Massima
A metà strada tra le norme sovranazionali, costituzionali e primarie che disciplinano come individuare per l’Amministrazione un interlocutore contrattuale privato nel pieno rispetto della disciplina sulla concorrenza, e le clausole del contratto di appalto (o assimilato) alfine specificamente sottoscritto, si collocano la decisione dell’Amministrazione di contrarre e le prescrizioni del bando di gara, queste ultime sempre oscillanti – quanto a natura giuridica – tra la norma pura e l’atto amministrativo e, sul crinale processuale, tra la disapplicazione e l’impugnazione nel tradizionale termine di decadenza.
Crono-articolo
1923
Il 18 novembre viene varato il R.D. n.2440, c.d. legge di contabilità dello Stato, che individua quali forme di scelta del contraente l’asta pubblica, la licitazione privata, la trattativa privata, l’appalto-concorso. Si tratta di norme orientate a garantire all’Amministrazione la selezione del miglior interlocutore privato, nell’ottica del perseguimento dell’interesse pubblico.
1924
Il 23 maggio viene varato il R.D. n.827 che disciplina le varie forme di scelta del contraente privato, ovvero l’asta pubblica, la licitazione privata, la trattativa privata, l’appalto-concorso
1942
Il codice civile , nel disciplinare il contratto, regola anche la fase delle trattative c.d. pre-contrattuali, con particolare riferimento alle ipotesi di recesso ingiustificato e di connessa responsabilità precontrattuale (art.1337), oltre che di consapevolezza della invalidità del contratto della cui stipula si tratta (art.1338). Gli art.1362 e seguenti disciplinano l’interpretazione del contratto e si applicano, nei limiti della compatibilità, anche agli atti unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale (art.1324 c.c.). I contratti possono essere etero-integrati dalla legge in determinati casi in cui clausole nulle vengono sostituite automaticamente da corrispondenti clausole valide (art.1339 c.c.).
1948
Il 01 gennaio entra in vigore la Costituzione repubblicana, che prevede all’art.97 il principio di imparzialità, posto accanto a quello di buon andamento, come canone che deve guidare la legge laddove essa organizza la Pubblica Amministrazione.
1991
Il 17 dicembre esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.1369 alla stregua della quale, sulla scorta del principio di immodificabilità del bando, esso non subisce gli effetti della normativa sopravvenuta, continuando a disciplinare la singola gara secondo le proprie clausole originarie: esso non può essere disapplicato dall’Amministrazione al fine di favorire l’applicazione della nuova disciplina, potendo la PA aggiudicatrice intervenire solo con l’autotutela, in presenza dei relativi presupposti. Il richiamo da parte del bando di gara ad una determinata disposizione di legge deve allora assumersi materiale, e non dinamico, onde gli eventuali mutamenti subiti da detta disposizione a titolo di ius superveniens non rifluiscono nel bando.
1994
L’11 febbraio viene varata la legge n.109, legge quadro in materia di lavori pubblici, il cui articolo 1, comma 1, dichiara significativamente che in attuazione dell’articolo 97 della Costituzione l’attività amministrativa in materia di opere e lavori pubblici deve garantirne la qualità ed uniformarsi a criteri di efficienza e di efficacia, secondo procedure improntate a tempestività, trasparenza e correttezza, nel rispetto del diritto comunitario e della libera concorrenza tra gli operatori. In sostanza, la scelta del contraente inizia ad essere ispirata più dall’esigenza di garantire la concorrenza tra gli operatori privati, sotto l’egida del diritto sovranazionale, che dalla tradizionale esigenza di garantire il miglior perseguimento dell’interesse pubblico attraverso la selezione dell’interlocutore privato più vantaggioso per la PA.
1997
Il 2 aprile esce la sentenza della III sezione del Tar Lombardia n.354 onde il bando di gara deve essere qualificato come atto avente natura normativa, sebbene la relativa rilevanza ed i relativi effetti siano limitati al solo ordinamento interno della PA che lo ha emanato. Ne discende che il GA può secondo il Tar disapplicare la disposizione del bando di gara contrastante con norme sovraordinate. Del resto, il bando è lex specialis della gara, compendiando delle norme che si rivolgono alla generalità dei concorrenti, non individualmente determinati.
Il 5 giugno esce la sentenza della III sezione del Tar Lombardia Milano, n.900 che ribadisce come il bando di gara debba essere qualificato come atto avente natura normativa, sebbene la relativa rilevanza ed i relativi effetti siano limitati al solo ordinamento interno della PA che lo ha emanato. Ne discende che il GA può secondo il Tar disapplicare la disposizione del bando di gara contrastante con norme sovraordinate
1998
*L’11 maggio esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.244 che ribadisce come, sulla scorta del principio di immodificabilità del bando, esso non subisce gli effetti della normativa sopravvenuta, continuando a disciplinare la singola gara secondo le proprie clausole originarie: esso non può essere disapplicato dall’Amministrazione al fine di favorire l’applicazione della nuova disciplina, potendo la PA aggiudicatrice intervenire solo con l’autotutela, in presenza dei relativi presupposti. Il richiamo da parte del bando di gara ad una determinata disposizione di legge deve allora assumersi materiale, e non dinamico, onde gli eventuali mutamenti subiti da detta disposizione a titolo di ius superveniens non rifluiscono nel bando.
Il 27 agosto esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.568 onde il bando di gara ha natura provvedimentale (e non normativa), non potendo dunque essere disapplicato dal GA e dovendo essere impugnato nei termini decadenziali dal privato che se ne assuma immediatamente leso. Per il Consiglio di Stato, che sconfessa sul punto il Tar Lombardia, le prescrizioni di un bando di gara pubblica, ancorché illegittime, non sono disapplicabili dal giudice amministrativo, rilevato che si tratta di manifestazioni di volontà provvedimentale, non riconducibili ad atto regolamentare o comunque normativo, e come tali immediatamente impugnabili qualora contengano prescrizioni suscettibili di arrecare una lesione diretta e immediata.
*Il 29 dicembre esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.1605 che ribadisce come, sulla scorta del principio di immodificabilità del bando, esso non subisce gli effetti della normativa sopravvenuta, continuando a disciplinare la singola gara secondo le proprie clausole originarie: esso non può essere disapplicato dall’Amministrazione al fine di favorire l’applicazione della nuova disciplina, potendo la PA aggiudicatrice intervenire solo con l’autotutela, in presenza dei relativi presupposti. Il richiamo da parte del bando di gara ad una determinata disposizione di legge deve allora assumersi materiale, e non dinamico, onde gli eventuali mutamenti subiti da detta disposizione a titolo di ius superveniens non rifluiscono nel bando.
2000
*Il 22 marzo esce la sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana n.128 che ribadisce come, sulla scorta del principio di immodificabilità del bando, esso non subisce gli effetti della normativa sopravvenuta, continuando a disciplinare la singola gara secondo le proprie clausole originarie: esso non può essere disapplicato dall’Amministrazione al fine di favorire l’applicazione della nuova disciplina, potendo la PA aggiudicatrice intervenire solo con l’autotutela, in presenza dei relativi presupposti. Il richiamo da parte del bando di gara ad una determinata disposizione di legge deve allora assumersi materiale, e non dinamico, onde gli eventuali mutamenti subiti da detta disposizione a titolo di ius superveniens non rifluiscono nel bando.
Il 18 agosto viene varato il decreto legislativo n.267, c.d. testo unico degli enti locali (TUEL), il cui art.192, comma 1, prevede – limitatamente appunto agli enti locali – l’obbligatorietà della determina a contrarre come atto prodromico inteso a manifestare l’interesse pubblico che l’Ente intende perseguire giusta stipula del divisato contratto.
L’8 agosto esce l’ordinanza della III sezione del Tar Lombardia n.234 che rimette in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia europea la questione se – stante il tradizionale orientamento del Consiglio di Stato contrario ad assumere disapplicabile un bando di gara laddove sia scaduto il relativo termine di impugnazione per immediata lesività – sia predicabile in ogni caso la disapplicabilità sine die delle clausole del detto bando che si rivelino in contrasto con il diritto comunitario, trattandosi di “normativa di gara” che come tale andrebbe disapplicata laddove in contrasto con la normativa comunitaria.
2002
Il 3 aprile esce la sentenza della III sezione del Tar Lazio n.2693 che assume come – anche in caso di immediata impugnabilità delle clausole del bando di gara – per poter procedere in concreto alla ridetta impugnativa immediata non occorra avere presentato domanda di partecipazione alla gara, così palesando in modo specifico l’interesse alla pertinente aggiudicazione. Richiedere la presentazione della domanda di partecipazione a chi contesta le clausole del bando c.d. escludenti, che non ne consentono proprio la partecipazione, significa violare la libertà di iniziativa economica di cui all’art.41 Cost., il diritto inviolabile di difesa di cui all’art.24 Cost. e lo stesso fondamentale principio di non aggravabilità del procedimento amministrativo sancito all’art.1 della Costituzione e che ha referenti costituzionali ovvi all’art.97 Cost..
2003
Il 10 gennaio esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.35, stando alla quale il potere del GA di disapplicare atti non ritualmente impugnati è ammesso nelle sole ipotesi di giurisdizione esclusiva, concernenti controversie relative a diritti soggettivi, nonché nei riguardi di regolamenti illegittimi, dovendosi invece escludere – per essere al di fuori delle ipotesi indicate – la disapplicazione di provvedimenti amministrativi non ritualmente impugnati, e, in particolare, di quelli che, ancorché connotati da una valenza generale, risultino privi di natura normativa, come in particolare i bandi di gara. Per il Consiglio di Stato va infatti negato ogni carattere normativo agli atti di disciplina della gara – bando e capitolato speciale – che quindi non sono disapplicabili da parte del g.a.,
Il 19 gennaio esce l’importante sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n.1 che si occupa della possibilità di assumere immediatamente impugnabili le clausole del bando di gara, al cospetto di due indirizzi giurisprudenziali discordi, l’uno inteso a negare recisamente l’interesse del concorrente ad impugnare il bando prima del relativo atto applicativo (assunto concretamente lesivo delle relative ragioni), peraltro con il rischio di trasformare ratione materiae la giurisdizione amministrativa in giurisdizione di tipo oggettivo (afferente alla legittimità dell’atto gravato) e non soggettivo (orientata a tutelare una situazione giuridica soggettiva); l’altro volto – in specifiche fattispecie – ad ammettere la immediata lesività del bando e, con esso, la pertinente immediata impugnabilità delle clausole assunte già lesive. La Plenaria muove dalla qualificazione del bando di gara come atto amministrativo generale, e dal principio processuale onde – per agire – occorre che si riscontri un interesse sostanziale del ricorrente che si assuma leso in modo immediato, attuale e concreto, circostanza quest’ultima tale da far luogo ad un interesse a ricorrere. Da questo punto di vista, se va esclusa in genere la configurabilità di un onere di immediata impugnazione del bando dinanzi a clausole che si rivelano non immediatamente lesive, sussistono due specifiche eccezioni che autorizzano (e, anzi, impongono) l’impugnazione immediata del bando di gara: a) le clausole che, col prevedere determinati requisiti di partecipazione, precludono l’accesso alla procedura; b) le clausole che, rispetto ai contenuti della gara o della procedura, pur non precludendo l’accesso alla medesima, prevedono tuttavia degli oneri assolutamente incomprensibili o manifestamente sproporzionati. Quello che conta per la Plenaria è la idoneità della clausola del bando a palesare immediatamente la propria attitudine lesiva, così incidendo sull’interesse attuale del potenziale concorrente alla partecipazione alla gara e non già sul (diverso, e più generico) interesse alla mera legittimità delle regole e delle operazioni di gara. Laddove la clausola del bando sia immediatamente lesiva, essa va impugnata nel termine di decadenza, in quanto il successivo provvedimento di esclusione dalla gara si palesa meramente ricognitivo di un effetto lesivo già verificatosi con la pubblicazione della clausola del bando che quella esclusione fonda.
Il 27 febbraio esce la sentenza della VI sezione della Corte di Giustizia della Comunità europea, C-327-00, caso Santex con la quale la Corte risponde all’ordinanza di rinvio pregiudiziale del Tar Lombardia del 2000 in tema di possibilità per il GA di disapplicare – anche oltre il termine di decadenza – clausole di un bando di gara non impugnate ma in contrasto con il diritto comunitario: secondo la Corte, anche quando una norma europea ha effetto diretto e garantisce ai singoli un diritto, spetta comunque – in mancanza di una disciplina comunitaria procedurale ad hoc – ai singoli Stati membri designare il giudice competente e stabilire con quali modalità procedurali può essere spiccato il ricorso giurisdizionale inteso a tutelare il detto diritto, se del caso fissando anche un termine di decadenza per l’impugnativa, che non può assumersi ex se costituire un ostacolo all’applicazione del diritto europeo. A differenza di quanto affermato in precedenza sul punto, la Corte di Giustizia appare tuttavia più rigorosa, richiedendo in ogni caso l’applicazione da parte dell’ordinamento processuale interno dei principi comunitari di equivalenza (le modalità procedurali intese a garantire i diritti di ascendenza europea non devono essere più gravose di quelle intese a garantire i diritti interni) e di effettività della tutela (il ricorso non deve rendere praticamente impossibile ovvero comunque eccessivamente difficile l’esercizio del diritto europeo sottostante), specie nei confronti delle PA aggiudicatrici. Proprio valorizzando il principio di effettività della tutela giurisdizionale dei diritti di ascendenza sovranazionale, la Corte giunge ad affermare che – nel singolo caso concreto – l’applicazione delle regole procedurali interne potrebbe conculcare detti diritti e dunque, in casi peculiari e specifici, non può negarsi al potere di disapplicazione dell’atto amministrativo da parte del GA (anche oltre il termine di decadenza) il ruolo di ultimo baluardo e sorta di “contro-limite” europeo al potere statale di disciplinare il dipanarsi del processo innanzi ai propri giudici (amministrativi). Va specificato che non si tratta di disapplicare dunque il bando di gara anticomunitario quanto piuttosto di disapplicare, nel caso, la norma interna di natura sostanziale/processuale che subordina sempre e comunque il gravame avverso un atto amministrativo al mancato decorso di un determinato termine di decadenza: il termine decadenziale non è di per sé in contrasto con il diritto comunitario, ma in peculiari situazioni in cui viene gravemente conculcato l’interesse del privato ricorrente, va ammessa la disapplicazione della norma che prevede il termine decadenziale, così dichiarando tempestivi (e ricevibili) i pertinenti ricorsi. Si tratta di un orientamento giurisprudenziale sovranazionale che in parte coincide con le acquisizioni della giurisprudenza nazionale, se si considera la giurisprudenza amministrativa sulle c.d. clausole ambigue o plurivoche: la lesività di queste clausole viene realmente percepita solo al momento della esclusione dalla gara, con conseguente spostamento in avanti del termine decadenziale per la relativa impugnazione (con effetto in bonam partem molto vicino a quello della disapplicabilità, seppure non sine die).
Il 3 novembre esce la sentenza della I sezione del Tar Veneto n.5439 che si sofferma sul principio di immodificabilità del bando, quale corollario del principio di imparzialità e di trasparenza dell’agere pubblico: così come non è modificabile l’oggetto del contratto dopo la relativa stipula, del pari (ed a fortiori) la PA non può modificare in corso di gara la prestazione richiesta e consacrata nel bando o nella lettera di invito, che è il punto di riferimento al cospetto del quale i concorrenti formulano la loro offerta e che compendia i parametri predeterminati del bene o servizio che l’Amministrazione intende acquisire.
2005
Il 7 marzo esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.917 che afferma come il bando di gara abbia natura normativa, compendiando la lex specialis della procedura di evidenza pubblica alla quale esso dà l’abbrivio. Proprio per questa sua intrinseca normatività, le relative prescrizioni vincolano tanto i privati concorrenti quanto la PA che bandisce, la quale deve attuarle senza disporre della discrezionalità per disattenderle, e non può disapplicarle, potendo al più procedere ad annullare il bando in via di autotutela laddove se ne ravvisino i presupposti.
Il 14 giugno esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n.3113 che assume come – anche in caso di immediata impugnabilità delle clausole del bando di gara sulla scorta dell’insegnamento dell’Adunanza Plenaria (sentenza 1.03) – per poter procedere in concreto alla ridetta impugnativa immediata non occorre avere presentato domanda di partecipazione alla gara, così palesando in modo specifico l’interesse alla pertinente aggiudicazione. Richiedere la presentazione della domanda di partecipazione a chi contesta le clausole del bando c.d. escludenti, che non ne consentono proprio la partecipazione, significa violare la libertà di iniziativa economica di cui all’art.41 Cost., il diritto inviolabile di difesa di cui all’art.24 Cost. e lo stesso fondamentale principio di non aggravabilità del procedimento amministrativo sancito all’art.1 della legge 241.90, e che ha referenti costituzionali ovvi all’art.97 Cost..
Il 22 settembre esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.5005 onde il bando di gara ha natura provvedimentale (e non normativa), non potendo dunque essere disapplicato dal GA e dovendo essere impugnato nei termini decadenziali dal privato che se ne assuma immediatamente leso.
2006
Il 12 aprile viene varato il decreto legislativo n.163, recante codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, in attuazione delle Direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE. Il relativo art.11, comma 2, provvede a rendere generale l’obbligo della determina a contrarre per tutte le PPAA (anche non locali) che decidano di addivenire alla stipula di un contratto, palesando attraverso la ridetta determina l’interesse pubblico che con il contratto esse intendono perseguire. Importante anche il comma 7 dell’art.11, laddove afferma che l’aggiudicazione definitiva non equivale ad accettazione dell’offerta del concorrente privato, sortendo il solo effetto negoziale di rendere irrevocabile la proposta fino al termine in essa indicato per la stipula del contratto. L’art.256 abroga la legge n.109 del 1994.
2008
Il 23 gennaio esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.170 che si occupa dei rapporti tra interesse all’aggiudicazione ed interesse alla legittimità della procedura di gara: è il primo che fonda il secondo, dovendosi l’interesse alla legittimità della procedura di gara assumersi quale mero riflesso dell’interesse all’aggiudicazione: solo se il mancato rispetto delle regole della gara reca seco il diniego di aggiudicazione, esso diviene realmente ed attualmente lesivo della posizione del privato.
Il 29 gennaio esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.263 che ribadisce come il bando di gara abbia natura normativa, compendiano la lex specialis della procedura di evidenza pubblica alla quale esso dà l’abbrivio. Proprio per questa sua intrinseca normatività, le relative prescrizioni vincolano tanto i privati concorrenti quanto la PA che bandisce, la quale deve attuarle senza disporre della discrezionalità per disattenderle, e non può disapplicarle, potendo al più procedere ad annullare il bando in via di autotutela laddove se ne ravvisino i presupposti.
Il 4 marzo esce la sentenza della III sezione del Tar Sicilia n.290 che assume come – anche in caso di immediata impugnabilità delle clausole del bando di gara sulla scorta dell’insegnamento dell’Adunanza Plenaria (sentenza 1.03) – per poter procedere in concreto alla ridetta impugnativa immediata occorre avere presentato domanda di partecipazione alla gara, così palesando l’interesse alla pertinente aggiudicazione. La domanda di partecipazione pone il concorrente (ricorrente) in una situazione differenziata rispetto al quisque de populo, radicandone la legittimazione e l’interesse ad impugnare il bando nelle relative clausole escludenti o manifestamente sproporzionate.
Il 25 agosto esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.4059 che si pronuncia sul tema della necessità o meno, al fine di impugnare immediatamente le clausole di un bando di gara, della domanda di partecipazione alla gara medesima. Mentre per quanto riguarda gli atti conclusivi della procedura di gara, e segnatamente per l’aggiudicazione, l’impugnativa non può che essere condizionata alla previa presentazione della domanda di partecipazione alla gara medesima (difettando in caso contrario l’interesse al gravame), discorso diverso può essere fatto in ipotesi eccezionali e derogatorie a questo principio, laddove il ricorrente (che non ha presentato domanda di partecipazione) contesti la violazione delle regole di pubblicità del bando, che ne hanno impedito la partecipazione; si dolga, ancora più a monte, della stessa decisione della PA di far luogo ad una gara (o ad un concorso), ipotesi rispetto alla quale apparirebbe contraddittorio presentare domanda di partecipazione; lamenti che si tratta di clausola escludente, che dunque non gli consente neppure di presentare la domanda di partecipazione (in quanto soggetto escluso dalla gara a priori). In queste peculiari ipotesi, la clausola del bando va impugnata immediatamente nel termine di decadenza, senza attendere l’aggiudicazione (o, nel caso del concorso, la graduatoria).
2009
Il 9 novembre esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.6972 che ribadisce come – anche in caso di immediata impugnabilità delle clausole del bando di gara sulla scorta dell’insegnamento dell’Adunanza Plenaria (sentenza 1.03) – per poter procedere in concreto alla ridetta impugnativa immediata occorre avere presentato domanda di partecipazione alla gara, così palesando l’interesse alla pertinente aggiudicazione. La domanda di partecipazione pone il concorrente (ricorrente) in una situazione differenziata rispetto al quisque de populo, radicandone la legittimazione e l’interesse ad impugnare il bando nelle relative clausole escludenti o manifestamente sproporzionate.
2010
Il 23 giugno esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.3964 che si occupa del principio di immodificabilità del bando di gara sul crinale del canone “tempus regit actum”: in sostanza, anche se sopravviene una nuova disciplina normativa, la gara continua ad essere disciplinata dal bando originario, che non subisce gli effetti dello ius superveniens.
Il 2 luglio viene varato il decreto legislativo n.104, codice del processo amministrativo, il cui art.120, comma 5, prevede – expressis verbis – che i bandi e gli avvisi di gara sono impugnabili solo laddove “autonomamente lesivi”.
2011
Il 7 aprile esce la sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n.4 che si occupa dei rapporti tra ricorso principale e ricorso incidentale con riguardo alle impugnative incrociate in sede di gara. La sentenza si sofferma tuttavia, facendo chiarezza, anche sul punto della necessità o meno di una domanda di partecipazione alla gara al fine di poterne impugnare le clausole immediatamente lesive. Secondo l’Adunanza Plenaria la regola è che in tema di gare la legittimazione a ricorrere spetta a chi ha presentato domanda di partecipazione; si tratta di una regola che tuttavia soffre delle specifiche e tassative eccezioni, elencabili come segue: a) si contesta la stessa decisione della PA di far luogo alla procedura di gara: in questo caso non occorre la previa domanda di partecipazione; b) si contesta la determinazione della PA di affidare in via diretta e senza gara un appalto: in questo caso non occorre che l’operatore economico di settore abbia fatto domanda di partecipazione alla gara, non configurandosi in radice la gara; c) si contesta la presenza di una clausola escludente, assunta illegittima, che prevede requisiti tali da lasciare fuori dalla competizione l’operatore economico che ricorre: in questa ipotesi, trattandosi di soggetto “escluso” a priori, il ricorrente non è neppure nella possibilità di presentare una domanda di partecipazione.
Il 13 maggio viene varato il decreto legge n.70 che introduce nell’art.64 del codice dei contratti pubblici n.163.06 un comma 4 bis, importante perché individua una nuova ipotesi di soft law in materia di appalti, prevedendo che i bandi di gara siano predisposti dalle stazioni appaltanti sulla base di modelli (bandi-tipo) approvati dall’Autorità compente (Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici: AVCP), previo parere del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e sentite le categorie professionali interessate, con l’indicazione delle cause tassative di esclusione di cui all’articolo 46, comma 1-bis. I bandi-tipo contengono indicazioni per l’integrazione del bando per quanto concerne i criteri ambientali minimi e le stazioni appaltanti – nella delibera a contrarre – devono motivare espressamente in ordine alle deroghe rispetto al bando-tipo.
Il 12 luglio viene varata la legge n.106 che converte con modificazioni il decreto legge 70.11.
Il 5 settembre esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.4980 onde l’interpretazione degli atti amministrativi, compreso il bando di gara pubblica, soggiace alle stesse regole dettate dall’art. 1362 e ss. c.c. per l’interpretazione dei contratti, tra le quali assume carattere preminente quella collegata all’interpretazione letterale in quanto compatibile con il provvedimento amministrativo, dovendo in ogni caso il giudice ricostruire l’intento dell’Amministrazione, ed il potere che essa ha inteso esercitare, in base al contenuto complessivo dell’atto (cd. interpretazione sistematica), tenendo conto del rapporto tra le premesse ed il suo dispositivo e del fatto che, secondo il criterio di interpretazione di buona fede ex art. 1366 c.c., gli effetti degli atti amministrativi devono essere individuati solo in base a ciò che il destinatario può ragionevolmente intendere, anche in ragione del principio costituzionale di buon andamento, che impone alla P.A. di operare in modo chiaro e lineare, tale da fornire ai cittadini regole di condotte certe e sicure, soprattutto quando da esse possano derivare conseguenze negative.
2012
Il 7 novembre esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.5671 che conferma le acquisizioni cui è giunta l’Adunanza Plenaria n.1 del 2003 in termini di impugnabilità delle clausole del bando di gara, normalmente differita all’atto applicativo e talvolta immediata (nel termine decadenziale) quando si tratti di requisiti di partecipazione escludenti, incomprensibili o manifestamente sproporzionati.
2013
*Il 16 gennaio esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n. 238 onde, sulla scorta di conforme giurisprudenza, l’interpretazione degli atti amministrativi, compreso il bando di gara pubblica, soggiace alle stesse regole dettate dall’art. 1362 e ss. c.c. per l’interpretazione dei contratti, tra le quali assume carattere preminente quella collegata all’interpretazione letterale in quanto compatibile con il provvedimento amministrativo, dovendo in ogni caso il giudice ricostruire l’intento dell’Amministrazione, ed il potere che essa ha inteso esercitare, in base al contenuto complessivo dell’atto (cd. interpretazione sistematica), tenendo conto del rapporto tra le premesse ed il suo dispositivo e del fatto che, secondo il criterio di interpretazione di buona fede ex art. 1366 c.c., gli effetti degli atti amministrativi devono essere individuati solo in base a ciò che il destinatario può ragionevolmente intendere, anche in forza del principio costituzionale di buon andamento, che impone alla P.A. di operare in modo chiaro e lineare, tale da fornire ai cittadini regole di condotte certe e sicure, soprattutto quando da esse possano derivare conseguenze negative.
*Il 28 febbraio esce la sentenza della III sezione del Consiglio di Stato n.1221 che si adegua alle conclusioni raggiunte dall’Adunanza Plenaria con la sentenza n.4.11 in tema di necessità o meno di una domanda di partecipazione alla gara al fine di poterne impugnare le clausole immediatamente lesive. In tema di gare la legittimazione a ricorrere spetta a chi ha presentato domanda di partecipazione; si tratta di una regola che tuttavia soffre delle specifiche e tassative eccezioni, elencabili come segue: a) si contesta la stessa decisione della PA di far luogo alla procedura di gara: in questo caso non occorre la previa domanda di partecipazione; b) si contesta la determinazione della PA di affidare in via diretta e senza gara un appalto: in questo caso non occorre che l’operatore economico di settore abbia fatto domanda di partecipazione alla gara, non configurandosi in radice la gara; c) si contesta la presenza di una clausola escludente, assunta illegittima, che prevede requisiti tali da lasciare fuori dalla competizione l’operatore economico che ricorre: in questa ipotesi, trattandosi di soggetto “escluso” a priori, il ricorrente non è neppure nella possibilità di presentare una domanda di partecipazione.
*Il 6 marzo esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.1373 che si adegua alle conclusioni raggiunte dall’Adunanza Plenaria con la sentenza n.4.11 in tema di necessità o meno di una domanda di partecipazione alla gara al fine di poterne impugnare le clausole immediatamente lesive. In tema di gare la legittimazione a ricorrere spetta a chi ha presentato domanda di partecipazione; si tratta di una regola che tuttavia soffre delle specifiche e tassative eccezioni, elencabili come segue: a) si contesta la stessa decisione della PA di far luogo alla procedura di gara: in questo caso non occorre la previa domanda di partecipazione; b) si contesta la determinazione della PA di affidare in via diretta e senza gara un appalto: in questo caso non occorre che l’operatore economico di settore abbia fatto domanda di partecipazione alla gara, non configurandosi in radice la gara; c) si contesta la presenza di una clausola escludente, assunta illegittima, che prevede requisiti tali da lasciare fuori dalla competizione l’operatore economico che ricorre: in questa ipotesi, trattandosi di soggetto “escluso” a priori, il ricorrente non è neppure nella possibilità di presentare una domanda di partecipazione.
*Il 21 maggio esce la sentenza della III sezione del Consiglio di Stato n.2746 che conferma le acquisizioni cui è giunta l’Adunanza Plenaria n.1 del 2003 in termini di impugnabilità delle clausole del bando di gara, normalmente differita all’atto applicativo e talvolta immediata (nel termine decadenziale) quando si tratti di requisiti di partecipazione escludenti, incomprensibili o manifestamente sproporzionati.
*Il 24 maggio esce la sentenza della III sezione del Consiglio di Stato n.2841 che conferma le acquisizioni cui è giunta l’Adunanza Plenaria n.1 del 2003 in termini di impugnabilità delle clausole del bando di gara, normalmente differita all’atto applicativo e talvolta immediata (nel termine decadenziale) quando si tratti di requisiti di partecipazione escludenti, incomprensibili o manifestamente sproporzionati.
Il 2 settembre esce la sentenza della III sezione del Consiglio di Stato n.4364 che dichiara il bando di gara interpretabile alla stregua dei medesimi canoni che presidiano all’interpretazione del contratto, e dunque agli articoli 1362 e seguenti del codice civile. L’interpretazione letterale deve avere carattere preminente, nei limiti della compatibilità con l’atto amministrativo (che è atto unilaterale), in quanto il giudice deve ricostruire l’intento perseguito dall’Amministrazione ed il potere che essa ha inteso esercitare; un ruolo importante riveste anche l’interpretazione sistematica, legata al contenuto complessivo dell’atto (bando), dovendosi anche tenere conto della circostanza onde, alla stregua del canone interpretativo di buona fede ex art.1366 c.c., va fatto esclusivo riferimento a ciò che il destinatario dell’atto amministrativo può ragionevolmente attendersi dal contenuto dello stesso. Di non minore (e connessa) importanza il principio di buon andamento di cui all’art.97 Cost., che impone alla PA di agire in modo chiaro e lineare, in modo da fornire ai cittadini indicazioni e regole di condotta certe e sicure, specie laddove possano derivarne conseguenze negative (come ad esempio l’esclusione dalla gara). In caso di dubbio sulle espressioni utilizzate nel contesto letterale del bando, va privilegiato il senso maggiormente aderente alla natura ed all’oggetto del contratto alla stipula del quale il bando è orientato, ai sensi dell’art.1369 c.c., oltreché maggiormente conforme alla legge ed al principio di massima partecipazione alla gara. La sentenza si occupa anche del diverso problema della etero-integrazione normativa del bando di gara, sul modello della inserzione automatica di clausole di cui all’art.1339 c.c., escludendola: si tratta di una etero integrazione che concerne contratti già conclusi, laddove – in presenza di un accordo già raggiunto – va garantita da un lato la validità e l’efficacia di quest’ultimo, e dall’altro l’applicazione al relativo contenuto delle norme inderogabili previste dalla legge; nel caso del bando si sta invece ancora procedendo alla selezione dell’interlocutore privato.
Il 18 dicembre esce la sentenza del Tar Lombardia, sezione IV, n.2863 che si occupa del caso in cui il bando, ovvero la lex specialis della gara, si presenti oscuro ed equivoco: in queste evenienze, occorre guardare all’esigenza di un corretto rapporto tra PA e privato alla luce tanto dei principi generali (pubblicistici) di buon andamento e di imparzialità della PA quanto del principio (privatistico) della buona fede nelle trattative di cui all’art.1337 c.c.: l’affidamento degli interessati in buona fede va dunque tutelato, onde la clausola oscura o equivoca va interpretata per quello che essa espressamente dice, non potendosi pretendere dal privato concorrente alla gara una ricostruzione ermeneutica rivolta a significati ulteriori ed inespressi, dovendosi comunque nel dubbio preferire l’interpretazione che favorisce la più ampia partecipazione alla gara e che risulti meno favorevole ad inutili formalità, sia nell’ottica della più ampia concorrenza (dal lato del soggetto privato) che in quella della più ampia convenienza (dalla parte della PA cui il bando va ricondotto).
2014
*Il 5 febbraio esce la sentenza della sezione II.ter del Tar Lazio n.1432 che conferma le acquisizioni cui è giunta l’Adunanza Plenaria n.1 del 2003 in termini di impugnabilità delle clausole del bando di gara, normalmente differita all’atto applicativo e talvolta immediata (nel termine decadenziale) quando si tratti di requisiti di partecipazione escludenti, incomprensibili o manifestamente sproporzionati.
*Il 17 febbraio esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.744 che conferma le acquisizioni cui è giunta l’Adunanza Plenaria n.1 del 2003 in termini di impugnabilità delle clausole del bando di gara, normalmente differita all’atto applicativo e talvolta immediata (nel termine decadenziale) quando si tratti di requisiti di partecipazione escludenti, incomprensibili o manifestamente sproporzionati.
*Il 13 marzo esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.1243 che conferma le acquisizioni cui è giunta l’Adunanza Plenaria n.1 del 2003 in termini di impugnabilità delle clausole del bando di gara, normalmente differita all’atto applicativo e talvolta immediata (nel termine decadenziale) quando si tratti di requisiti di partecipazione escludenti, incomprensibili o manifestamente sproporzionati.
Il 13 maggio esce la sentenza della III sezione del Consiglio di Stato n.2448 che, in particolare caso, ammette una deroga al principio che esclude la etero-integrazione normativa del bando secondo il modello di cui all’art.1339 c.c.: si tratta della ipotesi in cui l’ordinamento preveda l’inserimento nel bando di elementi obbligatori e questi non vi siano stati inseriti dalla PA. In questa fattispecie scatta un meccanismo di integrazione automatica delle clausole del bando sul modello di quanto avviene nel diritto privato attraverso gli articoli 1339 e 1374 c.c.
L’11 giugno esce la sentenza del Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa del Trento n.226 che conferma come, in caso di lacune nella legge di gara, e dunque nel bando, tali lacune possono essere colmate attraverso il meccanismo della etero-integrazione normativa previsto in sede civilistica dagli articoli 1339 e 1374 c.c. Il canone viene tuttavia applicato ad una fattispecie in cui la PA ha disposto l’esclusione automatica di un concorrente che non ha presentato una dichiarazione da un lato prevista dalla legge, e dall’altro ambiguamente disciplinata nel bando: nel caso di specie non si è dunque al cospetto di una previsione legislativa non inserita nel bando, quanto piuttosto di una previsione legislativa chiara (di cui al codice dei contratti pubblici) e di un bando formulato sul punto in maniera non univoca, ditalché l’esclusione del concorrente finisce col violare i principi di lealtà, buona fede soggettiva, certezza e affidamento del concorrente.
Il 23 giugno esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.3150 che – muovendo dalla natura di atto amministrativo generale, e non già di atto normativo, del bando di gara – ritiene lo stesso non disapplicabile dal GA, dovendo piuttosto esso essere impugnato nei termini laddove le relative clausole si palesino immediatamente lesive. Il bando (di gara o di concorso) non può essere assimilato ad un regolamento, questo sì disapplicabile sine die (ove in frizione con la normativa primaria) perché atto normativo.
2015
Il 16 aprile esce la sentenza della Corte di Giustizia UE, sezione V, C-278/14, che assume come – dopo la pubblicazione del bando di gara (nel caso di specie, appalto di fornitura) – la PA aggiudicatrice non può procedere a una modifica della specifica tecnica relativa ad un elemento dell’appalto, perché ciò implica frizione con i principi di parità di trattamento e di non discriminazione e dell’obbligo di trasparenza. Questo principio viene affermato valere financo quando l’elemento di che trattasi non è più disponibile in commercio.
*Il 26 maggio esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.2637 che conferma le acquisizioni cui è giunta l’Adunanza Plenaria n.1 del 2003 in termini di impugnabilità delle clausole del bando di gara, normalmente differita all’atto applicativo e talvolta immediata (nel termine decadenziale) quando si tratti di requisiti di partecipazione escludenti, incomprensibili o manifestamente sproporzionati.
Il 16 giugno esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.2988 che – muovendo dalla natura di atto amministrativo generale, e non già di atto normativo, del bando di gara – ritiene lo stesso non disapplicabile dal GA, dovendo piuttosto esso essere impugnato nei termini laddove le relative clausole si palesino immediatamente lesive. Il bando (di gara o di concorso) non può essere assimilato ad un regolamento, questi sì disapplicabile sine die (ove in frizione con la normativa primaria) perché atto normativo.
