento ad ottenere tale caducazione.</p> <p style="text-align: justify;">Un annullamento che per il Collegio va pronunziato sia allorché la questione incidentale di costituzionalità sia stata sollevata nel corso del giudizio <em>a quo</em>, risolvendosi in un motivo di impugnazione dell’atto, sia allorché - pur essendo stata essa comunque sollevata – non sia stata tuttavia ancora delibata dal giudice amministrativo al momento della intervenuta pronuncia della Corte Costituzionale, non avendo rilievo la circostanza che la fondatezza del dubbio di costituzionalità sia stata accertata nel corso del medesimo giudizio o nel corso di altro giudizio.</p> <p style="text-align: justify;">Per il Collegio dunque in caso di intervento della Corte costituzionale sul regime dell’atto amministrativo, questo ne risulta viziato e tuttavia, ove tale atto (meramente annullabile) non sia stato impugnato, ovvero sia stato impugnato fuori termine, lo stesso è da assumersi ormai definitivo ed inoppugnabile (anche quale “<em>rapporto esaurito</em>” per intervenuta decadenza), residuando solo un potere di autotutela in capo alla stessa Amministrazione.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1964</strong></p> <p style="text-align: justify;">Esce il 7 marzo la sentenza della Corte costituzionale n.14 con la quale, nel noto caso <em>Costa / Enel</em>, si stabilisce che le norme comunitarie hanno il medesimo rango di una fonte interna primaria, dal momento che è con una legge ordinaria che è stata data esecuzione ai Trattati istitutivi della Comunità: questo significa che una legge interna posteriore può derogare ad una norma comunitaria, secondo il criterio cronologico, e dunque in Italia non può dirsi vigente il principio di primazia del diritto comunitario.</p> <p style="text-align: justify;">Il 15 luglio esce la sentenza della Corte di Giustizia CEE <em>Costa c. Enel</em>, C-6/64, che abbraccia la concezione “<em>monista</em>” secondo la quale diritto comunitario e diritti dei singoli Stati membri farebbero luogo ad un unico ordinamento integrato in cui vige il principio di gerarchia tra norme comunitarie, sovraordinate, e norme interne, sotto-ordinate, le quali ultime – laddove in frizione col diritto comunitario – sono direttamente disapplicabili anche laddove successive (e non anteriori) al diritto comunitario con il quale confliggono.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1973</strong></p> <p style="text-align: justify;">Esce il 27 dicembre la sentenza della Corte costituzionale n.183 che, al fine di garantire il primato del diritto comunitario rispetto all’ordinamento interno, afferma che una norma interna previgente viene implicitamente abrogata dalla norma comunitaria successiva, mentre nel caso opposto della norma interna contrastante sopravvenuta, essa è da intendersi incostituzionale e la relativa declaratoria spetta unicamente alla Corte costituzionale medesima (controllo accentrato), previa remissione della relativa questione da parte del giudice italiano remittente, che non può disapplicarla in via automatica. La Corte ripudia la teoria monista fatta propria dalla Corte di Giustizia per abbracciare la tesi degli ordinamenti distinti e separati ma coordinati secondo un principio di competenza a normare che trova nel Trattato istitutivo il relativo punto di riferimento.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1978</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 9 marzo esce una sentenza della Corte di Giustizia CEE (C-106/77, caso <em>Simmenthal</em>) che ribadisce il principio della primazia del diritto comunitario, la cui vigenza non può essere derogata da norma interne ai singoli Stati, neppure se posteriori: in caso di conflitto, si impone la disapplicazione diffusa, senza che possa assumersi ammissibile alcun controllo accentrato di costituzionalità, essendo gli ordinamenti interni integrati in quello comunitario (teoria c.d. monista).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1984</strong></p> <p style="text-align: justify;">Esce l’8 giugno la sentenza della Corte costituzionale n. 170 (caso <em>Granital</em>), secondo la quale gli ordinamenti interno e comunitario sono autonomi e distinti, ma tra loro coordinati secondo un principio (non gerarchico, ma) di competenza: questo autorizza il giudice interno a disapplicare in via automatica e diretta una norma interna contrastante con una norma comunitaria immediatamente applicabile (regolamento o direttiva <em>self executing</em>), anche se la norma interna sia sopravvenuta. Diverso il caso in cui norme comunitarie contrastino (non già con norme costituzionali <em>tout court</em>, quanto piuttosto) con i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale italiano, ovvero con i diritti inalienabili della persona umana: in questa ipotesi (per vero, difficile a verificarsi), in forza della c.d. teoria dei controlimiti il giudice interno deve sollevare questione di legittimità costituzionale della legge nazionale di ratifica del Trattato istitutivo, laddove consente di inserire nel nostro sistema giuridico norme in contrasto con i principi costituzionali supremi ovvero con i diritti inviolabili dell’uomo.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1989</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’8 febbraio esce la sentenza del Tar Piemonte n.34 che, muovendo dal presupposto onde l’eventuale norma interna contrastante con il diritto comunitario va disapplicata, e dunque non produce effetti nell’ordinamento interno, giunge alla conclusione per cui l’atto amministrativo che in tale norma interna trovi fondamento ed ancoraggio va considerato nullo o inesistente.</p> <p style="text-align: justify;">La medesima pronuncia soggiunge nondimeno che – dovendosi optare per la teoria “<em>pluralista</em>”, abbracciata dalla Corte costituzionale, secondo la quale l’ordinamento comunitario e quello interno costituiscono due sistemi giuridici autonomi e separati, ancorché coordinati - laddove l’atto amministrativo si ponga in contrasto diretto con la normativa comunitaria (e non in un contrasto mediato dalla norma interna attributiva del potere), tale atto non potrebbe considerarsi nullo (come appunto nel caso della anticomunitarietà mediata) in quanto unico parametro di legittimità dell’atto amministrativo è da assumersi una norma interna, non potendo quella sovranazionale costituire – proprio perché gli ordinamenti sono separati – parametro diretto di legittimità dell’atto in parola.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1993</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 21 gennaio esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n.62, alla cui stregua allorché intervenga – con effetti retroattivi – una sentenza dichiarativa di illegittimità costituzionale della normativa sulla base della quale è stato adottato un atto amministrativo, questo è da assumersi sempre annullabile nel consueto termine di decadenza.</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte, l’eliminazione della norma dichiarata incostituzionale non provoca infatti l’inesistenza dell’atto in parola, che deve dunque essere rimosso in sede amministrativa (autotutela) o giurisdizionale.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1995</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 17 maggio esce la fondamentale sentenza della Corte costituzionale n.177, che dichiara l’illegittimità costituzionale degli articoli 28 e 36 della legge 1034.71 (per violazione degli articoli 3 e 24 Cost.) nella parte in cui essi non consentono di spiccare opposizione di terzo ordinaria ex art.404, comma 1, avverso le decisioni del Consiglio di Stato e quelle dei Tar passate in giudicato.</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta di una pronuncia che fa affermare a parte della dottrina come la ratio di economia processuale che fonda il riconoscimento della invalidità ad effetto caducante a favore del ricorrente che impugna l’atto originario presupposto (e che a rigore non dovrebbe anche gravare nei termini l’atto successivo presupponente) non ha più una propria ragion d’essere sol che si consideri come il ricorrente medesimo, quand’anche ottenga la caducazione automatica dell’atto successivo presupponente, non potrebbe comunque sottrarsi al giudizio di opposizione (di terzo) instaurato dal beneficiario dell’atto consequenziale presupponente ridetto, quale controinteressato rispetto a tale atto automaticamente caducato dall’annullamento dell’atto anteriore presupposto. Peraltro si fa osservare come l’invalidità automaticamente caducante finisce con l’essere, in questo prisma ermeneutico, financo capace di moltiplicare i giudizi, poiché alla controversia sull’atto presupposto originario andrebbero ad aggiungersi quelle di opposizione (di terzo) avverso la pertinente sentenza.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 20 maggio esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n.498 onde – in ossequio al principio <em>tempus regit actum</em> – l’atto amministrativo non può divenire invalido per effetto di eventi che si siano verificati posteriormente alla relativa adozione, con sostanziale irrilevanza dello <em>ius superveniens</em>.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 14 dicembre esce la sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee, Peterbroeck e a. c. Belgio (causa C-312/93), alla cui stregua – in mancanza di una disciplina comunitaria in materia – spetta all’ordinamento giuridico di ciascuno Stato membro designare i giudici competenti a stabilire le modalità procedurali dei ricorsi giurisdizionali intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme di diritto comunitario aventi effetto diretto.</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte va escluso che la disapplicazione dell’atto amministrativo che si ponga in frizione col diritto comunitario sia una soluzione processuale che l’ordinamento sovranazionale impone a quello interno in ottica di effettiva applicazione delle ridette norme comunitarie, il termine di decadenza per l’impugnazione dell’atto stesso non potendo dunque considerarsi <em>ex se</em> contrario al diritto comunitario.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1997</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 27 gennaio esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n.118 alla cui stregua, sulla scorta di un indirizzo giurisprudenziale piuttosto consolidato del GA, la decadenza per mancata conversione di un decreto legge ai sensi dell’art.77, comma 3, Cost. non produce effetti caducanti sugli atti amministrativi adottati nel periodo di relativa vigenza bensì, ed esclusivamente, effetti vizianti, discendone che – sebbene ai sensi della richiamata norma costituzionale i decreti non convertiti “<em>perdono efficacia sin dall’inizio</em>”, gli atti amministrativi adottati sotto la relativa vigenza, quale fonte primaria poi decaduta, divengono illegittimi e pertanto devono essere rimossi attraverso gli ordinari mezzi di impugnazione ovvero, sussistendone i presupposti, giusta esercizio dell’autotutela da parte dell’Amministrazione</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1998</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 3 settembre esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.1287 alla cui stregua ammettere la caducazione automatica dell’atto presupponente in conseguenza dell’annullamento dell’atto anteriore presupposto può implicare un vuoto di tutela per il terzo controinteressato rispetto all’annullamento dell’atto presupponente consequenziale, che dunque ha interesse a che tale atto non sia annullato e che invece se lo vede caducato sulla base del mero annullamento dell’atto anteriore presupposto a valle di un giudizio al quale non ha partecipato. La caducazione automatica dell’atto presupponente va dunque limitata solo a casi particolari, come le fattispecie in cui il provvedimento consequenziale presupponente non attribuisce alcuna utilità al terzo, ovvero le fattispecie in cui il terzo destinatario di tale utilità spiegata dall’atto consequenziale presupponente abbia avuto la qualifica giuridica di parte necessaria nel processo avente ad oggetto l’atto presupposto (dal cui annullamento è poi discesa la caducazione automatica, per l’appunto, dell’atto successivo presupponente).</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">*Il 29 dicembre esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.1605 alla cui stregua, sulla scorta di un indirizzo giurisprudenziale piuttosto consolidato del GA, la decadenza per mancata conversione di un decreto legge ai sensi dell’art.77, comma 3, Cost. non produce effetti caducanti sugli atti amministrativi adottati nel periodo di relativa vigenza bensì, ed esclusivamente, effetti vizianti, discendone che – sebbene ai sensi della richiamata norma costituzionale i decreti non convertiti “<em>perdono efficacia sin dall’inizio</em>”, gli atti amministrativi adottati sotto la relativa vigenza, quale fonte primaria poi decaduta, divengono illegittimi e pertanto devono essere rimossi attraverso gli ordinari mezzi di impugnazione ovvero, sussistendone i presupposti, giusta esercizio dell’autotutela da parte dell’Amministrazione</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1999</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 29 aprile esce la sentenza della Corte di Giustizia CE, causa C-224/97, <em>Ciola</em>, alla cui stregua le disposizioni del diritto comunitario attribuiscono agli interessati dei diritti che le autorità nazionali devono rispettare e tutelare e che, quindi, ogni disposizione contraria di diritto interno diviene inapplicabile nei relativi confronti.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2000</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 7 febbraio esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.672, onde si ha nesso di presupposizione tra atti tale da ingenerare un effetto automaticamente caducante allorché tra gli atti in questione sia riconoscibile un collegamento non già meramente eccezionale, quanto piuttosto genetico e dunque tale da descrivere il primo atto come quello che giustifica e delimita la produzione degli effetti del secondo che lo segue.