2016
Il 18 aprile viene varato il decreto legislativo n.50, recante il nuovo codice dei contratti pubblici e, segnatamente, attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture. Il relativo art.30, comma 2, conferma la necessità che il procedimento inteso alla selezione dell’interlocutore privato della PA sia preceduto da una determina a contrarre la quale deve indicare gli elementi essenziali del contratto ed i criteri di selezione degli operatori economici e delle offerte; il tutto in conformità all’ordinamento della singola PA aggiudicatrice e soprattutto ai relativi atti di programmazione. L’art.72 (settori ordinari) e l’art.129 (settori speciali) dettano invece i requisiti che deve possedere il bando di gara, quale atto di attuazione della delibera a contrarre e, dunque, quale strumento giusta il quale la PA rende nota a tutti la propria intenzione di contrarre già formalizzata, a livello interno, nella determina a contrarre. Importante l’affermazione di cui all’art.71 che impone, per tutte le procedure di scelta del contraente (salvo talune eccezioni) la indizione di una gara giusta apposito bando: viene prevista l’adozione da parte dell’Anac di bandi-tipo, in conformità ai quali le singole PPAA debbono elaborare e pubblicare i propri bandi, dovendo motivare espressamente nel caso in cui si decidano delle deroghe rispetto alle clausole previste nei bandi-tipo. Importante anche il comma 6 dell’art.32, laddove conferma come l’aggiudicazione definitiva della gara non equivalga ad accettazione dell’offerta del concorrente privato, sortendo il solo effetto negoziale di rendere irrevocabile la proposta fino al termine in essa indicato per la stipula del contratto.
Il 22 novembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.245 che – nel dichiarare la pertinente questione inammissibile per difetto di rilevanza (essendo stato nel caso di specie il ricorso spiccato da chi non ha partecipato alla gara, il giudizio a quo palesandosi dunque destinato a chiudersi con una pronuncia di inammissibilità del ricorso per difetto di interesse), rappresenta come appunto le ricorrenti nel giudizio a quo (imprese già affidatarie di servizi di trasporto pubblico su scala provinciale), non abbiano preso parte alla gara informale bandita dall’amministrazione regionale ai sensi dell’art. 30 del d.lgs. n. 163 del 2006, limitandosi ad impugnare l’avviso per l’individuazione degli operatori economici recante l’invito a presentare le manifestazioni d’interesse, nella parte in cui dispone l’affidamento su base regionale e in un lotto unico. La giurisprudenza amministrativa – rammenta la Corte – è consolidata nel ritenere che l’impresa che non partecipi alla gara non può contestare la relativa procedura e l’aggiudicazione in favore di imprese terze, perché la relativa posizione giuridica sostanziale non è sufficientemente differenziata ma riconducibile piuttosto ad un mero interesse di fatto (si richiamano Consiglio di Stato, sezione III, 10 giugno 2016, n. 2507; Consiglio di Stato, sezione III, 2 febbraio 2015, n. 491; Consiglio di Stato, sezione VI, 10 dicembre 2014, n. 6048; Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 25 febbraio 2014, n. 9; Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 7 aprile 2011, n. 4). È anche acquisizione consolidata – prosegue la Corte – che «i bandi di gara e di concorso e le lettere di invito vanno normalmente impugnati unitamente agli atti che di essi fanno applicazione, dal momento che sono questi ultimi ad identificare in concreto il soggetto leso dal provvedimento, ed a rendere attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva dell’interessato» (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 29 gennaio 2003, n. 1). A queste regole, che discendono dalla piana applicazione alle procedure di gara dei principi generali in materia di legittimazione e interesse a ricorrere, fanno eccezione le ipotesi in cui si contesti che la gara sia mancata o, specularmente, che sia stata indetta o, ancora, si impugnino clausole del bando immediatamente escludenti, o, infine, clausole che impongano oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati o che rendano impossibile la stessa formulazione dell’offerta (vengono richiamate Consiglio di Stato, sezione III, 10 giugno 2016, n. 2507; Consiglio di Stato, sezione V, 30 dicembre 2015, n. 5862; Consiglio di Stato, sezione V, 12 novembre 2015, n. 5181; Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 25 febbraio 2014, n. 9; Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 7 aprile 2011, n. 4), in tali eccezionali casi la previa domanda di partecipazione alla procedura non rilevando ai fini dell’impugnazione, o perché è la stessa gara a mancare, o perché la relativa contestazione in radice ovvero l’impossibilità di parteciparvi fanno emergere ex se una situazione giuridica differenziata in capo, rispettivamente, all’impresa titolare di un rapporto giuridico incompatibile con l’indizione della nuova procedura e all’impresa di settore cui è impedita la partecipazione) e una sua lesione attuale e concreta (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 7 aprile 2011, n. 4). Che il caso all’esame del giudice a quo non rientri in queste ipotesi eccezionali emerge dalla stessa motivazione dell’ordinanza di rimessione, laddove si afferma che le clausole impugnate inciderebbero sulle chanches di aggiudicazione delle ricorrenti che «si ridurrebbero fin quasi ad azzerarsi», mentre, in presenza di una gara dimensionata su base provinciale e suddivisa in lotti, esse «avrebbero moltissime probabilità di aggiudicarsi il servizio, non foss’altro per effetto del vantaggio di essere state le precedenti gestrici dello stesso». Da tale motivazione – conclude la Corte – non si ricava alcun impedimento certo e attuale alla partecipazione alla gara, bensì la prospettazione di una lesione solo eventuale, denunziabile da parte di chi abbia partecipato alla procedura ed esclusivamente all’esito della stessa, in caso di mancata aggiudicazione.
2017
Il 4 gennaio esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.9, alla cui stregua deve intendersi ribadito il principio generale, pacifico in giurisprudenza, secondo cui i bandi di gara possono prevedere requisiti di capacità particolarmente rigorosi, purché non siano discriminanti e abnormi rispetto alle regole proprie del settore, e questo perché in linea di massima rientra nella discrezionalità dell’Amministrazione aggiudicatrice di fissare requisiti di partecipazione ad una singola gara anche molto rigorosi e superiori a quelli previsti dalla legge. Il tutto, in termini di adeguatezza, corrisponde per il Consiglio di Stato ad un corretto uso del principio di proporzionalità nell’azione amministrativa, le credenziali e le qualificazioni pregresse dovendo infatti – ai fini dell’efficiente risultato del contratto e dunque dell’interesse alla buona amministrazione mediante tale esternalizzazione – essere attentamente congrue rispetto all’oggetto del contratto, onde tanto più questo è particolare, tanto più il livello dei requisiti da richiedere in concreto deve essere particolare. Per il Collegio errerebbe la PA che, non facendosi carico di un tale criterio di corrispondenza, aprisse incautamente la via dell’aggiudicazione a chi non dimostri inerenti particolari esperienze e capacità. Naturalmente, aggiunge il Collegio, sempre in ragione del criterio dell’adeguatezza, stavolta congiunto a quello della necessarietà, tali particolari requisiti vanno parametrati all’oggetto complessivo del contratto di appalto ed essere riferiti alle relative specifiche peculiarità, al fine di valutarne la corrispondenza effettiva e concreta alla gara medesima, specie con riferimento a quei requisiti che esprimono la capacità tecnica dei concorrenti.
Il 29 marzo esce la ordinanza della II sezione del Tar Liguria n. 263 che rimette alla Corte di Giustizia UE la questione se gli articoli 1, paragrafi 1-2-3, e 2, paragrafo 1, lettera b) della Direttiva 89/665/CEE avente ad oggetto il coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori ostino ad una normativa nazionale che riconosca la possibilità di impugnare gli atti di una procedura di gara ai soli operatori economici che abbiano presentato domanda di partecipazione alla gara stessa, anche qualora la domanda giudiziale sia volta a sindacare in radice la procedura, derivando dalla disciplina della gara un’altissima probabilità di non conseguire l’aggiudicazione: nella sostanza, si chiede alla Corte europea di dichiarare legittimato ed interessato ad impugnare la procedura di gara anche chi non abbia presentato domanda di partecipazione assumendo quest’ultima sostanzialmente inutile vista la sostanziale impossibilità di aggiudicarsi la gara stessa, atteso come essa è stata in concreto disciplinata dalla pertinente lex specialis.
Il 24 aprile esce il decreto legge n.50 che incide, inserendovi tra gli altri un comma 1.bis, sul disposto di cui all’art. 211 del d.Lgs. 18 aprile 2016 n. 50 (in tema, controverso, di raccomandazioni vincolanti dell’Autorità Nazionale Anticorruzione previsto dall’art. 211, comma 2 del d. Lgs. 50/2016, poi abrogato), prevedendo la legittimazione dell’ANAC all’impugnazione dei bandi, degli altri atti generali e dei provvedimenti relativi a contratti di rilevante impatto, emessi da qualsiasi stazione appaltante, qualora ritenga che essi violino le norme in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture.
Il 2 maggio esce la importante sentenza della III sezione del Consiglio di Stato n. 2014 che risolve in senso positivo la questione dell’ammissibilità dell’impugnazione immediata del bando da parte di una impresa che si dolga dell’adozione di un criterio di aggiudicazione erroneo e quindi illegittimo. Il Collegio rappresenta in primis come il Tar l’abbia risolta nel caso di specie con l’ausilio delle chiavi esegetiche fornite dall’Adunanza Plenaria n. 1/2003, affermando che “il criterio del prezzo più basso non preclude la partecipazione alla gara dell’impresa ricorrente, né le impedisce di formulare un’offerta concorrenziale, incidendo esclusivamente sullo spettro operativo del meccanismo concorrenziale e quindi, di riflesso, sui contenuti dell’offerta”, affermazione pienamente conforme al principio elaborato appunto dalla Plenaria nel 2003 ed ai successivi sviluppi giurisprudenziali registratisi durante la vigenza del vecchio codice, onde – riprendendo le parole efficacemente utilizzate dalla Corte costituzionale nella sintetica ricostruzione delle posizioni giurisprudenziali sul punto in seno alla sentenza 245.16– può dirsi acquisizione consolidata che i bandi di gara e di concorso e le lettere di invito vanno normalmente impugnati unitamente agli atti che di essi fanno applicazione, dal momento che sono questi ultimi ad identificare in concreto il soggetto leso dal provvedimento, ed a rendere attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva dell’interessato» (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 29 gennaio 2003, n. 1). A queste regole, che discendono dalla piana applicazione alle procedure di gara dei principi generali in materia di legittimazione e interesse a ricorrere, fanno eccezione le ipotesi in cui si contesti che la gara sia mancata o, specularmente, che sia stata indetta o, ancora, si impugnino clausole del bando immediatamente escludenti, o, infine, clausole che impongano oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati o che rendano impossibile la stessa formulazione dell’offerta (Consiglio di Stato, sezione III, 10 giugno 2016, n. 2507; Consiglio di Stato, sezione V, 30 dicembre 2015, n. 5862; Consiglio di Stato, sezione V, 12 novembre 2015, n. 5181; Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 25 febbraio 2014, n. 9; Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 7 aprile 2011, n. 4). Quanto all’esatto perimetro dell’eccezione da ultimo menzionata (clausole non escludenti ma che impongano oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati o che rendano impossibile la stessa formulazione dell’offerta), il Collegio rammenta come la Plenaria n. 1/2003 sia perentoria con specifico riguardo proprio ai criteri di aggiudicazione, affermando che: “Non può essere condiviso quell’indirizzo interpretativo che è volto ad estendere l’onere di impugnazione alle prescrizioni del bando che condizionano, anche indirettamente, la formulazione dell’offerta economica tra le quali anche quelle riguardanti il metodo di gara e la valutazione dell’anomalia. Anche con riferimento a tali clausole, infatti, l’effetto lesivo per la situazione del partecipante al procedimento concorsuale si verifica con l’esito negativo della procedura concorsuale o con la dichiarazione di anomalia dell’offerta. L’effetto lesivo è, infatti, conseguenza delle operazioni di gara, e delle valutazioni con essa effettuate, dal momento che è solo il concreto procedimento negativo a rendere certa la lesione ed a trasformare l’astratta potenzialità lesiva delle clausole del bando in una ragione di illegittimità concreta ed effettivamente rilevante per l’interessato: devono pertanto ritenersi impugnabili unitamente all’atto applicativo, le clausole riguardanti i criteri di aggiudicazione, anche se gli stessi sono idonei ad influire sulla determinazione dell’impresa relative alla predisposizione della proposta economica o tecnica, ed in genere sulla formulazione dell’offerta, i criteri di valutazione delle prove concorsuali, i criteri di determinazione delle soglie di anomalie dell’offerta, nonché le clausole che precisano l’esclusione automatica dell’offerta anomala”. La conclusione cui giunge l’Adunanza Plenaria è – per il Collegio – evidentemente influenzata dalla qualificazione dell’interesse sostanziale di base della cui tutela trattasi, quale interesse all’aggiudicazione, dacché secondo l’Adunanza medesima la “condizione di concorrenti” dei partecipanti alla gara “può essere apprezzata e valutata esclusivamente con riferimento all’unico interesse sostanziale di cui essi sono titolari, che è quello all’aggiudicazione e, comunque, all’esito positivo della procedura concorsuale, sicché l’eventuale incidenza di clausole che conformino illegittimamente la condizione di concorrenti dei singoli partecipanti, può acquistare rilievo esclusivamente se si traduce in un diniego di aggiudicazione o, comunque, in un arresto procedimentale con riferimento al medesimo obiettivo; dall’altra non appare configurabile un interesse autonomo alla legittimità delle regole e delle operazioni di gara, distinto dalla pretesa all’aggiudicazione o alla stipula del contratto”, curando l’Adunanza di precisare altresì che “l’interesse alla legittimità della procedura costituisce un aspetto ed un riflesso dell’interesse all’aggiudicazione, ed è anzi quest’ultimo che può fondare e sostenere il primo, sicché l’eventuale illegittimità della procedura acquista significato e rilievo soltanto se comporta il diniego di aggiudicazione, in tal modo ledendo effettivamente l’interesse protetto, di cui è titolare il soggetto che ha preso parte alla gara”. Trattasi di pronuncia che, per il Collegio, costituisce una pietra miliare nell’applicazione, alle procedure concorsuali, della teoria della dimensione sostanziale dell’interesse legittimo e della relativa, conseguente tutela, ma in quanto diritto vivente essa necessita di interpretazione evolutiva idonea a conservarne la coerenza rispetto alle profonde trasformazioni che hanno investito il diritto degli appalti mutandone impostazione e prospettive. La prima innovazione di rilievo è per il Collegio l’espressa comminazione di nullità delle clausole espulsive autonomamente previste dalla stazione appaltante. Il riferimento è al vecchio comma 1 bis dell’art. 46 del codice dei contratti pubblici ed all’art. 83 comma 8 del nuovo codice che ne reitera la previsione, il quale, nel delineare una fattispecie di nullità, prescrive che “I bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione rispetto a quelle previste dal presente codice e da altre disposizioni di legge vigenti. Dette prescrizioni sono comunque nulle”: l’aver dunque inquadrato il vizio nelle cause di nullità, ex art. 21 septies legge n. 241/1990, costituisce un indizio della vocazione generale ed autonoma dell’interesse partecipationis il legislatore avendo ritenuto nel caso di specie di abdicare all’ordinario schema dell’annullabilità – in cui l’effetto di ripristino della legittimità è realizzato attraverso la cooperazione e sulla base della dimensione esclusivamente individuale dell’interesse privato leso – a favore dello schema della nullità, in cui invece l’interesse trascende la dimensione meramente individuale sino a giustificare il rilievo d’ufficio da parte del giudice e l’opposizione senza limiti di tempo della parte del resistente. L’altra significativa ed innovativa previsione a fini di interpretazione evolutiva – prosegue il Collegio – è contemplata dall’art. 211 comma 2 del nuovo codice, quale fattispecie di autotutela “doverosa” (così il parere della Commissione speciale del Consiglio di Stato, n.2777 del 28 dicembre 2016) attivabile dalla stazione appaltante, su impulso dell’Autorità di vigilanza, al fine del ripristino della legalità procedurale, che prescinde dall’interesse del singolo partecipante all’aggiudicazione e mira invece al corretto svolgimento delle procedure di appalto nell’interesse di tutti i partecipanti e finanche di quello collettivo dei cittadini, interesse quest’ultimo che và via via emancipandosi dallo schema del mero interesse di fatto (viene richiamato sul punto il considerando 122 della direttiva 24/2014). Vieppiù rilevante rispetto al thema decidendum è la previsione dell’onere di impugnazione dell’altrui ammissione alla procedura di gara (art. 120 c.p.a., così come modificato dall’art. 204, comma 1 lett. b del nuovo codice appalti): a fronte di un sistema che in precedenza precludeva l’impugnazione delle ammissioni, sull’implicito e pacifico presupposto che il concorrente avesse un interesse concreto ed attuale a contestare l’ammissione altrui solo all’esito della procedura selettiva, si è previsto l’onere di impugnazione immediata, con ciò dando evidentemente sostanza e tutela ad un interesse al corretto svolgimento della gara scisso ed autonomo, sebbene strumentale, rispetto a quello all’aggiudicazione. Un’altra delle principali novità portate dal Dlgs. n. 50/16, ed in particolare dall’art. 95 – assunta dal Collegio dirimente per la decisione dello specifico caso oggetto dell’odierno giudizio – è la creazione di una vera e propria gerarchia fra i due tipici metodi di aggiudicazione di un appalto, ovvero l’offerta economicamente più vantaggiosa e il massimo ribasso: se infatti nell’art. 83 del vecchio Dlgs. n. 163/06 tali criteri erano posti su una posizione di parità, e spettava unicamente all’Amministrazione nella relativa discrezionalità optare per l’uno per l’altro, l’art. 95 del nuovo codice, dopo avere affermato che “I criteri di aggiudicazione non conferiscono alla stazione appaltante un potere di scelta illimitata dell’offerta” e che “essi garantiscono la possibilita’ di una concorrenza effettiva e sono accompagnati da specifiche che consentono l’efficace verifica delle informazioni fornite dagli offerenti al fine di valutare il grado di soddisfacimento dei criteri di aggiudicazione delle offerte”, ha imposto l’offerta economicamente più vantaggiosa come criterio “principale”, e il massimo ribasso come criterio del tutto “residuale” utilizzabile solo in alcuni e tassativi casi, e comunque previa specifica ed adeguata motivazione. Trattasi per il Consiglio di Stato di elementi che profilano una nozione di “bene della vita” meritevole di protezione più ampia di quella tradizionalmente riferita all’aggiudicazione, che sebbene non coincidente con il generale interesse alla mera legittimità dell’azione amministrativa, è nondimeno comprensiva del “diritto” dell’operatore economico a competere secondo i criteri predefiniti dal legislatore, nonché a formulare un’offerta che possa validamente rappresentare la qualità delle soluzioni elaborate, e coerentemente aspirare ad essere giudicata in relazione anche a tali aspetti, oltre che sulla limitativa e limitante (se isolatamente considerata) prospettiva dello “sconto”. Si è dunque al cospetto di un “blocco normativo”, quale quello rapidamente passato in rassegna dal Collegio, caratterizzato da norme sia sostanziali che processuali, capace di illuminare sul fatto onde vi sono elementi fisiologicamente disciplinati dal bando o dagli altri atti di avvio della procedura che assumono rilievo sia nell’ottica del corretto esercizio del potere di regolazione della gara, sia in quella dell’interesse del singolo operatore economico ad illustrare ed a far apprezzare il prodotto e la qualità della propria organizzazione e dei propri servizi, così assicurando, nella logica propria dell’interesse legittimo (figlio della sintesi di potere e necessità) la protezione di un bene della vita che è quello della competizione secondo il miglior rapporto qualità prezzo; un bene, cioè, diverso, e dotato di autonoma rilevanza rispetto all’interesse finale all’aggiudicazione. Ciò per il Collegio non può che condurre, sul versante delle condizioni e dei tempi di esperibilità dell’azione di annullamento, alla conclusione dell’onere dell’immediata impugnazione dell’illegittima adozione del criterio del massimo ribasso, palesandosene sussistenti tutti i presupposti ovvero: a) la posizione giuridica legittimante avente a base, quale interesse sostanziale, la competizione secondo meritocratiche opzioni di qualità oltre che di prezzo; b) la lesione attuale e concreta, generata dalla previsione del massimo ribasso in difetto dei presupposti di legge; c) l’interesse a ricorrere in relazione all’utilità concretamente ritraibile da una pronuncia demolitoria che costringa la stazione appaltante all’adozione del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ritenuto dalle norme del nuovo codice quale criterio “ordinario” e generale. Una diversa soluzione – più aderente alla lettera che alla ratio dell’Adunanza Plenaria del 2003 ed all’esigenza della relativa interpretazione in chiave evolutiva – finirebbe per il Collegio con lo svilire e depontenziare le due architravi del nuovo impianto normativo: a) da un lato il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa – assunto da legislatore ad elemento di rilancio di una discrezionalità “sana e vigilata” da porre a disposizione di amministrazioni qualificate sì da renderle capaci di selezionare le offerte con razionalità ed attenzione ai profili qualitativi – sarebbe destinato a rimanere privo di garanzie di effettività, posto che la relativa correzione si avrebbe solo all’esito della procedura concorsuale e della relativa appendice giurisdizionale, in presenza di un operatore (quello offerente il massimo ribasso) in capo al quale si sono tra l’altro già ingenerate aspettative; b) dall’altro sarebbe irragionevolmente derogata la logica bifasica (ammissioni/esclusioni prima fase; aggiudicazione seconda fase) che ha caratterizzato il nuovo approccio processuale in tema di tutela, poiché è evidente che l’illegittimità del bando, sub specie del criterio di aggiudicazione prescelto, costituisce un prius logico giuridico rispetto alle ammissioni, condizionandole e rendendole illegittime in via derivata, con il risultato che l’intento di affrancare il contenzioso sull’aggiudicazione da tutte le questioni sollevabili in via incidentale dal controinteressato (e fra queste anche quelle relative all’illegittimità del bando, strumentali all’utilitas della riedizione della gara) che ha ispirato la formulazione delle nuove norme processuali, risulterebbe tradito proprio in relazione ad aspetti basilari della prima fase. A ciò si aggiunga, prosegue il Collegio, anche a riprova dell’irrazionalità della tesi dell’impugnazione postergata del criterio di aggiudicazione, che il ricorrente, costretto ad attendere, quale dies a quo per l’impugnativa, il momento dell’aggiudicazione ad altri, non è vincolato dalla correlazione tra criterio del massimo ribasso e la mancata aggiudicazione, non dovendo egli dimostrare un rapporto di causalità tra effetto lesivo del bene “aggiudicazione” e lex della gara: la lesione, nell’orientamento giurisprudenziale tradizionale varato dall’Adunanza Plenaria nel 2003 , è infatti solo l’elemento che integrando una delle condizioni dell’azione, abilita alla tutela dell’interesse legittimo attraverso l’esperimento dell’azione demolitoria. Una volta realizzatasi la condizione dell’azione, il ricorrente è ammesso a far valere la violazione dell’obbligo del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa insieme a tutti gli altri vizi di legittimità del bando che non attengano a clausole escludenti, a prescindere se la mancata aggiudicazione sia riferita, o meno, proprio all’operare di quella o di quelle clausola (si pensi, oltre che al criterio di aggiudicazione, alla difettosa composizione del seggio di gara o alle previsioni sulle modalità di apertura delle buste o, in generale, alle norme sul modus procedendi). In questi casi non è cioè necessaria la dimostrazione che, in assenza del vizio, l’aggiudicazione sarebbe stata senz’altro riconosciuta al ricorrente, costituendo, la violazione delle norme di legge, un sintomo della cattiva organizzazione e gestione della gara e conseguentemente dell’erroneità dei pertinenti esiti. Se così è, conclude il Collegio, allora non v’è ragione alcuna per attendere, al fine di invocare tutela, che la procedura si concluda con l’aggiudicazione a terzi, tale soluzione non rispondendo a finalità deflattive ed anzi inficiando quelle legate al pur contemplato onere di impugnazione delle ammissioni; non risponde del resto a finalità di coerenza giuridica o dogmatica, poiché il postergare l’impugnazione della lex della gara finanche quando la violazione è già conclamata può avere un senso solo in relazione a clausole che non violino immediatamente l’interesse del singolo imprenditore, è così certamente non è per quelle che gli impediscono di concorrere sulla qualità; è inoltre contraria al dovere di leale collaborazione ed al rispetto del principio di legittimo affidamento, immanenti anche nell’ordinamento amministrativo. Il ricorso introduttivo viene dunque assunto dal Collegio ammissibile.
L’8 giugno esce la sentenza della III sezione del Tar Toscana n.783 alla cui stregua l’adesione da parte di una PA, in forza di specifica clausola, ad un contratto stipulato da altra amministrazione aggiudicatrice deve avere come presupposto l’identità dell’oggetto o la relativa analogia, oltre che la previsione dell’eventuale estensione ad amministrazioni diverse da quella che ha indetto la gara, siccome individuate o individuabili dalla stessa lex specialis, palesandosi dunque illegittima l’estensione del contratto ad altra Amministrazione se il bando non la prevede oppure, come nella concreta vicenda scandagliata, si sia in presenza di prestazioni aggiuntive non enunciate dalla lex specialis.
Il 12 giugno esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.2852 onde nel sistema degli appalti pubblici nessuna norma di carattere generale impone, per le gare da aggiudicare con il criterio dell’offerta più vantaggiosa, l’obbligo della stazione appaltante di attribuire alla migliore offerta tecnica in gara il punteggio massimo previsto dalla lex specialis mediante il criterio della c.d. doppia riparametrazione, atteso come – nelle gare da aggiudicarsi con detto criterio – la riparametrazione abbia la funzione di ristabilire l’equilibrio fra i diversi elementi qualitativi e quantitativi previsti per la valutazione dell’offerta solo se e secondo quanto voluto e disposto dalla stazione appaltante con il bando, con la conseguenza onde l’operazione di riparametrazione deve essere espressamente prevista dalla legge di gara per poter essere applicata e non può tradursi in una modalità di apprezzamento delle offerte facoltativamente introdotta dalla commissione giudicatrice.
Il 16 giugno esce la sentenza della IV sezione del Tar Sicilia, Catania, n.1454, alla cui stregua nel caso in cui in una gara di appalto due o più offerte identiche siano risultate aggiudicatarie, occorre far luogo all’esperimento di miglioria ex art. 77 del R.D. 23 maggio 1924 n. 827, applicabile mediante il meccanismo di eterointegrazione previsto dall’art. 1339 c.c., in difetto di espressa previsione della lex specialis. Per il Tar è dunque legittimo l’annullamento in autotutela dell’aggiudicazione provvisoria di una gara di appalto, originariamente disposta a seguito di sorteggio effettuato tra offerte con parità di punteggio, che sia motivato con riferimento al fatto che un’altra ditta, presente alla originaria seduta di gara, ha dichiarato di voler proporre una offerta migliorativa ed alla contestuale necessità, per tale ragione, di disporre l’aggiudicazione ai sensi dell’art. 77 del R.D. 23 maggio 1924 n. 827, nella parte in cui stabilisce che non si fa luogo al sorteggio allorquando i concorrenti presenti alla seduta dichiarino di voler proporre un’offerta migliorativa, a nulla rilevando la mancata previsione nella lettera di invito dell’esperimento della procedura di “miglioramento” delle offerte prevista dal summenzionato art. 77 del R.D. 827/1924, che va colmata attraverso il meccanismo di eterointegrazione della lex specialis previsto dall’art. 1339 c.c.
Il 19 giugno esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n. 2973 alla cui stregua non può assumersi automaticamente illegittima l’aggiudicazione di una gara di appalto, esperita per l’affidamento triennale della gestione di un bar ubicato presso un Istituto scolastico, per il solo fatto che la società aggiudicataria, con riferimento ad un solo prodotto, abbia offerto un prezzo inferiore a quello minimo previsto dalla lex specialis, in tal caso il discostamento del prezzo riguardando un singolo prodotto, senza estendersi all’offerta economica complessivamente considerata cui fa invece perspicuo riferimento la lettera della legge. Nel caso di specie, per il Collegio va infatti valorizzata in via ermeneutica l’applicazione del principio di proporzionalità, sì da assumere che il discostamento (oltretutto in minus) del singolo prezzo offerto rispetto a quello minimo prescritto dal bando non può comportare l’automatica esclusione dell’offerente.
*Il 19 giugno esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n. 2977 alla cui stregua l’onere di immediata impugnazione delle clausole di un bando di gara sussiste in tutti i casi in cui le stesse impediscono per i concorrenti la partecipazione alla gara e siano lesive dei principi essenziali della evidenza pubblica, tra cui l’alterazione della concorrenza e della par condicio, la fissazione di indebiti requisiti d’ammissione (la cui carenza impedisca ab origine la partecipazione) o la determinazione di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati o tali da impedire la stessa formulazione dell’offerta.
Il 21 giugno viene varata la legge n.96 converte in legge con modificazioni il decreto legge n.50.
Il 26 giugno esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n. 3110 onde sussiste l’onere d’immediata impugnazione del bando di una gara pubblica per contestare clausole impeditive dell’ammissione dell’interessato alla gara, o anche solo impositive, ai fini della partecipazione, di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale, ovvero che rendano ingiustificatamente più difficoltosa per i concorrenti la partecipazione alla gara, in tali casi già la pubblicazione del bando generando una lesione della situazione giuridica per chi intenderebbe partecipare alla competizione e non può farlo a causa della barriera all’ingresso a quello specifico mercato provocata da clausole del bando per lui insuperabili perché immediatamente escludenti o che assume irragionevoli o sproporzionate per eccesso, con connesso arresto procedimentale rendendoglisi inconfigurabili successivi atti applicativi utili. In tal caso, precisa peraltro il Collegio, non è richiesta – ai fini dell’ammissibilità del ricorso – la presentazione della domanda di partecipazione alla gara
Il 13 luglio esce la sentenza della IV sezione del Tar Sicilia, Catania, n.1793 alla cui stregua, anche se nelle gare di appalti pubblici il bando, il disciplinare di gara ed il capitolato speciale d’appalto presentano ciascuno una propria autonomia ed una propria peculiare funzione nell’economia della procedura – il primo fissando le regole della gara, il secondo disciplinando in particolare il procedimento di gara ed il terzo integrando eventualmente le disposizioni del bando – tutti insieme essi costituiscono la lex specialis della gara, in tal modo sottolineandosi il carattere vincolante che quelle disposizioni assumono non solo nei confronti dei concorrenti, ma anche dell’Amministrazione appaltante, in attuazione dei principi fissati dall’art. 97 Cost. Il Collegio precisa poi come laddove sussistano contrasti interni tra le singole disposizioni dei vari atti che compongono la lex specialis (il bando, il disciplinare di gara ed il capitolato speciale d’appalto), sia nondimeno rintracciabile una gerarchia differenziata tra gli atti stessi, con prevalenza del contenuto del bando di gara, potendo in particolare le disposizioni del capitolato speciale soltanto integrare, ma non anche modificare, quelle del bando medesim; più nel dettaglio, in caso di conflitto fra le disposizioni dei vari atti della gara, e, in particolare, ove una sanzione immediatamente espulsiva sia contemplata soltanto dal disciplinare di gara e non anche dal bando, non può per il Collegio applicarsi detta sanzione atteso che le regole di partecipazione fissate nella sede propria del “bando di gara” non sono giuridicamente suscettibili di integrazione ad opera del “disciplinare di gara”, essendo quest’ultimo deputato ad altra funzione (la disciplina del procedimento di gara).
Il 21 luglio esce la sentenza della III sezione del Tar Veneto n. 731 alla cui stregua nelle gare d’appalto sono da intendersi clausole della lex specialis immediatamente lesive e, quindi, autonomamente impugnabili senza attendere la relativa concreta applicazione da parte della stazione appaltante quelle che determinano una sicura preclusione all’ammissione alla gara di un potenziale concorrente e, precisamente, quelle che certamente, senza alcun margine di opinabilità, conducono all’esclusione del concorrente o dell’aspirante tale che versi in una situazione incompatibile con quella prevista, a pena di esclusione, dalla lex specialis; un onere di impugnazione immediata di clausole contenute negli atti di indizione della gara, inoltre, può sussistere qualora le relative clausole impediscano, indistintamente a tutti i concorrenti, una corretta e consapevole elaborazione dell’offerta, mentre va escluso nei riguardi delle clausole dotate solo di astratta e potenziale lesività, la cui idoneità a produrre un’effettiva lesione potrebbe essere valutata unicamente all’esito della procedura selettiva, ove negativo per l’interessato, come quelle relative all’individuazione del criterio di aggiudicazione, alle modalità di valutazione delle offerte e attribuzione dei punteggi e, in generale, alle modalità di svolgimento della gara, nonché alla composizione della commissione giudicatrice, tutte ipotesi nelle quali il termine per impugnare anche gli atti di gara che eventualmente concretizzino la lesione della posizione giuridica dedotta in giudizio non può che decorrere dalla conoscenza del provvedimento di aggiudicazione in favore di terzi. Per il Collegio è dunque inammissibile un ricorso avverso il bando di gara con il quale si è denunciata la manifesta illogicità del criterio di aggiudicazione prescelto, atteso che in tal caso la lesività nella sfera giuridica del ricorrente del predetto criterio e, correlativamente, l’interesse alla relativa eliminazione, non può essere percepito con la pubblicazione del bando, ma è destinata ad attualizzarsi soltanto con l’aggiudicazione della gara a favore di un terzo concorrente, e ciò in quanto il ricorrente ben potrebbe ancora divenire aggiudicatario della concessione del servizio bandito; di fronte ad una clausola ritenuta illegittima, ma non impeditiva della partecipazione (come quella di specie), il concorrente non è dunque ancora titolare di un interesse attuale all’impugnazione, non sapendo ancora se l’astratta o potenziale illegittimità della clausola si risolverà in un esito negativo della relativa partecipazione alla procedura di gara e, quindi, in una effettiva lesione della situazione soggettiva che solo da tale esito può derivare.
Il 21 luglio esce la sentenza della VIII sezione del Tar Campania n. 3899 alla cui stregua è da assumersi illegittima, in quanto equivoca, rendendo così impossibile la formulazione di una offerta consapevole, la clausola di un bando indetto da un Comune per l’affidamento della gestione del servizio di riscossione dei tributi locali e delle entrate patrimoniali, secondo cui al Comune deve essere garantito un importo minimo annuo pari ad una determinata percentuale (nella specie si trattava del 65%) delle somme iscritte nel bilancio comunale e – alla data della stipula del contratto – le somme iscritte nel bilancio degli ultimi tre anni.
Il 01 agosto esce la sentenza della III sezione del Tar Puglia, Lecce, n.1351 alla cui stregua le modifiche alla lex specialis di una gara indetta dalla P.A. devono seguire la regola del contrarius actus, principio da applicarsi vieppiù qualora non si tratti di mere rettifiche formali della lex specialis medesima, quanto piuttosto di modifiche di natura sostanziale che incidono sui requisiti rilevanti ai fini della partecipazione alla procedura, tali da poter determinare un ampliamento della platea dei soggetti potenzialmente interessati all’affidamento dell’appalto. Il Collegio precisa poi come le modifiche sostanziali alle regole di una gara di appalto, laddove comportino una estensione dei possibili concorrenti, richiedono una riapertura dei termini per la presentazione delle offerte, non palesandosi sufficiente una mera proroga del termine originario al fine di scongiurare discriminazioni partecipative e distorsioni della concorrenza, in violazione del principio fondamentale di tutte le procedure concorsuali consistente nella tutela della par condicio.
Il 2 agosto esce la sentenza della I sezione del Tar Calabria n.1252 alla cui stregua è da assumersi illegittima la esclusione di una ditta da una gara di appalto che sia motivata con esclusivo riferimento all’omesso utilizzo del modello espressamente previsto e/o richiesto dal bando, al fine di compilare la relazione descrittiva che, a pena di esclusione, deve accompagnare l’offerta tecnica, a nulla rilevando che detto utilizzo sia previsto dalla lex specialis come obbligatorio; in tal caso infatti, precisa il Collegio, osta all’esclusione del concorrente il principio di tassatività delle cause di esclusione, già affermato nell’art. 46, comma 1 ter del d.lgs. n. 163 del 2006, oggi abrogato, e riproposto dall’art. 83, comma 8 ultimo periodo, del d.lgs. n. 50/2016, secondo cui “I bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione rispetto a quelle previste dal presente codice e da altre disposizioni di legge vigenti. Dette prescrizioni sono comunque nulle”.
Il 7 agosto esce la sentenza della Sezione II ter del Tar Lazio n.9249 onde, in presenza di una censura riguardante il criterio di valutazione dell’offerta (metodo di aggiudicazione) ritenuto incongruo e dunque fonte d’incertezza e di imprevedibili effetti distorsivi sul contenuto dell´offerta, sussiste in capo alla impresa interessata l’onere di immediata impugnazione in parte qua del bando di gara, stante l’emersione di una lesione immediata, diretta ed attuale e non solo potenziale per effetto del contenuto del bando; in tal caso è dunque da assumere inammissibile per il Collegio il ricorso proposto per questo motivo avverso i successivi atti della procedura (valutazione delle offerte in base al criterio di aggiudicazione fissato nel bando), atteso che tali atti si pongono come meramente applicativi di una lesione già prodotta.
Il 31 agosto esce la sentenza della V sezione del Tar Campania n. 4219 che giudica illegittima per violazione dell’art. 30 del d.lgs. n. 50 del 2016 e per eccesso di potere (in relazione al profilo della irragionevolezza), la clausola di un bando di gara per l’affidamento di un appalto di servizi (nella specie si trattava del servizio di implementazione del software Gestione Presenze di una ASL) nella parte in cui, ai fini della partecipazione, pur non richiedendo il possesso di alcun requisito in ordine alla capacità tecnico – organizzativa e alla capacità economico – finanziaria degli operatori economici, ha espressamente richiesto il possesso di molteplici e specifiche certificazioni di qualità, escludendo o limitando così in maniera illogica la possibilità degli operatori economici del settore di partecipare alla gara de qua.
Il 15 settembre vede la luce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n. 4350 che afferma in primis come il principio di tassatività delle cause di esclusione previste dalle clausole del bando di gara, di cui all’art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006 (come modificato dall’art. 4, comma 2, lettera d), del decreto-legge n. 70 del 2011), non consente che possano essere introdotte nei bandi di gara ‘clausole espulsive’ che non siano conformi alle regole previste dal codice, dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, salvi i casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, nonché di violazione dei principi di segretezza o di manomissione delle buste e comunque di cause elencate dalla norma. Tale principio di tassatività delle cause di esclusione è per il Collegio finalizzato a ridurre gli oneri formali gravanti sulle imprese partecipanti a procedure di affidamento, quando questi non siano strettamente necessari a raggiungere gli obiettivi perseguiti attraverso gli schemi dell’evidenza pubblica, conducendo a privare di rilievo giuridico, attraverso la sanzione della nullità testuale, tutte le ragioni di esclusione dalle gare che siano incentrate non già sulla qualità della dichiarazione, ma piuttosto sulle forme con cui questa viene esternata, in quanto non ritenute conformi a quelle previste dalla stazione appaltante nella lex specialis. Muovendo da questi principi il Collegio assume illegittima, per violazione del principio di tassatività delle cause di esclusione previsto dall’art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, la clausola del bando (nella specie per l’affidamento del servizio di un bar interno) che prevede l’esclusione delle offerte prive dell’indicazione del produttore, della marca, della qualità e della grammatura dei prodotti elencati nel listino prezzi. Quello stesso giorno esce l’ordinanza del Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa di Bolzano n. 117 alla cui stregua appare legittima la scelta della P.A. appaltante – assunta peraltro doverosa – di disapplicare in corso di gara la clausola del disciplinare di una procedura di evidenza pubblica indetta per l’affidamento di un appalto di forniture che prevede un’espressa comminatoria di esclusione riferita alle offerte che contengono importi unitari o parziali inferiori a quelli indicati nella lista dei prezzi unitari “ancorchè l’offerta complessiva sia inferiore alla base d’asta”, tale clausola escludente non trovando alcun riscontro né nel codice dei contratti né in altra disposizione normativa o regolamentare.
Il 20 settembre esce la sentenza della Sezione I bis del Tar Lazio n. 9863 alla cui stregua una impresa appartenente al settore coinvolto dalla bandita procedura che non abbia presentato domanda di partecipazione alla gara resta comunque titolare di un interesse legittimo differenziato e qualificato – e, quindi, sotto il profilo processuale, della legittimazione a ricorrere – qualora contesti e impugni quelle clausole della lex specialis, in forza delle quali, se avesse presentato l’istanza, sarebbe stata esclusa, in tal caso l’impresa dovendo assumersi avere interesse a gravare la relativa determinazione proprio al fine di impedire lo svolgimento della procedura selettiva con le regole contestate.
Il 26 settembre esce la sentenza della Sezione II bis del Tar Lazio n.9921 che afferma come la sopravvenienza di una nuova norma nel corso della gara non consente di eterointegrare il bando ex art. 1339 c.c., il principio dell’eterointegrazione negoziale sancito da tale disposizione del codice civile non potendo trovare applicazione, neppure in via analogica, con riferimento al bando di gara, stante la differente natura di questo rispetto all’accordo negoziale delle parti.
Il 2 ottobre esce la sentenza della II sezione del Tar Campania n.4587 che afferma come i rapporti tra le varie fonti che concorrono alla disciplina delle gare pubbliche sono regolati da una gerarchia differenziata onde, se è vero da un lato che bando, disciplinare di gara e capitolato speciale d’appalto – i quali nel loro complesso formano la lex specialis – hanno ciascuno un’autonomia ed una peculiare funzione nell’ambito della procedura di gara, è parimenti vero dall’altro che tra essi esiste un rapporto gerarchico postulante la prevalenza del bando di gara.
*Il 5 ottobre esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n. 4644 onde, nelle gare pubbliche di appalto, a fronte di più possibili interpretazioni di una clausola della lex specialis di gara (una avente quale effetto l’esclusione dalla gara e l’altra tale da impedirla consentendo la permanenza del concorrente), non può legittimamente aderirsi all’opzione che, ove condivisa, comporterebbe l’esclusione dalla gara, dovendo invece essere sempre favorita l’ammissione del più elevato numero di concorrenti, in nome del principio del favor partecipationis e dell’interesse pubblico al più ampio confronto concorrenziale.
Il 9 ottobre esce la sentenza della I sezione del Tar Sardegna n. 634 alla cui stregua – nel caso in cui il bando di gara non sia, al riguardo, sufficientemente perspicuo – non può essere ritenuta illegittima l’aggiudicazione di una gara di appalto di lavori per il solo fatto che la ditta risultata vittoriosa ha presentato l’offerta allegando una relazione archeologica priva di sottoscrizione da parte del tecnico, e sottoscritta dal solo legale rappresentante; per il Collegio, in presenza di una lex specialis non univocamente interpretabile, la mancata sottoscrizione di elaborati dell’offerta tecnica da parte dei progettisti non può provocare l’automatica esclusione del concorrente, se la documentazione è regolarmente sottoscritta dalla ditta partecipante ma non dai progettisti da esso indicati.
Il 12 ottobre esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.4729 alla cui stregua in materia di concorsi pubblici costituisce regola generale derivante dai principi di imparzialità e trasparenza dell’azione amministrativa che alla modifica sostanziale della procedura concorsuale debba far seguito la riapertura dei termini per la presentazione delle domande. Più nel dettaglio, per il Collegio la “modifica sostanziale” della procedura concorsuale che impone la riapertura dei termini per la presentazione delle domande corrisponde all’allargamento della potenziale platea di partecipanti laddove, in ragione della nuova modalità di tutela del pubblico interesse volto alla selezione dei candidati “migliori”, la riapertura dei termini costituisce atto logicamente consequenziale per consentire la partecipazione anche a coloro i quali, pur potenzialmente interessati, non hanno potuto presentare una domanda ammissibile in quanto sprovvisti dei requisiti richiesti dal bando e successivamente ampliati. Al contrario, laddove non sia intervenuta alcuna modifica sostanziale della procedura concorsuale che abbia inciso sui requisiti di partecipazione ed in presenza tra l’altro di un inalterato numero di posti a concorso, non sussiste alcun obbligo per l’Amministrazione procedente di riaprire i termini al fine di consentire la partecipazione a chi, non disponendo a suo tempo dei requisiti necessari alla partecipazione, li abbia medio tempore conseguiti.
Il 16 ottobre esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato alla cui stregua, alla luce del dominante principio di tassatività delle cause di esclusione (art. 46, comma 1 bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, che preclude interpretazioni analogiche in danno), la mancata previsione nel bando di gara della sanzione espulsiva preclude l’automatismo dell’esclusione; sicché non può essere disposta l’esclusione di una ditta che abbia omesso di rendere la dichiarazione di moralità professionale anche con riferimento agli amministratori di una azienda di cui essa ha acquisito un ramo, ove la clausola del bando non richieda in termini espressi e specifici la dichiarazione dei requisiti morali anche in relazione alla cessione del ramo d’azienda, ma solo in relazione alla distinta fattispecie della cessione d’azienda, l’impresa interessata non abbia inteso avvalersi del ramo d’azienda acquisito per l’esecuzione dello stipulando contratto ed i requisiti di moralità in capo agli amministratori della cedente, ancorché non dichiarati, siano tuttavia effettivamente esistenti.
*Il 19 ottobre esce la sentenza della VIII sezione del Tar Campania n.4884 alla cui stregua, in tema di concorsi e selezioni pubbliche, sussiste un onere di immediata impugnazione del bando nel caso di clausole escludenti, riguardanti requisiti di partecipazione che siano ex se ostativi all’ammissione dell’interessato, o, al più, impositive ai fini della partecipazione di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale.
Il 23 ottobre esce la sentenza della I sezione del Tar Toscana n.1267 alla cui stregua è illegittima, per violazione dei principi di ragionevolezza, proporzionalità, di libera concorrenza e di non discriminazione (come codificati dall’art. 30, del d. lgs. n. 50/2016), la clausola di un bando per l’affidamento dell’appalto del servizio di supporto alle attività fiscali, tributarie, previdenziali e amministrativo-contabili delle Aziende Sanitarie e degli Enti di una Regione, nella parte in cui impone ai soggetti che partecipano in forma societaria l’iscrizione all’albo dei dottori commercialisti di tutti i singoli soci; infatti, se può ritenersi ragionevole e non sproporzionata la richiesta, ai fini della qualificazione dei concorrenti, del possesso del requisito dell’iscrizione al suddetto albo per uno o più soci, quanto ai concorrenti che intendano partecipare alla gara in forma societaria, non altrettanto può dirsi in ordine alla richiesta che “tutti” i soci debbano possedere detto requisito stante come, pur essendo rilevante l’intento della P.A. appaltante “di garantire che chi presterà le attività oggetto di gara, sia iscritto all’Albo”, non è dato di comprendere la ratio di una richiesta che obblighi tutti i soci debbano possedere tale requisito.
Il 24 ottobre esce la sentenza della V sezione del Tar Campania n.4995 alla cui stregua, dopo l’entrata in vigore del D.lgs. n. 50 del 2016, a fronte dell’illegittima adozione del criterio del massimo ribasso da parte della stazione appaltante, il concorrente che si assuma danneggiato dalla scelta del criterio stesso deve impugnare immediatamente il bando di gara nella parte in cui lo prevede, senza attendere l’esito della gara. E’ poi assunta illegittima dal Collegio la scelta operata dalla P.A. appaltante di prevedere, quale criterio di aggiudicazione, quello del prezzo più basso, nel caso in cui si tratti di affidare un appalto di servizi ad alta densità di manodopera, fattispecie in cui, come si evince dal disposto dell’art. 50 del D.lgs. n. 50 del 2016, l’unico criterio di aggiudicazione ammesso è quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ex art. 95, comma 3, D.lgs. n. 50 del 2016.
Il 30 ottobre esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.4969 che premette come le ipotesi di esclusione automatica delle offerte anomale nelle gare sotto-soglia rappresentano un’eccezione al generale principio del confronto procedimentale e al contraddittorio relativo all’adozione di provvedimenti notevolmente incidenti sulla sfera giuridica delle imprese concorrenti, configurando fattispecie che, per il relativo carattere di eccezionalità, debbono risultare da previsioni non equivoche della lex specialis di gara. Più nel dettaglio, per il Collegio l’esclusione automatica delle offerte anomale nel caso di affidamenti sotto-soglia (e laddove il criterio di aggiudicazione sia quello del prezzo più basso), pur non essendo vietato dall’ordinamento UE, rappresenta pur sempre un’ipotesi del tutto eccezionale; anche nel nuovo sistema delineato dall’articolo 97, comma 8, del decreto legislativo n. 50 del 2016 (al pari di quello delineato dall’articolo 122, comma 9 del decreto legislativo n. 163 del 2006), la facoltà di contemplare ipotesi di esclusione automatica delle offerte anomale – a prescindere da qualunque verifica in concreto circa l’effettiva sostenibilità delle offerte stesse – rappresenta una facoltà eccettuale che deve risultare da inequivoche disposizioni della legge di gara.
Il 30 ottobre vede la luce la sentenza della III sezione del Tar Puglia n. 1109 alla cui stregua, anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 120 c.p.a., come modificato dall’art. 204 del Codice dei contratti pubblici, è da ritenere inammissibile l’impugnazione immediata e diretta del bando di una gara di appalto nella parte in cui prevede, quale criterio di aggiudicazione prescelto, quello del massimo ribasso. L’immediata impugnabilità è infatti limitata agli atti di ammissione alla gara e di relativa esclusione.
Il 31 ottobre esce la sentenza della sezione II bis del Tar Lazio n. 10859 alla cui stregua, nelle gare pubbliche di appalto, anche a prescindere dall’inserimento di una apposita clausola nel bando di gara, in presenza di indizi gravi, precisi e concordanti attestanti la provenienza delle offerte da un unico centro decisionale è consentita l’esclusione delle imprese, benché esse non si trovino tra loro in situazioni di controllo ex art. 2359 c.c. La pronuncia si confronta con la questione della possibile autonomia del bando di gara in relazione al fenomeno del collegamento sostanziale fra imprese nelle procedure ad evidenza pubblica, laddove la scarsa precisione del dato normativo vigente consente alla lex specialis di gara ed alle relative prescrizioni di rendere ininfluenti elementi indiziari che potrebbero ragionevolmente costituire prova di un accordo fra imprese concorrenti in danno dell’Amministrazione.
Il 7 novembre esce l’importante ordinanza della III sezione del Consiglio di Stato n. 5138 che – in tema di configurabilità o meno dell’onere di impugnare immediatamente e direttamente il bando di gara – rimette all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 4 questioni: a) se, avuto anche riguardo al mutato quadro ordinamentale, i principi espressi dall’Adunanza Plenaria n. 1/2003 possano essere ulteriormente precisati nel senso che l’onere di impugnazione immediata del bando sussiste anche per il caso di erronea adozione del criterio del prezzo più basso, in luogo del miglior rapporto tra qualità e prezzo; b) se l’onere di immediata impugnazione del bando possa affermarsi più in generale per tutte le clausole attinenti le regole formali e sostanziali di svolgimento della procedura di gara, nonché con riferimento agli altri atti concernenti le fasi della procedura precedenti l’aggiudicazione, con la sola eccezione delle prescrizioni generiche e incerte, il cui tenore eventualmente lesivo è destinato a disvelarsi solo con i provvedimenti attuativi; c) se, nel caso in cui l’Adunanza Plenaria affermi innovativamente il principio della immediata impugnazione delle clausole del bando di gara riguardanti la definizione del criterio di aggiudicazione, e, individui, eventualmente, ulteriori ipotesi in cui sussiste l’onere di immediata impugnazione di atti della procedura precedenti l’aggiudicazione, la nuova regola interpretativa si applichi, alternativamente con immediatezza, anche ai giudizi in corso, indipendentemente dall’epoca di indizione della gara, ovvero alle sole gare soggette alla disciplina del nuovo codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo n. 50/2016, ovvero ancora ai soli giudizi proposti dopo la pubblicazione della sentenza dell’Adunanza Plenaria, in conformità alle regole generali dell’errore scusabile e della irretroattività dei mutamenti di giurisprudenza incidenti sul diritto vivente (secondo i principi dell’overruling); d) se, nel caso di contestazione del criterio di aggiudicazione o, in generale, della impugnazione di atti della procedura immediatamente lesivi, sia necessario, ai fini della legittimazione a ricorrere, che l’operatore economico abbia partecipato alla gara o manifestato formalmente il proprio interesse alla procedura, ovvero sia sufficiente la dimostrazione della qualità di operatore economico del settore, in possesso dei requisiti generali necessari per partecipare alla selezione.
Il 9 novembre esce la sentenza della I sezione del Tar Lazio n. 11149 che dichiara inammissibile l’impugnazione immediata e diretta del provvedimento di nomina della commissione aggiudicatrice, trattandosi di un atto endoprocedimentale non idoneo a generare ex se alcun pregiudizio nella sfera giuridica delle imprese concorrenti dal momento che, nelle procedure ad evidenza pubblica, l’eventuale lesività sulla rispettiva posizione soggettiva può manifestarsi al momento dell’approvazione delle operazioni concorsuali e dell’aggiudicazione della gara, rappresentando quest’ultima l’atto conclusivo del procedimento. Per il Collegio – all’opposto – è poi irricevibile un ricorso proposto in sede di partecipazione alla gara avverso talune clausole del bando da ritenere immediatamente e direttamente lesive (nella specie le clausole impugnate riguardavano l’articolazione della gara in più lotti geografici, i requisiti di capacità economico-finanziaria e, più in generale, i requisiti richiesti agli operatori economici a fini partecipativi), fattispecie in cui, stante il carattere immediatamente lesivo delle clausole contestate, l’interessato fin da subito consapevole dell’effetto preclusivo da esse spiegato in ordine alla gara di cui è causa deve impugnarle nel termine di 30 giorni dalla data di pubblicazione del bando, atteso che, per giurisprudenza consolidata, sussiste l’onere di immediata impugnazione delle clausole di un bando di gara quando le stesse impediscono o rendono ingiustificatamente più difficoltosa per i concorrenti la partecipazione alla gara medesima, così violando i principi cardine delle procedure a evidenza pubblica, tra cui quelli della concorrenza e della par condicio.
Il 24 novembre esce la sentenza della III sezione del Tar Sicilia, Catania, n.2733, alla cui stregua ove una ditta operante nel settore oggetto di una gara indetta dalla P.A. per l’affidamento di un appalto di forniture (nella specie, fornitura in noleggio di bagni chimici da installare in occasione degli sbarchi dei migranti), abbia impugnato il relativo bando e, in forza di una dettagliata ed attendibile perizia giurata – non espressamente contestata – abbia comprovato l’inadeguatezza dei prezzi posti a base di gara e la carenza di motivazione in ordine alla scelta delle caratteristiche tecniche dei prodotti e/o dei beni da fornire, la pertinente lex specialis va ritenuta illegittima. Sul crinale processuale, il Tar precisa che in tema di valutazione delle prove nel processo amministrativo, in caso di mancata controdeduzione della parte resistente alla perizia giurata prodotta dalla parte ricorrente, trova applicazione il principio di non contestazione, alla cui stregua i fatti non contestati confluiscono nel concetto di prova, l’organo giudicante potendo disporre un’attività istruttoria solo se la parte costituita abbia contestato specificamente le prospettazioni avversarie, senza tuttavia portare adeguati mezzi di prova a supporto delle controdeduzioni presentate (art. 64 c.p.a.).
Il 01 dicembre esce la sentenza del Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa di Trento n.319 alla cui stregua è da assumersi nullo il bando di una gara per servizi intellettuali (nella specie, servizi assicurativi) nella parte in cui è stata prevista la sanzione automatica dell’esclusione dalla gara nel caso di mancata indicazione degli oneri aziendali per la sicurezza nell’offerta. Infatti tale disciplina contrasta con l’art. 83, comma 8, del decreto legislativo n. 50/2016 (nella parte in cui dispone che “I bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione rispetto a quelle previste dal presente codice e da altre disposizioni di legge vigenti. Dette prescrizioni sono comunque nulle”), e ciò in quanto né nel codice dei contratti, né nella legislazione provinciale si rinvengono disposizioni che pongano, a pena di esclusione, l’obbligo di indicare gli oneri aziendali per la sicurezza e, sotto altro profilo, ; l’art. 95, comma 10, del decreto legislativo n. 50/2016, come modificato dal decreto legislativo n. 56/2017, esonera espressamente i concorrenti dall’indicazione degli oneri aziendali per la sicurezza laddove l’appalto abbia ad oggetto “servizi di natura intellettuale”.
L’11 dicembre esce la sentenza della V sezione del Tar Campania n. 5815 che dichiara illegittima la clausola di un bando per l’affidamento di un appalto di servizi (nella specie, servizio triennale di trasporto infermi in emergenza 118) che esclude dalla partecipazione ad alcuni lotti gli enti e/o associazioni non aventi scopo di lucro ovvero di volontariato, inserita dalla P.A. nella lex specialis, ritenendo che non può imporsi a tali associazioni l’obbligatoria assunzione di personale dipendente secondo la c.d. clausola sociale traducendosi, quest’ultima, in una indebita ingerenza nella relativa struttura organizzativa, tale da alterarne la natura soggettiva; in tal caso infatti, per il Collegio, l’Amministrazione appaltante, nell’escludere tout court la partecipazione alla gara delle associazioni di volontariato sul presupposto dell’impossibilità di imporre loro l’osservanza della predetta clausola, ha illegittimamente trasformato una condizione di esecuzione del servizio in requisito di partecipazione, peraltro, introducendo, in violazione del principio di tassatività di cui all’art. 80 del d.lgs. n. 50/2016, una inammissibile causa di esclusione atipica e astratta.
Il 20 dicembre esce la sentenza della I sezione del Tar Sicilia n.2942 alla cui stregua nell’interpretazione degli atti amministrativi, ivi compreso il bando di una gara pubblica, occorre fare applicazione delle medesime regole ermeneutiche previste dall’art. 1362 e ss. c.c. per l’interpretazione dei contratti, tra di esse assumendo carattere preminente quella collegata all’interpretazione letterale in quanto compatibile con il provvedimento amministrativo. Tanto premesso, per il Collegio laddove il bando di una gara indetta per l’affidamento di un appalto di lavori preveda espressamente che non sono ammesse varianti progettuali, deve ritenersi illegittima per violazione della lex specialis l’aggiudicazione della gara stessa ad una ditta che ha presentano un progetto recante una variante effettiva al progetto esecutivo posto a base di gara.
Il 21 dicembre esce la sentenza della I sezione del Tar Friuli Venezia Giulia n.406 onde è da assumersi illegittima la esclusione di un ditta da una gara di appalto,che sia motivata con riferimento al fatto che, in asserita violazione del bando di gara – laddove impone un’accettazione piena e incondizionata della lex specialis – la medesima ditta ha allegato all’offerta una dichiarazione con la quale ha manifestato la volontà di non prestare acquiescenza al bando e al disciplinare di gara, in particolare, nella parte in cui tali atti indicano quale criterio di scelta del contraente quello del minor prezzo, non potendosi per il Collegio escludere una ditta da una procedura di evidenza pubblica per il solo fatto che abbia semplicemente fatto riserva di eventualmente esercitare il diritto di difesa costituzionalmente riconosciutogli.
2018
Il 5 gennaio esce la sentenza della I sezione del Tar Lombardia n.28 onde tutte le disposizioni che in qualche modo regolano i presupposti, lo svolgimento e la conclusione della gara per la scelta del contraente, siano esse contenute nel bando ovvero nella lettera d’invito e nei relativi allegati (capitolati, convenzioni e simili), concorrono a formarne la disciplina e ne costituiscono, nel relativo insieme, la lex specialis; la lettera di invito è quindi per il Tar un atto che concorre, insieme al bando di gara, a formare la lex specialis della procedura e, in quanto tale, ben può integrare il bando stesso.
Il 15 gennaio esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.187, alla cui stregua in caso di plurime possibili interpretazioni di una clausola della lex specialis di gara (in particolare, una avente quale effetto l’esclusione dalla gara e l’altra tale da consentire la permanenza del concorrente in seno alla gara medesima), non può legittimamente aderirsi all’opzione che, ove condivisa, comporterebbe l’esclusione dalla gara, dovendo piuttosto essere favorita l’ammissione del più elevato numero di concorrenti, in nome del principio del favor partecipationis e dell’interesse pubblico al più ampio confronto concorrenziale.
Il 17 gennaio esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.279 alla cui stregua la possibilità di prevedere nel bando di gara anche elementi di valutazione dell’offerta tecnica di tipo soggettivo riguarda solo gli appalti di servizi e sempre che ricorrano determinate condizioni, come nel caso in cui aspetti dell’attività dell’impresa partecipante possano effettivamente illuminare la qualità dell’offerta (peraltro, il Consiglio precisa che lo specifico punteggio assegnato, ai fini dell’aggiudicazione, per attività analoghe a quella oggetto dell’appalto, non deve incidere in maniera rilevante sulla determinazione del punteggio complessivo). Muovendo da queste premesse, per il Collegio è da intendersi illegittima una clausola di un bando (nella specie per la concessione del servizio del gestione di un parco pubblico e dell’impianto sportivo sito al suo interno) che attribuisca una parte preponderante e significativa del punteggio (ben 70 punti su 80) all’esperienza pregressa dei concorrenti, attribuendo al progetto di gestione dell’impianto soltanto un massimo di 10 punti; l’avere inserito tra i requisiti di valutazione dell’offerta il requisito di esperienza dell’impresa, attribuendo a tale profilo un punteggio preponderante, porterebbe infatti per il Collegio inevitabilmente a confondere i requisiti soggettivi di partecipazione alla gara con gli elementi e i criteri oggettivi di valutazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa, in violazione della pertinente normativa comunitaria e nazionale in materia di appalti pubblici. Con l’occasione il Consiglio di Stato rappresenta che gli eventuali chiarimenti forniti dalla Stazione appaltante ed aventi ad oggetto il contenuto del bando e degli atti allegati devono intendersi ammissibili purché non modifichino la disciplina dettata per lo svolgimento della gara, siccome cristallizzata nella lex specialis, avendo i medesimi una mera funzione di illustrazione di regole già formate e predisposte dalla disciplina di gara, senza veruna incidenza in termini di modificazione o integrazione delle condizioni di gara; la ridetta ammissibilità (dei chiarimenti) va invece esclusa allorquando, mediante l’attività interpretativa, si giunga ad attribuire ad una disposizione del bando un significato ed un portata diversa o maggiore rispetto a quella che risulta dal testo, in quanto in tema di gare d’appalto le uniche fonti della procedura sono costituite dal bando di gara, dal capitolato e dal disciplinare, unitamente agli eventuali allegati, onde i chiarimenti auto-interpretativi della stazione appaltante non possono per il Collegio né modificarle, né integrarle, assumendo carattere vincolante per la Commissione giudicatrice, dette fonti dovendo piuttosto essere interpretate ed applicate per quello che oggettivamente prescrivono, senza che possano acquisire rilevanza atti interpretativi postumi della stazione appaltante.
Il 20 gennaio esce la sentenza della III sezione del Tar Toscana n.76, alla cui stregua le stazioni appaltanti hanno il potere di fissare nella lex specialis i parametri di capacità tecnica dei partecipanti e i requisiti soggettivi specifici di partecipazione attraverso l’esercizio di un’ampia discrezionalità, fatti salvi i limiti imposti dai principi di ragionevolezza e proporzionalità, i quali consentono il sindacato giurisdizionale sull’idoneità ed adeguatezza delle clausole del bando rispetto alla tipologia e all’oggetto dello specifico appalto; ne consegue per il Tar che l’Amministrazione è legittimata ad introdurre disposizioni atte a limitare la platea dei concorrenti al fine di consentire la partecipazione alla gara stessa di soggetti particolarmente qualificati, ma ciò solo quando tale scelta non sia eccessivamente od irragionevolmente limitativa della concorrenza, in quanto correttamente esercitata attraverso la previsione di requisiti pertinenti e congrui rispetto allo scopo perseguito. Muovendo da questo presupposto, nel caso di specie il Tar giudica illegittima la clausola del bando indetto per l’affidamento del servizio di fornitura dei filtri assoluti per impianti idrici di distribuzione di acqua destinata a uso umano presso Aziende Sanitarie, nella parte in cui richiede, a pena di esclusione, che i filtri oggetto della fornitura debbano possedere la “marcatura CE (Dispositivi Medici – Direttiva CE 93/42) e ciò in quanto tale marcatura è prevista dalla legge per i dispositivi medici, laddove i suddetti filtri non sono annoverabili tra i dispositivi medici, con la conseguenza onde la pertinente clausola della lex specialis non è conforme a legge, presenta natura escludente ed è autonomamente lesiva, palesandosi eccessivamente restrittiva della concorrenza, ovvero comunque limitativa della partecipazione alla gara.
Il 22 gennaio esce la sentenza della I sezione del Tar Umbria n.56, che – dopo aver premesso che nelle procedure di evidenza pubblica gli oneri di sicurezza per le interferenze, la cui misura va predeterminata dalla stazione appaltante, vanno tenuti distinti dagli oneri di sicurezza da rischio specifico, cd. interni o aziendali, la cui quantificazione spetta ad ogni concorrente in rapporto alla propria offerta economica. – rappresenta come l’art. 95, c. 10, del D.lgs. n. 50/2016, in senso innovativo rispetto al regime di cui al D.lgs. 163/2006, abbia imposto l’obbligo per tutti gli operatori economici di indicare in sede di offerta economica i propri costi della manodopera e gli oneri aziendali concernenti l’adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro (ad esclusione delle forniture senza posa in opera, dei servizi di natura intellettuale e degli affidamenti ai sensi dell’art. 36, comma 2, lettera a del D.lgs. n. 50/16); tale obbligo sussiste anche in ipotesi di silenzio del bando, da ritenersi per il Tar sul punto eterointegrato, con conseguente esclusione del concorrente silente, non potendosi ricorrere nemmeno al soccorso istruttorio – diversamente dal sistema previgente – trattandosi di indicazione costituente elemento essenziale dell’offerta.
Il 23 gennaio esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.430 alla cui stregua in caso di gara per l’affidamento della progettazione esecutiva e l’esecuzione di lavori, l’obbligo di allegare all’offerta le relazioni specialistiche di cui agli artt. 24 ss. del d.P.R. n. 207 del 2010 ed in particolare la relazione geologica va espressamente previsto dalla lex specialis della gara e non può derivare automaticamente dalla c.d. eterointegrazione della normativa di gara ad opera degli artt. 24, 26 e 35 del regolamento di esecuzione al previgente codice dei contratti pubblici di cui al d.P.R. n. 207 del 2010, la formulazione delle richiamate norme deponendo per il carattere solo eventuale delle relazioni specialistiche in sede di progettazione (definitiva od esecutiva).
Il 31 gennaio esce la sentenza del sezione III quater del Tar Lazio n. 1113, in caso di gara assoggettata alle disposizioni dell’art. 95, comma 10, del d.lgs. n. 50 del 2016, grava in capo all’offerente un ineludibile obbligo legale di indicare i propri costi aziendali concernenti l’adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, da assolvere necessariamente già in sede di predisposizione dell’offerta economica, proprio al fine di garantire la massima trasparenza dell’offerta economica medesima nelle relative varie componenti, evitando che la stessa possa essere modificata ex post nelle componenti di costo in sede di verifica dell’anomalia, con possibile alterazione dei costi della sicurezza al fine di rendere sostenibili e quindi giustificabili le voci di costo riferite alla fornitura del servizio o del bene. A questo proposito, sottolinea precipuamente il Collegio, anche in assenza di un’esplicita previsione di richiamo alla norma imperativa e cogente dell’art. 95, comma 10, del d.lgs. n. 50 del 2016 («nell’offerta economica l’operatore deve indicare i propri costi aziendali concernenti l’adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro»), deve assumersi operativo l’istituto della eterointegrazione del bando di gara, in base alla normativa in materia, analogamente a quanto avviene nel diritto civile ai sensi degli artt. 1374 e 1339 c.c., il quale colma in via suppletiva le eventuali lacune del provvedimento adottato dalla pubblica amministrazione. Quello stesso giorno esce la sentenza della III sezione del Consiglio di Stato n.643 onde è da assumersi illegittima la determinazione della stazione appaltante di portare a conclusione l’originaria gara la cui lex specialis conteneva una clausola nulla che abbia influito sulla concorrenza; in tal caso infatti per il Collegio la stazione appaltante ha illegittimamente ignorato l’efficacia fattuale (in senso distorsivo della concorrenza) rivestita dalla clausola de qua nello svolgimento della gara medesima e l’ha aggiudicata – quando peraltro già questa clausola era stata dichiarata nulla, con sentenza passata in giudicato – al soggetto che di tale effetto distorsivo aveva potuto avvantaggiarsi, formulando, sempre in sede della gara originaria, un’offerta non conforme alla suddetta clausola.
Il 01 febbraio esce la sentenza della II sezione del Tar Sicilia, Catania, n.264, onde nel caso in cui la lex specialis della gara di appalto non prescriva espressamente di indicare gli oneri di sicurezza aziendale nell’offerta previsti dall’art. 95, comma 10, del D.L.vo n. 50/2016, deve ritenersi che, nel caso di omessa indicazione di detti oneri nell’offerta, non possa farsi luogo automaticamente all’esclusione dalla gara dell’offerta stessa, potendosi invece farsi ricorso al soccorso istruttorio. Su altro crinale, per il Tar laddove la lex specialis della gara preveda genericamente che il patto di integrità va sottoscritto, non può assumersi la mancata sottoscrizione di esso “in ogni sua pagina” quale causa di esclusione, tenuto anche conto che l’art. 1, comma 1° della legge n. 190/2012 è finalizzato a sanzionare con l’espulsione dalla gara la violazione sostanziale delle “clausole contenute nei protocolli di legalità o nei patti di integrità”, la mancata sottoscrizione “in ogni sua pagina” costituendo piuttosto un’irregolarità meramente estrinseca, sanabile con il soccorso istruttorio. Infine, per il Tar ogni contestazione concernente la pretesa illegittimità dei criteri di aggiudicazione previsti dall’art. 95 del D.lgs. n. 50/2016 deve costituire oggetto di immediata impugnazione, in quanto incidente sulle regole della competizione concorrenziale.
Il 7 febbraio esce la sentenza della III sezione del Consiglio di Stato n.781 alla cui stregua nelle gare pubbliche di appalto, allorché sussista una situazione di obiettiva incertezza dipendente dal fatto che le clausole della lex specialis risultano malamente formulate o si prestano comunque ad incertezze interpretative o siano equivoche, la P.A. appaltante legittimamente può fornire chiarimenti onde in simili ipotesi la risposta dell’Amministrazione appaltante ad una richiesta di chiarimenti avanzata dai concorrenti non costituisce un’indebita e perciò illegittima modifica delle regole di gara, atteggiandosi piuttosto a sorta d’interpretazione autentica con cui la stazione appaltante chiarisce la propria volontà provvedimentale in un primo momento poco intelligibile, precisando e meglio delucidando le previsioni della lex specialis medesima. Per il Collegio peraltro i chiarimenti circa le modalità applicative della lex specialis originariamente ambigua, siccome forniti dalla P.A. appaltante, operano a beneficio di tutti, e – laddove trasparenti, tempestivi, ispirati al principio del favor partecipationis e resi pubblici – non comportano, se giustificati da un oggettiva incertezza della legge di gara, alcun pregiudizio per gli aspiranti offerenti, tale da rendere preferibile, a dispetto del principio di economicità, l’autoannullamento del bando e la relativa ripubblicazione. Quel medesimo giorno esce anche la sentenza della II sezione del Tar Sardegna n. 79, alla cui stregua va giudicato illegittimo per incompetenza il decreto dell’Assessore degli Affari Generali, Personale e Riforma della Regione della Regione Autonoma della Sardegna con cui è stato approvato il bando del concorso per titoli ed esami per l’assunzione a tempo indeterminato di dirigenti, atteso che, in base alla legislazione regionale in materia, la competenza ad adottare tale atto è dei Dirigenti.
Il 19 febbraio esce la sentenza della III sezione del Tar Sicilia, Catania, n.389, alla cui stregua – tra le altre cose – nelle gare pubbliche l’onere di immediata impugnazione del bando non può ritenersi limitato solo ai requisiti prescritti per la partecipazione alla procedura comparativa, ma investe anche l’asserita insufficienza, rispetto al costo del lavoro, dell’importo onnicomprensivo posto a base di gara in relazione alle prescritte quantità e qualità delle prestazioni richieste, così incidendo direttamente sulla formulazione dell’offerta e impedendone la corretta e consapevole elaborazione. Quello stesso giorno esce anche la sentenza della III sezione del Tar Toscana n.282 che afferma sussistere l’onere d’immediata impugnazione del bando di una gara pubblica per contestare clausole impeditive dell’ammissione dell’interessato alla gara, o anche solo impositive, ai fini della partecipazione, di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale, ovvero che rendano ingiustificatamente più difficoltosa, per i concorrenti, la partecipazione alla gara; in particolare, per il Tar, sussiste l’onere di immediata impugnazione del bando allorché si lamenti che molteplici clausole della legge di gara siano state ritagliate su misura per favorire l’aggiudicazione in capo ad una determinata impresa attraverso una articolata disciplina che impone oneri di partecipazione e caratteristiche dell’offerta tali da snaturare i principi di concorrenzialità dando luogo al cosiddetto “bando-fotografia”.
Il 01 marzo esce la sentenza della I sezione del Tar Campania n.1334 che dichiara illegittimo, per violazione dell’art. 50 del d.lgs. 18 aprile 2016 n. 50, come modificato dall’articolo 33, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 19 aprile 2017 n. 56, applicabile ratione temporis, il bando di una gara indetta per l’affidamento di un appalto di servizi nel caso in cui, nonostante il contratto sia qualificabile come ‘ad alta intensità di manodopera’, la P.A. abbia omesso di inserire nella lex specialis specifiche clausole sociali volte a promuovere la stabilità occupazionale del personale impiegato.
Il 6 marzo esce la sentenza della sezione II bis del Tar Lazio n.2555 alla cui stregua nelle gare pubbliche il noto principio di tassatività delle cause di esclusione comporta che l’esclusione dalla gara può essere disposta in modo legittimo solo quando il concorrente abbia violato previsioni poste a tutela degli interessi sostanziali della P.A. o a protezione della par condicio tra i concorrenti; il suddetto principio è da intendersi per il Tar finalizzato a ridurre gli oneri formali gravanti sulle imprese partecipanti a procedure di affidamento, quando questi non siano strettamente necessari a raggiungere gli obiettivi perseguiti attraverso gli schemi dell’evidenza pubblica, conducendo a privare di rilievo giuridico, attraverso la sanzione della nullità testuale, tutte quelle ragioni di esclusione dalle gare che si rivelino incentrate non già sulla qualità della dichiarazione, quanto piuttosto sulle forme con cui questa viene esternata, in quanto non ritenute conformi a quelle previste dalla stazione appaltante nella lex specialis. Il Tar ribadisce poi come con il principio di tassatività delle cause di esclusione il legislatore ha ridotto la discrezionalità della stazione appaltante nella c.d. (auto)regolamentazione del soccorso istruttorio, atteso che essa non ha più il potere di inserire nel bando, al di fuori della legge, la previsione che un determinato adempimento sostanziale, formale o documentale sia richiesto a pena di esclusione, così eliminando in radice la possibilità per l’Amministrazione di prescindere dall’onere di una preventiva interlocuzione e di escludere il concorrente sulla base della riscontrata carenza documentale, indipendentemente da ogni verifica sulla valenza “sostanziale” della forma documentale risultata carente. Giungendo poi a decidere lo specifico caso ad esso sottoposto, il Collegio dichiara che non potersi disporre l’esclusione di una ditta nel caso in cui l’offerta presentata sia priva del timbro di congiunzione tra le varie pagine di cui essa si compone, atteso che l’apposizione del suddetto timbro non risulta prescritta come essenziale dal codice dei contratti o dal regolamento o da altre disposizioni vigenti ed il relativo difetto non palesandosi idoneo a determinare incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, o dubbi sulla non integrità del plico contenente l’offerta o la domanda di partecipazione o, ancora, pregiudizio al principio di segretezza delle offerte, onde un’esclusione da parte dell’Amministrazione per tale circostanza sarebbe certamente illegittima in quanto contraria al principio di tassatività delle cause di esclusione introdotto al comma 1 bis dell’art. 46 del codice dei contratti dal d.l. n. 70/2011.