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 14 aprile esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.2237 alla cui stregua si configura una invalidità derivata ad effetto caducante automatico tra l’annullamento in autotutela, da parte della PA, dell’aggiudicazione di una gara e dell’intera procedura di appalto che ne è scaturita, da un lato, ed un nuovo bando di gara indetto per il medesimo oggetto, dall’altro; onde, impugnato con successo dal ricorrente il primo atto presupposto (annullamento in autotutela dell’aggiudicazione e della gara), non occorre impugnare nei termini in via autonoma anche il successivo atto presupponente (nuovo bando di gara indetta per il medesimo oggetto).</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 21 luglio viene varata la legge n.205, recante disposizioni in materia di giustizia amministrativa, che con l’art.1 consente ormai – novellando l’art.21 della legge 1034.71 – di impugnare con motivi aggiunti anche provvedimenti diversi da quello originariamente impugnato. Proprio il fatto che ormai anche l’atto successivo presupponente possa essere gravato nello stesso processo che già investe l’atto originario presupposto fa affermare a parte della dottrina che non ha più molta utilità la cosiddetta invalidità automaticamente caducante del secondo atto rispetto all’annullamento del primo.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">L’8 agosto esce l’ordinanza della III sezione del Tar Lombardia n.234 che rimette in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia europea la questione se – stante il tradizionale orientamento del Consiglio di Stato contrario ad assumere disapplicabile un bando di gara laddove sia scaduto il relativo termine di impugnazione per immediata lesività – sia predicabile in ogni caso la disapplicabilità <em>sine die</em> delle clausole del detto bando che si rivelino in contrasto con il diritto comunitario, trattandosi di “<em>normativa di gara</em>” che come tale andrebbe disapplicata laddove in contrasto con la normativa comunitaria.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2001</strong></p> <p style="text-align: justify;">*Il 30 ottobre esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n.5677 alla cui stregua ammettere la caducazione automatica dell’atto presupponente in conseguenza dell’annullamento dell’atto anteriore presupposto può implicare un vuoto di tutela per il terzo controinteressato rispetto all’annullamento dell’atto presupponente consequenziale, che dunque ha interesse a che tale atto non sia annullato e che invece se lo vede caducato sulla base del mero annullamento dell’atto anteriore presupposto a valle di un giudizio al quale non ha partecipato. La caducazione automatica dell’atto presupponente va dunque limitata solo a casi particolari, come le fattispecie in cui il provvedimento consequenziale presupponente non attribuisce alcuna utilità al terzo, ovvero le fattispecie in cui il terzo destinatario di tale utilità spiegata dall’atto consequenziale presupponente abbia avuto la qualifica giuridica di parte necessaria nel processo avente ad oggetto l’atto presupposto (dal cui annullamento è poi discesa la caducazione automatica, per l’appunto, dell’atto successivo presupponente).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2002</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’11 febbraio esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n.785 alla cui stregua, dopo l’avvento della legge 205.00, la necessità di impugnare anche il provvedimento finale (presupponente) dopo l’impugnazione dell’atto preparatorio (presupposto) non aggrava in misura eccessiva la posizione del ricorrente avverso tale ultimo atto, il quale può avvalersi dell’istituto dei motivi aggiunti in corso di causa, proponibili ai sensi della ridetta legge n.205.00, anche avverso atti diversi da quello originariamente gravato, con soluzione che appare da preferire anche per motivi di economia processuale.</p> <p style="text-align: justify;">La tesi opposta, orientata ad esonerare il ricorrente avverso l’atto preparatorio dall’impugnazione anche del provvedimento finale finisce infatti per il Collegio con l’urtare contro ragioni, per l’appunto, di economia processuale comportando che il terzo beneficiario dell’atto finale (presupponente), che ne subisce l’annullamento quale conseguenza di un giudizio al quale non è stato posto in condizioni di partecipare, dovrà avvalersi dell’opposizione di terzo a valle del quale, dopo la fase rescindente, si dovrà rinnovare nel merito l’originario giudizio avverso l’atto presupposto originario (che non lo ha visto parte necessaria). Per il Collegio si assisterebbe dunque ad una moltiplicazione dei processi e dei conseguenti costi e tempi in relazione ad un’unica fase procedimentale.</p> <p style="text-align: justify;">Alla negatoria del basilare principio onde un provvedimento non tempestivamente impugnato (nel caso di specie, quello successivo presupponente) diviene inoppugnabile si giustappongono, quali effetti negativi, tanto la preclusione di una tempestiva tutela giurisdizionale per il terzo controinteressato (costretto all’opposizione di terzo avverso la sentenza che annulla l’originario atto presupposto) quanto, ancora più a monte, la sostanziale agevolazione di processi amministrativi in assenza dei veri controinteressati (che affiorano come tali, sovente, solo sulla scorta del successivo atto presupponente).</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 10 luglio esce la sentenza della III sezione del Tar Lazio n.6257 che ribadisce come ammettere la caducazione automatica dell’atto presupponente in conseguenza dell’annullamento dell’atto anteriore presupposto possa implicare un vuoto di tutela per il terzo controinteressato rispetto all’annullamento dell’atto presupponente consequenziale, che dunque ha interesse a che tale atto non sia annullato e che invece se lo vede caducato sulla base del mero annullamento dell’atto anteriore presupposto a valle di un giudizio al quale non ha partecipato. La caducazione automatica dell’atto presupponente va dunque limitata solo a casi particolari, come le fattispecie in cui il provvedimento consequenziale presupponente non attribuisce alcuna utilità al terzo, ovvero le fattispecie in cui il terzo destinatario di tale utilità spiegata dall’atto consequenziale presupponente abbia avuto la qualifica giuridica di parte necessaria nel processo avente ad oggetto l’atto presupposto (dal cui annullamento è poi discesa la caducazione automatica, per l’appunto, dell’atto successivo presupponente).</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">*Il 30 settembre esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.4994 onde – in ossequio al principio <em>tempus regit actum</em> – l’atto amministrativo non può divenire invalido per effetto di eventi che si siano verificati posteriormente alla relativa adozione, con sostanziale irrilevanza dello <em>ius superveniens</em>.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">*Il 12 dicembre esce la sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee, causa C-470/99, <em>Universale Bau</em>, che ribadisce come vada escluso che la disapplicazione dell’atto amministrativo in frizione col diritto comunitario sia una soluzione processuale che l’ordinamento sovranazionale impone a quello interno in ottica di effettiva applicazione delle ridette norme comunitarie, il termine di decadenza per l’impugnazione dell’atto stesso non potendo dunque considerarsi <em>ex se</em> contrario al diritto comunitario.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2003</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 10 gennaio esce la sentenza della sezione V del Consiglio di Stato n.35 che si occupa dell’atto amministrativo anti-comunitario in via indiretta, vale a dire attraverso la norma interna che lo fonda, e distingue: a) il caso in cui la norma interna anticomunitaria attribuisce il potere alla PA, ipotesi nella quale l’atto deve assumersi nullo per carenza di potere, in quanto va disapplicata la norma interna, contrastante con il diritto comunitario, che detto potere fonda; b) il caso in cui la norma interna anticomunitaria si limita a disciplinare detto potere, senza tuttavia fondarlo, ipotesi - al contrario – di mero cattivo esercizio del potere e, dunque, di sola illegittimità/annullabilità dell’atto stesso. Diverso il caso in cui la illegittimità comunitaria sia diretta, ovvero laddove l’atto amministrativo si pone in diretto contrasto con la normativa comunitaria (o con la normativa interna che la attua): in questa ipotesi occorre procedere ad impugnare l’atto nel termine di decadenza, in quanto esso è da assumersi illegittimo ed annullabile secondo l’ordinario regime di impugnazione degli atti amministrativi.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 24 febbraio esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.689 onde si configura un rapporto di presupposizione tra il bando di gara e i successivi atti della competizione bandita; laddove pertanto il ricorrente abbia impugnato con successo il bando di gara, egli deve assumersi esonerato dalla necessità di impugnare nei termini i ridetti, successivi atti della competizione pertinente.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 27 febbraio esce la sentenza della VI sezione della Corte di Giustizia della Comunità europea, C-327-00, caso <em>Santex</em> con la quale la Corte risponde all’ordinanza di rinvio pregiudiziale del Tar Lombardia del 2000 in tema di possibilità per il GA di disapplicare – anche oltre il termine di decadenza – clausole di un bando di gara non impugnate ma in contrasto con il diritto comunitario: secondo la Corte, anche quando una norma europea ha effetto diretto e garantisce ai singoli un diritto, spetta comunque – in mancanza di una disciplina comunitaria procedurale <em>ad hoc</em> – ai singoli Stati membri designare il giudice competente e stabilire con quali modalità procedurali può essere spiccato il ricorso giurisdizionale inteso a tutelare il detto diritto, se del caso fissando anche un termine di decadenza per l’impugnativa, che non può assumersi ex se costituire un ostacolo all’applicazione del diritto europeo. A differenza di quanto affermato in precedenza sul punto, la Corte di Giustizia appare tuttavia più rigorosa, richiedendo in ogni caso l’applicazione da parte dell’ordinamento processuale interno dei principi comunitari di equivalenza (le modalità procedurali intese a garantire i diritti di ascendenza europea non devono essere più gravose di quelle intese a garantire i diritti interni) e di effettività della tutela (il ricorso non deve rendere praticamente impossibile ovvero comunque eccessivamente difficile l’esercizio del diritto europeo sottostante), specie nei confronti delle PA aggiudicatrici. Proprio valorizzando il principio di effettività della tutela giurisdizionale dei diritti di ascendenza sovranazionale, la Corte giunge ad affermare che – nel singolo caso concreto – l’applicazione delle regole procedurali interne potrebbe conculcare detti diritti e dunque, in casi peculiari e specifici, non può negarsi al potere di disapplicazione dell’atto amministrativo da parte del GA (anche oltre il termine di decadenza) il ruolo di ultimo baluardo e sorta di “<em>contro-limite</em>” europeo al potere statale di disciplinare il dipanarsi del processo innanzi ai propri giudici (amministrativi).</p> <p style="text-align: justify;">Va specificato che non si tratta di disapplicare dunque il bando di gara anticomunitario quanto piuttosto di disapplicare, nel caso, la norma interna di natura sostanziale/processuale che subordina sempre e comunque il gravame avverso un atto amministrativo al mancato decorso di un determinato termine di decadenza: il termine decadenziale non è di per sé in contrasto con il diritto comunitario, ma in peculiari situazioni in cui viene gravemente conculcato l’interesse del privato ricorrente, va ammessa la disapplicazione della norma che prevede il termine decadenziale, così dichiarando tempestivi (e ricevibili) i pertinenti ricorsi. Si tratta di un orientamento giurisprudenziale sovranazionale che in parte coincide con le acquisizioni della giurisprudenza nazionale, se si considera la giurisprudenza amministrativa sulle c.d. clausole ambigue o plurivoche: la lesività di queste clausole viene realmente percepita solo al momento della esclusione dalla gara, con conseguente spostamento in avanti del termine decadenziale per la relativa impugnazione (con effetto <em>in bonam partem</em> molto vicino a quello della disapplicabilità, seppure non <em>sine die</em>).</p> <p style="text-align: justify;">In ottica più generale di rapporti tra atto amministrativo ed ordinamento europeo, per la Corte l’atto illegittimo dal punto di vista “<em>europeo</em>” appunto va impugnato secondo le regole processuali interne, che fanno perno sulla natura impugnatoria del processo amministrativo italiano e sulla perentorietà del termine di decadenza che lo connota; nondimeno, l’autonomia della giurisdizione statale non può non cedere allorché i congegni di tutela che essa predispone non garantiscano i principi sovranazionali di equivalenza e di effettività, quand’anche per cause di tipo indiretto, riconducibili al contegno della PA resistene. La dottrina di commento ha parlato in proposito di “<em>ultimo baluardo</em>” del diritto comunitario dinanzi alle eventuali “<em>disfunzioni statali</em>”: si ha primazia processuale del diritto interno, e tuttavia i principi di equivalenza e di effettività di ascendenza sovranazionale sono presidiati da un “<em>controlimite inverso</em>” che consentono, come eccezione alla regola, la disapplicazione dell’atto amministrativo anti-europeo.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 31 maggio esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.3040, alla cui stregua l’annullamento giurisdizionale della dichiarazione di pubblica utilità, quale atto presupposto, spiega efficacia automaticamente caducante nei confronti del decreto di espropriazione, quale atto successivo presupponente.