Il 9 marzo esce la sentenza della III sezione del Tar Sicilia, Catania, n.505 alla cui stregua la disposizione di cui all’art. 95, comma 10, del d.lgs. n. 50/2016 – laddove prevede espressamente che nell’offerta economica l’operatore deve indicare i propri costi della manodopera e gli oneri aziendali concernenti l’adempimento delle disposizione in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro – costituisce norma imperativa di legge, non derogabile dal bando, che si inserisce direttamente nell’atto unilaterale amministrativo anche in presenza di clausole contrastanti difformi (in applicazione degli artt. 1339 e 1419 c.c., pacificamente applicabili all’atto amministrativo ex art. 1324 c.c.), onde la eventuale omissione dell’indicazione dei detti costi ed oneri non può essere sanata mediante l’istituto del “soccorso istruttorio”, tenuto conto che in tal caso i dati omessi costituiscono requisiti essenziali dell’offerta economica, per i quali il soccorso istruttorio è espressamente escluso dall’art. 83, comma 9, del codice dei contratti pubblici.
Il 14 marzo esce la sentenza della III sezione del Tar Sicilia, Catania, n.544, onde devono considerarsi ‘immediatamente escludenti’ (anche) clausole non afferenti ai requisiti soggettivi, ma attinenti alla formulazione dell’offerta, sia sul piano tecnico che economico laddove dette clausole rendano realmente impossibile la presentazione dell’offerta medesima; le disposizioni abnormi o irragionevoli che rendano impossibile il calcolo di convenienza tecnica ed economica ai fini della partecipazione alla gara; le clausole che prevedano abbreviazioni irragionevoli dei termini per la presentazione dell’offerta; ovvero contemplino condizioni negoziali che rendano il rapporto contrattuale eccessivamente oneroso e obiettivamente non conveniente. Quello stesso giorno esce anche al sentenza della III sezione del Consiglio di Stato n. 1643, alla cui stregua va premesso come nel giudizio amministrativo debba essere tenuta rigorosamente ferma la netta distinzione tra la titolarità di una posizione sostanziale differenziata che abilita un determinato soggetto all’esercizio dell’azione (legittimazione al ricorso) e l’utilità ricavabile dall’accoglimento della domanda di annullamento (interesse al ricorso), anche prescindendo dal carattere “finale” o “strumentale” di tale vantaggio, la legittimazione al ricorso presupponendo il riconoscimento della esistenza di una situazione giuridica attiva, protetta dall’ordinamento, riferita ad un bene della vita oggetto della funzione svolta dall’amministrazione o da un soggetto ad essa equiparato, dovendosi in proposito assumer che – in sé considerata – la semplice possibilità di ricavare dalla invocata decisione di accoglimento una qualche utilità pratica, indiretta ed eventuale, non dimostra la sussistenza della posizione legittimante. Fatta questa premessa, il Collegio ribadisce che nelle gare pubbliche è necessario procedere all’impugnazione immediata dei relativi atti d’indizione quando si lamenti che le relative clausole impediscano, indistintamente per tutti i concorrenti, una corretta e consapevole elaborazione della propria proposta, pregiudicando così il corretto esplicarsi della gara, circostanza predicabile in presenza di previsioni dell’atto indittivo della gara la cui genericità impedisca la formulazione delle offerte e l’individuazione dei parametri di giudizio della Commissione, oppure in presenza di clausole che rendano la partecipazione estremamente difficoltosa o addirittura impossibile; o che impongano obblighi contrari alla legge; o ancora che prevedano abbreviazioni irragionevoli dei termini per la presentazione dell’offerta; o che rendano impossibile il calcolo di convenienza tecnica ed economica ai fini della partecipazione alla gara; o che prevedano condizioni negoziali tali da rendere il rapporto contrattuale eccessivamente oneroso e obiettivamente non conveniente. Fermi questi principi, è tuttavia inammissibile per il Collegio un ricorso innanzi al T.A.R. proposto direttamente contro il bando di gara ove l’impresa ricorrente non solo non abbia dimostrato l’esistenza di clausole escludenti, ma anche laddove la stessa non abbia differenziato la propria posizione rispetto a quella degli altri operatori, rimanendo estranea alla gara, ovvero non abbia affermato nel concreto la potenziale utilità della spiccata domanda,; il relativo interesse dovendo essere qualificato quale interesse di mero fatto e non palesandosi diverso da quello di qualsiasi operatore del settore che, non avendo partecipato alla gara, non ha titolo a impugnarne gli atti, pur essendo portatore di un interesse di mero fatto alla caducazione dell’intera selezione. Il Collegio precisa come nel giudizio amministrativo la sussistenza di un interesse strumentale, consistente nella mera rimessa in discussione del rapporto controverso per effetto della rinnovazione dell’atto lesivo, appare sufficiente a radicare l’interesse al ricorso, purché tuttavia il procedimento sia potenzialmente suscettibile di concludersi in senso favorevole al ricorrente, e dunque purché possa predicarsi di quest’ultimo la legittimazione a ricorrere.
Il 16 marzo esca la sentenza della III sezione del Tar Lazio n.3002 onde la pubblicazione di un bando di gara che, in asserita violazione dell’art. 51 del d.lgs. n. 50 del 2016, prevede un lotto unico deve intendersi avere valore immediatamente escludente rispetto alla domanda di partecipazione alla gara stessa, in tal caso dunque già la pubblicazione del bando generando una lesione della situazione giuridica per chi intenderebbe partecipare alla competizione e non è in condizioni di farlo a causa della barriera all’ingresso a quello specifico mercato provocata da clausole del bando per lui insuperabili perché immediatamente escludenti o che assume irragionevoli o sproporzionate per eccesso, con connesso arresto procedimentale palesandoglisi inconfigurabili successivi atti applicativi utili.
Il 19 marzo esce la sentenza della Sezione III quater del Tar Lazio n.3081 che dichiara legittimo l’operato della commissione di gara la quale, in sede di verifica delle offerte anomale, abbia disapplicato – ritenendola nulla – una clausola del disciplinare di gara la quale prevede testualmente che: «Saranno considerate inammissibili, ai sensi dell’art. 87 [in realtà art. 97, come chiarito successivamente dalla s.a.], comma 6 D.Lgs. 50/2016 e pertanto automaticamente escluse, le offerte nelle quali il costo medio orario del lavoro risulti inferiore al costo stabilito dal CCNL …”. Per il Tar la previsione dell’esclusione dalla gara del concorrente che avesse offerto un «costo medio orario del lavoro» inferiore a quello previsto nei contratti collettivi di riferimento e quindi alle tabelle ministeriali di riferimento allegate al d.m. 2 agosto 2010, contenuta nel disciplinare della gara, integra un’ipotesi di prescrizione della lex specialis a pena di esclusione ulteriore rispetto a quelle tassativamente previste dal codice dei lavori pubblici, in quanto tale sanzionata di nullità rilevabile d’ufficio dal giudice ai sensi degli artt. 83, comma 8, ultimo periodo, d.lgs. n. 50/2016 e 31, comma 4, secondo periodo, c.p.a.
Il 26 marzo esce la sentenza della III sezione del Tar Veneto n.348 onde, nella materia degli appalti pubblici, di regola i bandi, i disciplinari, i capitolati speciali di gara e le relative lettere di invito vanno impugnati unitamente agli atti che di essi fanno applicazione, in quanto solo in tale secondo momento diventa attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva dell’interessato: è invece necessario procedere all’impugnativa immediata degli atti di indizione della gara quando le clausole impediscano la partecipazione alla procedura selettiva di un potenziale concorrente ovvero quando si afferma che impediscano una corretta e consapevole elaborazione della proposta economica, tale da rendere impossibile quel calcolo di convenienza economica che ogni impresa deve essere in condizione di poter effettuare all’atto di valutare se partecipare o meno a una gara pubblica.
Il 5 aprile esce la sentenza della III sezione del Tar Toscana n.478, alla cui stregua sussiste l’onere d’immediata impugnazione del bando di gara per contestare clausole impeditive dell’ammissione dell’interessato alla gara, o anche solo impositive, ai fini della partecipazione, di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale, ovvero che rendano ingiustificatamente più difficoltosa, per i concorrenti, la partecipazione alla gara, favorendo in tal modo qualcun’altro tra i potenziali concorrenti.
Il 6 aprile esce la sentenza della IV sezione del Tar Lombardia n.963 alla cui stregua è da assumersi illegittima la lex specialis di una gara di appalto nella parte in cui prevede una clausola sociale che, per come è formulata, non si limita ad assicurare i livelli occupazionali, ma si traduce in una vera e propria sostituzione indebita nella struttura organizzativa e nelle scelte imprenditoriali degli operatori economici, imponendo la tipologia di contratto di lavoro da stipulare; circostanza questa che la rende contraria alla libertà d’impresa e di organizzazione imprenditoriale, alla luce della costante interpretazione delle norme nazionali ed europee vigenti in materia siccome resa dalla giurisprudenza, quale principio fondamentale posto a tutela del mercato e della massima partecipazione alle gare pubbliche .
Il 26 aprile esce la sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n.4, che conferma in primis come l’operatore del settore che non abbia presentato domanda di partecipazione alla gara non può assumersi legittimato a contestare le clausole del pertinente bando, a meno che non rivestano nei relativi confronti portata escludente, precludendogli con certezza la possibilità di partecipazione. L’Adunanza conferma altresì come – anche con riferimento al vigente nuovo quadro legislativo (art.120, comma 5, del c.p.a.) in tema di impugnazione immediata di ammissioni ed esclusioni dalla gara – debba trovare persistente applicazione l’orientamento secondo il quale le clausole non escludenti del bando vanno impugnate unitamente al provvedimento che rende attuale la lesione (e dunque assieme all’aggiudicazione a terzi), considerato altresì che la postergazione della tutela (avverso le clausole non escludenti del bando) al momento successivo ed eventuale della denegata aggiudicazione, secondo quanto peraltro già stabilito dalla decisione dell’Adunanza plenaria n. 1 del 2003, non si pone certamente in contrasto con il principio di concorrenza di matrice europea, laddove essa non oblitera il ridetto principio adattandolo piuttosto alla realtà dell’incedere del procedimento nella relativa connessione con i tempi del processo. L’Adunanza chiarisce altresì come l’eventuale accoglimento della tesi opposta solo in apparenza potrebbe incidere, diminuendoli, sui tempi del processo amministrativo in termini di certezza delle relative acquisizioni, dovendosi ragionevolmente prevedere una impugnazione immediata (perché imposta) delle clausole non escludenti con carattere generalizzato e con corredo di istanza cautelare, salvo poi attendere il merito del giudizio anche nell’ottica di una verifica sul campo di chi sarà l’aggiudicatario della gara (il quale ultimo perderebbe ovviamente alfine interesse a coltivare il proprio ricorso, a differenza di tutti gli altri). Interessante la riflessione che il Collegio opera in sede di disamina del disposto di cui all’art. 211 del d.Lgs. 18 aprile 2016 n. 50 – sia nel testo originario interpolato dal d.Lgs. 19 aprile 2017, n. 56, che in quello vigente, siccome novellato dal d.L. 24 aprile 2017, n. 50 – e dunque con riferimento all’istituto delle raccomandazioni vincolanti dell’Autorità Nazionale Anticorruzione previsto dall’art. 211, comma 2 del d. Lgs. 50/2016 e, dopo la relativa abrogazione, alla legittimazione dell’ANAC all’impugnazione dei bandi, degli altri atti generali e dei provvedimenti relativi a contratti di rilevante impatto, emessi da qualsiasi stazione appaltante, qualora ritenga che essi violino le norme in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture. Il Collegio rammenta come si tratti del conferimento all’ ANAC di una legittimazione processuale straordinaria al pari di quanto disposto da altre previsioni normative (rammenta in proposito gli artt. 14 comma 7, 62, 110 comma 1, 121 comma 6 e 157 comma 2 del d. Lgs. n. 58 del 1998 con cui la Banca d’Italia e la Consob sono state legittimate ad impugnare le deliberazioni delle società vigilate adottate in violazione di alcune disposizioni sul diritto di voto in materia di intermediazione finanziaria; l’ art. 52, comma 4 del d. lgs. n. 446 del 1997 che ha riconosciuto al Ministero delle Finanze il potere di impugnare per qualsiasi vizio di legittimità i regolamenti comunali in materia di entrate tributarie; l’art. 6 comma 10 della l. n. 168 del 1989, che ha attribuito al Ministro dell’Università e della Ricerca il potere di diretta impugnazione degli Statuti dei singoli Atenei che non si adeguino ai rilievi di legittimità dallo stesso formulati; l’art. 21 bis della legge 10 ottobre 1990, n. 287 in tema di poteri dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato sugli atti amministrativi che determinano distorsioni della concorrenza; l’art. 37 del d.L 6 dicembre 2011, n.201 in tema di poteri attribuiti all’Autorita’ di regolazione dei trasporti e l’art. 70 del decreto legislativo del 18 agosto 2000 n. 267 che attribuisce al Prefetto la legittimazione a far valere, in via giurisdizionale, la decadenza dalla carica di sindaco, presidente della provincia, consigliere comunale, provinciale o circoscrizionale). Fatto questo dotto riepilogo delle fattispecie analoghe, l’Adunanza rammenta come la “concorrenza per il mercato” compendi un interesse di rango costituzionale ed europeo: trattandosi di circostanza nota, non stupisce che il legislatore abbia sentito l’esigenza di attribuire all’Autorità di vigilanza in materia poteri “propri” da esercitare in sede giurisdizionale; peraltro la commissione speciale del Consiglio di Stato chiamata a rendere il parere sullo schema del decreto legislativo (Consiglio di Stato comm. spec., 28/12/2016, n. 2777) soffermandosi sull’ormai abrogato istituto di cui al comma 2 del citato art. 211 ( le c.d. “raccomandazioni vincolanti”) ha fatto riferimento ad un “rafforzamento dei poteri dell’ANAC mediante l’attribuzione, in particolare, di un potere finalizzato all’emissione di raccomandazioni vincolanti nei confronti delle stazioni appaltanti, per l’annullamento in autotutela di atti della procedura di gara illegittimi” (considerazioni, queste, certamente estensibili alla disposizione oggi vigente di cui al comma 1 bis del citato articolo 211). Per l’Adunanza, nondimeno, va sottolineata l’inassimilabilità della ratio della innovazione legislativa suddetta alle “esigenze” che militerebbero a sostegno dell’obbligo di immediata impugnazione delle clausole non escludenti del bando, la legittimazione dall’ANAC venendo esercitata a presidio dell’interesse pubblico alla concorrenza in senso complessivo (di qui, anche, la limitazione ai “contratti di rilevante impatto” contenuta nella citata disposizione) e postula un interesse “certo” e prioritario (quello alla rimozione del bando); il partecipante alla gara invece, chiosa l’Adunanza, è titolare di un interesse del tutto distinto da quello pubblicistico e precisamente l’interesse primario ed immediato ad aggiudicarsi la gara medesima; è quindi ravvisabile un interesse dell’offerente a proseguire la gara, funzionale ad ottenere il bene della vita cui esso anela e rappresentato dall’aggiudicazione; soltanto laddove l’aggiudicazione diviene impossibile assume rilievo l’interesse strumentale alla riedizione della procedura di gara e tuttavia non è certo che nella fase embrionale della procedura (chè è questa la fase in cui egli dovrebbe proporre l’impugnazione avverso il bando) l’interesse all’aggiudicazione sia certamente frustrato. In altri termini, mentre l’Autorità agisce nell’interesse della legge, il partecipante alla gara nel proprio esclusivo e soggettivo interesse che primariamente è quello di aggiudicarsi la gara, e solo subordinatamente quello alla riedizione della gara medesima, laddove non sia riuscito ad aggiudicarsela. Per questo motivo, conclude il Collegio, non sembra che la disposizione di cui all’art. 211 del d.Lgs n. 50/2016 si muova nella logica di un mutamento in senso oggettivo dell’interesse (né dell’operatore del settore, ma neppure del partecipante alla procedura) a che i bandi vengano emendati immediatamente da eventuali disposizioni (in tesi) illegittime, seppure non escludenti, tale disposizione essendosi limitata a subiettivizzare in capo all’Autorità il ridetto interesse, attribuendole il potere diretto di agire in giudizio nell’interesse della legge.
Il 4 maggio esce la sentenza della III sezione del Consiglio di Stato n. 2663, onde nelle gare di appalto l’impugnazione immediata della lex specialis è ammessa – e anzi deve intendersi financo imposta – nelle fattispecie, tra le altre, di disposizioni abnormi o irragionevoli che come tali rendano impossibile il calcolo di convenienza tecnica ed economica ai fini della partecipazione alla gara, ovvero prevedano abbreviazioni irragionevoli dei termini per la presentazione dell’offerta, ovvero di condizioni negoziali (indicate nello schema di contratto) che rendano il rapporto contrattuale eccessivamente oneroso e obiettivamente non conveniente. In particolare, per il Collegio sono immediatamente impugnabili le clausole che impongano, ai fini della partecipazione, oneri assolutamente incomprensibili o manifestamente sproporzionati ai caratteri della gara o della procedura concorsuale, e che comportino sostanzialmente l’impossibilità per l’interessato di accedere alla gara medesima ed il conseguente arresto procedimentale.
L’11 maggio esce la sentenza della V sezione del Tar Campania n.3149 onde, laddove la lex specialis della gara contenga una clausola sostanzialmente riproduttiva di quanto già previsto dalla legge, e dunque priva di effettiva portata lesiva, non sussiste alcun onere di tempestiva impugnazione della stessa. Nel caso di specie, la clausola del bando prevede il divieto di sanatoria degli elementi dell’offerta tecnica e di quella economica, altro non facendo se non esplicitare il contenuto di cui all’art. 83, comma 9, del d.lgs. n. 50/2016, che vieta il ricorso alla procedura di soccorso istruttorio in caso di difetto, incompletezza ed ogni altra irregolarità essenziale afferente all’offerta economica e all’offerta tecnica.
Il 21 maggio esce la sentenza della I sezione del Tar Lazio n.5599 onde, a fronte della formulazione ambigua della normativa di gara, l’impresa partecipante che abbia comunque, in buona fede, manifestato la volontà di adeguarsi alle previsioni non univoche del bando, formulando l’offerta in adesione a una delle possibili interpretazioni della lex specialis, non può essere sanzionata con l’espulsione dalla procedura di gara, dovendosi peraltro interpretare le offerte al fine di ricercare l’effettiva volontà dell’impresa partecipante alla gara medesima, superandone le eventuali ambiguità e purché sia possibile giungere ad esiti certi circa la portata degli impegni negoziali con esse assunti.
L’8 giugno esce la sentenza della III sezione del Consiglio di Stato n.3471 alla cui stregua l’apposizione di una clausola sociale agli atti di una pubblica gara – ai sensi della pertinente disposizione del Codice dei contratti pubblici (art. 50 del d.lgs. n. 50/2016) – è costituzionalmente e comunitariamente legittima solo se non comporta un indiscriminato e generalizzato dovere di assorbimento di tutto il personale utilizzato dall’impresa uscente, in violazione dei principi costituzionali e comunitari di libertà d’iniziativa economica e di concorrenza oltreché di buon andamento, consentendo piuttosto una ponderazione con il fabbisogno di personale per l’esecuzione del nuovo contratto e con le autonome scelte organizzative ed imprenditoriali del nuovo appaltatore.
Il 13 giugno (in G.U. n. 164 del 17 luglio 2018) esce la delibera dell’Anac recante “Regolamento per la definizione della disciplina della partecipazione ai procedimenti di regolazione dell’Autorità Nazionale Anticorruzione e di una metodologia di acquisizione e analisi quali-quantitativa dei dati rilevanti ai fini dell’analisi di impatto della regolazione (AIR) e della verifica dell’impatto della regolazione (VIR)”. In specie, si rileva l’art 2 – Atti di carattere generale adottati dall’Autorità 2.1 L’Autorità adotta atti di carattere generale nella forma di linee guida, bandi-tipo, capitolati-tipo, contratti-tipo e altri strumenti di regolazione flessibile, comunque denominati. 2.2 Nel testo di ciascun provvedimento adottato è specificata la natura dell’atto e indicata l’efficacia vincolante o meno delle disposizioni ivi contenute; e l’art. 3– Atti sottoposti a consultazione 3.1 L’Autorità favorisce la massima partecipazione dei soggetti interessati ai procedimenti di regolazione. A tal fine garantisce la trasparenza dei processi, attraverso la pubblicazione tempestiva sul proprio sito internet delle notizie e dei documenti di interesse, sottopone a consultazione gli atti di carattere generale, al fine di acquisire suggerimenti, proposte, considerazioni e osservazioni da parte dei soggetti interessati. 3.2 L’Autorità predispone nel proprio sito web, nella pagina dedicata alle consultazioni, un calendario contenente l’indicazione degli atti di carattere generale che intende sottoporre a consultazione e/o AIR. L’indicazione non è vincolante ed è suscettibile di modifiche sia in ordine alla tempistica che all’oggetto dell’intervento. 3.3 Non sono, sottoposti a consultazione: a) gli atti emanati al termine di procedimenti relativi a situazioni specifiche, sia ad iniziativa d’ufficio che su istanza di parte; b) gli atti emanati a seguito di richieste specifiche, quali i pareri di precontenzioso e i pareri sulla normativa; c) gli atti emanati per l’esigenza di mero adeguamento a modifiche normative sopravvenute; d) gli atti di organizzazione interna e quelli non aventi rilevanza esterna; e) gli atti che hanno un limitato impatto sul mercato; f) gli atti che forniscono indicazioni interpretative o istruzioni operative; g) gli atti di segnalazione a Governo e Parlamento; h) le delibere sull’autofinanziamento e quelle contenenti indicazioni per l’utilizzo dei sistemi informativi dell’Autorità. Inoltre, non si procede alla consultazione quando essa è incompatibile con esigenze di opportunità o di urgenza.
Il 26 giugno esce la sentenza della Corte di Cassazione Penale, sez. VI, n. 29267, che si pronuncia sul reato di turbata libertà di scelta del contraente (art. 353-bis, c.p.). La corte ricorda che in tal caso il bene giuridico tutelato è lo stesso, rispetto a quello oggetto della fattispecie di cui all’art. 353 cod. pen., poiché anche in questo caso la norma è diretta a colpire i comportamenti che, incidendo illecitamente sulla libera dialettica economica, mettono a repentaglio l’interesse della P.A. di poter contrarre con il miglior offerente. Non così, invece, per ciò che concerne il momento di operatività della tutela apprestata dalle due disposizioni, che, nell’un caso (art. 353 cod. pen.) richiede l’esistenza di una gara, comunque denominata; laddove, nell’altro caso (art. 353 bis cod. pen.), esso viene anticipato nel tempo – quando un bando (o altro atto equivalente) non sia stato adottato, anche ove la relativa procedura sia stata avviata senza essere però approdata al suo esito finale – nella consapevolezza che gli interessi meritevoli di tutela (come sopra specificati) possono essere lesi non solo da condotte successive ad un bando il cui contenuto sia stato determinato nel pieno rispetto della legalità, ma anche da comportamenti precedenti, in grado di avere influenza sulla formazione di detto contenuto. Il delitto previsto dall’art. 353-bis c.p., è costruito, sulla stessa falsariga di quello previsto dall’art. 353, come reato di pericolo. L’azione consiste, dunque, nel turbare mediante atti predeterminati il procedimento amministrativo di formazione del bando, allo scopo di condizionare la scelta del contraente. Poiché il condizionamento del contenuto del bando è il fine dell’azione, è evidente che il reato si consuma indipendentemente dalla realizzazione del fine medesimo. Per integrare il delitto, dunque, non è necessario che il contenuto del bando venga effettivamente modificato in modo tale da condizionare la scelta del contraente, né, a maggior ragione, che la scelta del contraente venga effettivamente condizionata. È sufficiente, invece, che si verifichi un turbamento del processo amministrativo, ossia che la correttezza della procedura di predisposizione del bando sia messa concretamente in pericolo. Il che, nella fattispecie, è avvenuto, quando l’imputato si era rivolto a due pubblici ufficiali, che avevano rapporti con colui che aveva indetto la gara, chiedendo loro di fare in modo che venisse invitata a partecipare una società a lui «vicina.
Il 5 luglio esce la sentenza del Tar Sicilia, Palermo, sez. III, n. 1551 che si pronuncia sulla legittimità del c.d. avvalimento frazionato. Sostiene il collegio che pur non essendo in linea generale vietata la possibilità di ricorrere all’avvalimento frazionato, l’avvalimento frazionato stesso può essere escluso dalla stazione appaltante, in relazione a una specifica gara (nella specie l’avvalimento frazionato era stato escluso, per ciascuna delle categorie di qualificazione, dal bando della gara, il quale prevedeva che: “Il concorrente potrà avvalersi di una sola impresa ausiliaria per ciascuna categoria di qualificazione”). Devono essere immediatamente impugnate, a decorrere dalla loro conoscenza, ove ritenute illegittime, le clausole dei bandi di gara che determinano limitazioni alla partecipazione alla gara – così dette clausole escludenti – e quindi quelle clausole che non possono che determinare, da parte della commissione di gara, la successiva esclusione delle offerte che le violano. In particolare, va immediatamente e direttamente impugnata la clausola del bando che prevede il divieto di avvalimento frazionato, in quanto è ovvio che, a fronte di un’offerta presentata in violazione di tale divieto, non potrebbe che conseguire la sua esclusione, quanto meno nell’ipotesi in cui la commi
Il 2 luglio esce la sentenza n. 4040 del Consiglio di Stato, sez. V, che si pronuncia sulle conseguenze di un’eventuale violazione di una clausola sociale ex art. 50 d.lgs. 50/2016. L’eventuale violazione di una clausola sociale ex art. 50 d.lgs. 50/2016, non dà luogo alla nullità del capitolato speciale, ma semplicemente alla sua illegittimità, con la conseguente necessità di far valere il vizio attraverso il rimedio impugnatorio. L’art. 21-septies della L. 7/8/1990, n. 241, stabilisce, infatti, che “e’ nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge”. La norma individua, quindi, tassativamente le ipotesi di nullità del provvedimento amministrativo e, nel caso di specie, nei confronti dell’art. del capitolato speciale non è stato dedotto alcun vizio catalogabile tra le cause di nullità codificate. Inoltre, quanto al prospettato contrasto del menzionato art. 50 e conseguentemente dell’art. del capitolato speciale col diritto eurounitario, si rileva che il medesimo determina nell’atto amministrativo solo un vizio di illegittimità non diverso da quello che discende dal contrasto col diritto interno, posto che l’art. 21 – septies della L. 241/1990 non include, come sopra visto, la violazione del diritto europeo tra le cause di nullità del provvedimento. Pertanto la violazione del diritto dell’Unione Europea può essere fatta valere dinanzi al Giudice Amministrativo soltanto attraverso l’impugnazione dell’atto, pena la sua inoppugnabilità ssione di gara agisca in modo legittimo.
Il 6 luglio esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza n. 30730. Nel caso di specie, gli imputati avevano proposto ricorso lamentandosi dell’inosservanza e della erronea applicazione della legge penale, nella parte in cui la Corte di appello dì Brescia aveva ritenuto la sussistenza del reato di cui all’art. 353 cod. pen., nonostante la assenza di una gara e di un bando. La procedura negoziata, priva di pubblicazione di bando, delibata dalla sentenza impugnata, a dire dei ricorrenti, non poteva essere ricondotta all’ambito applicativo dell’art. 353 cod. pen., in assenza del bando o di “altro atto equipollente” ai sensi dell’art. 64, commi 1, 2, e 3, del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163. Tale doglianza si rivela, a dire della Corte, manifestamente infondata. Ad onta della formulazione letterale della fattispecie di cui all’art. 353 cod. pen., che mutua il lessico del legislatore storico sulla contabilità generale dello Stato e del relativo regolamento, l’ambito applicativo di tale fattispecie non è limitato esclusivamente alle turbative che intervengono nei pubblici incanti e nella licitazione privata. Il delitto di turbata libertà degli incanti, nella costante interpretazione della giurisprudenza di legittimità, è, infatti, configurabile in ogni situazione in cui vi sia una procedura di gara, anche informale e atipica, quale che sia il nomen iuris adottato ed anche in assenza di formalità, mediante la quale la P.A. proceda all’individuazione del contraente, a condizione, tuttavia, che l’avviso informale di gara o il bando, o comunque l’atto equipollente, previamente indichi i criteri di selezione e di presentazione delle offerte, ponendo i potenziali partecipanti nella condizione di valutare le regole che presiedono al confronto ed i criteri in base ai quali formulare le proprie offerte (Sez. 6, n. 8044 del 21/01/2016, Cerada, Rv. 266118; Sez. 6, n. 29581 del 24/05/2011, Tatò, Rv. 250732; Cass. Sez. 6, n. 13124 del 28/1/2008, Mancianti, Rv. 239314). Tale principio, peraltro, non costituisce applicazione analogica in malam partem della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 353 cod. pen., ma interpretazione del precetto nel solco della sua ratio, che è quella di garantire il regolare svolgimento sia dei pubblici incanti e delle licitazioni private che quello delle gare informali o c.d. di consultazione, che finiscono per realizzare, sostanzialmente, delle licitazioni private (come rilevato da Sez. 6, n. 12238 del 30/9/1998, De Simone, Rv. 213033). Le locuzioni “gara nei pubblici incanti” o “licitazione privata”, pertanto, non hanno, propriamente, un significato normativo mutuato dalle procedure per l’aggiudicazione degli appalti per pubbliche forniture e con l’osservanza dei termini e delle disposizioni legislative sulla contabilità di Stato, ma vanno riferite ad ogni procedura di gara, anche informale ed atipica, mediante la quale la singola pubblica amministrazione decida di individuare il contraente e concludere un contratto, assicurando una libera competizione tra più concorrenti (Sez. 6, n. 13124 del 28/01/2008, Mancianti, Rv. 239314). La fattispecie di cui all’art. 353 cod. pen. non può, invece, trovare applicazione quando manchi una qualsiasi forma di libera contesa tra concorrenti e, pertanto, ad esempio, quando vi sia una trattativa privata che sia svincolata da ogni schema concorsuale (Sez. 6, n. 12238 del 30/09/1998, De Simone, Rv. 213033), quando, sia prevista solo una comparazione di offerte che la P.A. è libera di valutare, in mancanza di precisi criteri di selezione (Sez. 6, n. 8044 del 21/01/2016, Cerada, Rv. 266118) o quando, nonostante la pluralità di soggetti interpellati, ciascuno presenti indipendentemente la propria offerta e l’amministrazione conservi piena libertà di scegliere secondo criteri di convenienza e di opportunità propri della contrattazione tra privati (Sez. 6, n. 9385 del 13/04/2017, Giugliano, Rv. 272227). La Corte di appello di Brescia ha, pertanto, fatto buon governo di tali principi, ritenendo che la “procedura negoziata senza previa pubblicazione di bando” nella quale sono state poste le condotte di turbativa accertate non esuli dall’ambito applicativo della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 353 cod. pen.; tale procedimento, infatti, integra pur sempre una “gara”, nel senso sopra precisato, essendo finalizzato a porre in essere una comparazione tra i diversi imprenditori inviati ad offrire dalla stazione appaltante pubblica, mediante la previa indicazione dei criteri di selezione e di presentazione delle offerte. La giurisprudenza di legittimità ha, peraltro, affermato che la procedura negoziata senza previa pubblicazione di bando descritta dall’art. 57, comma sesto, D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163, imponendo criteri legali di scelta del contraente, integra pur sempre l’espletamento di una gara e non una semplice indagine di mercato.
Il 9 luglio esce la sentenza di Consiglio di Stato, sez. VI, n. 4178, che ricorda che in materia di controversie aventi ad oggetto gare di appalto e affidamenti di servizi, l’impresa che non partecipa alla gara non può di regola contestare la relativa procedura e l’aggiudicazione in favore di ditte terze; a tale principio generale va fatta eccezione, per esigenze di ampliamento della tutela della concorrenza, solamente in tre tassative ipotesi, e cioè quando: a) si contesti in radice l’indizione della gara; b) all’inverso, si contesti che una gara sia mancata, avendo l’amministrazione disposto l’affidamento in via diretta del contratto; c) si impugnino direttamente le clausole del bando deducendo che le stesse siano immediatamente escludenti. Tanto premesso, il collegio ricorda che l’art. 121 c.p.a. sanziona con l’inefficacia del contratto i soli casi di “omessa pubblicità del bando o dell’avviso”, in quanto rappresenta il vizio più radicale del procedimento di affidamento, perché mina in radice la conoscibilità della procedura e dunque la possibilità di concorrenza. La violazione in parola, tuttavia, non può essere estesa anche a quei casi in cui non sussista un obbligo di pubblicazione del bando di gara, né può essere estesa per analogia ad altre fattispecie che non incidano sui doveri di pubblicità di bando o invito.
Il 12 luglio esce la sentenza del Tar Campania, Salerno, sez. I, n. 1071, che dichiara illegittimo il bando di gara indetto da una ASL per l’affidamento del servizio integrato di pulizia, sanificazione, disinfezione, ausiliariato, logistica e supporto alle attività sanitarie presso le strutture della medesima Azienda, nel caso in cui la P.A. appaltante abbia omesso di disporre la suddivisione in lotti funzionali della gara, e, soprattutto, abbia omesso di esternare puntualmente le motivazioni di pubblico interesse sottese a tale scelta; in tal caso, infatti, la lex specialis deve ritenersi in contrasto con gli artt. 51 e 83, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016, secondo cui gli appalti pubblici debbono risultare adeguati a facilitare la partecipazione delle imprese, anche medie e piccole, e, a tali fini, è sostanzialmente imposto il ricorso allo strumento della suddivisione in lotti, effettuabile su base quantitativa o su base qualitativa, in conformità alle varie categorie e specializzazioni esistenti.
Il 16 luglio esce la sentenza del Tar Calabria – Reggio Calabria, sez. I, n. 418 che stabilisce che “nel caso in cui il prezzo posto dalla Stazione appaltante a base d’asta abbia natura “simbolica” e sia sganciato dai valori di mercato, l’operatore economico interessato non è tenuto a proporre la domanda di partecipazione alla gara, presentando un’offerta economica destinata ad essere ineludibilmente esclusa perché caratterizzata da un prezzo superiore all’importo determinato dall’Amministrazione. Dunque, è’ illegittimo il bando di gara per l’affidamento di un appalto di forniture (nella specie si trattava della fornitura di latte adattato per l’Unità di Neonatologia di un Grande Ospedale Metropolitano), nel caso in cui il prezzo a base d’asta e le condizioni negoziali imposti dalla lex specialis, siano talmente esigui e/o incongrui, nonché oggettivamente fuori mercato, da rendere l’instaurando rapporto contrattuale con la P.A. economicamente non conveniente e matematicamente in perdita; in tal caso, infatti, il bando deve ritenersi predisposto in aperta violazione del principio della concorrenza effettiva ex art. 95 comma 1 d.lgs. n. 50 del 2016.
Il 2 agosto esce la sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, n. 4775 che si pronuncia sul possesso dei requisiti soggettivi per la partecipazione alle gare pubbliche, accogliendo il ricorso proposto da un’impresa. Ribadisce il Supremo Consesso di G.A. che nelle gare di appalto la regola generale è quella per cui il possesso dei requisiti soggettivi da parte delle imprese per partecipare alle procedure di gara deve essere valutato al momento della scadenza del termine per la presentazione delle offerte, e poi essere mantenuto, senza soluzione di continuità, anche nella fase successiva all’aggiudicazione e per tutta la durata del contratto. E’ pertanto illegittima una clausola del capitolato speciale la quale prevede che i requisiti debbono essere posseduti e comprovati con riferimento alla data di pubblicazione del bando di gara; ne consegue che, alla stregua di quanto disposto dall’art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, dall’accertata contrarietà delle clausole del bando o, come nel caso di specie, del capitolato speciale, rispetto al principio di tassatività delle cause di esclusione, discende la nullità della clausola stessa.
Il 3 agosto esce la sentenza del Consiglio di Stato sez. III n. 4809 che stabilisce che negli appalti di forniture, le caratteristiche tecniche previste nel capitolato di appalto valgono a qualificare i beni oggetto di fornitura e concorrono, dunque, a definire il contenuto della prestazione sulla quale deve perfezionarsi l’accordo contrattuale, di talchè eventuali, apprezzabile difformità registrate nell’offerta concretano una forma di ‘aliud pro alio‘, comportante, di per sé, l’esclusione dalla gara, anche in mancanza di apposita comminatoria e, nel contempo, non rimediabile tramite regolarizzazione postuma, consentita soltanto quando i vizi rilevati nell’offerta siano puramente formali o chiaramente imputabili a errore materiale. Al fine di evitare l’estromissione dalla gara per difformità tra prodotti offerte e caratteristiche richieste dalla lex specialis è la ditta che intende avvalersi della clausola di equivalenza ex art. 68 del D.Lgs. n. 163/06, ad avere l’onere di dimostrare l’equivalenza tra i prodotti, non potendo pretendere che di tale accertamento si faccia carico la Commissione di gara. Pertanto, in un appalto di forniture, nel caso in cui sussistano obiettive difformità tra quanto richiesto e quanto offerto, legittimamente la commissione di gara ha proceduto all’esclusione delle offerte tecniche che non possedevano “anche solo uno soltanto” dei requisiti minimi prescritti dall’Allegato 1 al disciplinare.
Il 23 agosto esce le sentenza del Consiglio di Stato, sez. III, n. 5040, che sancisce che nel caso in cui la lex specialis della gara chieda ai partecipanti di documentare il pregresso svolgimento di “servizi analoghi”, la stazione appaltante non è legittimata ad escludere i concorrenti che non abbiano svolto tutte le attività oggetto dell’appalto nè ad assimilare impropriamente il concetto di “servizi analoghi” con quello di “servizi identici”, atteso che la ratio sottesa alla succitata clausola del bando è il contemperamento tra l’esigenza di selezionare un imprenditore qualificato ed il principio della massima partecipazione alle gare pubbliche, dal momento che la locuzione “servizi analoghi” non s’identifica con “servizi identici”. Nel caso in cui la lex specialis della gara chieda ai partecipanti di documentare il pregresso svolgimento di “servizi analoghi”, occorre ricercare elementi di similitudine tra i servizi presi in considerazione, che possono scaturire solo dal confronto tra le prestazioni oggetto dell’appalto da affidare e le prestazioni oggetto dei servizi indicati dai concorrenti al fine di dimostrare il possesso della capacità economico-finanziaria richiesta dal bando. Vale a dire che, pur rilevando l’identità del settore imprenditoriale o professionale, il confronto va fatto in concreto tenendo conto del contenuto intrinseco delle prestazioni, nonché della tipologia e dell’entità delle attività eventualmente coincidenti.
Il 3 settembre esce la sentenza del Tar Campania, Napoli, sez. V, n. 5341, che rende chiarimenti circa le regole interpretative del bando di gara. Nel caso di specie, ribadisce che Tar che nel caso di più possibili interpretazioni di una clausola della lex specialis di gara (una avente quale effetto l’esclusione dalla gara e l’altra tale da consentire la permanenza del concorrente), non può legittimamente aderirsi all’opzione che, ove condivisa, comporterebbe l’esclusione dalla gara, dovendo essere favorita l’ammissione del più elevato numero di concorrenti, in nome del principio del favor partecipationis e dell’interesse pubblico al più ampio confronto concorrenziale.
Il 5 settembre esce la sentenza n 5202 del Consiglio di Stato, Sez. V, che ribadisce il principio consolidato secondo cui non sussiste l’onere per le ditte partecipanti ad una gara di impugnare immediatamente la clausola del bando che prevede il criterio di aggiudicazione, ove la ritengano errata: e ciò in quanto, versandosi nello stato iniziale ed embrionale della procedura, non vi è né prova né indizio della circostanza che l’impugnante certamente non sarebbe prescelto quale aggiudicatario, onde, a diversamente opinare, si finirebbe per imporre all’offerente l’implausibile onere di denunciare la clausola del bando sulla scorta della preconizzazione di una futura ed ipotetica lesione, al fine di tutelare un interesse (quello strumentale alla riedizione della gara), certamente subordinato rispetto all’interesse primario (quello a rendersi aggiudicatario), del quale non sarebbe certa la non realizzabilità (1).
Il 14 settembre esce la sentenza del Tar Campania, Napoli, sez. II, n. 5504, che si pronuncia in tema di esatta interpretazione del bando di gara, ricordando che nei confronti degli atti amministrativi trovano applicazione le medesime regole ermeneutiche stabilite per i contratti dagli artt. 1362 e ss. c.c., tra le quali assume carattere preminente l’interpretazione letterale, nel senso che, solo in presenza di una equivoca formulazione della lettera di invito o del bando di gara, può ammettersi un’interpretazione diversa da quella letterale. Tale preminenza assume particolare rilievo nelle procedure di gara, poiché risponde all’esigenza di affidamento delle imprese nella chiarezza “delle regole del gioco”, che, dal lato dell’amministrazione, corrisponde al dovere di coerenza e lealtà nella applicazione in concreto di tali regole, cui la stessa si è autovincolata con la pubblicazione della lex specialis. Nel caso di clausole del bando di gara comunque ambigue, deve preferirsi l’interpretazione che sia più adeguata al contenuto e oggetto del contratto e sia comunque conforme al principio di proporzionalità, di derivazione eurounitaria,(cfr. art. 1 l. 241/90), ma che trova terreno di elezione nel campo dei pubblici appalti (cfr. art. 4 D.Lgs. 50/2016).
Il 17 settembre esce la sentenza del Consiglio di Stato, n. 5427 che ribadisce che le procedure di affidamento di contratti pubblici debbono essere disciplinate dalla normativa vigente alla data di pubblicazione del bando (nella Gazzetta Ufficiale: cfr. art. 66, comma 8 del d.lgs. n. 163/2006) e restino, per tal via, insensibili allo jus superveniens. Nel caso di specie, la Quinta Sezione del Consiglio di Stato si pronuncia sul ricorso proposto da un consorzio contro la Regione Toscana, al fine di ottenere la riforma della sentenza emessa dal TAR Toscana – Firenze Sezione I, avendo quest’ultima respinto il ricorso proposto avverso l’esclusione del consorzio dalla procedura concorsuale, indetta dalla Regione Toscana, per l’affidamento, suddiviso in tre lotti, del servizio di guardiania/reception nonostante, il predetto ricorrente avesse fatto ritualmente pervenire la propria offerta. La Commissione si pronuncia negativamente, sostenendo che la disposizione di cui all’art. 47 del d. lgs. n. 50/2016 è formulata, all’atto di indizione della gara, in termini preclusivi. In ordine alla problematica sollevata, i giudici del Consiglio di Stato statuiscono quanto segue: “a) che – ferma restando la ribadita inapplicabilità, ratione temporis, dell’art. 47, comma 2 del Codice – la gara oggetto di controversia, avente ad oggetto l’affidamento di servizi, rimane assoggettata alla disciplina di cui all’art. 47, comma 1, che esclude l’operatività del cumulo alla rinfusa, imponendo ai consorzi stabili che intendano utilizzare i requisiti di qualificazione posseduti dalle imprese consorziate (con la sola salvezza di quelli relativi alla disponibilità delle attrezzature e dei mezzi d’opera e all’organico medio annuo) di indicarle espressamente quali esecutrici dei lavori; b) che non trova conforto l’assunto che il “nuovo” art. 47, comma 2 non avrebbe fatto atto che “legificare” una interpretazione già desumibile dal previgente testo (e – del resto – dalla relazione illustrativa che accompagna il correttivo, sub art. 28, emerge con chiarezza il carattere innovativo della disposizione; c) la disciplina transitoria di cui agli artt. 83, comma 2 e 216, comma 14 del Codice – nella parte in cui rende interinalmente operative le disposizioni del previgente Regolamento – non è applicabile, in quanto riferita esclusivamente agli appalti aventi ad oggetto l’affidamento di lavori.”
Il 12 ottobre esce la sentenza del Tar Veneto, Sez. I, n 940 che in accoglimento del ricorso del privato sostiene che è illegittima l’aggiudicazione di una gara di appalto nel caso in cui la P.A. abbia successivamente operato una modifica sostanziale del bando originario e, tuttavia, per tale modifica, abbia omesso di rispettare le stesse forme di pubblicità osservate in precedenza; tale modus operandi della P.A., infatti, integra una palese violazione del divieto di modificare o integrare la lex specialis di gara, se non attraverso atti che abbiano goduto delle identiche garanzie di pubblicità dovute per il bando di gara nonché della regola che impone, nelle ipotesi di modifiche sostanziali della lex specialis, la riapertura dei termini per la presentazione delle offerte.
Il 13 ottobre esce la sentenza del Tar Lazio – Roma, sez. II ter, n. 8977, che afferma che l’art. 23, comma 16, del dlgs n. 50/2016 (secondo cui: “Nei contratti di lavori e servizi la stazione appaltante, al fine di determinare l’importo posto a base di gara, individua nei documenti posti a base di gara i costi della manodopera sulla base di quanto previsto nel presente comma. I costi della sicurezza sono scorporati dal costo dell’importo assoggettato al ribasso”) costituisce una previsione accessoria all’obbligo, chiaramente scandito dal resto del comma 16, di porre a base delle previsioni di gara il costo effettivo del lavoro, che è una voce soggetta a ribasso in quanto dipendente dall’organizzazione aziendale che la norma considera quindi migliorabile dal concorrente (a differenza dei costi di sicurezza che sono incomprimibili e che, infatti, opportunamente il comma distingue). Alla luce della natura del precetto che pone l’art. 25 comma 16 ultimo inciso, del d.lgs. 50/2016, non è annullabile il bando che non indichi espressamente, nell’ambito del prezzo a base d’asta o dell’affidamento, l’importo separato del costo della manodopera in generale, salvo che tale omissione non implichi un oggettivo impedimento o a formulare l’offerta, oppure a valutarne l’attendibilità in sede di gara.
Il 17 ottobre esce la sentenza del Tar Campania, Napoli, sez. V, n. 6054, che accogliendo il ricorso di un’impresa sancisce che è nulla, per violazione dei principi di imparzialità e della massima partecipazione alle gare pubbliche, la clausola del bando di una gara di appalto, nella parte in cui prevede che l’offerente deve essere escluso in ogni caso di ritardo nella presentazione del plico, anche qualora lo stesso non giunga a destinazione in tempo utile a causa di forza maggiore, con esonero di ogni responsabilità della P.A. appaltante anche nel caso di fatto addebitabile alla stessa. E’ illegittimo, per violazione dei principi di imparzialità e della massima partecipazione alla gare pubbliche, nonché della par condicio, il provvedimento con il quale la P.A. appaltante ha escluso una ditta da una gara, per tardiva presentazione del plico contenente l’offerta, ove il suddetto ritardo sia stato determinato da un disguido non imputabile alla ditta interessata, avendo quest’ultima consegnato al corriere privato, ai fini della consegna alla P.A., il plico contenente l’offerta ben nove giorni prima dalla scadenza del termine previsto dal bando – lasso di tempo ordinariamente sufficiente, secondo l’id quod plerumque accidit, a garantire la tempestività della consegna ed essendosi anche successivamente attivata, una volta informata dal corriere privato del mancato recapito – a ritirare immediatamente la busta dal medesimo corriere per procedere essa stessa alla consegna manuale nel più breve tempo possibile.
Il 24 ottobre esce la sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, n. 6040, che ribadisce l’orientamento consolidato, secondo cui le clausole del bando di gara prive di portata escludente vanno impugnate unitamente al provvedimento lesivo e possono essere impugnate unicamente dall’operatore economico che abbia partecipato alla gara o manifestato formalmente il proprio interesse alla procedura. Le clausole non immediatamente lesive, in specie, vanno impugnate con l’atto di approvazione della graduatoria definitiva, che definisce la procedura concorsuale ed identifica in concreto il soggetto leso dal provvedimento, rendendo attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva e postulano la preventiva partecipazione alla gara. Né il Codice dei contratti pubblici del 2006 né quello del 2016 consentono di rinvenire elementi per pervenire all’affermazione che debba imporsi all’offerente di impugnare immediatamente la clausola del bando che prevede il criterio di aggiudicazione, ove la ritenga errata: versandosi nello stato iniziale della procedura, non vi sarebbe infatti base per assumere l’impugnante non sarebbe divenuto aggiudicatario. In specie, non può considerarsi escludente e, come tale, immediatamente impugnabile la clausola del bando che prevede in maniera generica ed indeterminata di non ammettere le imprese senza un certo fatturato minimo afferente servizi specifici, in violazione dell’art. 83 d.lgs. n. 50 del 2016, senza prevedere alcun requisito di fatturato minimo specifico, né per servizi “identici”, né per servizi “analoghi”, ai fini della legittima partecipazione dei concorrenti alla procedura stessa. In tal caso, infatti, in assenza della determinazione di detto “determinato fatturato”, non è possibile stabilire se i concorrenti siano idonei a svolgere la commessa e, in particolare, non è possibile stabilirlo ex ante, in modo certo e obiettivo, con evidente lesione del principio della par condicio: tale illegittimità della clausola rende illegittima la procedura, non essendo possibile effettuare una valutazione, sulla base di criteri certi, oggettivi, stabiliti ex ante, se l’eventuale aggiudicatario sia idoneo a svolgere il servizio.
Il 9 novembre esce la sentenza n. 6326 del Consiglio di Stato, sez. III, che si pronuncia sulla clausola sociale nei bandi di gara e sulla sua intepretazione. Sostiene il CdS che la cd. clausola sociale presente talvolta nei bandi di gara deve essere interpretata conformemente ai principi nazionali e comunitari in materia di libertà di iniziativa imprenditoriale e di concorrenza, risultando altrimenti essa lesiva della concorrenza, scoraggiando la partecipazione alla gara e limitando ultroneamente la platea dei partecipanti, nonché atta a ledere la libertà d’impresa, riconosciuta e garantita dall’art. 41 Cost., che sta a fondamento dell’autogoverno dei fattori di produzione e dell’autonomia di gestione propria dell’archetipo del contratto di appalto. Corollario obbligato di questa premessa è che tale clausola deve essere interpretata in modo da non limitare la libertà di iniziativa economica e, comunque, evitando di attribuirle un effetto automaticamente e rigidamente escludente.
Il 19 novembre esce la sentenza del Tar Campania, Napoli, sez.I, n. 6691, secondo cui, in accoglimento del ricorso del privato, viene dichiarata la nullità della clausola del bando di gara che impone a pena di esclusione che, in caso di avvalimento, l’impresa ausiliata deve essere in possesso di una propria attestazione SOA; infatti, la disciplina dell’istituto dell’avvalimento di cui all’art. 89 del d.lgs. 18 aprile 2016 n. 50 non riconosce alcun potere alla stazione appaltante di introdurre condizioni limitative o, comunque, restrittive dell’avvalimento, tantomeno di sanzionarne la mancanza con l’immediata esclusione del concorrente.
Il 19 novembre esce la sentenza del Tar Campania – Napoli, sez. I, n. 6689, che torna a pronunciarsi sul principio di tassatività delle cause di esclusione negli appalti. Sostiene il collegio che in materia di principio di tassatività delle cause di esclusione, può ritenersi che si sia in presenza di annullabilità ove la norma contempli il potere dell’amministrazione di disciplinare e richiedere determinati requisiti di partecipazione ai concorrenti o modalità di formazione delle offerte, per cui ogni possibile criticità si risolve in un vizio per esercizio contra legem di quel potere; si è in presenza di nullità invece tutte le volte in cui quel potere sia esercitato praeter legem, ossia laddove l’amministrazione abbia richiesto requisiti che la norma codicistica o altra non contemplino affatto.
Il 28 novembre esce la sentenza nella causa C-328/2017 della Corte di Giustizia E.U., SEZ. III – che si pronuncia sostenendo che sia l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21 dicembre 1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 dicembre 2007, sia l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 92/13/CEE del Consiglio, del 25 febbraio 1992, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle norme comunitarie in materia di procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di energia e degli enti che forniscono servizi di trasporto nonché degli enti che operano nel settore delle telecomunicazioni, come modificata dalla direttiva 2007/66, devono essere interpretati nel senso che non ostano a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che non consente agli operatori economici di proporre un ricorso contro le decisioni dell’amministrazione aggiudicatrice relative a una procedura d’appalto alla quale essi hanno deciso di non partecipare poiché la normativa applicabile a tale procedura rendeva molto improbabile che fosse loro aggiudicato l’appalto in questione. Tuttavia, spetta al giudice nazionale competente valutare in modo circostanziato, tenendo conto di tutti gli elementi pertinenti che caratterizzano il contesto della controversia di cui è investito, se l’applicazione concreta di tale normativa non sia tale da poter ledere il diritto a una tutela giurisdizionale effettiva degli operatori economici interessati.
Il 4 dicembre esce la sentenza n. 1115 del Tar Veneto, Sez. I, che afferma che nel campo degli appalti pubblici, la scelta del contratto collettivo da applicare rientra nelle prerogative di organizzazione dell’imprenditore e nella libertà negoziale delle parti, con il solo limite che esso risulti coerente con l’oggetto dell’appalto, sicché la stazione appaltante non può imporre l’applicazione di un particolare CCNL, poiché altrimenti verrebbero compromessi i principi comunitari di concorrenza e parità di trattamento tra le imprese; ne consegue che la scelta ad opera di un concorrente di applicare un CCNL tale da determinare un abbattimento dei costi e, quindi, un prezzo più competitivo, ove sia rispettato il limite della coerenza con l’oggetto dell’appalto, potrà rilevare solo in sede di valutazione di congruità dell’offerta, ma non costituire causa di non ammissibilità. La clausola della lex specialis di gara, che non contiene un preciso riferimento al CCNL da applicare nella formulazione delle offerte, non solo non è astrattamente lesiva e suscettibile di pregiudicare la partecipazione di un’impresa (e come tale immediatamente impugnabile), ma risulta conforme alla finalità di garantire la continuità dell’occupazione in favore dei lavoratori, e ciò, proprio nella parte in cui non individua espressamente un contratto collettivo di riferimento.
Il 6 dicembre esce la sentenza del Tar Lazio – Roma, sez. III quater, n. 11828. Il collegio ribadisce che in materia di appalti pubblici, il bando di gara va impugnato in via immediata quando contenga clausole escludenti, ma previa presentazione della domanda di partecipazione; mentre, quando non contenga clausole escludenti va impugnato dall’offerente unitamente all’atto conclusivo della procedura. Nelle gare di appalto la regola generale è quella per cui soltanto colui che ha partecipato alla gara è legittimato ad impugnare l’esito della medesima, essendo l’unico soggetto titolare di una posizione differenziata. Chi volontariamente e liberamente si è astenuto dal partecipare ad una selezione non è legittimato a chiederne l’annullamento ancorché vanti un interesse di fatto a che la competizione – per lui res inter alios acta – venga nuovamente bandita. A tale regola generale può derogarsi, per esigenze di ampliamento della tutela della concorrenza, solamente in tre tassative ipotesi e, cioè, quando: I) si contesti in radice l’indizione della gara; II) si contesti che una gara sia mancata, avendo l’amministrazione disposto l’affidamento in via diretta del contratto; III) si impugnino direttamente le clausole del bando assumendo che le stesse siano immediatamente escludenti. Devono essere fatte rientrare nel genus delle “clausole immediatamente escludenti” le fattispecie di: a) clausole impositive, ai fini della partecipazione, di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale; b) regole che rendano la partecipazione incongruamente difficoltosa o addirittura impossibile; c) disposizioni abnormi o irragionevoli che rendano impossibile il calcolo di convenienza tecnica ed economica ai fini della partecipazione alla gara; ovvero prevedano abbreviazioni irragionevoli dei termini per la presentazione dell’offerta; d) condizioni negoziali che rendano il rapporto contrattuale eccessivamente oneroso e obiettivamente non conveniente; e) clausole impositive di obblighi contra ius (es. cauzione definitiva pari all’intero importo dell’appalto); f) bandi contenenti gravi carenze nell’indicazione di dati essenziali per la formulazione dell’offerta (come ad esempio quelli relativi al numero, qualifiche, mansioni, livelli retributivi e anzianità del personale destinato ad essere assorbiti dall’aggiudicatario), ovvero che presentino formule matematiche del tutto errate (come quelle per cui tutte le offerte conseguono comunque il punteggio di “0” pt.); g) atti di gara del tutto mancanti della prescritta indicazione nel bando di gara dei costi della sicurezza “non soggetti a ribasso”.
Il 10 dicembre esce la sentenza n. 2335 del Tar Sicilia – Catania, Sez. I, n. 2335 che ribadisce che le clausole del bando di gara che non rivestano portata escludente devono essere impugnate unitamente al provvedimento che rende attuale la lesione (id est: aggiudicazione a terzi), considerato altresì che la postergazione della tutela avverso le clausole non escludenti del bando, al momento successivo ed eventuale della denegata aggiudicazione, non si pone certamente in contrasto con il principio di concorrenza di matrice europea, perché non lo oblitera, ma lo adatta alla realtà dell’incedere del procedimento nella sua connessione con i tempi del processo. Non ci si trova al cospetto di “clausole del bando immediatamente escludenti” avuto riguardo a quelle con le quali la stazione appaltante presceglie il criterio di aggiudicazione; infatti versandosi nello stato iniziale ed embrionale della procedura, non vi sarebbe infatti né prova né indizio della circostanza che l’impugnante certamente non sarebbe prescelto quale aggiudicatario. In base all’art. 204 del D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50 (che ha introdotto all’art. 120, del D.Lgs. n. 104 del 2010 il comma 2-bis, ai sensi del quale anche il provvedimento di ammissione – e non solo di esclusione – va impugnato nel termine di trenta giorni, decorrente dalla sua pubblicazione sul profilo del committente della stazione appaltante), l’onere di immediata impugnazione (anche) delle ammissioni importa che il concorrente che intenda impugnarle deve essere messo in condizione di sapere innanzitutto se la stazione appaltante abbia effettuato le valutazioni di sua pertinenza sui fatti dichiarati dai concorrenti ai fini di una loro possibile rilevanza quali gravi illeciti professionali e di conoscere, sia pure succintamente, le ragioni per le quali l’amministrazione, specie a fronte di un numero così rilevante di risoluzioni e di penali (alcune delle quali non impugnate giudizialmente), quali quelle dichiarate dalla controinteressata, abbia ritenuto che non fossero sussistenti i presupposti dei gravi illeciti professionali rilevanti ai fini dell’esclusione. Onde deve ritenersi illegittimo il provvedimento di ammissione di una impresa pur in presenza di una precedente risoluzione contrattuale, senza una apposita valutazione effettuata dall’amministrazione appaltante sulla gravità e rilevanza nella gara in questione dei fatti dichiarati.
2019
Il 3 gennaio esce la sentenza del Tar Basilicata, Sez. I, n. 12, che si pronuncia annullando una clausola di un disciplinare di gara, impugnata da un società, ai sensi dell’art. 83, comma 8, del D.Lg.vo n. 50/2016. Precisamente, il Tar adito sancisce che sussiste la nullità ex art. 83, comma 8, D.Lg.vo n. 50/2016 di della clausola del Disciplinare di gara la quale ha previsto che all’offerta economica doveva essere allegato, a pena di esclusione, il Computo metrico estimativo dei lavori offerti, elaborato sulla base del computo metrico estimativo allegato al progetto posto a base di gara, comprendente anche le lavorazioni oggetto delle proposte migliorative e delle opere aggiuntive offerte, che doveva “coincidere” con quello non estimativo, allegato all’offerta tecnica, e che doveva “essere elaborato sulla base dei prezzi unitari offerti al netto della sicurezza”, il cui “importo complessivo” doveva “corrispondere all’importo netto offerto”. Dette prescrizioni, contenute nel disciplinare di gara, a pena di esclusione, non sono previste dal Codice degli appalti e/o da altre norme vigenti e, pertanto, essendo limitative della concorrenza oltre i casi tassativi di legge, devono essere dichiarate nulle.
Il giorno 8 gennaio esce la sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, n. 173, che confermando l’orientamento a più riprese sancito dall’Adunanza Plenaria, sancisce che le clausole del bando di gara che non rivestano portata escludente devono essere impugnate unitamente al provvedimento lesivo e possono essere impugnate unicamente dall’operatore economico che abbia partecipato alla gara o manifestato formalmente il proprio interesse alla procedura. Pertanto, deve escludersi che sussista l’onere di immediata impugnazione delle prescrizioni del bando riguardanti il metodo di gara, il criterio di aggiudicazione e la valutazione dell’anomalia, ma va ritenuto anche che, con riferimento alla vigente legislazione (d.lgs. n. 50 del 18 aprile 2016, siccome modificato dal d.lgs. n. 56 del 19 aprile 2017), vanno immediatamente impugnate soltanto le clausole del bando preclusive della partecipazione o tali da impedire con certezza la stessa formulazione dell’offerta.
Il 15 gennaio esce la sentenza n. 213 del Tar Campania, Napoli, Sezione I, che, accogliendo l’impugnazione proposta da un’impresa avverso un provvedimento di esclusione da una gara, sancisce che non può essere esclusa dalla gara una ditta che ha prodotto una scheda tecnica in lingua inglese, atteso che ciò può costituire presupposto per l’attivazione di un procedimento di regolarizzazione, ai sensi dell’art. 46 del d.lgs. n. 163 del 2006, con richiesta di traduzione, ma non esplica effetto invalidante dell’offerta nel suo complesso ad impedimento del suo esame. Aggiunge il collegio che le clausole di esclusione poste dalla legge o dal bando in ordine alle dichiarazioni cui è tenuta la impresa partecipante alla gara sono di stretta interpretazione, dovendosi dare esclusiva prevalenza alle espressioni letterali in esse contenute e restando preclusa ogni forma di estensione analogica diretta a evidenziare significati impliciti, che rischierebbe di vulnerare l’affidamento dei partecipanti, la par condicio dei concorrenti e l’esigenza della più ampia partecipazione. Ne consegue che le norme di legge e di bando che disciplinano i requisiti soggettivi di partecipazione alle gare pubbliche devono essere interpretate nel rispetto del principio di tipicità e tassatività delle ipotesi di esclusione, che di per sé costituiscono fattispecie di restrizione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 della Costituzione, oltre che dal Trattato dell’Unione Europea. Parimenti, sancisce il collegio che non può essere esclusa dalla gara una ditta che non abbia reso le dichiarazioni prescritte anche con riferimento al responsabile tecnico della ditta stessa che non risulta previsto dalla legge di gara, la quale riferisce le dichiarazioni stesse espressamente al solo direttore tecnico. Infatti, i requisiti soggettivi di partecipazione alla gara non possono essere interpretati in modo estensivo o analogico, poiché le imprese devono essere messe in condizione di conoscere con certezza quali sono gli adempimenti occorrenti per il soddisfacimento delle prescrizioni previste per legge, pena la lesione della trasparenza delle regole di gara e, per conseguenza, della par condicio tra i concorrenti.
Il 16 gennaio esce la sentenza n. 18 del Tar Lazio – Latina, sez. I, che accogliendo l’impugnazione del privato, ribadisce, in via pregiudiziale, che va riconosciuta la legittimazione a ricorrere, anche svincolata dalla partecipazione alla procedura, al soggetto che manifesti l’intenzione di impugnare in via diretta una clausola del bando che sia immediatamente escludente. In particolare sussiste la legittimazione ad impugnare una clausola escludente di un bando di gara da parte di una ditta che ha manifestato l’interesse alla procedura di gara, tenuto conto che contrastando, in via immediata, il bando di gara – in relazione alla clausola escludente contestata – evidenzia ulteriormente tale logica giustificazione strettamente correlata all’onere di sollecita impugnazione dell’atto lesivo. Tanto premesso, nel merito dichiara illegittima la clausola del bando di gara per l’affidamento del servizio di gestione e manutenzione preventiva e correttiva delle apparecchiature elettromedicali, che impone alle imprese partecipanti alla gara di affidare le attività di manutenzione esclusivamente alle case produttrici degli apparecchi o a tecnici che abbiano requisiti di esperienza dalle stesse certificati, atteso che tale clausola appare contraria alla logica e al principio di libertà della concorrenza, la quale si estrinseca anche nella libertà dei concorrenti di formulare un’offerta congrua e adeguata alle leggi di mercato scevra da vincoli che la riconducano a un ingiustificato onere di coinvolgere nell’esecuzione dell’appalto soggetti estranei all’impresa offerente.
Il 16 gennaio esce la sentenza n. 42 del Tar Emilia Romagna, Bologna, sez. II, che dichiara illegittima una gara indetta da una P.A. (nella specie, dal Comando Legione Carabinieri) per l’affidamento dell’appalto del servizio di riparazione meccanica degli autoveicoli nel caso in cui il capitolato abbia individuato quale criterio di aggiudicazione quello basato sul minor prezzo, ricorrendo i presupposti di cui all’art. 95, comma 4, lettera b), D.Lgs. n. 50/2016, dovendosi in particolare ritenere che: a) gli interventi di assistenza, manutenzione e riparazione periodica degli automezzi presentano le caratteristiche di standardizzazione e ripetitività; b) non si tratta di servizio di natura tecnica e/o ad alta intensità di manodopera ai sensi dell’art. 95, comma 3, del D.Lgs. n. 50/2016. L’interpretazione della lex specialis di una gara d’appalto soggiace, come tutti gli atti amministrativi, alle stesse regole stabilite per i contratti dagli artt. 1362 e ss., tra cui ha carattere preminente quella collegata all’interpretazione letterale, in quanto compatibile con il provvedimento amministrativo. Inoltre, la lex specialis va interpretata per ciò che essa dice espressamente e dispensando il concorrente dal ricostruire, con indagini ermeneutiche integrative, ulteriori ed inespressi significati. Ne segue che, ove il dato testuale presenti evidenti ambiguità, dovrà essere scelto dall’interprete il significato più favorevole all’ammissione del candidato: se, dunque, la formulazione letterale della lex specialis lascia spazi interpretativi, andrà prescelta l’interpretazione volta a favorire la massima partecipazione alla procedura.
Il 24 gennaio escono le ordinanze nn. 1,2,3, dell’ADUNANZA PLENARIA del Consiglio di Stato. In dette ordinanze, il Supremo Consesso di Giustizia Amministrativa era stato chiamato a pronunciarsi circa la legittimità del provvedimento con cui la stazione appaltante aveva automaticamente escluso, dalla partecipazione ad una gara, il concorrente che aveva omesso di indicare gli oneri di sicurezza ed il costo della manodopera, automatismo espulsivo, ovvero se invece dovesse applicarsi, in tali casi, il meccanismo del “soccorso istruttorio”. La Plenaria, chiamata a dirimere detta questione, rimette alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la questione se il diritto dell’Unione europea (e segnatamente i princìpi di legittimo affidamento, di certezza del diritto, di libera circolazione, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi) ostino a una disciplina nazionale (quale quella di cui agli artt. 83, comma 9, 95, comma 10 e 97, comma 5 del ‘Codice dei contratti pubblici’ italiano) in base alla quale la mancata indicazione da parte di un concorrente a una pubblica gara di appalto dei costi della manodopera e degli oneri per la sicurezza dei lavoratori comporta comunque l’esclusione dalla gara senza che il concorrente stesso possa essere ammesso in un secondo momento al beneficio del c.d. ‘soccorso istruttorio’, pur nell’ipotesi in cui la sussistenza di tale obbligo dichiarativo derivi da disposizioni sufficientemente chiare e conoscibili e indipendentemente dal fatto che il bando di gara non richiami in modo espresso il richiamato obbligo legale di puntuale indicazione.
Il 24 gennaio esce la sentenza della sezione V del Consiglio di Stato, n. 605, che accoglie il ricorso di un’impresa avverso una clausola immediatamente escludente del bando di gara. Anzitutto, in via pregiudiziale il collegio ritiene che il ricorso avverso il bando di una gara di appalto (rectius avverso le clausole contenute nell’avviso di indagine di mercato) era stato notificato alla Centrale Unica di Committenza, che ha dato avvio e curato la procedura concorsuale per conto del Comune (pubblicando l’avviso di indagine di mercato e inoltrando, all’esito delle manifestazioni di interesse, le lettere di invito); in tal caso, infatti, risulta pienamente rispettato il disposto di cui all’art. 41 cod. proc. amm. che identifica l’Amministrazione cui deve essere notificato il ricorso introduttivo del giudizio esclusivamente in quella che ha emesso l’atto impugnato. Nel merito, il CdS afferma che una clausola del bando che impone, a pena di esclusione, di dimostrare il possesso di una officina nel territorio del Comune rientra senz’altro tra quelle c.d. escludenti, rendendo impossibile la partecipazione alla procedura al concorrente privo del requisito prescritto, per cui la presentazione dell’offerta da parte di un concorrente privo del requisito avrebbe costituito un onere inutile ai fini della legittimazione ad agire. E’ illegittima una clausola del bando dell’appalto del servizio di riparazione, manutenzione e revisione dei mezzi comunali che impone, a pena di esclusione, alle imprese partecipanti di dimostrare il possesso di una officina nel territorio del Comune, atteso che il possesso di un’officina con sede operativa nel territorio del Comune è espressamente qualificato dalla lex specialis come requisito di partecipazione ai fini della gara e non già di mera esecuzione, richiesto, a valle dell’aggiudicazione, per la sola stipula del contratto. In relazione a tale aspetto, la clausola in parola viola i principi di massima partecipazione alle gare e par condicio, favorendo la partecipazione alla gara delle sole imprese locali (verosimilmente già in possesso di un’officina con sede operativa nel territorio del Comune), risultando fortemente limitativa della concorrenza lì dove di fatto “non consente all’impresa di organizzarsi all’esito della vittoriosa partecipazione”. Parimenti, viene ritenuto illegittimo il bando di una gara per l’affidamento del servizio di riparazione, manutenzione e revisione dei mezzi di un Comune che prevede, quale criterio di aggiudicazione, quello del maggior ribasso piuttosto che quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa. E ciò non tanto ed esclusivamente per il carattere ripetitivo e standardizzato delle prestazioni oggetto dell’appalto (certamente riscontrabile nella fattispecie, essendo tutti i lotti caratterizzati da elevata ripetitività), quanto per la mancata ricorrenza di un servizio ad alta intensità di manodopera, evenienza quest’ultima che consente certamente di escludere la possibilità del ricorso al criterio del prezzo più basso, imponendo invece quello della offerta economicamente più vantaggiosa.
Il 4 febbraio esce la sentenza n. 824 del Consiglio di Stato sez. V, che in tema di legittimazione processuale all’impugnazione, ribadisce che nelle gare pubbliche è onere dell’interessato procedere all’immediata impugnazione delle clausole del bando o della lettera di invito che prescrivano il possesso di requisiti di ammissione o di partecipazione alla gara la cui carenza determina immediatamente l’effetto escludente, configurandosi il successivo atto di esclusione come meramente dichiarativo e ricognitivo di una lesione già prodotta; solo il carattere ambiguo della clausola, che non rende immediatamente percepibile l’effetto preclusivo alla partecipazione per chi sia privo di un requisito soggettivo richiesto dal bando, ne esclude l’immediata lesività e ne consente l’impugnazione unitamente all’atto di esclusione, applicativo della clausola stessa suscettibile di diverse interpretazioni. E’ evidente, infatti, che in ipotesi di clausole non escludenti, difettando la lesione dell’interesse legittimo del privato alla partecipazione alla gara, l’impugnazione delle stesse andrà ritenuta inammissibile, poiché non essendoci lesione manca anche l’interesse a ricorrere e l’impugnazione andrà dichiarata inammissibile.
Il giorno 8 febbraio 2019 n. 713 viene pubblicata la sentenza del TAR CAMPANIA – NAPOLI, Sez. III, che, in senso difforme dalla giurisprudenza precedente, sostiene che l’onere di impugnare immediatamente le previsioni della legge di gara non concerne solo quelle in senso classico “escludenti”, che prevedono requisiti soggetti di partecipazione, ma anche le clausole afferenti alla formulazione dell’offerta, sia sul piano tecnico che economico, laddove esse rendano (realmente) impossibile la presentazione di una offerta. Nelle gare di appalto, le vicende riguardanti l’impresa ausiliaria sono logicamente e giuridicamente destinate a ripercuotersi sul concorrente, non potendo evidentemente ammettersi che quest’ultimo possa partecipare alla gara con i requisiti di un soggetto immeritevole di contrarre con la P.A. e carente dei requisiti generali ex art. 80, secondo quanto prescritto dall’art. 89 del codice dei contratti pubblici, essendo da escludere che possa di fatto essere favorita una sua dissimulata forma di partecipazione e l’aggiramento del divieto. Pertanto, viene riconosciuto illegittimo l’operato della Stazione appaltante la quale, nel disporre l’esclusione dell’impresa ausiliaria perché autrice di numerose di inadempienze contrattuali pregresse, non ha consentito la sostituzione dell’ausiliaria stessa, così come previsto dall’art. 89, terzo comma, del d.lgs. n. 50 del 2016.