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2004</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’8 marzo esce la sentenza del Tar Lombardia, Brescia, n.203, alla cui stregua – se pure è vero che l’illegittimità di un atto a monte si trasferisce sugli atti a valle che ne dipendono – nondimeno se la relazione tra i ridetti provvedimenti si qualifica come presupposizione solo eventuale, nel senso che l’atto a valle appare come una delle possibili conseguenze dell’atto a monte, l’eventuale annullamento di questo non comporta caducazione automatica dell’atto a valle, ma si limita ad inocularvi un vizio, con conseguente necessità di pertinente, tempestiva impugnativa.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 27 settembre esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.6328, alla cui stregua le pronunce della Corte costituzionale, nel relativo operare in via retroattiva sulla norma denunciata, determinano il venir meno in via retroattiva (<em>ex tunc</em>) della norma stessa, in quanto affetta da un vizio originario ed intrinseco; l’eliminazione dall’ordinamento della ridetta norma (incostituzionale) non è per il Collegio assimilabile a quella disposta per effetto di abrogazione in forza di altra norma sopravvenuta (che opera <em>ex nunc</em>).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2005</strong></p> <p style="text-align: justify;">*Il 21 febbraio esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.579 che si occupa dell’atto amministrativo anti-comunitario in via indiretta, vale a dire attraverso la norma interna che lo fonda, e distingue: a) il caso in cui la norma interna anticomunitaria attribuisce il potere alla PA, ipotesi nella quale l’atto deve assumersi nullo per carenza di potere, in quanto va disapplicata la norma interna, contrastante con il diritto comunitario, che detto potere fonda; b) il caso in cui la norma interna anticomunitaria si limita a disciplinare detto potere, senza tuttavia fondarlo, ipotesi - al contrario – di mero cattivo esercizio del potere e, dunque, di sola illegittimità/annullabilità dell’atto stesso. Diverso il caso in cui la illegittimità comunitaria sia diretta, ovvero laddove l’atto amministrativo si pone in diretto contrasto con la normativa comunitaria (o con la normativa interna che la attua): in questa ipotesi occorre procedere ad impugnare l’atto nel termine di decadenza, in quanto esso è da assumersi illegittimo ed annullabile secondo l’ordinario regime di impugnazione degli atti amministrativi.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">*Il 20 maggio esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n.2566 che si occupa dell’atto amministrativo anti-comunitario in via indiretta, vale a dire attraverso la norma interna che lo fonda, e distingue: a) il caso in cui la norma interna anticomunitaria attribuisce il potere alla PA, ipotesi nella quale l’atto deve assumersi nullo per carenza di potere, in quanto va disapplicata la norma interna, contrastante con il diritto comunitario, che detto potere fonda; b) il caso in cui la norma interna anticomunitaria si limita a disciplinare detto potere, senza tuttavia fondarlo, ipotesi - al contrario – di mero cattivo esercizio del potere e, dunque, di sola illegittimità/annullabilità dell’atto stesso. Diverso il caso in cui la illegittimità comunitaria sia diretta, ovvero laddove l’atto amministrativo si pone in diretto contrasto con la normativa comunitaria (o con la normativa interna che la attua): in questa ipotesi occorre procedere ad impugnare l’atto nel termine di decadenza, in quanto esso è da assumersi illegittimo ed annullabile secondo l’ordinario regime di impugnazione degli atti amministrativi.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2006</strong></p> <p style="text-align: justify;">*Il 17 gennaio esce la sentenza del Tar Basilicata n.723 che si occupa dell’atto amministrativo anti-comunitario in via indiretta, vale a dire attraverso la norma interna che lo fonda, e distingue: a) il caso in cui la norma interna anticomunitaria attribuisce il potere alla PA, ipotesi nella quale l’atto deve assumersi nullo per carenza di potere, in quanto va disapplicata la norma interna, contrastante con il diritto comunitario, che detto potere fonda; b) il caso in cui la norma interna anticomunitaria si limita a disciplinare detto potere, senza tuttavia fondarlo, ipotesi - al contrario – di mero cattivo esercizio del potere e, dunque, di sola illegittimità/annullabilità dell’atto stesso. Diverso il caso in cui la illegittimità comunitaria sia diretta, ovvero laddove l’atto amministrativo si pone in diretto contrasto con la normativa comunitaria (o con la normativa interna che la attua): in questa ipotesi occorre procedere ad impugnare l’atto nel termine di decadenza, in quanto esso è da assumersi illegittimo ed annullabile secondo l’ordinario regime di impugnazione degli atti amministrativi.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 31 gennaio esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n.310 alla cui stregua, se si eccettua la dipendenza di una legge di intepretazione autentica dalla legge interpretata, nel senso che la prima non potrebbe esistere senza l’esistenza della seconda, non vi è differenza quanto ai pertinenti effetti tra legge retroattiva e legge interpretativa.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 9 giugno esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n.3458, alla cui stregua – pur potendosi ammettere che laddove la norma che fonda il potere della PA di adottare un dato provvedimento venga meno <em>ex post</em> ed in via retroattiva, si configura una invalidità sopravvenuta del provvedimento medesimo – si tratta peraltro di una annullabilità, e non già di una nullità, del provvedimento in parola, dacché si è al cospetto di una ipotesi che non è assimilabile a quella della c.d. carenza di potere in astratto.</p> <p style="text-align: justify;">Per il Collegio, allorché una norma sia stata dichiarata incostituzionale, l’esercizio del potere di autotutela sull’atto amministrativo che quella norma fonda da parte della PA, astrattamente esperibile, deve assumersi in concreto soggetto a tutti i relativi, ordinari presupposti e limiti, in particolare all’esigenza di accurata ponderazione dell’interesse sacrificato nel destinatario dell’atto favorevole, anche in relazione all’affidamento suscitato, come conseguenza del trascorrere del tempo e dell’entità del costo da questi sopportato in comparazione con l’interesse pubblico, astratto e concreto, al ripristino della legalità, in applicazione del principio generale di proporzionalità.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">*Il 22 novembre esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n.6831 che si occupa dell’atto amministrativo anti-comunitario in via indiretta, vale a dire attraverso la norma interna che lo fonda, e distingue: a) il caso in cui la norma interna anticomunitaria attribuisce il potere alla PA, ipotesi nella quale l’atto deve assumersi nullo per carenza di potere, in quanto va disapplicata la norma interna, contrastante con il diritto comunitario, che detto potere fonda; b) il caso in cui la norma interna anticomunitaria si limita a disciplinare detto potere, senza tuttavia fondarlo, ipotesi - al contrario – di mero cattivo esercizio del potere e, dunque, di sola illegittimità/annullabilità dell’atto stesso. Diverso il caso in cui la illegittimità comunitaria sia diretta, ovvero laddove l’atto amministrativo si pone in diretto contrasto con la normativa comunitaria (o con la normativa interna che la attua): in questa ipotesi occorre procedere ad impugnare l’atto nel termine di decadenza, in quanto esso è da assumersi illegittimo ed annullabile secondo l’ordinario regime di impugnazione degli atti amministrativi.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">*Il 28 dicembre esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.8056, alla cui stregua allorché intervenga – con effetti retroattivi – una sentenza dichiarativa di illegittimità costituzionale della normativa sulla base della quale è stato adottato un atto amministrativo, questo è da assumersi sempre annullabile nel consueto termine di decadenza.</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte, l’eliminazione della norma dichiarata incostituzionale non provoca infatti l’inesistenza dell’atto in parola, che deve dunque essere rimosso in sede amministrativa (autotutela) o giurisdizionale.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2007</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 23 ottobre esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n.5559 alla cui stregua un effetto caducante automatico può essere ravvisato solo quando tra i due atti considerati vi sia un rapporto di presupposizione-consequenzialità immediata, diretta e necessaria, nel senso che l’atto successivo si pone come inevitabile conseguenza di quello precedente, perché non vi sono nuove e ulteriori valutazioni di interessi, né del destinatario dell’atto presupposto, né di altri soggetti.</p> <p style="text-align: justify;">Diversamente accade per il Collegio quando l’atto successivo, pur facendo parte della medesima sequenza procedimentale in cui si colloca l’atto precedente, non ne costituisce conseguenza inevitabile perché la relativa adozione implica nuove e ulteriori valutazioni di interessi, specie se di terzi soggetti, onde l’immediata impugnazione dell’atto presupponente non fa venir meno la necessità di impugnare nei termini l’atto successivo, pena l’improcedibilità del primo ricorso.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 7 dicembre esce la sentenza del Tar Calabria, Catanzaro, n.1959, che si occupa di una fattispecie in cui è stata impugnata la ratifica di una deliberazione di Giunta Provinciale la quale – in forza dello statuto dell’Ente, emanato in esecuzione di un decreto legge poi decaduto per mancata conversione – avrebbe dovuto essere adottata nel corso di una adunanza (del Consiglio) presieduta dal Presidente del Consiglio Provinciale laddove, nella fattispecie, l’assemblea è stata presieduta dal Presidente della Provincia.</p> <p style="text-align: justify;">Il ricorrente nel caso di specie, muovendo dal principio di gerarchia delle fonti, ritiene automaticamente ed <em>ex se</em> caducata la fonte statutaria quale conseguenza automatica della decadenza del decreto legge non convertito: dacché lo Statuto provinciale è fonte di rango subordinato rispetto al decreto legge non convertito, esso deve assumersi aver perso automaticamente e fin dall’origine efficacia contestualmente alla decadenza, pure ab origine, del decreto legge che lo fonda.</p> <p style="text-align: justify;">Per il Tar va invece ribadito che l’intervenuta decadenza per mancata conversione di un decreto legge non determina l’automatica caducazione degli atti amministrativi adottati sulla scorta del ridetto decreto legge poi non convertito, scaturendone piuttosto solo la pertinente illegittimità. Per il Collegio la ricostruzione del ricorrente, pur suggestiva, si pone nondimeno in contrasto con un indirizzo giurisprudenziale piuttosto consolidato del GA alla cui stregua la decadenza, per mancata conversione, di un decreto legge ai sensi dell’art.77, comma 3, Cost. non produce effetti caducanti sugli atti amministrativi adottati nel periodo di relativa vigenza bensì, ed esclusivamente, effetti vizianti, discendone che – sebbene ai sensi della richiamata norma costituzionale i decreti non convertiti “<em>perdono efficacia sin dall’inizio</em>”, gli atti amministrativi adottati sotto la relativa vigenza, quale fonte primaria poi decaduta, divengono illegittimi e pertanto devono essere rimossi attraverso gli ordinari mezzi di impugnazione ovvero, sussistendone i presupposti, giusta esercizio dell’autotutela da parte dell’Amministrazione.</p> <p style="text-align: justify;">Del resto, prosegue il Tar, analoghi principi sono dalla giurisprudenza enunciati con riferimento alle sentenze dichiarative di illegittimità costituzionale, laddove l’effetto retroattivo delle pronunce della Consulta non determina l’automatica caducazione degli atti amministrativi adottati sotto la vigenza della norma dichiarata incostituzionale.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2008</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 5 maggio esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.1986 alla cui stregua la sopravvenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma che disciplina il procedimento di adozione di un atto amministrativo che già sia stato impugnato (come normalmente accade: lo stesso è stato impugnato a suo tempo nei termini, ed è stata poi sollevata questione di legittimità costituzionale, decisa dalla Consulta normalmente dopo diversi mesi) non può determinare l’illegittimità derivata dell’atto qualora il ricorrente non abbia, attraverso uno specifico motivo di ricorso, richiamato all’uopo la norma denunciata; in sostanza, ove faccia difetto un esplicito motivo di ricorso, appare irrilevante il principio secondo il quale il giudice deve applicare d’ufficio, nei giudizi pendenti, le pronunce di annullamento della Corte costituzionale.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">L’8 settembre esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n. 4263 secondo la quale laddove un provvedimento amministrativo contrasti con il diritto europeo, esso non può comunque essere disapplicato dall’Amministrazione procedente, dovendo piuttosto essere eventualmente rimosso attraverso il potere di autotutela e sulla scorta dei relativi presupposti applicativi, ovvero preminenti ragioni di interesse pubblico alla rimozione dell’atto a fronte degli affidamenti ingenerati, con le garanzie del contraddittorio (partecipazione procedimentale) ordinariamente previste dal sistema.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2009</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 19 maggio esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.3072, che si occupa dell’atto amministrativo anti-comunitario in via indiretta, vale a dire attraverso la norma interna che lo fonda, e ribadisce la distinzione tra: a) il caso in cui la norma interna anticomunitaria attribuisce il potere alla PA, ipotesi nella quale l’atto deve assumersi nullo per carenza di potere, in quanto va disapplicata la norma interna, contrastante con il diritto comunitario, che detto potere fonda; b) il caso in cui la norma interna anticomunitaria si limita a disciplinare detto potere, senza tuttavia fondarlo, ipotesi - al contrario – di mero cattivo esercizio del potere e, dunque, di sola illegittimità/annullabilità dell’atto stesso. Diverso il caso in cui la illegittimità comunitaria sia diretta, laddove l’atto amministrativo si pone in diretto contrasto con la normativa comunitaria (o con la normativa interna che la attua): in questa ipotesi occorre procedere ad impugnare l’atto nel termine di decadenza, in quanto esso è da assumersi illegittimo ed annullabile secondo l’ordinario regime di impugnazione degli atti amministrativi.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2010</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 10 maggio esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.2766 alla cui stregua l’approvazione (successiva) della graduatoria finale di un concorso non si pone, rispetto all’esclusione (preventiva) di un concorrente operata sulla base del punteggio delle prove scritte, in un rapporto di consequenzialità immediata e diretta, dacché essa comporta un valutazione più generale che tiene conto degli interessi di tutti i concorrenti, risolvendosi in un riscontro della legittimità dell’intera procedura concorsuale e producendo l’effetto costitutivo di formazione della graduatoria siccome redatta dalla Commissione giudicatrice.</p> <p style="text-align: justify;">Ne consegue che l’impugnazione dell’esclusione di un concorrente, spiccata con esito favorevole con conseguente annullamento della ridetta esclusione, non può implicare un effetto caducante sull’atto successivo di approvazione della graduatoria finale del concorso.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2011</strong></p> <p style="text-align: justify;">*Il 31 marzo esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n.1983, che si occupa dell’atto amministrativo anti-comunitario in via indiretta, vale a dire attraverso la norma interna che lo fonda, e ribadisce la distinzione tra: a) il caso in cui la norma interna anticomunitaria attribuisce il potere alla PA, ipotesi nella quale l’atto deve assumersi nullo per carenza di potere, in quanto va disapplicata la norma interna, contrastante con il diritto comunitario, che detto potere fonda; b) il caso in cui la norma interna anticomunitaria si limita a disciplinare detto potere, senza tuttavia fondarlo, ipotesi - al contrario – di mero cattivo esercizio del potere e, dunque, di sola illegittimità/annullabilità dell’atto stesso.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 10 maggio esce la sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n.8,che specifica come la vicenda ad essa sottoposta tragga origine dalla circostanza che il legislatore italiano, nell’esercizio di una facoltà espressamente stabilita dalla Direttiva n. 115 del 2008 (art. 4, comma 3, in tema di disposizioni più favorevoli), ha previsto il beneficio della emersione del lavoro irregolare, con effetto estintivo di ogni illecito penale e amministrativo (art. 1-ter, comma 11, l. n. 102 del 2009), a favore di una limitata cerchia di lavoratori, ma anche dei rispettivi datori di lavoro, che li impiegano per esigenze di assistenza propria o di familiari non pienamente autosufficienti o per lavoro domestico. Tale misura, tuttavia, non può essere concretamente accordata dall’Amministrazione ove sia stata emessa condanna dello straniero interessato per il reato di cui all’art. 14, comma 5-ter, del decreto legislativo 286.98, che punisce lo straniero il quale non abbia osservato l’ordine del questore di lasciare il territorio dello Stato.</p> <p style="text-align: justify;">Tuttavia, prosegue il Collegio, la previsione di tale fattispecie penale, e le conseguenti condanne, non sono più compatibili con la disciplina comunitaria delle procedure di rimpatrio. In conformità, infatti, all’orientamento costantemente seguito dalla Corte di Lussemburgo (a partire dalla sentenza Simmenthal in causa 106/77), e dalla stessa Corte costituzionale italiana (con la sent. n. 170 del 1984 e successive), anche la recentissima sentenza comunitaria afferma che è compito del giudice nazionale assicurare la “<em>piena efficacia</em>” del diritto dell’Unione, negando l’applicazione, nella specie, dell’art. 14, comma 5-ter, in quanto contrario alla normativa dettata dalla Direttiva n. 115 del 2008, suscettibile di diretta applicazione. “<em>L'effetto di tale diretta applicazione </em>- ha puntualizzato la Corte - <em>non è quindi la caducazione della norma interna incompatibile, bensì la mancata applicazione di quest'ultima da parte del giudice nazionale al caso di specie, oggetto della sua cognizione, che pertanto sotto tale aspetto è attratto nel plesso normativo comunitario</em>.” (Corte Cost. n. 168 del 1991).</p> <p style="text-align: justify;">Deve concludersi per l’Adunanza che l’entrata in vigore della normativa comunitaria ha prodotto l’abolizione del reato previsto dalla disposizione sopra citata, e ciò, a norma dell’art. 2 del codice penale, ha effetto retroattivo, facendo cessare l’esecuzione della condanna e i relativi effetti penali. Tale retroattività non può non riverberare i propri effetti sui provvedimenti amministrativi negativi dell’emersione del lavoro irregolare, adottati sul presupposto della condanna per un fatto che non è più previsto come reato.</p> <p style="text-align: justify;">La conclusione cui il Collegio perviene non è ostacolata in modo persuasivo – a detta del Collegio stesso - dalla tesi, prospettata dall’ordinanza di rimessione, secondo cui, per il principio <em>tempus regit actum</em>, sarebbero da ritenere comunque legittimi gli atti amministrativi adottati antecedentemente al mutamento della normativa. Il principio <em>tempus regit actum</em> esplica infatti la propria efficacia allorché il rapporto cui l’atto inerisce sia irretrattabilmente definito, e, conseguentemente, diventi insensibile ai successivi mutamenti della normativa di riferimento; circostanza che evidentemente non si verifica ove, come nella specie, siano stati esperiti gli idonei rimedi giudiziari volti a contestare l’assetto prodotto dall’atto impugnato. Non diversamente da quanto accade a seguito dell’accoglimento della questione incidentale di legittimità costituzionale, benché sulla base di una differente ricostruzione dei rapporti tra le diverse fonti coinvolte, è da ritenere che le disposizioni espunte dall’ordinamento per effetto della diretta applicabilità di norme comunitarie non possano più essere oggetto di applicazione, anche indiretta, nella definizione di rapporti ancora <em>sub judice</em>.</p> <p style="text-align: justify;">E’ il caso di sottolineare – chiosa infine il Collegio - che gli effetti della pronuncia, non conformi all’originario disegno del legislatore italiano, ben avrebbero potuto essere evitati ove, nel non breve lasso di tempo disponibile, si fosse provveduto al recepimento della Direttiva, adottando misure compatibili con i relativi dettami.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">*L’11 novembre esce la sentenza del TRGA di Trento, n.28, che ribadisce la diade nullità/annullabilità dell’atto amministrativo a seconda che la norma interna antieuropea ne fondi il potere di adozione o si limiti a disciplinarne l’esercizio.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2012</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 4 gennaio esce la sentenza della sezione III quater del Tar Lazio n.59, alla cui stregua in primo luogo l’annullamento dell’atto presupposto comporta l’automatica caducazione dell’atto consequenziale, ad esclusione delle fattispecie in cui con l’atto posteriore sia stato conferito un bene od una qualche utilità ad un soggetto non qualificabile come parte necessaria nel giudizio che ha per oggetto l’atto presupposto, e dal quale ne è conseguito l’annullamento senza che tale soggetto sia stato posto in condizioni di partecipare.</p> <p style="text-align: justify;">Precisa ancora il il Collegio come il principio della caducazione esoneri il ricorrente dall’onere di impugnare tutti gli atti strettamente conseguenti rispetto a quello presupposto impugnato, a condizione che con questi atti non vengano in gioco posizioni di terzi, tale eventualità implicando la necessità di consentire loro la difesa in giudizio non già attraverso il rimedio dell’opposizione di terzo, che costituisce pur sempre una patologia del processo, ma attraverso la notificazione del ricorso che in simili evenienze è da assumersi spiccabile anche avverso l’atto consequenziale.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 15 febbraio esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n. 750, che ribadisce che l’atto amministrativo direttamente antieuropeo è illegittimo e come tale annullabile, essendo l’ordinamento interno integrato in quello europeo secondo le indicazioni della Corte di Giustizia.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">*Il 21 agosto esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.4583, alla cui stregua le pronunce della Corte costituzionale, nel relativo operare in via retroattiva sulla norma denunciata, determinano il venir meno in via retroattiva (<em>ex tunc</em>) della norma stessa, in quanto affetta da un vizio originario ed intrinseco; l’eliminazione dall’ordinamento della ridetta norma (incostituzionale) non è per il Collegio assimilabile a quella disposta per effetto di abrogazione in forza di altra norma sopravvenuta (che opera <em>ex nunc</em>).</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">*Il 3 ottobre esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.5189, alla cui stregua l’annullamento giurisdizionale della dichiarazione di pubblica utilità, quale atto presupposto, spiega efficacia automaticamente caducante nei confronti del decreto di espropriazione, quale atto successivo presupponente.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2013</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 23 maggio esce la sentenza della III Sezione del Consiglio di Stato n.2795 alla cui stregua le sentenze della Corte costituzionale che dichiarano l’illegittimità di una norma con effetto retroattivo trovano l’unico limite negli effetti che la norma colpita ha irrevocabilmente prodotto, quali la preclusione nascente dal giudicato, ovvero la scadenza di termini di prescrizione o di decadenza, oppure l’esaurimento del rapporto dalla norma disciplinato.</p> <p style="text-align: justify;">Con riguardo a quest’ultima fattispecie, per il Collegio la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma di legge, pur retroattiva, non si estende ai rapporti esauriti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Consulta, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in forza, tra l’altro, della definitività dei provvedimenti amministrativi dai quali le ridette situazioni giuridiche soggettive sono sorte e ciò atteso che, a diversamente opinare, si determinerebbe l’effetto di decentrare il sindacato di costituzionalità, attraverso lo strumento della disapplicazione, dalla Consulta quale unico organo titolare del pertinente potere al giudice comune (che potrebbe per l’appunto disapplicare anche atti amministrativi ormai inoppugnabili).</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 25 giugno esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.3449, che si occupa della fattispecie in cui sopravvenga la declaratoria di incostituzionalità di una norma che regola il potere di adozione di un atto amministrativo già oggetto di ricorso innanzi al GA. In questi casi, per il Collegio non si è al cospetto di un travolgimento automatico dell’atto a valle (rispetto alla norma a monte, dichiarata incostituzionale), che non può assumersi nullo né inesistente, quanto piuttosto illegittimo per via derivata.</p> <p style="text-align: justify;">Parte (già) ricorrente nondimeno non è onerata dalla proposizione di motivi aggiunti finalizzati a dedurre il vizio sopravvenuto laddove essa nel proprio ricorso introduttivo, giusta una o più motivi specifici, abbia fatto venire in rilievo la norma in questione, quand’anche non sotto il profilo della relativa illegittimità costituzionale (siccome poi dichiarata dalla Consulta).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;">Il 27 giugno esce la sentenza della Corte costituzionale n.160, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 1-ter, del decreto-legge 5 agosto 2010, n. 125 (Misure urgenti per il settore dei trasporti e disposizioni in materia finanziaria), aggiunto dalla legge di conversione 1° ottobre 2010, n. 163.</p> <p style="text-align: justify;">Per la Consulta il legislatore può emanare norme di interpretazione autentica non già soltanto al cospetto di incertezze sull’applicazione di una data disposizione ovvero di contrasti giurisprudenziali che la investano, ma anche allorché la scelta imposta dalla legge (interpretativa) rientri tra le possibili varianti di senso del pertinente testo originario, rendendo dunque vincolante un significato già ascrivibile alla norma anteriore.</p> <p style="text-align: justify;">Per il Collegio, l’eventuale portata retroattiva della disposizione non può assumersi ex se in frizione con la Costituzione, sempre che non entri in rotta di collisione con l’art.25, comma 2, Cost. in materia penale e che comunque non contrasti con altri valori o interessi costituzionalmente protetti, trovando piuttosto adeguata giustificazione sul crinale della ragionevolezza. Onde una legge di intepretazione autentica, e la disposizione che ne deriva, non possono dirsi costituzionalmente illegittime quando si limitino ad assegnare alla disposizione interpretata un significato che è già in essa contenuto, siccome riconoscibile quale una delle possibili letture del testo originario.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 12 luglio esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.3754, alla cui stregua una norma può essere qualificata interpretativa e, come tale, retroattiva, solo laddove chiarisca la portata applicativa di una disposizione precedente senza integrare il precetto di quest’ultima, e purché si tratti di opzione ermeneutica che non è desumibile dalla ordinaria attività di esegesi della norma interpretata.