Il 12 febbraio esce la sentenza del Tar Campania, Napoli, Sez. V, n. 776 che, estendendo l’onere di immediata di impugnazione di alcune clausole del bando di gara, sancisce che “l’impugnazione della lex specialis della gara è ammissibile, oltre che nel caso di “clausole immediatamente escludenti” (1), anche nel caso di: a) clausole impositive, ai fini della partecipazione, di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale (2); regole che rendano la partecipazione incongruamente difficoltosa o addirittura impossibile (3); c) disposizioni abnormi o irragionevoli che rendano impossibile il calcolo di convenienza tecnica ed economica ai fini della partecipazione alla gara; ovvero prevedano abbreviazioni irragionevoli dei termini per la presentazione dell’offerta (4); d) condizioni negoziali che rendano il rapporto contrattuale eccessivamente oneroso e obiettivamente non conveniente (5); e) clausole impositive di obblighi contra ius (6); f) bandi contenenti gravi carenze nell’indicazione di dati essenziali per la formulazione dell’offerta (come ad esempio quelli relativi al numero, qualifiche, mansioni, livelli retributivi e anzianità del personale destinato ad essere assorbiti dall’aggiudicatario), ovvero che presentino formule matematiche del tutto errate (come quelle per cui tutte le offerte conseguono comunque il punteggio di zero) g) atti di gara del tutto mancanti della prescritta indicazione nel bando di gara dei costi della sicurezza “non soggetti a ribasso”. Tanto premesso, viene dichiarata illegittima la clausola del disciplinare di gara che rende incongruamente difficoltosa o addirittura inutile la partecipazione alla procedura per quei concorrenti i quali non dispongano di un “centro di cottura per la produzione di pasti e prodotti di gastronomia” (posto ad una distanza non superiore a 14 km. dal luogo di svolgimento del servizio) sin dal momento della presentazione dell’offerta, intendendo dotarsene solo in caso di aggiudicazione” e che per tale requisito esclude la facoltà di ricorrere all’avvalimento.
Il 13 febbraio esce la sentenza del Tar Puglia – Bari, Sez. II – n. 235, che sancisce che l’eterointegrazione degli atti d’indizione di una gara di appalto è configurabile esclusivamente in presenza di norme imperative recanti una rigida predeterminazione dell’elemento destinato a sostituirsi alla clausola difforme o inesistente o lacunosa, sicché non ricadano sui concorrenti gli eventuali errori commessi dalla stazione appaltante. Ciò significa che, in generale, all’eterointegrazione debba farsi ricorso in modo accorto, poiché la legge di gara deve essere intesa secondo le regole dettate dagli articoli 1362 e seguenti del codice civile, alla cui stregua si deve comunque attribuire valore preminente all’interpretazione letterale, in coerenza con i principi di chiarezza e trasparenza, ex art. 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241. Diversamente opinando, si violerebbe anche il principio della tassatività delle cause di esclusione, che è chiaramente ispirato al principio del favor partecipationis.
Il 19 febbraio esce la sentenza n. 1143 del Consiglio di Stato, Sez. V, n. 1143, che, in accoglimento del ricorso del privato, riconosce la nullità della clausola del disciplinare che disponga l’esclusione dell’operatore economico in ragione della discrepanza tra l’importo totale del computo metrico estimativo del progetto e il prezzo a corpo derivante dall’applicazione del ribasso percentuale offerto all’importo a base di gara. A dire del Consiglio di Stato, infatti, tale clausola si pone in contrasto con la previsione dell’art. 118 d.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207 che, al secondo comma, prevede che: “Ai sensi dell’art. 53, comma 4, del codice, per le prestazioni a corpo, il prezzo convenuto non può essere modificato sulla base della verifica della quantità o della qualità della prestazione, per cui il computo metrico estimativo, posto a base di gara ai soli fini di agevolare lo studio dell’intervento, non ha valore negoziale”. L’art. 118, comma 2, è applicabile a tutti i casi di contratto “a corpo”, giusto il rinvio in apertura all’art. 53, comma 4, del codice dei contratti pubblici, il quale a sua volta ha quale ambito di applicazione proprio i contratti di appalto di lavori (anche se integrati) “stipulati a corpo”.
Il 25 gennaio esce la sentenza n. 989 del Tar Roma – Lazio, sez- III bis, che si pronuncia nel senso che
l’amministrazione deve procedere allo scorrimento della graduatoria definitiva, seguendo l’ordine della medesima e sulla base dei punteggi conseguiti da parte dei singoli candidati e, quindi, attribuire i posti che effettivamente siano rimasti scoperti – tenendo conto sia delle sedi disponibili che delle relative preferenze espresse nella domanda di partecipazione – avuto esclusivo riguardo, nella predetta operazione di scorrimento, quanto alle posizioni da scorrere, ai soli candidati che abbiano presentato ricorso e abbiano conseguito in sede giurisdizionale un provvedimento favorevole in sede cautelare o di merito, con l’avvertenza, quanto alla posizione del singolo ricorrente interessato dai predetti provvedimenti giurisdizionali, che – avuto riguardo alla complessità della vicenda e alla non agevole determinazione sia del numero dei ricorrenti effettivamente interessati che dei posti effettivamente disponibili al fine – l’anteriorità o meno del conseguimento dei singoli provvedimenti cautelari o di merito di cui sopra e conseguentemente della loro esecuzione da parte dell’amministrazione non consuma in via definitiva il relativo posto attribuito in quella sede, potendosi verificare la situazione che, alla conclusione dell’intera vicenda giurisdizionale che ha interessato la procedura risulti che, atteso il numero complessivo degli interessati, alcuni dei ricorrenti destinatari di provvedimenti giurisdizionali favorevoli sarebbero dovuti rimanere fuori dalla predetta attribuzione in sede di scorrimento della graduatoria per consumazione dei posti disponibili da attribuirsi ai candidati ricorrenti collocati in posizione più favorevole nella predetta graduatoria. Pertanto, l’accesso resta condizionato dalla disponibilità effettiva dei posti, con l’ulteriore precisazione che vanno qualificate come illegittime eventuali postergazioni nelle immatricolazioni dei ricorrenti rispetto a candidati che abbiano comunque conseguito o conseguano nella graduatoria (riaperta)
Il 4 marzo esce la sentenza del Consiglio di Stato, sez. III, n. 1491, che in accoglimento del ricorso del privato, dichiara illegittimo, per sviamento di potere, la suddivisione in lotti di un appalto pubblico laddove integri la duplice violazione del principio della libera concorrenza in senso oggettivo (come astratta possibilità di contendersi il mercato in posizione di parità) e in senso soggettivo (per la creazione di una posizione di ingiustificato favore di un concorrente rispetto agli altri). La scelta della stazione appaltante circa la suddivisione in lotti di un appalto pubblico, deve infatti costituire una decisione che deve essere funzionalmente coerente con il complesso degli interessi pubblici e privati coinvolti dal procedimento di appalto, da valutarsi nel quadro complessivo dei principi di proporzionalità e di ragionevolezza. Come qualsiasi scelta della P.A., anche la suddivisione in lotti di un contratto pubblico si presta ad essere sindacata in sede giurisdizionale amministrativa: e ciò ancorché l’incontestabile ampiezza del margine di valutazione attribuito all’amministrazione in questo ambito conduca per converso a confinare questo sindacato nei noti limiti rappresentati dai canoni generali dell’agire amministrativo, ovvero della ragionevolezza e della proporzionalità, oltre che dell’adeguatezza dell’istruttoria. Le norme di recepimento del diritto comunitario in materia di suddivisione dei lotti devono essere interpretate alla luce del principio di cui al Considerando 79, della Direttiva 2014/24/UE, secondo cui le Amministrazioni aggiudicatrici dovrebbero limitare il numero dei lotti che possono essere aggiudicati a uno stesso offerente “…allo scopo di salvaguardare la concorrenza”. La tendenziale preferenza dell’ordinamento per una ragionevole divisione in lotti è fondata non solo sulla notoria esigenza di favorire la partecipazione delle piccole e medie imprese ex art. 51 del d.lgs. n. 50/2016 (ed in precedenza l’art. 2, comma 1 bis, dell’abrogato d.lgs. n. 163/2006), ma anche, e soprattutto, nella esigenza di assicurare realmente la libera concorrenza e la massima partecipazione non solo al momento dell’effettuazione della gara, ma anche in relazione a tutto il periodo successivo di svolgimento del rapporto.
L’11 marzo esce la sentenza del Tar Sardegna, sez. I, n. 215, che si pronuncia in un caso di impugnazione di un bando di gara che aveva sanzionato con l’esclusione dalla gara il mancato utilizzo di un modulo predisposto dalla stazione appaltante. Sancisce il Tribunale amministrativo che lo schema (modulo) di domanda allegato al bando non costituisce affatto parte integrante della lex specialis della gara, costituendo piuttosto uno strumento predisposto unilateralmente dall’Amministrazione, a scopo meramente esemplificativo, per facilitare la partecipazione alla stessa; pertanto, non è consentito sanzionare con l’esclusione dalla gara il mancato utilizzo di un modulo predisposto dalla stazione appaltante.
Il 13 marzo esce la sentenza del Tar Toscana n. 359 che sancisce che nelle gare di appalto l’identificazione del settore di operatività dell’impresa non possa essere condotta sulla base del codice ATECO, dato di carattere statistico attribuito all’impresa in sede di iscrizione alla Camera di Commercio. Viene dichiarata nulla, pertanto, la clausola del bando di gara secondo cui “i concorrenti che ricorrono all’istituto dell’avvalimento devono, pena esclusione, essere in possesso di propria attestazione SOA ….”, essendo tesa a porre un requisito a pena di esclusione ulteriore rispetto a quelli previsti dalla legge, in violazione dell’art. 83, comma 8, d.lgs. n. 50 del 2016, secondo cui “i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione rispetto a quelle previste dal presente codice e da altre disposizioni di legge vigenti. Dette prescrizioni sono comunque nulle”.
Il 26 marzo esce la sentenza del Tar Campania – Salerno, sez. I, n. 482, la quale sancisce che in tema di gare d’appalto, le uniche fonti della procedura di gara sono costituite dal bando di gara, dal capitolato e dal disciplinare, unitamente agli eventuali allegati, cosicché i chiarimenti auto-interpretativi della stazione appaltante non possono né modificarle, né integrarle, né rappresentarne un’inammissibile interpretazione autentica; esse fonti devono essere interpretate e applicate per quello che oggettivamente prescrivono, senza che possano acquisire rilevanza atti interpretativi postumi della stazione appaltante ad integrare la lex specialis ed essere vincolanti per la Commissione aggiudicatrice. La cd. etero-integrazione del bando di gara va intesa nel senso che, pur in assenza di qualsivoglia richiamo alle disposizioni di legge, le cause di esclusione, se esistenti, devono trovare applicazione, con conseguente contemperamento di detto meccanismo con il principio, di derivazione comunitaria, dell’affidamento (cfr. anche il novellato art. 1, comma 1, della L. n. 241/90). Limitatamente alla verifica dei requisiti di partecipazione, il principio di esclusività del bando subisce una rilevante attenuazione, non potendo essere considerato l’unico ed esclusiva fonte per la previsione e la disciplina dei requisiti di partecipazione ad una procedura selettiva e non potendo esso prescindere dalle fonti esterne che, rispetto al bando stesso, in quanto disposizioni di legge, devono considerarsi prevalenti o, comunque, integrative. L’ammissibilità dell’istituto dell’avvalimento va esclusa per le attestazioni di idoneità e/o iscrizioni ad albi professionali, trattandosi di requisiti personali, spesso conseguenti a verifiche o prove d’esame, che non possono diventare oggetto di circolazione in favore di soggetti privi dell’abilitazione medesima. Pur essendo il ricorso all’avvalimento in linea di principio legittimo, non ponendo la disciplina alcuna limitazione, per i requisiti strettamente personali di carattere generale vige un’evidente preclusione, poiché tali requisiti non sono attinenti all’impresa e ai mezzi di cui essa dispone e non sono intesi a garantire l’obiettiva qualità dell’adempimento, riguardando viceversa la mera e soggettiva idoneità professionale del concorrente — quindi non dell’impresa ma dell’imprenditore — a partecipare alla gara d’appalto e ad essere come tale contraente con la pubblica amministrazione.
Il 30 aprile esce la sentenza n. 531 del Tar Piemonte, sez. II, che si pronuncia sulla definizione di clausola escludente ai fini dell’immediata impugnazione e sull’illegittimità dell’apertura delle buste in seduta riservata. Sancisce il collegio che non va impugnata direttamente ed immediatamente, potendo invece essere impugnata in occasione dell’impugnativa dell’aggiudicazione, la clausola del bando di gara la quale prevede che “si provvederà in seduta riservata all’apertura della busta B – offerta tecnica” e alla verifica della documentazione fornita dagli offerenti”, non trattandosi di clausola escludente. Il collegio in accoglimento del ricorso dichiara poi illegittima, per violazione dei principi generali di trasparenza, espressamente richiamati dall’articolo 30 del d.lgs. 50/2016 (secondo cui “nell’affidamento degli appalti e delle concessioni, le stazioni appaltanti rispettano, altresì, i principi di libera concorrenza, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità, nonché di pubblicità con le modalità indicate nel presente codice”), la clausola di un bando per una concessione la quale prevede che “si provvederà in seduta riservata all’apertura della busta B – offerta tecnica e alla verifica della documentazione fornita dagli offerenti.
Il 15 maggio esce la sentenza 15 maggio 2019 n. 3147 del Consiglio di Stato, sez. V, che dichiara illegittimo il bando di una gara indetta da un Comune per l’affidamento del servizio di manutenzione degli automezzi di proprietà comunale, ove contenga una clausola secondo cui sono ammessi a partecipare alla gara esclusivamente i soggetti affidatari aventi sede in prossimità delle sedi dell’Amministrazione comunale e, in particolare, nella zona abitata e/o industriale del Comune o in una determinata frazione, nonché aventi sede operativa localizzata in Comuni limitrofi entro la distanza indicativa di 0,5 km dal confine comunale delle zone abitate e/o industriali dell’Ente locale procedente; si tratta, infatti, di una clausola irragionevole, in quanto preclusiva della partecipazione di operatori che, seppure ubicati nel territorio del Comune interessato, non si trovino nelle sole frazioni indicate dalla lex specialis, ovvero collocati al di fuori del Comune, ad una distanza di soli 0,5 chilometri dal confine comunale con le frazioni abitate e/o industriali.
Il 16 maggio esce la sentenza n. 671 del Tar Puglia, Bari, Sez. I, che si pronuncia sulla disciplina del termine per la proposizione del ricorso principale nel rito appalti e sulla prevalenza, in tal senso, del disciplinare di gara sul capitolato. Segnatamente, la disciplina del ricorso incidentale, anche nel contesto del rito disciplinato dall’art. 120, comma 2 bis, c.p.a. deve essere ricondotta al regime decadenziale previsto dall’art. 42, comma 1 del codice del processo amministrativo. E’ sempre legittimo e consentito in via generale, ai sensi del combinato disposto tra i commi 1 e 6 dell’art. 89 del d.lgs. 50/2016, un avvalimento plurimo – con frazionamento dei requisiti tecnici e di capacità economica (fatturato globale e fatturato specifico) – fatta eccezione nel caso in cui sia dimostrato che l’appalto riguardi “lavori che presentino peculiarità tali da richiedere una determinata capacità che non si ottiene associando capacità inferiori di più operatori”, e ciò in quanto in un’ipotesi del genere l’amministrazione aggiudicatrice potrebbe legittimamente esigere che il livello minimo della capacità in questione sia raggiunto da un operatore economico unico o, eventualmente, facendo riferimento ad un numero limitato di operatori economici, ai sensi dell’articolo 44, paragrafo 2, secondo comma, della direttiva 2004/18, laddove siffatta esigenza sia connessa e proporzionata all’oggetto dell’appalto interessato. Gli eventuali contrasti tra il disciplinare ed il capitolato non vanno risolti facendo ricorso al meccanismo dei chiarimenti autointerpretativi, ma al criterio di soluzione elaborato in via pretoria, secondo cui in caso di contrasto tra disposizioni riconducibili a differenti fonti di gara deve riconoscersi prevalenza alla disciplina di gara rispetto al capitolato tecnico.
Il 21 maggio esce la sentenza del Tar Puglia – Lecce, n. 788, che confermando l’indirizzo giurisprudenziale prevalente sostiene che sussiste l’onere di impugnare immediatamente e direttamente il bando di gara nei soli casi in cui esso introduca regole che, in modo certo ed obiettivamente apprezzabile, abbiano una portata preclusiva, impedendo la partecipazione degli interessati alla procedura selettiva; viceversa, le clausole del bando di gara che non rivestano portata escludente devono essere impugnate unitamente al provvedimento lesivo e possono essere impugnate unicamente dall’operatore economico che abbia partecipato alla gara o manifestato formalmente il proprio interesse alla procedura. Tanto premesso, viene dichiarato illegittimo un bando di gara che prevede un determinato importo a base d’asta, senza tener conto dell’adeguamento dell’importo a base di gara, a seguito della rettifica della stima dei costi della manodopera; infatti, a seguito dell’incremento del costo del lavoro, la P.A. appaltante avrebbe dovuto disporre un incremento dell’importo dell’appalto o, quanto meno, una attestazione della congruità dell’originario importo a base d’asta nonostante fosse sopravvenuta una stima in aumento del costo della manodopera. In assenza di tale attestazione deve ritenersi che sia venuta meno la congruità dell’importo a base d’asta sotto il profilo della sostenibilità dell’offerta. La previsione nel bando di una gara per il servizio di portierato di un servizio di vigilanza non armata, abilita alla presentazione dell’offerta i soli operatori economici titolari di licenza prefettizia, atteso che ai sensi dell’art. 134 r.d. n. 773/31 (TULPS), “senza licenza del prefetto è vietato ad enti o privati di prestare opere di vigilanza o custodia di proprietà mobiliari od immobiliari e di eseguire investigazioni o ricerche o di raccogliere informazioni per conto di privati”; pertanto tale clausola va interpretata come ad effetto escludente.
Il 22 maggio esce la sentenza n. 1164 del Tar Lombardia – Milano, sez. I, che si pronuncia in tema di regole di interpretazione delle clausole del bando di gara. Sostiene il collegio che nell’interpretare le clausole del bando, deve darsi prevalenza alle espressioni letterali in esse contenute, escludendo ogni procedimento ermeneutico in funzione integrativa, considerando che, in caso di oscurità ed equivocità, un corretto rapporto tra p.a. e privato che sia rispettoso dei principi generali del buon andamento dell’azione amministrativa e di imparzialità, oltreché di quello specifico enunciato nell’art. 1337 c.c., impone che di quella disciplina sia data una lettura idonea a tutelare l’affidamento degli interessati, interpretandola per ciò che essa espressamente enuncia, restando il concorrente dispensato dal ricostruire, mediante indagini ermeneutiche ed integrative, ulteriori ed inespressi significati. Pertanto, ove il dato testuale presenti ambiguità, deve essere prescelto il significato più favorevole all’ammissione, essendo conforme al pubblico interesse che alla procedura selettiva partecipi il più elevato numero di candidati. Pertanto, nel caso in cui la clausola di un bando indetto dalla P.A. preveda, letteralmente, che i concorrenti devono indicare i componenti del team tecnico “in forza” presso l’impresa al momento della presentazione dell’offerta, da certificare con idonea documentazione (titolo di studio e relativa abilitazione), deve ritenersi illegittimo il provvedimento di esclusione di una ditta dalla gara stessa, che sia motivato con esclusivo riferimento al fatto è risultato che i suddetti componenti non sono dipendenti dell’impresa interessata; e ciò sul rilievo che l’utilizzo della espressione “in forza” presso l’impresa, richiede la sussistenza di un legame del tutto generico tra ditta concorrente e professionisti, compatibile con tipologie contrattuali diverse dalla subordinazione, trattandosi infatti di espressione in uso nel linguaggio comune, priva di un preciso significato giuridico, che deve conseguentemente essere interpretata alla luce del favor partecipationis.
Il 24 maggio, esce la sentenza n. 1421 del Tar Sicilia – Palermo, Sez. II che chiarisce la natura e funzione del campione nelle procedure che richiedono il deposito di tale prodotto. Nelle gare di appalto, il campione non costituisce un elemento costitutivo, ma semplicemente dimostrativo dell’offerta tecnica, che consente all’Amministrazione di considerare e vagliare l’idoneità tecnica del prodotto offerto; non è sua parte integrante, per quanto sia oggetto di un’apposita valutazione da parte della commissione giudicatrice, perché la sua funzione è quella, chiaramente stabilita dall’All. XVII, parte II,d.lgs. n. 50/2016, di “provare le capacità tecniche degli operatori economici di cui all’articolo 83”, attraverso la produzione di “campioni, descrizioni o fotografie la cui autenticità deve poter essere certificata a richiesta dall’amministrazione aggiudicatrice”. È evidente, pertanto, che l’eventuale adempimento alla richiesta di produzione di un campione non costituisce, ai sensi della lex specialis, un adempimento essenziale ai fini dell’ammissibilità dell’offerta. Pertanto, in accoglimento del ricorso del privato, viene ritenuta nulla la clausola inserita nel capitolato di gara secondo cui “le aziende partecipanti dovranno presentare, a pena d’esclusione, campionatura pari a numero cinque unità per voce”; infatti, non costituendo il campione un elemento essenziale dell’offerta e attenendo la clausola in questione ad un requisito di ammissione non previsto dalla legge o da altri atti normativi, la previsione incorre nel divieto posto dall’art. 83, co. 8 d.lgs. n. 50 del 2016: si tratta di clausola nulla, la cui nullità è rilevabile d’ufficio ex art. 31, comma 1, c.p.a. Nelle gare di appalto, l’obbligo di redazione in lingua italiana di documenti da allegare alla domanda non è previsto in termini generali da alcuna disposizione del codice degli appalti né può ritenersi che la presentazione di un documento in lingua straniera determini un’assoluta incertezza sul contenuto di elementi essenziali.
Il 23 maggio 2019 esce la sentenza n. 6352 del Tar Lazio – Roma, Sez. II bis, che si pronuncia sul mutamento di composizione di ATI non per esigenze organizzative e sulle sue conseguenze nell’ambito delle svolgimento di una gara d’appalto. Dichiara il Tar, respingendo il ricorso del privato, che è legittimo il provvedimento con il quale la P.A. appaltante ha disposto l’esclusione di un raggruppamento temporaneo d’imprese in applicazione dell’art. 48, comma 19, del d.lgs. n. 50/2016 (secondo cui “è ammesso il recesso di una o più imprese raggruppate, anche qualora il raggruppamento si riduca ad un unico soggetto, esclusivamente per esigenze organizzative del raggruppamento e sempre che le imprese rimanenti abbiano i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori, servizi o forniture ancora da eseguire”) nel caso in cui la variazione della composizione soggettiva della r.t.i. non appaia dettata da “esigenze organizzative” quanto, piuttosto, dall’intenzione della r.t.i. stessa di rimodulare la propria forma di presentazione in gara per usufruire del punteggio massimo.
Il 29 maggio 2019 esce la sentenza n. 6775, del Tar Lazio, Roma, sez. III Quater, che dichiara inammissibile (rectius: irricevibile) un ricorso avverso la composizione della commissione di gara (asseritamente non formata da esperti), ove non sia stata tempestivamente impugnata la delibera di nomina della commissione stessa, che è stata a suo tempo pubblicata assieme ai curricula dei componenti della Commissione, e ove della adozione di tale determinazione (e dei nominativi e delle qualifiche dei singoli componenti) sia stato dato espressamente atto nel verbale della seduta pubblica alla quale erano presenti anche i rappresentanti della ricorrente. In tal caso, in ragione dell’autonoma portata lesiva degli atti di nomina della Commissione, la ricorrente avrebbe dovuto provvedere ad impugnarli immediatamente senza attendere l’esito della aggiudicazione. Le clausole del bando considerate immediatamente escludenti consistono in: a) clausole impositive, ai fini della partecipazione, di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale; b) regole procedurali che rendano la partecipazione incongruamente difficoltosa o addirittura impossibile; c) disposizioni abnormi o irragionevoli che rendano impossibile il calcolo di convenienza tecnica ed economica ai fini della partecipazione alla gara; ovvero prevedano abbreviazioni irragionevoli dei termini per la presentazione dell’offerta; d) condizioni negoziali che rendano il rapporto contrattuale eccessivamente oneroso ed obiettivamente non conveniente; e) clausole impositive di obblighi contra ius (es. cauzione definitiva pari all’intero importo dell’appalto); f) bandi contenenti gravi carenze nell’indicazione di dati essenziali per la formulazione dell’offerta (come ad esempio quelli relativi al numero, qualifiche, mansioni, livelli retributivi ed anzianità del personale destinato ad essere assorbiti dall’aggiudicatario), ovvero che presentino formule matematiche del tutto errate (come quelle per cui tutte le offerte conseguono comunque il punteggio di “0” punti); g) atti di gara del tutto mancanti della prescritta indicazione nel bando di gara dei costi della sicurezza “non soggetti a ribasso”. Il collegio chiarisce poi che ai sensi dell’art. 50 del d.lgs. n. 50/2016, la previsione del bando di gara della cd. clausola sociale è consentita solo nel caso in cui il contratto sia qualificabile come “ad alta intensità di manodopera”; in ogni caso, tale disposizione prevede l’inserimento della clausola sociale come mera facoltà delle stazioni appaltanti e, quindi, va escluso che l’obbligo di inserire nella lex specialis di gara la richiamata clausola derivi direttamente dalla disciplina nazionale dettata in materia di appalti pubblici.
Il 4 giugno 2019 esce la sentenza n. 823 del Tar Toscana sez. II, che si pronuncia su varie questioni rilevanti. Il primis, il collegio si pronuncia nel senso che la sussistenza delle condizioni per la cancellazione di espressioni sconvenienti e offensive contenute negli scritti difensivi, prevista dall’art. 89 c.p.c., va ravvisata solo allorquando le espressioni in parola risultano dettate da un incomposto intento dispregiativo e rivelano, pertanto, un’esclusiva volontà offensiva nei confronti della controparte (o dell’ufficio), non bilanciata da alcun profilo di attinenza, anche indiretta, con la materia controversa. Inoltre, il collegio si pronuncia nel senso che nel caso di ricorso avverso un provvedimento del Prefetto che prevede il divieto di stazionamento in alcuni luoghi della città di Firenze (c.d. “zone rosse”) alle persone denunciate per determinati reati, è inammissibile l’intervento in giudizio di una associazione che ha come scopo sociale lo svolgimento di attività di riflessione e ricerca sociale sui temi dell’emarginazione sociale, della devianza, delle migrazioni, dell’esecuzione penale e del carcere e delle altre istituzioni penali, al fine di mettere a disposizione i risultati delle ricerche agli operatori sociali e agli studiosi. Si tratta infatti di una associazione avente lo scopo, essenzialmente, di svolgere ricerca in ordine alle tematiche citate e da un lato, queste ultime non appaiono incise dal provvedimento in discussione; dall’altro, l’associazione non ha quale scopo sociale la tutela della legalità nell’ambito delle misure di prevenzione a carattere amministrativo ed è quindi anch’essa priva di legittimazione all’intervento. Tanto premesso, viene dichiarato illegittimo l’atto generale con il quale il Prefetto di Firenze ha disposto il divieto di stazionare in diciassette luoghi della città, assurti a c.d. “zone rosse”, per un periodo di tre anni, nei confronti delle persone cui è stata contestata la violazione della normativa sul commercio in area pubblica o che risultano denunciate per i reati di percosse, lesioni personali, rissa, danneggiamento o spaccio di sostanze stupefacenti. È altresì illegittimo il provvedimento con il quale, in applicazione del predetto atto generale, la misura del divieto di stazionamento nelle c.d. “zone rosse” è stata applicata nei confronti di un soggetto che è stato denunciato per il reato di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope). L’autonoma impugnativa degli atti amministrativi a contenuto generale è configurabile, come nel caso di specie, quando sussiste una lesione immediata e diretta delle posizioni dei destinatari che determina l’insorgenza di un attuale interesse al ricorso, mentre se l’incertezza del loro contenuto dà luogo a dubbi interpretativi tali che non possa esserne desunta chiaramente l’immediata e concreta lesività, il ricorso è ammissibile unicamente avverso gli atti applicativi che incidono nella sfera degli interessati.
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Il 10 settembre esce la sentenza del Tar Lombardia – Milano, sez. IV, n. 1958, che si pronuncia sulle condizioni di ammissibilità dell’intervento ad adiuvandum nel processo amministrativo. Sostiene il G.A che nel processo amministrativo l’intervento ad adiuvandum è ammesso a condizione che l’interveniente non sia parte del rapporto sostanziale dedotto in giudizio e che l’interesse che intende far valere sia connesso, derivato, dipendente o almeno accessorio o riflesso rispetto a quello a tutela del quale è stato proposto il ricorso; di contro, non è consentito intervenire a chi sarebbe legittimato a proporre ricorso autonomo, al fine di evitare un surrettizio aggiramento dei termini decadenziali per proporre l’azione (in applicazione del principio è stato ritenuto inammissibile l’intervento ad adiuvandum di due società che agivano quali operatori economici del settore interessati a partecipare alla gara bandita per l’assegnazione dell’appalto e che, come tali, erano legittimate all’impugnazione di atti e provvedimenti amministrativi che determinano una lesione concreta dell’interesse legittimo di cui erano portatrici). Nel giudizio amministrativo, l’interesse a ricorrere, quale specifica utilità che il ricorrente può trarre dalla pronuncia favorevole dell’Autorità giudiziaria in relazione alla propria posizione giuridica soggettiva, che si assume lesa dal provvedimento amministrativo impugnato, costituisce una condizione dell’azione, che – come tale – deve sussistere al momento della proposizione del ricorso e perdurare per tutta la sua durata. Di regola, l’interesse a ricorrere sorge con la conclusione del procedimento amministrativo, perché è solamente con l’adozione del provvedimento che la lesione alla posizione giuridica soggettiva del ricorrente diviene attuale: nelle procedure ad evidenza pubblica di regola la lesione è collegata alla aggiudicazione del contratto. Nelle gare di appalto, la stazione appaltante gode di ampia discrezionalità nel predeterminare i requisiti tecnico-professionali di partecipazione alla gara, con il solo limite che si tratti di requisiti attinenti all’oggetto dell’appalto da aggiudicare e proporzionati alla prestazione da rendere, in modo tale da non restringere ingiustificatamente la concorrenza e precostituire situazioni di assoluto privilegio a favore di uno o più operatori economici del settore. Nell’ambito dell’ampia discrezionalità che le è riconosciuta, la stazione appaltante può pure pretendere requisiti di qualificazione eccedenti quelli minimi di legge, purché coerenti con l’obiettivo di interesse pubblico avuto di mira.
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Il 18 settembre esce la sentenza della III sezione del Consiglio di Stato n. 6212 che si pronuncia sull’interpretazione del bando di gara. Sostiene il Supremo Consesso di Giustizia Amministrativa che nelle gare d’appalto vige il principio interpretativo che vuole privilegiata, a tutela dell’affidamento delle imprese, l’interpretazione letterale del testo della lex specialis, dalla quale è consentito discostarsi solo in presenza di una sua obiettiva incertezza. Occorre infatti evitare che il procedimento ermeneutico conduca all’integrazione delle regole di gara palesando significati del bando non chiaramente desumibili dalla sua lettura testuale, posto che l’interpretazione della lex specialis soggiace, come per tutti gli atti amministrativi, alle stesse regole stabilite per i contratti dagli artt. 1362 e ss., c.c., tra le quali assume carattere preminente quella collegata all’interpretazione letterale (1). Peraltro, nelle gare di appalto, il principio di equivalenza funzionale permea l’intera disciplina e la possibilità di ammettere a seguito di valutazione della stazione appaltante prodotti aventi specifiche tecniche equivalenti a quelle richieste risponde al principio del favor partecipationis (ampliamento della platea dei concorrenti) e costituisce altresì espressione del legittimo esercizio della discrezionalità tecnica da parte dell’Amministrazione. Il principio di equivalenza funzionale trova applicazione indipendentemente da espressi richiami negli atti di gara o da parte dei concorrenti, in tutte le fasi della procedura di evidenza pubblica e “l’effetto di “escludere” un’offerta, che la norma consente di neutralizzare facendo valere l’equivalenza funzionale del prodotto offerto a quello richiesto, è testualmente riferibile sia all’offerta nel suo complesso sia al punteggio ad essa spettante per taluni aspetti … e la ratio della valutazione di equivalenza è la medesima quali che siano gli effetti che conseguono alla difformità. L’art. 68, comma 7, del d.lgs. n. 50/2016 non onera i concorrenti di un’apposita formale dichiarazione circa l’equivalenza funzionale del prodotto offerto, potendo la relativa prova essere fornita con qualsiasi mezzo appropriato; la commissione di gara può effettuare la valutazione di equivalenza anche in forma implicita, ove dalla documentazione tecnica sia desumibile la rispondenza del prodotto al requisito previsto dalla lex specialis.
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Il 24 settembre esce la sentenza del Consiglio di Stato, sez. III, n. 6355, che si pronuncia sui limiti del sindacato giurisdizionale nella determinazione della base d’asta, sostenendo che anche nella disciplina del nuovo codice degli appalti, le stazioni appaltanti debbono garantire la qualità delle prestazioni, non solo nella fase di scelta del contraente (cfr. art. 97 in tema di esclusione delle offerte anormalmente basse), ma anche nella fase di predisposizione dei parametri della gara (cfr. art. 30, co. 1 d.lgs. 50/2016). La determinazione del prezzo posto a base di gara non può, quindi, prescindere da una verifica della reale congruità in relazione alle prestazioni e ai costi per l’esecuzione del servizio, ivi comprese le condizioni di lavoro che consentano ai concorrenti la presentazione di una proposta concreta e realistica, pena intuibili carenze di effettività delle offerte e di efficacia dell’azione della Pubblica Amministrazione, oltre che di sensibili alterazioni della concorrenza tra imprese.
In un giudizio avverso il bando di gara, la misura del prezzo a base d’asta non implica una mera scelta di convenienza e opportunità, ma una valutazione alla stregua di cognizioni tecniche (andamento del mercato nel settore di cui trattasi, tecnologie che le ditte devono adoperare nell’espletamento dei servizi oggetto dell’appalto, numero di dipendenti che devono essere impiegati, rapporto qualità-prezzo per ogni servizio) sulla quale è possibile il sindacato del giudice amministrativo, con la precisazione che tale sindacato è limitato ai casi di complessiva inattendibilità delle operazioni e valutazioni tecniche operate dall’amministrazione, alla illogicità manifesta, alla disparità di trattamento, non potendo il giudizio, che il Tribunale compie, giungere alla determinazione del prezzo congruo.
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Il 2 ottobre esce la sentenza del TAR FRIULI VENEZIA GIULIA, SEZ. I n. 412 che afferma che è inammissibile, per difetto di legittimazione attiva, un ricorso proposto dall’Ordine Regionale dei Chimici e dei Fisici avverso il bando di concorso indetto dalla Regione per la copertura di n. 1 posto di qualifica dirigenziale, profilo professionale tecnico, ove, a fondamento del gravame, l’Ordine ricorrente abbia posto la doglianza secondo cui tra i titoli di studio, previsti per l’ammissione alla procedura, non sono state annoverate le lauree in chimica e in chimica industriale (vecchio ordinamento); in tal caso, infatti, l’Ordine, quale ente corporativo, non può ritenersi titolare di una posizione giuridica, sufficientemente differenziata, azionabile nel contesto degli interessi coinvolti dalla procedura di selezione del personale, atteso che la domanda di annullamento non mira, a ben vedere, a tutelare la posizione dei professionisti iscritti nei relativi albi, bensì quella genericamente riferibile ai soggetti (non necessariamente iscritti ad alcun albo professionale) in possesso dei titoli di studio non contemplati dal bando.
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Il 29 ottobre esce la sentenza del Tar Campania – Napoli, Sez. VII, n. 5135, in merito alle concessioni demaniali marittime e al diritto di insistenza, in specie soffermandosi sulla natura dell’area adibita a parcheggio pubblico. Rigettando il ricorso, il Tar afferma che la tesi della ricorrente non può essere condivisa. La ricorrente, circa la natura della concessione demaniale, afferma che, in quanto attinente lo svolgimento di una attività di parcheggio, essa sarebbe riconducibile nell’alveo delle attività “turistico – ricreative”, con conseguente applicabilità del regime della proroga tacita previsto dalla vigente normativa di settore. Richiama, in particolare, l’art. 1, commi 675 – 683 della Legge 30.12.2018, n. 145 che – nel porre le basi per una riforma della disciplina delle concessioni demaniali marittime la cui regolamentazione di dettaglio è affidata ad un DPCM che avrebbe dovuto essere emanato entro il 01.05.2019 -, ha stabilito, per le concessioni demaniali esistenti, la scadenza dopo 15 anni decorrenti dalla data di entrata in vigore della medesima legge. Conclude, pertanto, assumendo che l’area di parcheggio in questione sarebbe da considerare come area di sosta al servizio delle attività turistico ricettive del Porto di Napoli, in quanto strumentale all’attività di imbarco e sbarco dei turisti. Richiama, ancora, il Master Plan del Porto di Napoli – Piano Operativo 2017 – 2019 evidenziando che l’area in questione è collocata tra quella “dedicata a parcheggi auto asserviti all’attività monumentale del porto”, con “funzione passeggeri merci”. Aggiunge che il parcheggio di cui al Lotto A costituisce elemento “pertinenziale” rispetto alla galleria commerciale, in quanto funzionale alla fruizione della Galleria stessa. L’assunto di parte ricorrente non risulta convincente. La nozione di «concessione di beni demaniali marittimi con finalità turistico-ricreative» è stata oggetto di una specifica definizione legislativa, che non consente di estendere il suo significato ad altre tipologie di concessioni di beni demaniali. Rilevano al riguardo l’articolo 1 del decreto legge n. 400 del 1993, convertito nella legge n. 494 del 1993, e l’articolo 13 della legge n. 172 del 2003: l’articolo 1 del decreto legge n. 400 del 1993, convertito nella legge n. 494 del 1993, prevede, al comma 1, che «La concessione dei beni demaniali marittimi può essere rilasciata, oltre che per servizi pubblici e per servizi e attività portuali e produttive, per l’esercizio delle seguenti attività: a) gestione di stabilimenti balneari; b) esercizi di ristorazione e somministrazione di bevande, cibi precotti e generi di monopolio; c) noleggio di imbarcazioni e natanti in genere; d) gestione di strutture ricettive ed attività ricreative e sportive; e) esercizi commerciali; f) servizi di altra natura e conduzione di strutture ad uso abitativo, compatibilmente con le esigenze di utilizzazione di cui alle precedenti categorie di utilizzazione»;– l’articolo 13 della legge n. 172 del 2003 («Disposizioni concernenti le concessioni di beni demaniali marittimi per finalità turistico-ricreative nonché l’esercizio di attività portuali») al comma 1 contiene una norma di interpretazione autentica, per la quale «Le parole “le concessioni di cui al comma 1”, di cui al comma 2 dell’articolo 1 del decreto legge 5 ottobre 1993, n. 400, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 dicembre 1993, n. 494,….si interpretano nel senso che esse sono riferite alle sole concessioni demaniali marittime per finalità turistico ricreative, quali indicate nelle lettere da a) ad f) del comma 1 del medesimo articolo 1».