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 17 luglio esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.3880 alla cui stregua la legittimità di un provvedimento amministrativo va valutata con riguardo alla situazione di fatto e di diritto presente al momento della relativa adozione, non potendo dunque a rigore ammettersi una illegittimità sopravvenuta dell’atto amministrativo.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 16 aprile esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.2094 onde la legittimità di un provvedimento amministrativo va apprezzata con riferimento allo stato di fatto e di diritto riscontrabile al momento della relativa adozione, secondo il principio tempus regit actum, con conseguente irrilevanza di eventuali sopravvenienze normative che determinino l’abrogazione della disciplina che aveva legittimato la ridetta adozione provvedimentale, fatta salva l’ipotesi di una invalidità successiva introdotta da una norma sopravvenuta espressamente retroattiva, nei limiti in cui ciò possa considerarsi costituzionalmente legittimo.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 12 dicembre esce la sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana n.934 alla cui stregua i rapporti tra bando di concorso, da un lato, e altri atti successivi della procedura concorsuale, dall’altro, sono rapporti immediati, diretti e necessari, come tali avvinti da stretta consequenzialità; ne deriva che l’annullamento del bando produce un effetto automatico caducante su tutti gli atti conseguenti e non è pertanto necessario notificare il ricorso introduttivo a tutti i partecipanti alla procedura concorsuale, trattandosi di notifica che non soddisfa una intrinseca necessità del procedimento relativo al ricorso principale.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2014</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 21 gennaio esce la sentenza della IV sezione del Tar Campania n.385 che ribadisce come l’annullamento giurisdizionale della dichiarazione di pubblica utilità, quale atto presupposto, spieghi efficacia automaticamente caducante nei confronti del decreto di espropriazione, quale atto successivo presupponente. Ne consegue l’esclusione per la parte interessata di un onere di impugnazione del ridetto decreto finale di esproprio.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 14 febbraio esce la sentenza della III sezione del Tar Campania n.1039, alla cui stregua allorché intervenga – con effetti retroattivi – una sentenza dichiarativa di illegittimità costituzionale della normativa sulla base della quale è stato adottato un atto amministrativo, questo è da assumersi sempre annullabile nel consueto termine di decadenza. Per il Collegio, l’eliminazione della norma dichiarata incostituzionale non provoca infatti l’inesistenza dell’atto in parola, che deve dunque essere rimosso in sede amministrativa (autotutela) o giurisdizionale.</p> <p style="text-align: justify;">La declaratoria di illegittimità costituzionale, precisa ancora il Collegio, non determina la caducazione automatica del pertinente atto amministrativo, quanto piuttosto la relativa illegittimità o invalidità sopravvenuta del medesimo, che va dunque rimosso da una pronuncia del GA, quale giudice titolare del potere di annullamento, se del caso anche a valle di un rilievo d’ufficio; si tratta normalmente del giudice a quo che ha rimesso alla Consulta la pertinente questione di costituzionalità. In alternativa, può sempre intervenire un provvedimento di autotutela della stessa PA.</p> <p style="text-align: justify;">Dal punto di vista sistematico, il Tar chiarisce che non può assumersi configurabile tra la legge (poi dichiarata incostituzionale) e l’atto amministrativo un autentico rapporto di consequenzialità , entrambi costituendo il risultato di procedimenti differenti (quello legislativo e, rispettivamente, quello amministrativo), espressione ciascuno di differenti ed autonome funzioni dello Stato.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 20 febbraio esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.791, che si occupa dell’ipotesi di un provvedimento amministrativo difforme dalla disciplina contenuta nel decreto legge poi non convertito, e ad un tempo conforme alla normativa in vigore precedentemente ed a quella successivamente rilevante. Per il Collegio in questi casi, in difetto di una normativa espressa che detti una disciplina specifica per le vicende amministrative intervenute nelle more della vigenza di un decreto legge poi decaduto, non può assumersi illegittimo il ridetto provvedimento, che è difforme rispetto alla disciplina di cui al decreto legge poi non convertito, ma conforme tanto a quella anteriore quanto a quella successiva alla pertinente, mancata conversione.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">*Il 5 marzo esce la sentenza della II sezione del Tar Lazio n.2553, alla cui stregua l’annullamento giurisdizionale della dichiarazione di pubblica utilità, quale atto presupposto, spiega efficacia automaticamente caducante nei confronti del decreto di espropriazione, quale atto successivo presupponente.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 28 luglio esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.3990 alla cui stregua la legittimità di un provvedimento amministrativo va accertata con riguardo allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della relativa adozione, in applicazione del principio <em>tempus regit actum</em>, con conseguente irrilevanza anche di ulteriori provvedimenti successivi, che non possono come tali incidere sulla legittimità del provvedimento originario considerato.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2015</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 3 agosto esce la sentenza della III sezione del Consiglio di Stato n.3800 alla cui stregua si può far ricorso allo schema concettuale della caducazione quando si tratti di considerare la sorte di provvedimenti che, avvinti strettamente agli atti precedenti della medesima serie procedimentale, unicamente da questi ultimi ritraggono la propria legittimità onde, annullati tali atti precedenti, gli atti successivi in considerazione perdono parimenti i propri connotati di validità e di efficacia in modo così diretto ed automatico da non richiedere una pertinente, diretta impugnazione.</p> <p style="text-align: justify;">Per il Collegio si è dunque al cospetto di una sanzione che investe atti ulteriori interni alla medesima serie procedimentale, senza che sia richiesta la specifica ed autonoma impugnazione di questi ultimi, quale strumento tipico del diritto amministrativo, affiorando piuttosto una fattispecie contraddistinta da uno schema lineare di propagazione delle nullità che si palesa più prossimo alle dinamiche del diritto processuale civile scolpite all’art.159 c.p.c..</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta di una tipologia di intervento invalidante dalla natura eccezionale la cui disciplina rende concettualmente inapplicabile il modulo ordinario di impugnazione per singoli atti che fonda il diritto amministrativo tradizionale, motivo che spiega perché si tende a farne una applicazione restrittiva; la giurisprudenza ha in proposito distinto una invalidità (eccezionale) ad effetto, per l’appunto, “<em>caducante</em>” ed una (ordinaria) ad effetto “<em>viziante</em>”, nel primo caso trovandosi al cospetto di una tipologia di vizio dalla natura maggiormente dirompente che ha due specifici presupposti: da un lato l’appartenenza, tanto dell’atto direttamente annullato quanto di quello caducato per derivazione, alla medesima serie procedimentale; dall’altro il nesso di necessaria derivazione del secondo dal primo, quale inevitabile ed ineluttabile, pertinente precipitato, senza che occorra procedere a veruna nuova ed ulteriore valutazione di interessi, con particolare riguardo al coinvolgimento di soggetti terzi. In mancanza di uno di tali presupposti, lo schema della caducazione sarebbe inapplicabile, dovendosi far ricorso ai tradizionali strumenti di impugnazione nei termini anche dell’atto successivo, tipici del diritto amministrativo.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Sempre il 3 agosto esce la sentenza della III sezione del Consiglio di Stato n.3807, onde la mancata conversione di un decreto legge nei canonici 60 giorni dalla pubblicazione reca seco la relativa perdita di efficacia fin dall’inizio, vale a dire retroattivamente; nondimeno, per il Collegio gli atti adottati ed i rapporti sorti sulla base dei decreti non convertiti non decadono automaticamente, potendo essere rimossi alle condizioni previste in via generale per ogni tipo di atto, e dunque mediante i normali mezzi di impugnazione. Al tempo stesso, prosegue il Collegio, la mancata conversione autorizza le Camere a disciplinare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti legge non convertiti, consentendo dunque alle Camere stesse di superare eventuali limiti alla retroattività della legge e, massime, di derogare al principio della decadenza.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">*Il 21 settembre esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.4404 alla cui stregua si può far ricorso allo schema concettuale della caducazione quando si tratti di considerare la sorte di provvedimenti che, avvinti strettamente agli atti precedenti della medesima serie procedimentale, unicamente da questi ultimi ritraggono la propria legittimità onde, annullati tali atti precedenti, gli atti successivi in considerazione perdono parimenti i propri connotati di validità e di efficacia in modo così diretto ed automatico da non richiedere una pertinente, diretta impugnazione.</p> <p style="text-align: justify;">Per il Collegio si è dunque al cospetto di una sanzione che investe atti ulteriori interni alla medesima serie procedimentale, senza che sia richiesta la specifica ed autonoma impugnazione di questi ultimi, quale strumento tipico del diritto amministrativo, affiorando piuttosto una fattispecie contraddistinta da uno schema lineare di propagazione delle nullità che si palesa più prossimo alle dinamiche del diritto processuale civile scolpite all’art.159 c.p.c..</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta di una tipologia di intervento invalidante dalla natura eccezionale la cui disciplina rende concettualmente inapplicabile il modulo ordinario di impugnazione per singoli atti che fonda il diritto amministrativo tradizionale, motivo che spiega perché si tende a farne una applicazione restrittiva; la giurisprudenza ha in proposito distinto una invalidità (eccezionale) ad effetto, per l’appunto, “<em>caducante</em>” ed una (ordinaria) ad effetto “<em>viziante</em>”, nel primo caso trovandosi al cospetto di una tipologia di vizio dalla natura maggiormente dirompente che ha due specifici presupposti: da un lato l’appartenenza, tanto dell’atto direttamente annullato quanto di quello caducato per derivazione, alla medesima serie procedimentale; dall’altro il nesso di necessaria derivazione del secondo dal primo, quale inevitabile ed ineluttabile, pertinente precipitato, senza che occorra procedere a veruna nuova ed ulteriore valutazione di interessi, con particolare riguardo al coinvolgimento di soggetti terzi. In mancanza di uno di tali presupposti, lo schema della caducazione sarebbe inapplicabile, dovendosi far ricorso ai tradizionali strumenti di impugnazione nei termini anche dell’atto successivo, tipici del diritto amministrativo.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 3 novembre esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.5012 in tema di declaratoria di illegittimità dell’art. 43 del d.P.R. n. 327/2001 (acquisizione sanante) giusta sentenza della Corte costituzionale n. 293/2010 e di relativi effetti.</p> <p style="text-align: justify;">La pronuncia si inserisce nel solco della giurisprudenza onde la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma – pur rilevando anche nei processi in corso - non incide tuttavia sugli effetti irreversibili già prodottisi e ciò in quanto la retroattività degli effetti della dichiarazione di incostituzionalità incontra un limite negli effetti che la norma stessa, ancorché successivamente rimossa dall’ordinamento, abbia già irrevocabilmente prodotto, qualora essi siano stati resi intangibili dalla preclusione nascente o dall’esaurimento dello specifico rapporto giuridico (siccome disciplinato dalla norma espunta dall’ordinamento giuridico), oppure dal maturare di prescrizioni e decadenze ovvero, ancora, dalla formazione di un giudicato.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2018</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 6 aprile esce la sentenza della III sezione del Tar Sicilia, Catania, n.713 alla cui stregua, inserendosi in un solco giurisprudenziale collaudato, si ha nesso di presupposizione capace di spiegare un effetto automatico caducante allorché l’atto antecedente è il presupposto non solo necessario, ma anche unico ed indefettibile dell’atto successivo, costituendone un presupposto di esistenza.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">*Il 10 aprile esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.2168 alla cui stregua un effetto caducante automatico può essere ravvisato solo quando tra i due atti considerati vi sia un rapporto di presupposizione-consequenzialità immediata, diretta e necessaria, nel senso che l’atto successivo si pone come inevitabile conseguenza di quello precedente, perché non vi sono nuove e ulteriori valutazioni di interessi, né del destinatario dell’atto presupposto, né di altri soggetti.</p> <p style="text-align: justify;">Diversamente accade per il Collegio quando l’atto successivo, pur facendo parte della medesima sequenza procedimentale in cui si colloca l’atto precedente, non ne costituisce conseguenza inevitabile perché la relativa adozione implica nuove e ulteriori valutazioni di interessi, specie se di terzi soggetti, onde l’immediata impugnazione dell’atto presupponente non fa venir meno la necessità di impugnare nei termini l’atto successivo, pena l’improcedibilità del primo ricorso.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2019</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 17 gennaio esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.432, che richiama il consolidato insegnamento giurisprudenziale onde, pur in presenza di vizi accertati dell’atto presupposto, deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l’annullamento dell’atto presupposto si estende automaticamente all’atto consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l’atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di rito.</p> <p style="text-align: justify;">La prima ipotesi, quella appunto dell’effetto caducante, ricorre per il Collegio nella sola evenienza in cui l’atto successivo venga a porsi nell’ambito della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza dell’atto anteriore, senza necessità di ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque, la necessità di verificare l’intensità del rapporto di consequenzialità tra l’atto presupposto e l’atto successivo, con riconoscimento dell’effetto caducante solo qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l’atto successivo si ponga, nell’ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all’atto precedente, senza necessità di nuove valutazioni di interessi (cfr., tra le tante: Cons. Stato, V, 26 maggio 2015, n. 2611 e 20 gennaio 2015, n. 163; IV, 6 dicembre 2013, n. 5813, 13 giugno 2013, n. 3272 e 24 maggio 2013, n. 2823; VI, 27 novembre 2012, n. 5986 e 5 settembre 2011, n. 4998; V, 25 novembre 2010, n. 8243); situazione procedimentale che per il Collegio è invece da escludere nel caso ad esso sottoposto, laddove è stata impugnata una delibera della Giunta regionale che è stata emanata a conclusione di un autonomo procedimento amministrativo, implicante un’apposita e rinnovata valutazione degli interessi pubblici coinvolti (come dimostrato, nella fattispecie, dalla previa acquisizione del parere della commissione consiliare competente.</p> <p style="text-align: justify;">Per il Collegio, in proposito, va richiamata la distinzione tra atto di conferma ed atto meramente confermativo. Allo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile e, allo stesso tempo, immediatamente caducato dalla eventuale impugnazione con successo dell’atto confermato presupposto) o di conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini, potendosi predicare solo un effetto viziante della eventuale impugnativa con successo dell’atto precedente e presupposto), occorre verificare se l’atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi. In particolare, non può considerarsi meramente confermativo, rispetto ad un atto precedente, l’atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché l’esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può condurre a un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare vita ad un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione. Ricorre invece l’atto meramente confermativo quando l’Amministrazione si limita a dichiarare l’esistenza di un proprio precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione (cfr. per tutte Cons. Stato, IV, 14 aprile 2014, n. 1805; id., 12 febbraio 2015, n. 758; id., 29 febbraio 2016, n. 812; id, 12 ottobre 2016, n. 4214, nonché, da ultimo, in tema di successione di strumenti di pianificazione generale, Cons. Stato, IV, 27 gennaio 2017, n. 357).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Questioni intriganti</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Che cosa si intende per invalidità “<em>derivata</em>” e cosa occorre rammentare in proposito?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>occorre muovere dal c.d. “<em>principio di derivazione</em>”;</li> <li>alla stregua di tale canone, tutti i vizi che affiorano nel corso di un procedimento amministrativo e che affettano i relativi atti, si riverberano sul provvedimento amministrativo finale;</li> <li>il principio di derivazione opera anche con riguardo a provvedimenti che tra loro sono autonomi (magari perché esito, ciascuno, di un diverso procedimento), quando tra tali autonomi provvedimenti intercorre un nesso detto “<em>di presupposizione</em>”;</li> <li>si ha in tal caso innanzi tutto un atto “<em>presupposto</em>”, che si pone a fondamento di altro atto detto “<em>presupponente</em>”, onde l’atto presupponente (posteriore) si fonda sull’atto presupposto (anteriore);</li> <li>si tratta di atti che sono tra loro distinti ed autonomi, e tuttavia l’atto presupposto condiziona l’esistenza e la validità di quello presupponente, sulla scorta per l’appunto del nesso di presupposizione e del principio di derivazione;</li> <li>si tratta di atti autonomi e, proprio per questo, occorre impugnare in caso di vizio tanto l’atto presupponente quanto l’atto presupposto che eventualmente lo affetta, pur ammettendosi la possibilità di impugnare l’atto presupposto (anteriore e viziante) assieme a quello presupponente (posteriore e viziato);</li> <li>alla impugnativa di entrambi gli atti, presupponente e presupposto, si giustappone la eventuale possibilità in determinate circostanze di impugnare il solo atto presupposto, con effetti automaticamente “<em>caducanti</em>” – e non già meramente “<em>vizianti</em>” (con necessità di autonoma impugnativa) – nei confronti dell’atto presupponente;</li> <li>si fronteggiano sul punto 2 tesi distinte: h.1) anche laddove impugnato nei termini l’atto presupposto anteriore, occorre sempre impugnare nei termini anche l’atto presupponente successivo e consequenziale, dacché l’annullamento giurisdizionale del primo è idoneo a produrre effetti immediatamente caducanti solo su tale atto (presupposto anteriore), e mai anche sul secondo (presupponente successivo); se dunque si impugna nei termini l’atto anteriore presupposto e poi non si procede ad impugnare, del pari nei termini, il successivo atto presupponente, il ricorso avverso l’atto presupposto diviene improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, essendo ormai definitivamente operativo ed effettuale l’atto successivo presupponente non impugnato; ciò in primo luogo in forza della c.d. “<em>tipicità delle fattispecie estintive</em>”, onde un atto “<em>si estingue</em>” solo nei modi previsti dalla legge, tra i quali non è contemplata la “<em>caducazione per derivazione</em>”; peraltro, un privato può gravare un atto che assume per lui lesivo solo entro un breve termine di decadenza, stante l’esigenza della certezza giuridica e la non percorribilità di una strada che lasci un atto amministrativo esposto a possibile caducazione “<em>sine die</em>” (principio c.d. di inoppugnabilità dell’atto amministrativo non gravato nei termini); milita per questa opzione ermeneutica anche una considerazione di carattere eminentemente processuale, facente perno sulla circostanza onde non è detto che i destinatari dell’atto consequenziale presupponente siano parti necessarie nel giudizio sull’atto anteriore presupposto, onde ammettere la caducazione automatica di questo secondo atto significherebbe esporre tali destinatari dell’atto consequenziale presupponente ad un pregiudizio derivante da decisioni (prese a valle del processo sull’atto anteriore presupposto) che sono esito di un giudizio al quale esse hanno partecipato, in patente frizione col principio del contraddittorio; h.2) una volta impugnato nei termini l’atto presupposto anteriore, opera la caducazione automatica per l’atto presupponente successivo, che non occorre dunque gravare a propria volta nel termine di decadenza; secondo questa tesi, il ricorrente originario nei confronti dell’atto anteriore presupposto deve infatti, per quanto possibile, essere agevolato in ambito processuale, senza essere costretto ad impugnare atti della PA che sono strettamente avvinti tra loro; peraltro proprio l’opposizione di terzo, esperibile nel processo amministrativo a partire dalla sentenza della Corte costituzionale del 1995, è il mezzo che consente agli eventuali terzi controinteressati (pretermessi) di impugnare la sentenza che chiude il giudizio avverso l’atto anteriore presupposto che non li abbia visti parti necessarie, così consentendo loro di aggredire anche la demolizione automatica “<em>caducatoria</em>” dell’atto presupponente;</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>In cosa consiste il nesso di presupposizione e per chi è necessario individuarlo?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>coloro che ammettono la fattispecie della invalidità c.d. ad effetto caducante o “<em>travolgente</em>” assumono, ad un tempo, come il vizio possa anche essere solo “<em>viziante</em>” rispetto all’atto successivo, eventualità al cospetto della quale quest’ultimo, che non viene automaticamente travolto dall’annullamento dell’atto originario, va allora impugnato anch’esso nei termini;</li> <li>proprio questa circostanza impone di individuare quando si configuri un nesso di presupposizione così intenso da recare seco, per l’appunto, il travolgimento caducante automatico dell’atto presupponente rispetto all’atto originario presupposto; si contendono il campo sul punto, in dottrina e soprattutto in giurisprudenza, 2 tesi: b.1) si ha un effetto caducante automatico solo laddove l’atto consequenziale presupponente sia meramente esecutivo rispetto all’atto originario presupposto; b.2) si ha un effetto caducante automatico solo allorché possa individuarsi un nesso di stretta consequenzialità, e dunque di presupposizione logica o giuridica, tra l’atto originario e quello successivo che appunto lo “<em>presuppone</em>”;</li> <li>stando all’orientamento maggioritario: c.1) si è al cospetto di una invalidità ad effetto solo viziante laddove i provvedimenti successivi (latamente) presupponenti sono solo indirettamente e genericamente connessi rispetto a quello anteriore presupposto; in queste evenienze, il difetto di uno specifico, stretto nesso tra gli atti considerati impedisce il travolgimento degli atti successivi in via automatica ed <em>ipso iure</em>, necessitando piuttosto una esplicita sentenza caducatoria a valle di una pertinente impugnazione nei termini o direttamente con il ricorso principale, o con successivi motivi aggiunti, ovvero ancora con ricorso autonomo; per giurisprudenza amministrativa, esemplificativamente, una volta annullata la revoca di un precedente organo, non può assumersi automaticamente caducata anche la nomina del nuovo e successivo organo che ha sostituito il primo revocato; c.2) si è invece al cospetto di una invalidità ad effetto automatico caducante allorché il provvedimento originario costituisca l’unico ed imprescindibile (autentico) presupposto degli atti successivi che, rispetto ad esso, si atteggiano a consequenziali, esecutivi ovvero meramente confermativi, onde la caducazione del primo travolge automaticamente anche i secondi, che gli sono strettamente avvinti, senza necessità di autonoma, pertinente impugnativa nei termini.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa occorre rammentare della c.d. invalidità sopravvenuta?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>occorre partire da un atto che viene adottato e che in quel momento risulta pienamente valido;</li> <li>cause che intervengono successivamente rispetto alla pertinente adozione rendono tuttavia detto atto “<em>ex post</em>” fuori asse rispetto al quadro ordinamentale vigente;</li> <li>in dottrina e in giurisprudenza, taluni radicalmente negano la figura dell’invalidità sopravvenuta; è la disciplina vigente nel momento della pertinente adozione che detta lo statuto di un provvedimento amministrativo; una delle conseguenze di tale impostazione è che, qualora un atto amministrativo venga adottato su domanda del privato, si applica a tale atto la disciplina vigente nel momento in cui esso viene adottato e non quella (eventualmente diversa) anteriore vigente al momento della presentazione della domanda da parte del privato; in sostanza, se un atto amministrativo è – dal punto di vista sostanziale - legittimo o meno va valutato prendendo come punto di riferimento la normativa vigente nel momento in cui esso è stato adottato, quantunque nel corso del processo amministrativo instaurato con la relativa impugnazione sia intervenuta, sopravvenendo, una normativa diversa, che non può dunque spiegare alcun effetto in termini di validità / invalidità dell’atto amministrativo medesimo;</li> <li>altri invece ammettono – seppure in ipotesi contingentate - configurabile una invalidità sopravvenuta dell’atto amministrativo laddove esso, pur valido al tempo in cui viene (perfezionato ed) adottato, diviene per l’appunto invalido per sopravvenienze di fatto o di diritto, che finiscono per incidere sui relativi effetti, i quali ultimi sono da assumersi “<em>affettati</em>” dallo <em>ius superveniens</em>; le ipotesi in cui viene normalmente ammessa la rilevanza dello <em>ius superveniens</em> con effetti invalidanti sul provvedimento anteriore sono assai limitate: si tratta della fattispecie in cui intervenga ex post una legge retroattiva che impone per l’atto considerato un requisito di validità non previsto al tempo in cui fu adottato; della fattispecie di declaratoria di illegittimità costituzionale della legge istitutiva o regolativa del potere amministrativo sulla cui scorta l’atto fu adottato; della fattispecie di mancata conversione di un decreto legge sulla base del quale l’atto fu adottato; della fattispecie di innesto nel sistema di una legge di interpretazione autentica (come tale, retroattiva) che attribuisca un significato diverso alla norma sulla base della quale la PA adottò il provvedimento considerato; tra chi ammette la invalidità sopravvenuta normalmente, per sopravvenuta inefficacia della norma che ebbe a fondare l’atto – fermo restando che se ad essere modificate per via normativa sono le mere modalità di esercizio di un potere che è e resta in capo alla PA adottante, si concorda in ordine alla “<em>annullabilità sopravvenuta</em>” - si discute tuttavia su quale sia la tipologia di vizio che affetta, <em>ex post</em>, l’atto amministrativo di volta in volta considerato laddove, all’opposto, la successione normativa abbia interessato la fonte del potere della PA, che dunque si ritrova ex post ed in via retroattiva a non più avere attribuito un potere di adozione che invece deteneva quando adottò il provvedimento considerato, distinguendosi in proposito: d.1) chi, anche in questo caso, parla di “<em>annullabilità sopravvenuta</em>” (tesi più remota): la PA ha adottato il provvedimento quando la norma che le attribuiva il pertinente potere era pienamente efficace; nel momento in cui tale norma viene meno, quand’anche tale caducazione abbia effetto retroattivo, non si è al cospetto di una carenza di potere in astratto, con conseguente mera annullabilità del provvedimento che su quella norma si è fondato; d.2) chi in questo caso parla invece di “<em>nullità sopravvenuta</em>” (tesi più recente): allorché la legge che attribuiva alla PA il potere di adottare il provvedimento sia stata caducata da altra legge successiva con efficacia retroattiva, la legge soppiantata (decreto legge non convertito; legge dichiarata incostituzionale) deve assumersi <em>ab origine</em> non essere stata idonea a fondare il potere pubblico (neppure nel tempo in cui fu temporaneamente efficace), con conseguente nullità del provvedimento che su di essa si è fondato, siccome adottato in carenza di potere.