Da tali disposizioni emerge, dunque, che le concessioni demaniali marittime con finalità turistico ricreative sono unicamente quelle indicate nelle richiamate lettere da a) ad f) dell’art. 1, comma 1, della legge n. 400 del 1993.
L’articolo 13 della citata legge n. 172 del 2003 si è riferito alle «sole concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative», in tal modo disponendo che tale qualificazione va riferita unicamente alle concessioni indicate nelle citate lettere da a) ad f).
Poiché solo le fattispecie di cui alle lettere da a) ad f) costituiscono le ipotesi riconducibili alla nozione di «concessioni demaniali marittime con finalità turistico-ricreative», non possono ritenersi comprese anche le concessioni riguardanti attività di parcheggio nell’ambito del porto di Napoli.
É riconosciuto in giurisprudenza che la gestione di un autoparcheggio su area pubblica, riguardando l’utilizzazione di un bene pubblico, anche quando non comporta il trasferimento di poteri autoritativi, costituisce attività di pubblico servizio assunto dalla pubblica amministrazione e svolta o direttamente dalla stessa o da altro soggetto ad essa collegato ed in favore della collettività indistinta (cfr. Cass., S.U., 4 luglio 2006, n. 15217 e Cons. Stato, V, 31 maggio 2011, n. 3250, cit.) Si tratta di beni pubblici soggetti al regime del demanio pubblico.
Dal Master Plan del Porto di Napoli (pag. 34), richiamato anche da parte ricorrente, si evince che il Porto di Napoli costituisce una “rilevante realtà industriale e logistica della Regione Campania” e gli obiettivi sono quelli di: “incrementare i traffici (passeggeri, merci, container Ro-Ro); rimodulare gli spazi a ridosso del centro storico con il conseguente miglioramento del waterfront; decongestionare la pressione urbana eccessiva a detrimento dell’efficacia delle attività produttive e di servizi posti in essere al suo interno”.
Nella successiva pagina (pag. 35) si dice espressamente che “il corretto funzionamento dell’assetto concessorio e la verifica di attuazione sui piani di impresa rappresenta un elemento essenziale per garantire la funzionalità delle attività marittime ed economiche in porto”. Segue la suddivisione della attività portuali in base alle funzioni portuali: commerciale-contenitori, merci varie e rinfuse liquide; cantieristica navale; industriale; mista; passeggeri; servizi portuali generali. In seno alla funzione passeggeri/merci si specifica che è “consentito lo svolgimento delle attività terziarie e dei servizi connessi come di seguito elencati: attività commerciali (…); servizi (…); attività ricettive dedicate al traffico passeggeri. Nelle Linee di indirizzo per una gestione, in ambito portuale, delle aree demaniali coerente con le ipotesi programmatiche, con riferimento alla funzione passeggeri, al punto A3, si fa espresso riferimento alla “sub funzione parcheggi” intesa come “area dedicata a parcheggi auto asserviti all’area monumentale del porto”. La Delibera n. 85/2019 evidenzia che la “sub funzione parcheggi” non si presenta come unico elemento uniforme, tanto da ipotizzare una “razionalizzazione degli spazi”. Richiama il Masterplan che per la sub funzione parcheggi evidenzia la “necessità di regolamentare in maniera uniforme le aree di sosta ed i servizi resi all’utenza”. Dà ancora conto del processo di riorganizzazione delle concessioni in ambito portuale al fine di “renderle omogenee per attività commerciale svolta e per ubicazione spaziale”. In alcun modo può ritenersi tale attività compresa nelle richiamate lettere da a) ad f) dell’art. 1, comma 1, della legge n. 400 del 1993. Si tratta, in tutta evidenza, di gestione di aree demaniali in ambito portuale, peraltro, all’interno di un porto come quello di Napoli che comprende un vasto complesso di attività a ridosso del centro della città all’interno del quale si pone l’attività di parcheggio connessa alla circolazione dei veicoli in zona. Deve, in conclusione, escludersi la natura di concessione di bene demaniale per finalità turistico-ricreative.
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Il 18 ottobre esce la sentenza del Tar Lazio, sez. I, n. 609, che si pronuncia sulla autonoma impugnabilità delle clausole del bando di gara. Le clausole del bando di gara d’immediata impugnabilità (prescindenti dalla loro applicazione e, quindi, dalla partecipazione del ricorrente alla procedura selettiva) sono quelle che impediscono all’interessato di prendere parte alla gara o prescrivendo requisiti che non possiede, e non può acquisire, o che al più impongano ai fini della partecipazione oneri incomprensibili o manifestamente sproporzionati ai caratteri della gara, dal momento che le clausole in questione appaiono sostanzialmente idonee a precludere immediatamente la stessa partecipazione alla gara e ricollegano alle prescrizioni introdotte un effetto giuridico diretto che appare immediatamente lesivo dell’interesse sostanziale degli aspiranti. E’ inammissibile, per difetto di legittimazione attiva, un ricorso giurisdizionale proposto avverso gli atti di indizione di una gara di appalto, nel caso in cui la ditta non abbia preso parte alla gara che contesta, né abbia impugnato una clausola escludente.
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Il 5 novembre esce la sentenza del Tar Lazio, sez. III, n. 12667 che si pronuncia sulla nozione di lotto funzionale e lotto di prestazione e sulle deroghe al principio di suddivisione in lotti. Afferma il Tar che “ Di regola, chi volontariamente e liberamente si è astenuto dal partecipare ad una gara di appalto non è legittimato a chiederne l’annullamento ancorché vanti un interesse di fatto a che la competizione – per lui res inter alios acta – venga nuovamente bandita; a tale regola generale può tuttavia derogarsi, per esigenze di ampliamento della tutela della concorrenza, solamente in tre tassative ipotesi e, cioè, quando: a) si contesti in radice l’indizione della gara; b) all’inverso, si contesti che una gara sia mancata, avendo l’Amministrazione disposto l’affidamento in via diretta del contratto; c) si impugnino direttamente le clausole del bando, assumendo che le stesse siano immediatamente escludenti. Ai sensi dell’art. 51 del d.lgs. 50/2016 (il quale – al fine di favorire l’accesso delle microimprese, piccole e medie imprese – prevede che le stazioni appaltanti suddividono gli appalti in lotti funzionali ovvero in lotti prestazionali), per «lotto funzionale» si intende uno specifico oggetto di appalto da aggiudicare anche con separata ed autonoma procedura, ovvero parti di un lavoro o servizio generale la cui progettazione e realizzazione sia tale da assicurarne funzionalità, fruibilità e fattibilità indipendentemente dalla realizzazione delle altre parti e per «lotto prestazionale», uno specifico oggetto di appalto da aggiudicare anche con separata ed autonoma procedura, definito su base qualitativa, in conformità alle varie categorie e specializzazioni presenti o in conformità alle diverse fasi successive del progetto. L’attenuazione dell’obbligo della suddivisione in lotti è subordinata all’esternazione di una specifica e congrua motivazione che dia conto dei vantaggi economici e/o tecnico-organizzativi derivanti dall’opzione del lotto unico ed espliciti le ragioni per cui detti obiettivi siano prevalenti sull’esigenza di garantire l’accesso alle pubbliche gare ad un numero quanto più ampio di imprese e in particolare alle imprese di minori dimensioni; si tratta di espressione di scelta discrezionale, sindacabile solo nei limiti della ragionevolezza e proporzionalità.
La motivazione del provvedimento non può essere validamente integrata in giudizio, costituendo la stessa, come recentemente affermato dalla Corte costituzionale (3), il presupposto, il fondamento, il baricentro e l’essenza stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo (art. 3 l. n. 241 del 1990) e, per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241 del 1990. Tale principio vale, a maggior ragione, per il caso in cui l’integrazione giudiziale sia fondata su scritti difensivi, in quanto non promananti dall’organo della competente amministrazione, e riguardi un’attività connotata da ampia discrezionalità quale è quella inerente la valutazione della ragioni che possono supportate la mancata suddivisione in lotti di un pubblico appalto.
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Il 6 novembre esce la sentenza del Tar Lazio, Roma, sez. I, n. 12735, che si pronuncia sui presupposti e sull’ onere di motivazione per la scelta della procedura negoziata senza pubblicazione del bando. Afferma il Tar che La procedura negoziata senza pubblicazione del bando di gara riveste carattere di eccezionalità rispetto all’obbligo delle amministrazioni aggiudicatrici di individuare il loro contraente attraverso il confronto concorrenziale, per cui la scelta di tale modalità richiede un particolare rigore nell’individuazione dei presupposti giustificativi, da interpretarsi restrittivamente, ed è onere dell’amministrazione committente dimostrarne l’effettiva esistenza; in particolare, nel caso di forniture e servizi caratterizzati da “infungibilità” ovvero “esclusività”, la scelta di ricorrere alla procedura negoziata senza pubblicazione del bando di gara, richiede un “particolare rigore” nell’individuazione dei presupposti giustificativi, da interpretarsi restrittivamente, ed è onere dell’Amministrazione affidante dimostrarne l’effettiva esistenza. E’ illegittima la determina a contrarre con la quale la P.A. ha disposto l’affidamento diretto di un servizio attraverso una procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando, ai sensi dell’art. 63, comma 2, lett. b. 2), del d.lgs. n. 50/2016 e senza consultazioni di mercato, motivando tale scelta asserendo che il soggetto affidatario sarebbe l’unico in grado di fornire la totalità dei servizi richiesti e funzionali all’attività di ricerca e sviluppo, senza peraltro chiarire a sufficienza la ragione per la quale non abbia dato luogo almeno a consultazione preliminare ai sensi dell’art. 66, comma 1, del codice degli appalti. Nè la circostanza che la P.A. appaltante abbia aumentato i servizi richiesti la esimeva dal provvedere almeno a una indagine di mercato preliminare e dal motivare sulle ragioni per cui non poteva sussistere un affidamento a altre (anche sotto forma di compagini di imprese). Ai sensi dell’art. 121, comma 2, del c.p.a. (secondo cui “Il contratto resta efficace, anche in presenza delle violazioni di cui al comma 1 qualora venga accertato che il rispetto di esigenze imperative connesse ad un interesse generale imponga che i suoi effetti siano mantenuti. Tra le esigenze imperative rientrano, fra l’altro, quelle imprescindibili di carattere tecnico o di altro tipo, tali da rendere evidente che i residui obblighi contrattuali possono essere rispettati solo dall’esecutore attuale”) non può dichiararsi l’inefficacia del contratto di appalto nel caso in cui il contratto risulta eseguito in gran parte (nella specie, per circa il 70%) e che, alla luce della peculiarità del servizio in affidamento, sussistono quelle imprescindibili ragioni di carattere tecnico richiamate dalla norma, tali da rendere evidente che i residui obblighi contrattuali possono essere rispettati solo dall’esecutore attuale, anche alla luce della durata annuale del contratto.
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Il 12 novembre esce la sentenza n. 1491 del TAR PUGLIA – BARI, SEZ. II n. 1491, che si pronuncia sostenendo che è inammissibile il ricorso proposto direttamente contro il bando di gara con il quale si deduce un preteso errato calcolo dell’importo posto a base della gara e che il C.C.N.L. di riferimento ai fini della quantificazione non avrebbe considerato tutte le professionalità esistenti, né il C.C.N.L. attualmente applicato; in tal caso, infatti, il bando non contempla clausole preclusive della partecipazione alla procedura di evidenza pubblica, in quanto, da un lato, le prestazioni richieste sono sufficientemente chiare, nel limite dimensionale confacente alle attuali esigenze e, dall’altro lato, tutti gli offerenti economici dovranno comunque assicurare il rispetto della normativa in materia di tutela dei lavoratori, come richiamata negli atti di gara e come prevista dalle leggi. Deve escludersi che la c.d. “clausola sociale” possa consentire alla stazione appaltante d’imporre agli operatori economici l’applicazione di un dato contratto collettivo a tutti i lavoratori “da assorbire” nel nuovo soggetto affidatario, dovendosi contemperare l’obbligo sociale della salvaguardia dei livelli occupazionali con la libertà d’impresa e con la facoltà in questa insita di poter organizzare il servizio in modo coerente con la propria organizzazione produttiva.
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Il 22 novembre esce la sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, n. 7989, che si pronuncia sulle c.d. clausole escludenti, immediatamente applicabili, del bando di gara. Afferma il CDS afferma che sono da ritenere escludenti, in quanto tali immediatamente impugnabili, le clausole del bando che prescrivono il possesso di requisiti di ammissione o di partecipazione alla gara, ovvero quelle che impongono oneri incomprensibili o sproporzionati, che rendano la partecipazione alla gara incongruamente difficoltosa, che precludano una valutazione di convenienza economica, come pure sono impugnabili i bandi che presentino gravi carenze nell’indicazione dei dati essenziali necessari per la formulazione dell’offerta. Non può configurarsi una legittimazione ed un interesse a censurare la mancata motivazione dell’omessa suddivisione dell’appalto in lotti da parte di un operatore che non ha partecipato alla gara. Ed infatti, anche a volere seguire una prospettiva atomistica dei presupposti processuali, la mancata suddivisione dell’appalto in lotti non integra, seppure per difetto, una clausola escludente.
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Il 27 novembre esce la sentenza del Tar Veneto, sez. III, n. 1288, che si pronuncia ribadendo che “la lex specialis di una gara di appalto deve essere interpretata per ciò che essa dice espressamente, dispensando il concorrente dal ricostruire, con indagini ermeneutiche integrative, ulteriori ed inespressi significati, dovendosi tutelare l’affidamento degli interessati e il principio del favor partecipationis. Nelle gare di appalto, deve escludersi che l’Amministrazione, a mezzo di chiarimenti auto interpretativi, possa modificare o integrare la disciplina di gara, pervenendo ad una sostanziale disapplicazione della lex specialis della procedura. I chiarimenti sono infatti ammissibili soltanto nella misura in cui rivestano una finalità interpretativa, contribuendo, con un’operazione di mera ermeneutica del testo, a renderne chiaro e comprensibile il significato o la ratio; tale ammissibilità va invece esclusa allorquando, mediante l’attività interpretativa, si giunga ad attribuire ad una disposizione del bando un significato ed un portata diversa o maggiore rispetto a quella che risulta dal testo, così violando il rigoroso principio del rispetto formale della lex specialis, posto a presidio dei principi di par condicio competitorum, nonché di legalità, trasparenza, buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost.. E’ illegittima la lex specialis di una gara di appalto (nella specie si trattava di un appalto di forniture) che prevede, quale criterio di aggiudicazione, quello del minor prezzo ex art. 95, comma 4, lett. b), del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, richiamando sic et simpliciter la previsione normativa che fonda la scelta del criterio di aggiudicazione de quo, senza accompagnare detto richiamo con un apparato motivazionale adeguato – come richiesto dalla previsione di legge – a supporto giustificativo della scelta. Dalla natura di entrata tributaria del contributo unificato dovuto per l’iscrizione a ruolo degli atti giudiziari discende naturaliter la devoluzione delle relative controversie alla cognizione del Giudice tributario ai sensi dell’art. 2 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, nel testo sostituito dall’art. 12, comma 2, della legge 28 dicembre 2001, n. 448 e ss. mm..
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Il 28 novembre esce l’ordinanza del Consiglio di Stato, Sez. V, 8154, che rimette alla CGUE la questione della legittimità del limite d’età per la partecipazione al concorso da notai. Pertanto, viene rimessa alla Corte di giustizia U.E. la questione se l’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, l’art. 10 TFUE e l’art. 6 della Direttiva del Consiglio 20007/8/CE del 27 novembre 2000, nella parte in cui vietano discriminazioni in base all’età nell’accesso all’occupazione, ostino a che uno Stato membro possa imporre un limite di età all’accesso alla professione di notaio (la questione è stata rimessa in relazione all’art. 1, comma 3, lett. b), l. n. 1365 del 1926, come sostituito dall’art. 13, d.lgs. n. 166 del 2006, il quale prevede che per l’ammissione al concorso notarile gli aspiranti non devono avere compiuto gli anni cinquanta alla data del bando di concorso).
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Il 9 dicembre esce la sentenza del Tar Marche, n. 761, che si pronuncia sul principio di equo compenso nelle gare di appalto. Sancisce il Tar che è nullo il bando se il compenso previsto è inferiore ai minimi tariffari. Il principio dell’equo compenso trova applicazione anche nell’affidamento di servizi da parte delle pubbliche amministrazioni. Al fine di stabilire l’equità del compenso, occorre far riferimento ai parametri stabiliti dai singoli decreti ministeriali per ciascuna categoria di professionisti, i quali non possono essere considerati minimi tariffari inderogabili ma costituiscono un criterio orientativo per la determinazione del compenso.
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Il giorno 11 dicembre esce la sentenza del Tar Marche, sez. I, n. 769, che ricorda che “è ormai granitica giurisprudenza formatasi sulla questione concernente la legittimità del bando di gara che imponga ai concorrenti l’applicazione di un determinato contratto collettivo. Come è noto (ex multis, cfr. le sentenze della Sez. V del Consiglio di Stato n. 932 del 2017 e n. 276 del 2018), al quesito viene data risposta negativa, il che è a dirsi in particolare per gli appalti le cui prestazioni sono astrattamente riconducibili a più di un comparto della contrattazione collettiva (per un precedente si veda la sentenza n. 555/2017 di questo Tribunale), e con il solo limite dell’impossibilità per il concorrente di dichiarare di voler applicare contratti collettivi del tutto inconferenti con l’oggetto dell’appalto (citata sentenza n. 276/2018 del Consiglio di Stato). Nella specie, tuttavia, il disciplinare di gara non inibiva la partecipazione a imprese che svolgono quali attività principali quelle risultanti dal certificato camerale di Plurima (perché in caso contrario la controinteressata sarebbe stata esclusa già solo per questo profilo), per cui la stessa avrebbe potuto legittimamente applicare anche ai lavoratori impiegati nel presente appalto il c.c.n.l. che applica alla generalità dei propri dipendenti”.
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Il 17 dicembre esce la sentenza del Tar Lombardia, Milano, Sez. II, n. 2682, che si pronuncia sull’impugnazione di clausole non escludenti del bando nei termini ordinari e onere di motivazione della mancata divisione in lotti. Afferma il Tar che le clausole del bando di gara che non rivestano portata escludente devono essere impugnate unitamente al provvedimento lesivo e possono essere impugnate unicamente dall’operatore economico che abbia partecipato alla gara o manifestato formalmente il proprio interesse alla procedura. La partecipazione alla gara non impedisce ai concorrenti di dedurre comunque il carattere lesivo delle disposizioni del bando in sede di impugnazione del provvedimento di aggiudicazione, visto che ne costituisce uno dei presupposti fondanti. Difatti, in via generale, l’operatore che volontariamente e liberamente si è astenuto dal partecipare ad una selezione non è legittimato a chiederne l’annullamento ancorché vanti un interesse di fatto a che la competizione – per lui res inter alios acta – venga nuovamente bandita. E’ illegittima la previsione in un appalto di forniture (nella specie si trattava di una fornitura ospedaliera) in un unico lotto di rilevanti dimensioni, in carenza di valide ragioni giustificative e in violazione della normativa sia interna che sovranazionale, che impone l’individuazione di lotti in grado di favorire l’accesso alle gare di microimprese, piccole e medie imprese.
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Lo stesso giorno esce la sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, n. 7090 che dichiara inammissibile il ricorso avverso il silenzio-inadempimento della P.A. qualora l’atto di cui si chiede l’adozione sia a contenuto regolamentare o generale (nelle specie una associazione di dirigenti pubblici – Dirpubblica – aveva lamentato l’omessa adozione da parte dell’Agenzia delle Entrate di un bando di concorso per soli esami, sostituito da un concorso per titoli ed esami). Qualora l’azione avverso il silenzio rispetto all’adozione di un atto generale sia proposta da un soggetto che si assuma esponenziale dell’interesse collettivo della generalità dei potenziali destinatari dell’atto generale di cui è sollecitata l’adozione, la legittimazione ad agire sussiste solo quando venga invocata la violazione di norme poste a tutela dell’intera categoria, e non anche quando si verta su questioni concernenti singoli iscritti ovvero su questioni capaci di dividere la categoria in posizioni contrastanti. (Fattispecie in cui il Cds, pur non riconoscendo all’ente esponenziale alcuna preclusione di legge all’esperibilità del rito sul silenzio sulla base del mero carattere regolamentare o generale dell’atto di cui si invoca l’adozione, ha negato la legittimazione ad agire dell’associazione Dirpubblica, non potendosi dimostrare l’interesse della totalità degli iscritti di privilegiare la strada dell’indizione di un bando di concorso, ai sensi dell’articolo 4 bis, comma 1, d.l. n. 78/2015, piuttosto che altre soluzioni normativamente possibili per provvedere al reclutamento di personale dirigenziale).
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Il 18 dicembre esce la sentenza del TAR LOMBARDIA – MILANO, SEZ. II – n. 2693, che si pronuncia in merito alla distinzione tra bando, disciplinare e capitolato – sull’autovincolo per la PA e principio di tassatività della cause di esclusione. Nell’economia delle procedure di scelta del contraente privato, il bando, il disciplinare di gara e il capitolato tecnico assolvono ciascuno una propria ed autonoma funzione – il primo fissando le regole della gara, il secondo disciplinando il procedimento di gara in senso stretto e il terzo integrando eventualmente le disposizioni del bando; tutti insieme tali documenti, in un rapporto di eterointegrazione, costituiscono la lex specialis della gara. Le previsioni della lex specialis della gara costituiscono un vincolo per l’amministrazione che le ha predisposte, in capo alla quale non sussiste alcun margine di discrezionalità circa la loro concreta attuazione, sicché le singole clausole, finanche quando illegittime, non possono essere disapplicate né dal giudice né dalla stessa stazione appaltante, salvo naturalmente l’esercizio del potere di autotutela. La sanzione della nullità testuale di cui all’art. 83, comma 8, del d.lgs. n. 50 del 2016 è riferita esclusivamente alle ragioni di esclusione incentrate sulle forme con cui la dichiarazione negoziale viene esternata, in quanto aspetti formali e documentali che, in assenza di una specifica previsione di nullità, potrebbero essere regolarizzati attraverso l’istituto del soccorso istruttorio; il principio di tassatività delle cause di esclusione e la conseguente nullità ex lege, invece, non riguardano i profili sostanziali o qualitativi dell’offerta – come, ad esempio, la base d’asta –, in sé insuscettibili di regolarizzazione postuma, giacché l’amministrazione si troverebbe altrimenti a comparare proposte tra loro non omogenee, violando i principi basilari che presiedono lo svolgimento delle procedure competitive. La disposizione di cui all’art. 83, comma 8, del d.lgs. n. 50 del 2016 va letta in continuità ermeneutica con la norma di cui all’art. 46 comma 1-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, restando quindi pienamente valido, anche nell’attuale regime normativo, il principio secondo cui la sanzione della nullità testuale è preordinata a privare di rilievo giuridico tutte le ragioni di esclusione dalle gare incentrate non già sulla qualità della dichiarazione, quanto piuttosto sulle forme con cui questa viene esternata.
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Il 21 dicembre esce la sentenza del Tar Lazio – Roma, sez. III bis, n. 12485, che respingendo il ricorso proposto dal privato avverso un provvedimento di autotutela, di annullamento di un bando di gara, lo dichiara legittimo. Questo è il principio di diritto enunciato: è legittimo, in quanto adeguatamente motivato sotto il profilo della tutela del pubblico interesse, il provvedimento con il quale la P.A. appaltante, nonostante la intervenuta sottoscrizione del contratto di appalto, ha annullato di ufficio, in autotutela, il bando di una gara (nella specie, si trattava di un bando indetto da un istituto tecnico agrario statale per l’appalto triennale del servizio di utilizzo – manutenzione e assistenza di software in uso agli uffici), che sia motivato con riferimento alla sussistenza del vizio genetico costituito dalla mancata pubblicazione del medesimo bando e, in particolare, con riferimento al fatto che lo stesso risultava essere stato pubblicato in data successiva rispetto a quella prevista per la scadenza del termine di presentazione delle offerte.
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Il 30 dicembre esce la sentenza del TAR CALABRIA – REGGIO CALABRIA, SEZ. I, n. 751 che si pronuncia sulla esclusione immediata o meno che possa conseguire in caso di mancata indicazione dei costi di manodopera da parte dell’offerente. Afferma il Tribunale Amministrativo che sono clausole immediatamente escludenti, che come tali vanno immediatamente impugnate: a) le ipotesi di regole che rendano la partecipazione incongruamente difficoltosa o addirittura impossibile;ovvero b) le disposizioni abnormi o irragionevoli che rendano impossibile il calcolo di convenienza tecnica ed economica ai fini della partecipazione alla gara; ovvero c) che prevedano abbreviazioni irragionevoli dei termini per la presentazione dell’offerta; ovvero ancora d) le condizioni negoziali che rendano il rapporto contrattuale eccessivamente oneroso e obiettivamente non conveniente. Le rimanenti clausole, in quanto non immediatamente lesive, devono essere impugnate insieme con l’atto di approvazione della graduatoria definitiva, che definisce la procedura concorsuale ed identifica in concreto il soggetto leso dal provvedimento, rendendo attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva (4) e postulano la preventiva partecipazione alla gara.
In una gara d’appalto di servizi aventi natura intellettuale (nella specie si trattava di una gara per il servizio di progettazione definitiva), non trova applicazione l’obbligo di indicazione separata dei costi della manodopera, con comminatoria automatica, in caso di omissione, della sanzione espulsiva; il servizio di natura intellettuale, infatti, ricade nella deroga di cui all’art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50/2016, per cui alcuna specifica dei costi va presentata, né tanto meno potrebbe prospettarsi un’ipotesi di esclusione dalla gara in ragione della mancata indicazione dei costi della manodopera. Ne discende come corollario, ai sensi dell’art. 83, comma 8, del decreto legislativo n. 50/2016, la nullità, per violazione del principio di tassatività delle cause di esclusione, della previsione della lex specialis che, nel caso concreto di fornitura del servizio di progettazione definitiva, ha sancito l’esclusione del concorrente per non aver indicato i costi della manodopera.
Anche se il codice degli appalti non contiene una definizione di servizi di natura intellettuale, debbono intendersi come tali quelli in cui risalti in maniera preponderante la prestazione d’opera intellettuale effettuata con lavoro prevalentemente proprio e che, per tale ragione, presentano un’organizzazione di impresa ed un rischio trascurabili (6). L’art. 95 comma 3 lett. b) del D.Lgs. n. 50/2016, peraltro, nell’occuparsi dei criteri di aggiudicazione dell’appalto, individua quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa per “i contratti relativi all’affidamento dei servizi di ingegneria ed architettura e degli altri servizi di natura intellettuale di importo pari o superiore ai 40.000 euro”, facendo così intendere che tra i “servizi di natura intellettuale” vi rientri anche l’attività di progettazione.
2020
Il 10 gennaio esce la sentenza del Consiglio di Stato, Sez. III, n. 249, che si pronuncia sulla interpretazione delle clausole del bando e sulla verifica delle offerte anomale. Nel caso in cui la lex specialis di una gara per l’appalto del servizio di preparazione di pasti prescriva la dimostrazione della disponibilità di un centro di cottura ad una certa distanza dal sito presso il quale debbono somministrarsi i pasti (nella specie, più precisamente, la lex specilis richiedeva la piena disponibilità dell’immobile «da adibire» a centro di cottura esterno), deve ritenersi che, prima dell’aggiudicazione, considerata l’alea della gara, sia sufficiente solo che vi sia la formale disponibilità e l’impegno del concorrente ad allestire il centro di cottura dichiarato ai fini della stipula e della successiva esecuzione del contratto. Il procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta non ha carattere sanzionatorio e non ha per oggetto una capillare “caccia all’incongruenza” né la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica, mirando invece ad accertare se in concreto l’offerta, nel suo complesso, sia attendibile e affidabile in relazione alla corretta esecuzione del contratto. La verifica mira, quindi, in generale, a garantire e tutelare l’interesse pubblico concretamente perseguito dall’amministrazione attraverso la procedura di gara per la effettiva scelta del miglior contraente possibile ai fini dell’esecuzione dell’appalto, così che l’esclusione dalla gara dell’offerente per l’anomalia della sua offerta è l’effetto della valutazione (operata dall’amministrazione appaltante) di complessiva inadeguatezza della stessa rispetto al fine da raggiungere.
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Il 24 gennaio esce la sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, n. 607, che si pronuncia sulla interpretazione possibile del bando di gara. Afferma il CDS che nelle gare di appalto, a fronte di più possibili interpretazioni di una clausola della lex specialis (una avente quale effetto l’esclusione dalla gara e l’altra tale da consentire la permanenza del concorrente), non può legittimamente aderirsi all’opzione che, ove condivisa, comporterebbe l’esclusione dalla gara, dovendo essere favorita l’ammissione del più elevato numero di concorrenti, in nome del principio del favor partecipationis e dell’interesse pubblico al più ampio confronto concorrenziale. D’altra parte, il principio generale della più ampia partecipazione alle gare pubbliche, volto a favorire la massima tutela della concorrenza e l’interesse pubblico alla selezione dell’impresa più idonea, è ulteriormente ribadito dall’art. 83, comma 2, del D.Lgs. n. 50 del 2016, il quale prevede che i requisiti e le capacità (economico-finanziarie e tecnico professionali) «sono attinenti e proporzionati all’oggetto dell’appalto, tenendo presente l’interesse pubblico ad avere il più ampio numero di potenziali partecipanti, nel rispetto dei principi di trasparenza e rotazione». La clausola del bando di gara la quale prevede che «il concorrente deve aver eseguito nell’ultimo triennio servizi analoghi a quelli oggetto dell’appalto, erogando un numero di pasti all’anno non inferiore a n. 70.000 senza revoche di contratto», con l’ulteriore precisazione che «la comprova del requisito è fornita secondo le disposizioni di cui all’art. 86 e all’allegato XVII, parte II, del Codice» dei contratti pubblici non può essere interpretata nel senso che, ai fini della partecipazione alla gara, è necessario aver erogato almeno settantamila pasti in ogni singolo anno del triennio. Deve, al contrario, ritenersi che un’interpretazione conforme alla lettera della clausola conduca a intendere le locuzioni in esame come indicazione di una necessaria media ponderata sul periodo di riferimento: solo in questo modo è infatti possibile dare un senso alla parola “triennio”, che indica un intervallo di durata (id est: un periodo unitario), ove poi la distinta locuzione “all’anno” (contenuta nella seconda proposizione, successiva alla virgola) indica correttamente il valore per indicare la media. Nelle gare di appalto, per le imprese di nuova e recente costituzione, il giudizio di idoneità sul possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria astrattamente previsti dal bando deve essere formulato in concreto; diversamente opinando, si attribuirebbe al comma 4 dell’art. 86 del D.Lgs. n. 50 del 2016 un’interpretazione abrogatrice, che in sostanza rende immutabile la scelta preventiva fatta in sede di definizione nel bando di gara dei requisiti di capacità economica e finanziaria e che non consente agli operatori che per impedimenti oggettivi e giustificati non posseggono questi ultimi di offrire prove alternative (2). In materia di verifica di congruità dell’offerta, la relativa valutazione della Stazione appaltante ha natura globale e sintetica, riguardando l’attendibilità e la serietà dell’offerta economica nel suo complesso, e non singole voci o componenti della medesima; siffatta valutazione costituisce espressione ed esercizio di poteri tecnico discrezionali riservati alla Pubblica amministrazione, sottratti al sindacato giurisdizionale salvo i casi di manifesta o macroscopica illogicità o di evidente irragionevolezza inficiante l’operato della Stazione appaltante.
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Il 3 febbraio esce la sentenza del Tar Sicilia, Catania, Sez. IV, n. 272, che affronta la questione della immediata lesività o meno delle clausole del Bando di gara. Afferma il G.A. che sussiste l’esigenza di proporre immediata impugnazione oltre che nei casi di cui all’art. 120, comma 5, c.p.a., allorché in esso si fa riferimento ai bandi e agli avvisi autonomamente lesivi, anche nel caso “clausole immediatamente escludenti” e precisamente
- a) di clausole impositive, ai fini della partecipazione, di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale;
- b) regole che rendano la partecipazione incongruamente difficoltosa o addirittura impossibile;
- c) disposizioni abnormi o irragionevoli che rendano impossibile il calcolo di convenienza tecnica ed economica ai fini della partecipazione alla gara; ovvero prevedano abbreviazioni irragionevoli dei termini per la presentazione dell’offerta;
- d) condizioni negoziali che rendano il rapporto contrattuale eccessivamente oneroso e obiettivamente non conveniente;
- e) clausole impositive di obblighi contra ius (es. cauzione definitiva pari all’intero importo dell’appalto) (5);
- f) bandi contenenti gravi carenze nell’indicazione di dati essenziali per la formulazione dell’offerta (come ad esempio quelli relativi al numero, qualifiche, mansioni, livelli retributivi e anzianità del personale destinato ad essere assorbiti dall’aggiudicatario), ovvero che presentino formule matematiche del tutto errate (come quelle per cui tutte le offerte conseguono comunque il punteggio di “0”);
- g) atti di gara del tutto mancanti della prescritta indicazione nel bando di gara dei costi della sicurezza “non soggetti a ribasso”. E’ qualificabile come clausola immediatamente escludente qualunque disposizione, contenuta nella lex specialis della gara che, a prescindere dal suo contenuto (e cioè indipendentemente dal fatto che abbia ad oggetto un requisito soggettivo od un adempimento da assolvere contestualmente alla presentazione della domanda di partecipazione) e della fase di concreta operatività, sia tale da precludere la partecipazione dell’impresa interessata conseguentemente a contestarla, o comunque da giustificare una prognosi, avente carattere di ragionevole certezza, di esito infausto della sua eventuale partecipazione (7)
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Lo stesso giorno esce la sentenza del Consiglio di Stato, Sez. III, n. 870, che si pronuncia sulla illegittimità del provvedimento di esclusione di una candidata dalla assunzione straordinaria del personale riservato al personale volontario del Corpo dei Vigili del Fuoco prevista dall’art. 6-bis, comma 1, del d.l. n. 113 del 2006, conv. con mod. nella l. n. 160 del 2016, in quanto carente dei requisiti dei requisiti fisici, poiché alta cm. 1,61,7 inferiore al limite minimo di cm. 1,65 previsto dal DPCM 22 luglio 1987, n. 411, dovendosi in tal caso il bando ritenersi autointegrato ai sensi dell’art. 1, comma 3 e 4 della L. n. 2/2015, con la conseguente sostituzione del previgente parametro della mera altezza con quello più complesso di cui all’art. 3 del D.P.R. n. 207 del 2015 (1).
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Il 26 febbraio esce la sentenza n. 146 del Tar Piemonte, Sez. I, che si pronuncia sul ruolo del bando e del disciplinare di gara. Negli appalti pubblici, il bando, il disciplinare di gara e il capitolato speciale hanno una propria autonomia ed una propria peculiare funzione, il bando fissando le regole della gara, il disciplinare regolando il procedimento di gara ed il capitolato integrando eventualmente le disposizioni del bando, con particolare riferimento – di norma – agli aspetti tecnici, anche in funzione dell’assumendo vincolo contrattuale. In ordine alla risoluzione di eventuali contrasti interni tra le disposizioni della lex specialis, tra tali atti sussiste una gerarchia differenziata, nel senso che le disposizioni del capitolato speciale possono solo integrare, ma non modificare quelle del bando. In una gara di appalto, anche un’offerta giudicata positivamente dalla commissione di gara, perché rispondente a criteri di valutazione stabiliti nel bando, può essere ritenuta dall’amministrazione aggiudicatrice non conveniente o idonea rispetto alle esigenze che la stessa si propone di realizzare attraverso l’affidamento del contratto, ai sensi dell’art. 95, comma 12, del d.lgs n. 50 del 2016; in ciò non vi è alcuna contraddittorietà nell’operato complessivo della stazione appaltante, perché la valutazione tecnica delle offerte di competenza della commissione giudicatrice e il potere di approvazione degli atti di gara spettante all’Amministrazione, attraverso la non aggiudicazione proposta dalla prima, rispondono ad esigenze e si fondano su presupposti diversi. Il precipuo potere previsto dall’art. 95, comma 12, del d.lgs n. 50 del 2016 di ritenere l’offerta rimasta aggiudicataria provvisoria non conveniente spettante alla P.A. appaltante e, per essa al R.U.P., è sindacabile da parte del G.A., ma tale sindacato deve rimanere circoscritto agli aspetti estrinseci di logicità, non abnormità o ingiustizia manifesta degli apprezzamenti compiuti dall’amministrazione, non potendosi ammettere alcun sindacato di tipo sostitutorio ad opera del giudice amministrativo in termini di condivisione o meno delle concrete valutazioni amministrative.