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Che tipo di invalidità sopravvenuta si configura allorché non venga convertito il decreto legge che ha fondato l’atto amministrativo?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>se ne parla normalmente in termini di invalidità sopravvenuta del provvedimento che sia stato per l’appunto adottato sulla base di un decreto legge che non è stato poi convertito in legge nei termini;</li> <li>si giustappongono in proposito 2 diverse opzioni ermeneutiche: b.1) tesi recessiva: si è al cospetto di una invalidità originaria, sol che si consideri come – a mente dell’art.77, comma 3, Cost. – i decreti legge non convertiti perdano efficacia fin dall’inizio, con caducazione ex post e retroattiva della pertinente normativa primaria che fonda il provvedimento adottato dalla PA, il quale deve assumersi travolto e dunque caducato a propria volta fin dall’origine, dovendosi dunque assumere affetto da invalidità originaria; quando l’atto amministrativo viene adottato, esso non ha infatti base normativa, essendo stata quest’ultima travolta retroattivamente dalla mancata conversione del decreto legge; b.2) tesi maggioritaria: allorché un decreto legge decada per mancata conversione in legge, si è al cospetto di una fattispecie che non reca seco automatici effetti caducanti sugli atti amministrativi adottati <em>medio tempore</em> dalla PA sulla scorta del ridetto decreto legge, quanto piuttosto effetti meramente vizianti; tali atti non perdono pertanto la propria forza imperativa e la propria efficacia, che conservano tuttavia in via astrattamente temporanea, dovendosi assumere illegittimi in via sopravvenuta e dunque impugnabili attraverso l’ordinario ricorso demolitorio; sul crinale processuale, laddove il ricorrente abbia già impugnato il provvedimento per altri motivi, egli è legittimato a spiccare motivi aggiunti per far valere il sopravvenuto motivo di illegittimità del provvedimento medesimo (mancata conversione del decreto legge che lo fonda); laddove invece il provvedimento non sia stato ancora gravato e siano scaduti i pertinenti termini di impugnazione, il ricorrente può beneficiare della remissione in termini al fine di farne valere la sopravvenuta illegittimità.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Che tipo di invalidità sopravvenuta si configura allorché venga emanata una legge retroattiva incidente sul regime dell’atto amministrativo?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>occorre muovere dal presupposto sistematico onde solo nella materia penale è rigorosamente vietata, per principio costituzionale, la retroattività della legge (in disparte i casi particolari di retroattività <em>in bonam partem</em>);</li> <li>può ben darsi dunque che un atto amministrativo venga adottato quando l’ordinamento prevede determinati requisiti di validità ed intervenga, <em>ex post</em> e con effetto retroattivo, uno <em>ius superveniens</em> che ne preveda altri diversi, con la conseguenza onde il provvedimento, originariamente valido, non possegga più tutti i requisiti di relativa validità, essendone stati introdotti taluni <em>ex post</em>;</li> <li>si tratta di casi eccezionali, dacché la legge è normalmente irretroattiva, non disponendo che per l’avvenire, onde l’eventuale <em>ius superveniens</em> opera semmai sugli effetti (e non già sui requisiti genetici di validità), non elidendo quelli già prodotti da un atto amministrativo adottato nel passato ma solo, quando si tratti di atto ad efficacia durevole, di impedirgli la produzione di ulteriori effetti, onde normalmente lo <em>ius superveniens</em> non si atteggia a retroattivo, quanto piuttosto a “<em>nuovo diritto</em>” che paralizza la ultrattività della norma anteriore;</li> <li>quando invece si sia al cospetto proprio di un inserimento “<em>ora per allora</em>” di nuovi requisiti di validità dell’atto amministrativo, secondo una prima tesi dottrinale (recessiva), la stessa natura eccezionalmente retroattiva della legge amministrativa che introduca nel sistema requisiti di validità dell’atto in precedenza non richiesti spiega un effetto tale da produrre una invalidità originaria del provvedimento considerato, che fu adottato in contrasto con una legge che, proprio perché retroattiva, deve assumersi già pienamente operativa quando esso, per l’appunto, vide la luce; trattandosi di invalidità originaria, l’atto è da assumersi <em>ab origine</em> illegittimo e a rigore, stante lo spirare del relativo termine di decadenza, ormai inoppugnabile; a meno di non volerlo assumere, a seconda dell’importanza che riveste il “nuovo” requisito di validità introdotto <em>ex post</em> (e che esso non possiede), radicalmente nullo;</li> <li>stando ad una seconda tesi (prevalente), la natura eccezionalmente retroattiva della legge amministrativa che introduca nel sistema requisiti di validità dell’atto in precedenza non richiesti affetta l’atto non già in termini di invalidità originaria, quanto piuttosto di invalidità sopravvenuta, onde devono assumersi riaperti i termini per impugnare il provvedimento di volta in volta considerato; laddove l’atto sia stato impugnato prima della norma retroattiva sopravvenuta che (ulteriormente) lo affetta, si oppongono: d.1) chi ritiene che il GA possa rilevare d’ufficio lo <em>ius superveniens</em>, non occorrendo dunque spiccare motivi aggiunti; questi ultimi operano infatti quando un vizio originario viene conosciuto ex post dal ricorrente, non quando è lo stesso vizio ad essere “<em>sopravvenuto</em>” in forza di nuova norma retroattiva; d.2) chi invece assume necessario per il ricorrente spiccare motivi aggiunti orientati a denunciare il vizio sopravvenuto del provvedimento impugnato, dovendosi tenere conto del noto principio di piena corrispondenza tra chiesto e pronunciato ex art.112 c.p.c., onde in difetto di motivi aggiunti, ed al cospetto di un rilievo d’ufficio si assisterebbe ad una sentenza di annullamento dell’atto (che abbia accertato il vizio sopravvenuto) a propria volta affetta da ultrapetizione; nulla peraltro impedisce che i motivi aggiunti, nati per l’ipotesi di vizio originario conosciuto successivamente dal ricorrente, possano costituire il pertinente strumento tecnico nel diverso caso di vizio sopravvenuto retroattivo.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>In particolare, che tipo di invalidità sopravvenuta si configura allorché venga emanata una legge (retroattiva) di interpretazione autentica incidente sul regime dell’atto amministrativo?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>quando viene adottato il provvedimento, la legge che lo fonda viene interpretata in un certo modo;</li> <li>sopravviene una legge di interpretazione autentica, che dunque procede ad una ermeneusi difforme della legge che a suo tempo ha fondato l’adozione dell’atto amministrativo divisato, con effetti retroattivi;</li> <li>si fronteggiano in dottrina e giurisprudenza 2 tesi: c.1) si è al cospetto in questi casi di una invalidità dell’atto amministrativo <em>ab origine</em>, e non già di una invalidità sopravvenuta: la legge di interpretazione autentica non presenta un contenuto realmente innovativo, ma si limita a recepire, facendolo proprio ed imponendolo agli operatori, uno dei possibili significati già presenti nella disposizione originaria oggetto di interpretazione, onde ad essere sopravvenuta è non già la legge, quanto piuttosto una delle sue possibili interpretazioni, che si impone <em>ex lege</em> sulle altre; ne discende che qualora il provvedimento non sia stato impugnato nei termini, ovvero sia stato impugnato senza una censura specifica facente perno sull’interpretazione della norma poi raccolta e fatta propria dal legislatore, si è ormai al cospetto di un “<em>rapporto esaurito</em>” e di una conseguente inoppugnabilità dell’atto in parola (tesi recessiva, massime in giurisprudenza); c.2) si è al cospetto in questi casi di una vera e propria invalidità sopravvenuta dell’atto amministrativo: tutte le volte in cui il legislatore impone una determinata interpretazione di una propria norma, diversa da quella a suo tempo fatta propria dalla PA in sede di adozione del provvedimento amministrativo, quest’ultimo va assunto affetto appunto da invalidità sopravvenuta; secondo questa diversa opzione ermeneutica, che si rifà ad una pronuncia della Corte costituzionale del 1957, l’intervento “interpretativo” del legislatore non costituisce una interferenza illegittima nella sfera del potere giudiziario e, proprio per questo, va assunto come un intervento innovativo e modificativo del sistema legislativo preesistente; si è dunque al cospetto di una legge con effetti innovativi che chiarisce il significato di una disposizione previgente, atteggiandosi come qualunque altra legge retroattiva ma qualificandosi per il particolare nesso di dipendenza strutturale che si instaura tra testo “<em>interpretante</em>” e testo interpretato; la legge di interpretazione autentica rappresenta allora un fatto sopravvenuto capace di condizionare <em>ex post</em> (e non <em>ab origine</em>) la validità dell’atto amministrativo che su di essa si fondi, legittimando il ricorrente a spiccare motivi aggiunti attraverso i quali far valere la frizione tra il provvedimento medesimo che sia stato impugnato sotto altri profili ed il contenuto della norma siccome neo-interpretata dal legislatore; laddove invece il provvedimento non sia stato impugnato nei termini, il ricorrente potrà impugnarlo a valle della legge di interpretazione autentica e del contrasto che da essa è affiorato tra l’atto amministrativo e la legge originaria siccome interpretata, avvalendosi dell’istituto dell’errore scusabile: diversamente opinando, e segnatamente seguendo la tesi dell’atto invalido ab origine, si impone al ricorrente che impugni il provvedimento di farsi lui carico di tutte le possibili interpretazioni della disposizione “parametro” che hanno fondato l’atto di volta in volta gravato (tesi maggioritaria, massime in giurisprudenza).</li> </ol> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Che tipo di invalidità sopravvenuta si configura allorché venga dichiarata incostituzionale la legge che ha fondato l’atto amministrativo?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>si tratta di una questione specifica che va isolata nell’ambito della più generale tematica avente ad oggetto la c.d. invalidità sopravvenuta dell’atto amministrativo;</li> <li>quest’ultimo è stato adottato quale atto di esercizio di un potere che è stato attribuito alla PA, ovvero è stato comunque disciplinato nel relativo dispiego, da una norma dipoi dichiarata incostituzionale, con i consueti effetti retroattivi;</li> <li>secondo una prima opzione, già abbracciata dall’Adunanza Plenaria nel 1963, in ogni caso in cui intervenga una sentenza della Corte costituzionale con effetti retroattivi il regime del vizio che affetta tale atto è quello dell’annullabilità, onde l’atto va impugnato nel termine decadenziale innanzi al GA, dovendosi anche salvaguardare i canoni della certezza dell’azione amministrativa e dell’affidamento in essa riposto, che sarebbero gravemente vulnerati dalla attaccabilità <em>sine die</em> dell’atto pertinente, ove lo si considerasse non già annullabile, ma nullo; sotto altro crinale, si osserva in questo prisma ermeneutico che la legge è stata dichiarata incostituzionale e tuttavia, <em>medio tempore</em>, essa ha prodotto i relativi effetti, tra i quali quello che ha riconosciuto alla PA competente la facoltà di adottare il divisato provvedimento; si tratta di una competenza che, se viene meno una volta dichiarata la norma incostituzionale, è stata tuttavia temporaneamente operativa nella fase che ha preceduto la sentenza della Consulta e ciò implica che non si può tacciare l’atto di nullità per incompetenza assoluta ad adottarlo; peraltro, mentre nei rapporti tra atto presupposto ed atto presupponente la sorte del primo condiziona giocoforza quella del secondo, il nesso tra legge (poi dichiarata incostituzionale) ed atto amministrativo che la presuppone si atteggia in modo diverso, connotandosi per autonomia ed assenza di stretta consquenzialità, circostanza che sospinge ancora una volta nel senso dell’annullabilità del provvedimento, che va dunque appositamente impugnato nei termini, ove ancora pendenti, mentre laddove essi siano spirati non resterebbe che l’autotutela della stessa PA, dovendosi poi chiedere se in tal caso si sia al cospetto della consueta autotutela discrezionale o non, piuttosto, di una autotutela eccezionalmente “<em>vincolata</em>”, con obbligo per l’Amministrazione di procedere all’annullamento di tutti gli atti viziati da illegalità costituzionale, siccome accertata dalla Consulta; sul crinale processuale, va premesso che se l’atto è ormai inoppugnabile si è al cospetto di un “<em>rapporto esaurito</em>” per intervenuta decadenza, in relazione al quale nessun effetto può spiegare la retroattività della sentenza demolitoria della Consulta avente ad oggetto la fonte primaria (salva sempre l’autotutela della PA); quando invece l’atto sia stato a suo tempo impugnato nei termini, se in una prima fase, una volta tempestivamente impugnato il provvedimento amministrativo per altri motivi, non occorreva che tra questi vi fosse anche quello, specifico, denunciante la illegittimità costituzionale della norma fondativa, vizio che dunque poteva essere fatto valere – una volta intervenuta sentenza di incostituzionalità – in ogni caso ed anche se non esplicitamente dedotto, assumendosi irrilevante financo il diverso apprezzamento che il GA avesse già espresso, con decisione parziale, concludendo per la manifesta infondatezza della medesima questione di costituziuonalità assunta invece fondata da altro giudice e rimessa con successo alla Corte costituzionale; in un secondo momento la giurisprudenza si è invece orientata nel senso di assumere necessaria la denuncia della norma disciplinante il procedimento di adozione dell’atto amministrativo impugnato giusta specifico motivo all’uopo.</li> <li>stando ad una seconda tesi, concorde con la dottrina costituzionalistica alla cui stregua la legge dichiarata incostituzionale deve assumersi radicalmente nulla <em>ab origine</em>, occorre invece distinguere: d.1) la norma dichiarata incostituzionale attribuiva alla PA il potere di adottare l’atto; in questo caso, esso va assunto nullo per carenza di potere ed impugnabile in ogni tempo dinanzi al GO, non ricorrendo nessuna delle ipotesi che, ex art.21 <em>septies</em> della legge 241.90, spostano la ridetta giurisdizione al GA; d.2) la norma dichiarata incostituzionale si limita a disciplinare l’esercizio del potere di adottare l’atto: in questo caso, esso va assunto annullabile e dunque impugnabile nei consueti termini di decadenza innanzi al GA;</li> <li>altra dottrina costituzionalistica assume invece la legge dichiarata incostituzionale temporaneamente efficace (fino alla pertinente declaratoria di incostituzionalità) sulla scorta di una nullità “<em>relativa</em>” o “<em>mista</em>”, ovvero originaria <em>quoad causam</em>, ma sopravvenuta <em>quoad effectum</em>, onde sul piano genetico la norma è nulla, mentre sul piano funzionale essa spiega effetti fino alla declaratoria di incostituzionalità, continuando sempre a fondare e disciplinare il potere dell’Amministrazione, sicché da questo punto di vista – anche quando venga dichiarata incostituzionale una norma attributiva del potere pubblico, e non già meramente regolativa dello stesso – permane l’onere di impugnare il provvedimento nel termine di decadenza e, in caso di ormai intervenuta inoppugnabilità, il potere della PA di intervenire in autotutela laddove se ne configurino i requisiti (interesse pubblico alla rimozione dell’atto e prevalenza rispetto all’affidamento ingenerato nel privato).</li> </ol> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa occorre rammentare, in termini di validità o di patologia, dei rapporti tra provvedimento amministrativo e diritto dell’Unione europea?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>si parla in proposito di legittimità o illegittimità “<em>unionale</em>” del provvedimento considerato, assumendo a punto di riferimento fonti europee ad efficacia diretta, quali le norme del Trattato, i Regolamenti o le Direttive c.d. <em>self executing</em>;</li> <li>l’atto che sul crinale europeo è illegittimo può esserlo: b.1) direttamente: il relativo contenuto si pone in via immediata e diretta in contrasto con una norma sovranazionale, configurando una sorta di “<em>violazione di legge europea</em>” che si censura in via diffusa innanzi al GA; qualcosa di analogo accade nel caso in cui l’atto amministrativo considerato sia direttamente violativo di una norma costituzionale (organizzativa o attributiva di diritti), ciò facendo luogo ad una illegittimità costituzionale diretta o “<em>propria</em>” dell’atto amministrativo che si porta del pari in via diffusa davanti al GA, chiamato a scandagliare una “<em>causa petendi</em>” in termini di incostituzionalità diretta del provvedimento gravato; b.2) indirettamente: il relativo contenuto si pone in via mediata e indiretta in contrasto con una norma sovranazionale, per essere l’atto stesso (all’opposto) pienamente conforme ad una norma interna che tuttavia è essa in frizione col diritto europeo, configurandosi dunque una illegittimità europea di tipo “<em>derivato</em>” che si fa valere comunque in via diffusa davanti al GA competente, chiamato a disapplicare la norma interna anti-europea; qualcosa di analogo accade nel caso in cui l’atto amministrativo considerato sia indirettamente violativo di una norma costituzionale (organizzativa o attributiva di diritti), ciò facendo luogo ad una illegittimità costituzionale indiretta o “<em>impropria</em>” dell’atto amministrativo, il che accade quando esso è stato adottato sulla scorta di una norma che si sospetta essere incostituzionale, dacché in simili ipotesi l’atto considerato – valido in sé perché conforme alla norma di legge che lo prevede – potrebbe essere viziato per via derivata laddove la Corte costituzionale dovesse dichiarare la norma che ne ha fondato l’adozione come costituzionalmente illegittima; in questo caso tuttavia non basta il ricorso innanzi al GA competente, occorrendo piuttosto che questi rimetta la pertinente questione, in via “accentrata”, innanzi alla Corte costituzionale che, se dichiara incostituzionale la norma che fonda l’atto, incide in via immediata e diretta (anche) sul <em>petitum</em> demolitorio del ricorso amministrativo, laddove quest’ultimo sia stato spiccato per soli motivi di asserita incostituzionalità della norma che appunto fonda il provvedimento impugnato;</li> </ol> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quale regime giuridico sostanziale e processuale va riconosciuto applicabile all’atto amministrativo contrastante con il diritto europeo?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>occorre muovere, <em>in apicibus</em>, dal rapporto che intercorre tra ordinamento interno e ordinamento europeo (già “<em>comunitario</em>”);</li> <li>per la Corte di Giustizia europea (c.d. concezione monista) siamo al cospetto di due ordinamenti che sono integrati tra loro e che formano dunque un unico ordinamento complesso e, per l’appunto, “<em>integrato</em>”; in sostanza, l’ordinamento europeo risulta integrato nell’ordinamento giuridico di ciascuno Stato membro, non potendo quest’ultimo far prevalere, contro un ordinamento (quello europeo) che ha accettato in condizioni di reciprocità con gli altri Stati membri, un provvedimento unilaterale ulteriore, che non è come tale opponibile all’ordine comune; le fonti europee e quelle nazionali sono dunque integrate tra loro in un solo sistema giuridico, per l’appunto, “<em>integrato</em>”, nel quale vige una gerarchia tra norme interne e norme sovranazionali, queste ultime palesandosi fonte immediata di diritti ed obblighi per tutti coloro ai quali si riferiscono; vige il canone del primato del diritto europeo, onde le disposizioni del Trattato e gli altri atti delle istituzioni europee producono importantissimi effetti nel diritto interno dei singoli Stati membri: in primo luogo, qualsiasi disposizione nazionale preesistente va assunta <em>ipso iure</em> inapplicabile al cospetto di una normativa europea sopravvenuta difforme; in secondo luogo, lo Stato membro non può dare alla luce atti legislativi interni che siano, ex post, incompatibili con le ridette norme europee; in entrambi i casi il giudice interno deve disapplicare – a livello “<em>diffuso</em>” - le norme interne difformi da quelle sovranazionali, a tutela dei diritti garantiti dall’ordinamento europeo; muovendo da questa prospettiva, le norme europee, parte integrante di un medesimo ordinamento integrato e poste in una posizione di primazia, fungono da fondamento o comunque da parametro del potere amministrativo, quali norme che attribuiscono il potere pubblico o comunque ne disciplinano l’esercizio, onde per gli atti amministrativi in frizione con il diritto europeo deve sempre assumersi operativa l’annullabilità, sia nel caso in cui l’atto sia dal punto di vista europeo “<em>direttamente</em>” illegittimo, perché violativo di una norma sovranazionale che contribuisce anch’essa, in apicibus, a fungere da parametro di legalità, sia nel caso in cui esso sia, sempre sul crinale europeo, “indirettamente” illegittimo, perché conforme ad una norma interna che è tuttavia contrastante con una norma europea; in tale ultima circostanza, poiché la norma interna può essere disapplicata, l’atto è annullabile perché affettato da un vizio che, secondo illuminata dottrina, è “<em>originario quanto a decorrenza</em>” ed insieme “<em>sopravvenuto quanto a riconoscibilità</em>”, dacché il GA dapprima “<em>disapplica</em>” la norma interna antieuropea e, quindi, annulla in via consequenziale l’atto gravato (che pure sarebbe legittimo se parametrato alla sola norma interna); si tratta di una impostazione che viene considerata maggiormente in linea con i principi del processo amministrativo italiano, strutturato sul modello dell’impugnazione dell’atto (normalmente annullabile) in un termine di decadenza, sulla base di motivi di ricorso che vincolano il GA, dovendo chi impugna provare in giudizio l’illegittimità del provvedimento impugnato per pertinente contrasto col diritto europeo, senza che il pertinente <em>thema decidendum</em> possa essere posto d’ufficio dal GA medesimo; in sostanza, la disposizione europea fatta oggetto di violazione costituisce un diretto parametro di “<em>legalità</em>” dell’azione amministrativa, quale logico corollario proprio dell’integrazione ordinamentale propugnata dalla Corte di Giustizia UE;</li> <li>per la Corte costituzionale italiana (c.d. concezione pluralista), siamo invece al cospetto di due ordinamenti che rimangono tra loro separati e dunque distinti, seppure tra loro articolatamente coordinati; non si assiste dunque all’integrazione in un solo ed unico sistema ordinamentale, per l’appunto, “<em>integrato</em>” (capace di recare seco una “<em>dilatazione sovranazionale del principio di legalità</em>”, come ha osservato parte della dottrina), quanto piuttosto in una coordinazione tra ordinamenti distinti, secondo la ripartizione di competenze stabilita e garantita dal Trattato; quando dunque la PA adotta un provvedimento che si ponga in frizione con una norma europea direttamente applicabile, poiché le norme europee non si inseriscono nell’ordinamento interno dello Stato italiano, le eventuali norme interne contrastanti non sono “<em>invalide</em>”, quanto piuttosto meramente disapplicabili, dovendo allora chiedersi quale sia la sorte dell’atto amministrativo adottato sulla base di una norma interna che va disapplicata; sorte che, portando alle estreme conseguenze la tesi della separazione o “non integrazione” degli ordinamenti, rispettivamente, interno e sovranazionale, finisce col sospingere financo verso la nullità del ridetto atto amministrativo, che non può essere disciplinato dalla norma europea (appartenente ad un ordinamento separato da quello interno, ancorché coordinato con esso: non si configura dunque una “<em>illegittimità europea diretta</em>”) né dalla norma interna (che va disapplicata in forza del coordinamento esistente tra i due ordinamenti separati: si configura piuttosto una “<em>illegittimità europea indiretta</em>”), venendogli dunque a mancare – massime laddove si tratti di norma attributiva del potere - qualunque base normativa;</li> <li>per una parte della giurisprudenza amministrativa interna più recente, è possibile trovare una sintesi tra queste due opposte concezioni, argomentando sul perno del ruolo assunto dalla normativa interna riconosciuta in contrasto con il diritto europeo, e che pure costituisce il referente di legalità dell’atto amministrativo del cui vizio si tratta; più in specie, quando si sia al cospetto di una illegalità europea “<em>indiretta</em>”, occorrendo distinguere: d.1) la norma interna antieuropea attribuisce alla PA il potere di provvedere: in questo caso l’atto “<em>indirettamente antieuropeo</em>” è da considerarsi nullo, o financo inesistente, perché adottato in carenza di potere; d.2) la norma interna antieuropea non attribuisce alla PA il potere di provvedere, ma si limita a disciplinarne l’esercizio: in questo caso l’atto “<em>indirettamente antieuropeo</em>” è da considerarsi annullabile nel consueto termine di decadenza, perché adottato in presenza di un potere che è stato, per l’appunto, illegittimamente esercitato;</li> <li>va citata un’altra opzione ermeneutica propugnata da parte della dottrina, ma disattesa dalla giurisprudenza, alla cui stregua qualunque atto amministrativo contrastante con il diritto europeo deve essere disapplicato sia dalla PA, sia dal GO, sia dal GA, anche laddove sia ormai spirato il termine di decadenza e senza dover accertare se si è al cospetto di un atto nullo ovvero di un atto annullabile. Ciò in quanto l’atto amministrativo, sul crinale dei rapporti tra diritto interno e diritto europeo, va equiparato all’atto normativo, dovendo dunque come quest’ultimo essere sempre disapplicato laddove in frizione con i parametri europei, dovendosi ammettere – abbracciando una diversa opinione – che un atto amministrativo anti-europeo sarebbe dotato di una capacità di resistenza maggiore dell’atto normativo, gerarchicamente ad esso sovraordinato e che invece certamente va disapplicato; garantire il primato del diritto europeo significa allora ammettere, secondo questo punto di vista, la disapplicazione tanto degli atti normativi quanto degli atti amministrativi interni che si pongano in frizione con il diritto europeo medesimo, pena il conculcamento dei diritti dei singoli riconosciuti e garantiti a livello sovranazionale; altra parte della dottrina, in senso critico e muovendo dalla perenne precarietà che connoterebbe l’atto amministrativo laddove si aderisse a tale tesi “<em>generalista</em>”, ha osservato come non appaia compatibile con la struttura tipicamente impugnatoria del processo amministrativo di annullamento ammettere <em>tout court</em> la disapplicazione dell’atto amministrativo contrario al diritto europeo in sede di giudizio di legittimità: il ricorrente potrebbe infatti aver omesso di denunciare nei termini di decadenza un vizio dell’atto amministrativo in termini di relativa frizione col diritto europeo, senza che ciò possa ostacolare il GA – magari adito solo per violazione di legge statale – orientato a disapplicare l’atto, sfruttando l’impugnazione di quest’ultimo quale mera occasione per quella che è stata definita una “<em>tutela oggettiva di legalità</em>”;</li> </ol> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p>