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Il 24 marzo esce la sentenza della I sezione del TAR Lombardia n. 555 che si allinea alla più recente giurisprudenza in materia affermando che, in ossequio ai principi generali, nelle gare pubbliche – a fronte di più possibili interpretazioni delle clausole della lex specialis, una avente quale effetto l’esclusione dalla gara e una tale da consentire la permanenza del concorrente, se del caso attraverso una previa interlocuzione procedimentale ed il soccorso istruttorio – non può legittimamente aderirsi all’opzione “escludente”. Pertanto, in caso di equivocità delle disposizioni, deve essere preferita l’interpretazione che, in aderenza ai criteri di proporzionalità e ragionevolezza, eviti eccessivi formalismi e illegittime restrizioni alla partecipazione, prediligendo una logica sostanzialistica.
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Il 25 marzo esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n. 2090 che ritorna sul tema dei canoni ermeneutici degli atti amministrativi.
In particolare, nell’interpretazione dei bandi di gara, assume carattere preminente la regola collegata all’interpretazione letterale, con esclusione di ogni ulteriore procedimento ermeneutico in caso di clausole assolutamente chiare; tuttavia, in caso di omissioni od ambiguità delle singole clausole, è necessario fare ricorso ad altri canoni ermeneutici, tra cui rilevano quelli dettati dall’art. 1363 cod. civ (dell’interpretazione complessiva delle clausole, le une per mezzo delle altre) e dall’art. 1367 cod. civ. (che, in ossequio al principio di conservazione degli atti giuridici, nel dubbio impone di seguire l’interpretazione che consente di mantenerne gli effetti, piuttosto che quella che ne determini la privazione).
Inoltre, in materia di procedure di gara ad evidenza pubblica, va garantito il principio del favor partecipationis secondo il quale, in caso di clausole del bando ambigue o dubbie, occorre privilegiare l’esegesi che estende, per quanto possibile, la platea dei partecipanti alla gara, piuttosto che optare per una soluzione ermeneutica restrittiva della partecipazione, al fine di realizzare l’interesse dell’amministrazione alla selezione della migliore offerta presentata tra quelle concorrenti.
Negli appalti pubblici, il possesso di specifiche attrezzature necessarie per l’espletamento del servizio previsto dalla lex specialis va concepito come requisito di esecuzione delle prestazioni negoziali e non già di partecipazione alla gara; onde è da ritenere illegittima la clausola della lex specialis che ne imponga il possesso già all’atto della partecipazione alla gara. Si tratta di una regola, che è da valere per le ragioni pro-concorrenziali – e salvo deroghe che tuttavia devono rispondere a ragionevoli esigenze della stazione appaltante ed, in quanto eccezionali, devono concretarsi in inequivocabili disposizioni della legge di gara – anche quando trattasi di requisito di valutazione dell’offerta tecnica ai fini di incrementarne il punteggio.
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Il 1° aprile esce la sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia n. 230 in tema di revoca domande risarcitorie a seguito della revoca della graduatoria finale di un concorso.
Nei concorsi pubblici, solo a partire dall’atto di nomina dei vincitori e quindi dalla stipula del contratto di lavoro, la posizione giuridica dei partecipanti diviene di diritto soggettivo, rimanendo invece in tutte le fasi precedenti la posizione giuridica di interesse legittimo ovvero di mera aspettativa. Deve pertanto ritenersi che, in capo all’Amministrazione, prima che sorga una posizione di diritto soggettivo, permanga una ampia facoltà di monitorare l’esistenza o meno del pubblico interesse a portare a compimento la procedura concorsuale.
Appartiene quindi alla più ampia valutazione di merito dell’Amministrazione la scelta del momento in cui bandire il concorso per la copertura di posti vacanti in organico, nonché l’individuazione del numero delle unità di personale da assumere in relazione alle esigenze funzionali ed organizzative dell’ente. Sempre in via discrezionale l’Amministrazione può intervenire con atto di revoca su una procedura già indetta, in base a rinnovata valutazione di opportunità e fino al momento in cui non si siano costituite posizioni di impiego in esito alla procedura selettiva.
Il bando con cui si indice il pubblico concorso deve essere qualificato come atto amministrativo generale, che per quanto previsto dalla la legge n. 241/1990 non soggiace all’obbligo motivazionale (art. 3, comma 2) ed a cui non si applicano le garanzie partecipative (art. 13); alla stressa stregua deve classificarsi atto generale anche il contraius actus con cui la Pubblica amministrazione revoca il bando. Quanto appena rilevato, tuttavia, non esonera l’Amministrazione dal procedere alle valutazioni che presiedendo l’adozione di tali atti seguendo stringenti canoni di ragionevolezza e proporzionalità.
Sotto altro angolo prospettico, la posizione tutelata in capo al concorrente incluso nella graduatoria dei candidati idonei va configurata quale interesse legittimo. È da escludersi, pertanto, nel caso di revoca del bando, la sussistenza (e la violazione) di un “diritto all’assunzione”.
Di conseguenza, l’indennizzo previsto dall’art. 21-quinquies della l. n. 241/1990 compete solo in presenza della revoca di un atto amministrativo definitivamente attributivo di vantaggi e di effetti durevoli per il destinatario, non essendo dovuto, invece, a fronte del mero ritiro di un atto che non sia definitivamente attributivo di un vantaggio di carattere finale.
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Il 6 maggio esce la sentenza della I sezione del TAR Lombardia – sede di Brescia – n. 334 onde le uniche fonti della procedura di gara sono costituite dal bando, dal capitolato e dal disciplinare, unitamente agli eventuali allegati; di contro, i chiarimenti autointerpretativi della S.A. non possono né modificare né integrare le norme della lex specialis e, quindi, non possono essere vincolanti per la commissione aggiudicatrice.
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Il 25 maggio esce la sentenza della I sezione del TAR Piemonte n. 316 onde in materia di appalti pubblici, la scelta del contratto collettivo da applicare rientra nelle prerogative di organizzazione dell’imprenditore e nella libertà negoziale delle parti, con il solo limite che esso risulti coerente con l’oggetto dell’appalto. Sicché, anche ai fini della valutazione dell’anomalia dell’offerta e della congruità del costo del lavoro, ai sensi dell’art. 97 del d.lgs. n. 50 del 2016, la scelta del contratto collettivo rientra nelle prerogative dell’imprenditore, e non è da considerarsi necessariamente anomala l’offerta, quando il costo del lavoro è inferiore rispetto a quello applicato da altra impresa concorrente, a causa del differente contratto collettivo imposto al personale, se nella lex specialis di gara non si richieda l’indicazione di un contratto specifico e le mansioni richieste per l’esecuzione del servizio siano riconducibili a più figure professionali, inquadrabili anche nelle previsioni di diverse tipologie contrattuali.
Sotto altro profilo, osserva il Collegio che, negli appalti pubblici, la clausola sociale deve essere interpretata conformemente ai principi nazionali e comunitari in materia di libertà di iniziativa imprenditoriale riconosciuta e garantita dall’art. 41 Cost. a fondamento dell’autogoverno dei fattori di produzione; la clausola non comporta, dunque, alcun obbligo per l’impresa aggiudicataria di un appalto pubblico di assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata alle medesime condizioni il personale già utilizzato dalla precedente impresa o società affidataria.
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Il 27 maggio esce la sentenza della II sezione del TAR Campania – sede di Salerno – n. 590 che richiama il consolidato orientamento secondo cui l’impugnazione di una clausola non escludente del bando di gara – al pari dell’impugnazione del diniego di affidamento diretto del contratto – si rende improcedibile nel caso di omessa impugnazione dell’aggiudicazione, in ragione del carattere inoppugnabile del provvedimento finale, attributivo dell’utilitas all’affidatario.
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Il 18 giugno esce la sentenza della III sezione del TAR Toscana n. 749 in tema di interpretazione del bando di gara.
Ricorda il Tribunale come nelle gare d’appalto operi il principio interpretativo che vede privilegiata, a tutela dell’affidamento delle imprese, l’interpretazione letterale degli atti di gara, dalla quale è consentito discostarsi solo in presenza di una sua obiettiva incertezza. L’interpretazione della legge di gara soggiace quindi, come per tutti gli atti amministrativi, ai medesimi canoni ermeneutici previsti per i contratti dagli artt. 1362 e ss. c.c., tra i quali assume carattere preminente quello dell’interpretazione letterale.
In particolare, la c.d. “clausola di equivalenza”, anche se espressamente richiamata dalla legge di gara, non può essere interpretata in modo tale da consentire ai concorrenti di offrire una fornitura sostanzialmente diversa rispetto a quella individuata negli atti di gara, finendo così per rendere indeterminato l’oggetto dell’appalto medesimo. La finalità dell’art. 68 del d.lgs. 163/2006, invero, è quella di evitare indebite restrizioni alla concorrenza ed alla partecipazione ai pubblici appalti, che potrebbero verificarsi in caso di indicazione, da parte delle stazioni appaltanti, di specifiche tecniche di prodotto eccessivamente restrittive; tuttavia, il richiamo al principio di equivalenza non può consentire di modificare l’oggetto dell’appalto, al punto da permettere ai partecipanti di offrire un bene radicalmente differente, ossia un vero e proprio aliud pro alio.
Peraltro, i chiarimenti della Stazione appaltante sono ammissibili soltanto nei limiti in cui rivestano una finalità interpretativa, contribuendo, con un’operazione di mera ermeneutica del testo, a renderne chiaro e comprensibile il significato o la ratio; tale ammissibilità va invece esclusa allorquando, mediante l’attività interpretativa, si giunga ad attribuire ad una disposizione del bando un significato ed un portata diversa o maggiore rispetto a quella che risulta dal testo, così violando il rigoroso principio del rispetto formale della lex specialis, posto a presidio dei principi di par condicio competitorum, nonché di legalità, trasparenza, buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 della Costituzione.
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Il 2 luglio esce la sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 12 che affronta diversi aspetti legati ai termini per impugnare l’aggiudicazione: dalla possibilità di accesso agli atti di gara alle possibilità di tutela del partecipante legate alla completa conoscenza di tali documenti.
Per quanto riguarda la decorrenza del termine di impugnazione degli atti amministrativi, il c.p.a. contiene regole generali all’art. 41, comma 2, e regole speciali, tra cui quelle previste dall’art. 120, comma 5, in tema di impugnazione degli atti delle gare d’appalto.
Le regole generali contenute nell’art. 41, comma 2, prima parte, sono le seguenti: ‘qualora sia proposta azione di annullamento, il ricorso deve essere notificato, a pena di decadenza, alla pubblica amministrazione che ha emesso l’atto impugnato e ad almeno uno dei controinteressati che sia individuato nell’atto stesso entro il termine previsto dalla legge, decorrente dalla notificazione, comunicazione o piena conoscenza, ovvero, per gli atti di cui non sia richiesta la notificazione individuale, dal giorno in cui sia scaduto il termine della pubblicazione se questa sia prevista dalla legge o in base alla legge’.
In tema di impugnazione degli atti delle gare d’appalto, l’art. 120, comma 5, dispone che ‘per l’impugnazione degli atti di cui al presente articolo il ricorso, principale o incidentale e i motivi aggiunti, anche avverso atti diversi da quelli già impugnati, devono essere proposti nel termine di trenta giorni, decorrente, per il ricorso principale e per i motivi aggiunti, dalla ricezione della comunicazione di cui all’articolo 79 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, o, per i bandi e gli avvisi con cui si indice una gara, autonomamente lesivi, dalla pubblicazione di cui all’articolo 66, comma 8, dello stesso decreto; ovvero, in ogni altro caso, dalla conoscenza dell’atto’.
La ratio delle disposizioni speciali contenute nell’art. 120, comma 5, prima parte, è composita.
Prima dell’entrata in vigore del c.p.a. – e con riferimento alle tradizionali disposizioni sulla proponibilità anche in materia di appalti del ricorso al TAR o al Presidente della Repubblica entro i consueti termini di decadenza, rispettivamente, di sessanta o di centoventi giorni – la giurisprudenza riteneva che anche in tale materia si applicavano i principi generali sulla decorrenza del termine di impugnazione.
Pertanto, si affermava che il dies a quo decorreva dalla comunicazione della aggiudicazione o dalla conoscenza della sua portata lesiva e che non rilevava la distinzione tra i vizi desumibili dall’atto comunicato e gli altri vizi percepibili aliunde, poiché sussisteva l’onere della immediata impugnazione dell’atto lesivo, salva la possibilità di proporre motivi aggiunti a seguito della conoscenza degli atti impugnati e degli eventuali loro profili di illegittimità.
In attuazione della direttiva n. 66 del 2007 e dell’art. 44 della legge delega n. 88 del 2009, il d.lgs. n. 53 del 2010 ha tra l’altro modificato l’art. 245 del ‘primo codice’ dei contratti pubblici, inserendovi il comma 2 quinquies, lett. a), che ha previsto il termine di trenta giorni per proporre il ricorso giurisdizionale (termine connesso alla disciplina sullo stand still di cui all’art. 11 dello stesso ‘primo codice’, che ha richiamato gli obblighi di comunicazione previsti dall’art. 79).
A sua volta, l’art. 120 del c.p.a.
– al comma 1, ha introdotto la disposizione innovativa della esclusione della proposizione del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, ancora espressamente ammesso dall’art. 245 del ‘primo codice’;
– al comma 2, ha ribadito la regola – introdotta dal d.lgs. n 53 del 2010 – della proponibilità del ricorso entro il termine di trenta giorni, dimezzato rispetto a quello ordinariamente previsto per la proposizione di un ricorso al TAR;
– al comma 5, ha introdotto ulteriori disposizioni sulla rilevanza della pubblicazione degli atti, da effettuare ai sensi dell’art. 79 del ‘primo codice’ sui contratti pubblici.
In particolare, tale comma 5 – ispirandosi al principio della effettività della tutela giurisdizionale delle imprese interessate – ha disposto che il termine per l’impugnazione comincia a decorrere da una ‘data oggettivamente riscontrabile’, da individuare:
– da un lato, sulla base degli ‘incombenti formali ex lege’ cui è tenuta l’Amministrazione aggiudicatrice (connessi alla disciplina sullo stand still, contenuta dapprima nell’art. 11 del ‘primo codice’ e poi nell’art. 32, comma 9, del ‘secondo codice’);
– dall’altro lato, sulla base del criterio della normale diligenza per la conoscenza degli atti, cui è tenuta l’impresa che intenda proporre il ricorso.
Sulla base di tali innovative disposizioni, la giurisprudenza – con riferimento agli atti emanati prima dell’entrata in vigore del ‘secondo codice’ – ha escluso la necessità di proporre ricorsi ‘al buio’, con salvezza di motivi aggiunti, nei giudizi ‘concernenti le procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture’.
Per la determinazione della ‘data oggettivamente riscontrabile’ quale dies a quo, l’art. 120, comma 5, del c.p.a. ha infatti fissato tre regole:
- a) per la impugnazione degli atti ‘concernenti le procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture’, incluse le aggiudicazioni, si è richiamata la data di ‘ricezione della comunicazione di cui all’articolo 79 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163’ (recante il titolo ‘informazioni circa i mancati inviti, le esclusioni e le aggiudicazioni’), attribuendo, dunque, rilievo decisivo al rispetto delle previsioni dell’art. 79;
- b) per l’impugnazione dei bandi e degli avvisi ‘con cui si indice una gara, autonomamente lesivi’, si è richiamata la data di ‘pubblicazione di cui all’articolo 66, comma 8’ del medesimo d.lgs. n. 163 del 2006, attribuendo, dunque, analogo rilievo a tale pubblicazione;
- c) ‘in ogni altro caso’, va accertata la ‘conoscenza dell’atto’.
Per i casi previsti dalle lettere a) e b), l’art. 120 ha attribuito dunque rilievo decisivo al compimento delle ‘informazioni’ e delle ‘pubblicazioni’ che l’Amministrazione aggiudicatrice è tenuta ad effettuare.
Per le aggiudicazioni disposte nel vigore dell’art. 245 del ‘primo codice’ dei contratti pubblici (come modificato con il d.lgs. n. 53 del 2010) e del sostanzialmente corrispondente art. 120 del c.p.a., si erano consolidati i seguenti orientamenti giurisprudenziali.
Qualora l’Amministrazione aggiudicatrice avesse inviato una ‘comunicazione completa ed esaustiva dell’aggiudicazione’ (con l’esposizione delle ragioni di preferenza per l’offerta dell’aggiudicatario), si affermava che il ricorso era proponibile nel termine di trenta giorni, decorrente dalla comunicazione della aggiudicazione ai sensi dell’art. 79 del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (richiamato dall’art. 120, comma 5, del c.p.a. e recante il titolo ‘Informazioni circa i mancati inviti, le esclusioni e le aggiudicazioni’).
Dovendosi coordinare l’art. 120, comma 5, del c.p.a. con l’art. 79 del d.lgs. n. 50 del 2006 (richiamato dal medesimo comma 5), la sopra citata giurisprudenza riteneva che:
– aveva un rilievo centrale il comma 5 quater dell’art. 79 (come introdotto dall’art. 2 del d.lgs. n. 53 del 2010), per il quale, ‘Fermi i divieti e differimenti dell’accesso previsti dall’articolo 13, l’accesso agli atti del procedimento in cui sono adottati i provvedimenti oggetto di comunicazione ai sensi del presente articolo è consentito entro dieci giorni dall’invio della comunicazione dei provvedimenti medesimi mediante visione ed estrazione di copia. Non occorre istanza scritta di accesso e provvedimento di ammissione, salvi i provvedimenti di esclusione o differimento dell’accesso adottati ai sensi dell’articolo 13’;
– il termine di trenta giorni per l’impugnazione dell’atto di aggiudicazione si doveva incrementare di un numero di giorni (massimo dieci) pari a quello necessario per avere piena conoscenza dell’atto e dei suoi eventuali profili di illegittimità, qualora questi non fossero oggettivamente evincibili dalla comunicazione di aggiudicazione;
– qualora l’Amministrazione aggiudicatrice avesse però rifiutato illegittimamente l’accesso o avesse avuto ‘comportamenti dilatori’, il termine per l’impugnazione cominciava a decorrere dalla data in cui l’accesso era stato effettivamente consentito.
Qualora fosse invece mancata la ‘comunicazione completa ed esaustiva dell’aggiudicazione’ (avendo l’Amministrazione aggiudicatrice comunicato soltanto l’avvenuta aggiudicazione ed il nominativo dell’aggiudicatario), si affermava che si doveva tenere conto della esigenza per l’interessato di conoscere gli elementi tecnici dell’offerta dell’aggiudicatario e, in generale, gli atti della procedura di gara, per poter esaminare compiutamente il loro contenuto e verificare la sussistenza di eventuali vizi.
Su questo articolato, ma consolidato, quadro normativo e giurisprudenziale, ha inciso l’entrata in vigore del ‘secondo codice’ dei contratti pubblici, approvato con il d.lgs. n. 50 del 2016.
Tale codice non ha testualmente modificato l’art. 120, comma 5, del c.p.a., ma ha con esso interferito sotto un duplice aspetto.
In primo luogo, l’art. 217 del ‘secondo codice’ ha abrogato il d.lgs. n. 163 del 2006, di approvazione del ‘primo codice’, incluso l’art. 79 (che però continua ad essere richiamato dal medesimo art. 120, comma 5, del c.p.a.).
Già tale discrasia di per sé implica la necessità di chiarire il significato da attribuire all’art. 120, comma 5, giacché esso richiama un articolo che è stato ormai espressamente abrogato nel 2016.
In secondo luogo, gli articoli 29 e 76 del ‘secondo codice’ in materia di accesso, di informazioni e di pubblicazione degli atti contengono ben diverse disposizioni, rispetto a quelle contenute nell’abrogato art. 79, le quali – come si è prima osservato – avevano anche la funzione di delimitare la portata applicativa dell’art. 120, comma 5, del c.p.a., sulla individuazione del dies a quo per l’impugnazione delle diverse tipologie degli atti di gara.
Il vigente art. 29 – in applicazione del principio di trasparenza – ha disposto al comma 1 che tutti gli atti del procedimento “devono essere pubblicati e aggiornati sul profilo del committente, nella sezione “Amministrazione trasparente”, con l’applicazione delle disposizioni di cui decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33”, aggiungendo che, “Fatti salvi gli atti a cui si applica l’articolo 73, comma 5, i termini cui sono collegati gli effetti giuridici della pubblicazione decorrono dalla data di pubblicazione sul profilo del committente”.
Il vigente art. 76 – sulla “Informazione dei candidati e degli offerenti” – ha disposto che:
– ‘Le stazioni appaltanti, nel rispetto delle specifiche modalità di pubblicazione stabilite dal presente codice, informano tempestivamente ciascun candidato e ciascun offerente delle decisioni adottate riguardo alla conclusione di un accordo quadro, all’aggiudicazione di un appalto o all’ammissione di un sistema dinamico di acquisizione, ivi compresi i motivi dell’eventuale decisione di non concludere un accordo quadro o di non aggiudicare un appalto per il quale è stata indetta una gara o di riavviare la procedura o di non attuare un sistema dinamico di acquisizione’ (comma 1);
– ‘Su richiesta scritta dell’offerente e del candidato interessato, l’amministrazione aggiudicatrice comunica immediatamente e comunque entro quindici giorni dalla ricezione della richiesta: a) ad ogni offerente, i motivi del rigetto della sua offerta, inclusi, per i casi di cui all’articolo 68, commi 7 e 8, i motivi della decisione di non equivalenza o della decisione secondo cui i lavori, le forniture o i servizi non sono conformi alle prestazioni o ai requisiti funzionali; a bis) ad ogni candidato escluso, i motivi del rigetto della sua domanda di partecipazione; b) ad ogni offerente che abbia presentato un’offerta ammessa in gara e valutata, le caratteristiche e i vantaggi dell’offerta selezionata e il nome dell’offerente cui è stato aggiudicato l’appalto o delle parti dell’accordo quadro; c) ad ogni offerente che abbia presentato un’offerta ammessa in gara e valutata, lo svolgimento e l’andamento delle negoziazioni e del dialogo con gli offerenti’ (comma 2);
– ‘Le stazioni appaltanti comunicano d’ufficio immediatamente e comunque entro un termine non superiore a cinque giorni: a) l’aggiudicazione, all’aggiudicatario, al concorrente che segue nella graduatoria, a tutti i candidati che hanno presentato un’offerta ammessa in gara, a coloro la cui candidatura offerta siano state escluse se hanno proposto impugnazione avverso l’esclusione o sono in termini per presentare impugnazione, nonché a coloro che hanno impugnato il bando o la lettera d’invito, se tali impugnazioni non siano state respinte con pronuncia giurisdizionale definitiva; b) l’esclusione ai candidati e agli offerenti esclusi; c) la decisione di non aggiudicare un appalto ovvero di non concludere un accordo quadro, a tutti i candidati; d) la data di stipula del contratto con l’aggiudicazione, ai soggetti di cui alla lettera a) del presente comma’ (comma 5).
Con l’entrata in vigore del ‘secondo codice’ degli appalti, sono dunque sorte le questioni interpretative, conseguenti in primo luogo al mantenimento nell’art. 120, comma 5, del c.p.a. del richiamo all’art. 79 del ‘primo codice’ ormai abrogato, e in secondo luogo alla diversità di disciplina in materia di accesso, informazioni e pubblicità degli atti, contenuta nei due codici dei contratti pubblici susseguitisi nel tempo.
Ritiene l’Adunanza Plenaria che, anzitutto, vada rimarcato come il legislatore non abbia modificato l’art. 120, comma 5, del c.p.a., per quanto riguarda il suo richiamo all’art. 79 del ‘primo codice’, il quale – come si è sopra osservato – ha dato rilievo ad una ‘data oggettivamente riscontrabile’, da individuare in considerazione degli incombenti formali cui è tenuta ex lege l’Amministrazione aggiudicatrice e del rispetto della regola della diligenza cui è tenuta l’impresa interessata.
In altri termini, in sede di emanazione del ‘secondo codice’ degli appalti, non vi è stata alcuna determinazione del conditor iuris di modificare la regola speciale contenuta nel c.p.a., sul rilievo decisivo da attribuire – ai fini processuali – agli incombenti formali informativi cui è tenuta l’Amministrazione aggiudicatrice, indispensabili per individuare il dies a quo.
Le incongruenze conseguenti al mancato coordinamento del ‘secondo codice’ con l’art. 120, comma 5, del c.p.a. si possono allora superare ritenendo che non vi è stato il necessario coordinamento del richiamo effettuato dal medesimo comma 5: il riferimento alla formalità previste dall’art. 79 del ‘primo codice’ deve ora intendersi effettuato alle formalità previste dall’art. 76 del ‘secondo codice’.
Peraltro, l’art. 76 del ‘secondo codice’ non contiene specifiche regole sull’accesso informale, in precedenza consentito per le procedure di gara dall’art. 79, comma 5 quater, del ‘primo codice’ (che contribuiva a dare un compiuto e prevedibile significato all’art. 120, comma 5, del c.p.a.).
Ritiene quindi l’Adunanza Plenaria che – a seguito della mancata riproduzione nel ‘secondo codice’ di specifiche disposizioni sull’accesso informale agli atti di gara – rilevano le disposizioni generali sull’accesso informale, previste dall’art. 5 del regolamento approvato con il d.P.R. n. 184 del 2006.
Queste sono divenute applicabili per gli atti delle procedure di gara in questione a seguito della abrogazione delle disposizioni speciali, previste dall’art. 79, comma 5 quater, del ‘primo codice’.
L’Amministrazione aggiudicatrice deve consentire all’impresa interessata di accedere agli atti, sicché – in presenza di eventuali suoi comportamenti dilatori (che non possono comportare suoi vantaggi processuali, per il principio della parità delle parti) – va ribadito quanto già affermato dalla giurisprudenza per la quale, qualora l’Amministrazione aggiudicatrice rifiuti l’accesso o impedisca con comportamenti dilatori l’immediata conoscenza degli atti di gara (e dei relativi allegati), il termine per l’impugnazione degli atti comincia a decorrere solo da quando l’interessato li abbia conosciuti.
Ritiene inoltre l’Adunanza Plenaria che, per la individuazione della decorrenza del termine per l’impugnazione, rileva anche l’art. 29, comma 1, ultima parte, del ‘secondo codice’, per il quale “i termini cui sono collegati gli effetti giuridici della pubblicazione decorrono dalla data di pubblicazione sul profilo del committente”.
L’impresa interessata – che intenda proporre un ricorso – ha l’onere di consultare il ‘profilo del committente’, dovendosi desumere la conoscenza legale degli atti dalla data nella quale ha luogo la loro pubblicazione con i relativi allegati (data che deve costantemente risultare dal sito).
In considerazione dell’immutato testo dell’art. 120, comma 5, del c.p.c., degli articoli 29, comma 1, e 76 del ‘secondo codice’, nonché dell’art. 5 del d.P.R. n. 184 del 2006, ritiene l’Adunanza Plenaria che per determinare il dies a quo per l’impugnazione va riaffermata la perdurante rilevanza della ‘data oggettivamente riscontrabile’, cui ancora si riferisce il citato comma 5.
La sua individuazione, dunque, continua a dipendere dal rispetto delle disposizioni sulle formalità inerenti alla ‘informazione’ e alla ‘pubblicazione’ degli atti, nonché dalle iniziative dell’impresa che effettui l’accesso informale con una ‘richiesta scritta’, per la quale sussiste il termine di quindici giorni previsto dall’art. 76, comma 2, del ‘secondo codice’, applicabile per identità di ratio anche all’accesso informale.
Le considerazioni che precedono sono corroborate dall’esame dell’art. 2 quater della direttiva n. 665 del 1989 e della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
L’art. 2 quater della direttiva n. 665 del 1989 ha disposto che il termine ‘per la proposizione del ricorso’ – fissato dal legislatore nazionale – comincia ‘a decorrere dal giorno successivo alla data in cui la decisione dell’Amministrazione aggiudicatrice è stata inviata’ al partecipante alla gara, ‘accompagnata da una relazione sintetica dei motivi pertinenti’.
Da tale disposizione, si desume che la direttiva ha fissato proprio il principio posto a base dapprima dell’art. 245 del ‘primo codice’ e poi dell’art. 120, comma 5, del c.p.a., e cioè che la decorrenza del termine di impugnazione dipenda dall’accertamento di una ‘data oggettivamente riscontrabile’, riconducibile al rispetto delle disposizioni sulle informazioni dettagliate, spettanti ai partecipanti alla gara.
Inoltre, come ha evidenziato l’ordinanza di rimessione, in sede di interpretazione dell’art. 1, § 1, della direttiva n. 665 del 1989, la Corte di Giustizia ha evidenziato che:
– i termini imposti per proporre i ricorsi avverso gli atti delle procedure di affidamento cominciano a decorrere solo quando ‘il ricorrente è venuto a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza della pretesa violazione”;
– “una possibilità, come quella prevista dall’articolo 43 del decreto legislativo n. 104/2010, di sollevare «motivi aggiunti» nell’ambito di un ricorso iniziale proposto nei termini contro la decisione di aggiudicazione dell’appalto non costituisce sempre un’alternativa valida di tutela giurisdizionale effettiva. Infatti, in una situazione come quella di cui al procedimento principale, gli offerenti sarebbero costretti a impugnare in abstracto la decisione di aggiudicazione dell’appalto, senza conoscere, in quel momento, i motivi che giustificano tale ricorso”.
Anche l’art. 2 quater della direttiva n 665 del 1989 e tale giurisprudenza inducono a ritenere che la sopra riportata normativa nazionale vada interpretata nel senso che il termine di impugnazione degli atti di una procedura di una gara d’appalto non può che decorrere da una data ancorata all’effettuazione delle specifiche formalità informative di competenza della Amministrazione aggiudicatrice, dovendosi comunque tenere conto anche di quando l’impresa avrebbe potuto avere conoscenza degli atti, con una condotta ispirata alla ordinaria diligenza.
In altri termini e in sintesi, l’Adunanza Plenaria ritiene che – ai fini della decorrenza del termine di impugnazione – malgrado l’improprio richiamo all’art. 79 del ‘primo codice’, ancora contenuto nell’art. 120, comma 5, del c.p.a. – rilevano:
- a) le regole che le Amministrazioni aggiudicatrici devono rispettare in tema di ‘Informazione dei candidati e degli offerenti’ (ora contenute nell’art. 76 del ‘secondo codice’);
- b) le regole sull’accesso informale (contenute in termini generali nell’art. 5 del d.P.R. n. 184 del 2006), esercitabile – anche quando si tratti di documenti per i quali la legge non prevede espressamente la pubblicazione – non oltre il termine previsto dall’art. 76, prima parte del comma 2, del ‘secondo codice’;
- c) le regole (contenute nell’art. 29, comma 1, ultima parte, del ‘secondo codice’) sulla pubblicazione degli atti, completi dei relativi allegati, ‘sul profilo del committente’, il cui rispetto comporta la conoscenza legale di tali atti, poiché l’impresa deve avere un comportamento diligente nel proprio interesse.
I principi che precedono risultano conformi alle ‘esigenze di celerità dei procedimenti di aggiudicazione di affidamenti di appalti pubblici’.
Tali esigenze:
– sono state specificamente valutate dal legislatore in sede di redazione dapprima dell’art. 245 del ‘primo codice’ (come modificato dal d.lg. n. 53 del 2010) e poi dell’art. 120, commi 1 e 5, del c.p.a. (con le connesse regole sopra richiamate della esclusione della proponibilità del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica e della fissazione del termine di trenta giorni, ancorata per quanto possibile ad una ‘data oggettivamente riscontrabile’);
– sono concretamente soddisfatte – anche nell’ottica della applicazione dell’art. 32, comma 9, del ‘secondo codice’ sullo stand still – in un sistema nel quale le Amministrazioni aggiudicatrici rispettino i loro doveri sulla trasparenza e sulla pubblicità, previsti dagli articoli 29 e 76 del ‘secondo codice’, fermi restando gli obblighi di diligenza ricadenti sulle imprese, di consultare il ‘profilo del committente’ ai sensi dell’art. 29, comma 1, ultima parte, dello stesso codice e di attivarsi per l’accesso informale, ai sensi dell’art. 5 del d.P.R. n. 184 del 2006, da considerare quale ‘normativa di chiusura’ anche quando si tratti di documenti per i quali l’art. 29 citato non prevede la pubblicazione (offerte dei concorrenti, giustificazioni delle offerte).
A questo punto il Collegio passa ad analizzare l’ulteriore questione sul se il ‘principio della piena conoscenza o conoscibilità’ (per il quale in materia il ricorso è proponibile da quando si sia avuta conoscenza del contenuto concreto degli atti lesivi o da quando questi siano stati pubblicati sul ‘profilo del committente’) si applichi anche quando l’esigenza di proporre il ricorso emerga dopo aver conosciuto i contenuti dell’offerta dell’aggiudicatario o le sue giustificazioni rese in sede di verifica dell’anomalia dell’offerta.
Ritiene l’Adunanza Plenaria che il ‘principio della piena conoscenza o conoscibilità’ si applichi anche in tale caso, rilevando il tempo necessario per accedere alla documentazione presentata dall’aggiudicataria, ai sensi dell’art. 76, comma 2, del ‘secondo codice’.
Poiché il termine di impugnazione comincia a decorrere dalla conoscenza del contenuto degli atti, anche in tal caso non è necessaria la previa proposizione di un ricorso ‘al buio’ [‘in abstracto’, nella terminologia della Corte di Giustizia, e di per sé destinato ad essere dichiarato inammissibile, per violazione della regola sulla specificazione dei motivi di ricorso, contenuta nell’art. 40, comma 1, lettera d), del c.p.a.], cui dovrebbe seguire la proposizione di motivi aggiunti.
Sulla base delle considerazioni che precedono, l’Adunanza Plenaria ritiene di affermare i seguenti principi di diritto:
“a) il termine per l’impugnazione dell’aggiudicazione decorre dalla pubblicazione generalizzata degli atti di gara, tra cui devono comprendersi anche i verbali di gara, ivi comprese le operazioni tutte e le valutazioni operate dalle commissioni di gara delle offerte presentate, in coerenza con la previsione contenuta nell’art. 29 del d.lgs. n. 50 del 2016;
- b) le informazioni previste, d’ufficio o a richiesta, dall’art. 76 del d.lgs. n. 50 del 2016, nella parte in cui consentono di avere ulteriori elementi per apprezzare i vizi già individuati ovvero per accertarne altri, consentono la proposizione non solo dei motivi aggiunti, ma anche di un ricorso principale;
- c) la proposizione dell’istanza di accesso agli atti di gara comporta la ‘dilazione temporale’ quando i motivi di ricorso conseguano alla conoscenza dei documenti che completano l’offerta dell’aggiudicatario ovvero delle giustificazioni rese nell’ambito del procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta;
- d) la pubblicazione degli atti di gara, con i relativi eventuali allegati, ex art. 29 del decreto legislativo n. 50 del 2016, è idonea a far decorrere il termine di impugnazione;
- e) sono idonee a far decorrere il termine per l’impugnazione dell’atto di aggiudicazione le forme di comunicazione e di pubblicità individuate nel bando di gara ed accettate dai partecipanti alla gara, purché gli atti siano comunicati o pubblicati unitamente ai relativi allegati’.
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Il 2 luglio esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n. 4252 che affronta un caso di contraddizione interna alla lex specialis.
Ove la lex specialis di una gara di appalto, da un lato, vieti (con la lettera d’invito) la facoltà di ricorrere al subappalto e, dall’altro, la consenta (con apposita clausola del capitolato speciale d’appalto), si verifica una situazione di ambiguità derivante dalle modalità con cui la normativa di gara è stata confezionata che non può essere fatta ricadere sull’operatore ad essa partecipante con la sua esclusione, ma al più con il divieto della facoltà di subappalto. In tal caso, la partecipazione alla gara del concorrente deve ritenersi consentita anche in presenza di una dichiarazione di subappalto vietata, se il medesimo sia in proprio qualificato per l’esecuzione del servizio.
Nella stessa pronuncia il Collegio affronta altresì la questione del limite di operatività del principio di rotazione delle imprese.
Negli affidamenti sotto-soglia l’applicazione generalizzata del principio di rotazione sancito dall’art. 36, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016, trova un limite, di carattere generale, nel solo caso di selezione mediante procedura aperta, che cioè non preveda una preventiva limitazione dei partecipanti attraverso inviti; ed uno riferito al caso concreto, laddove la restrizione del mercato da esso derivante sia incompatibile con la sua peculiare conformazione, contraddistinta dal numero eccessivamente ristretto di operatori economici, e di ciò l’amministrazione dia adeguata motivazione. Non sono invece ostative all’applicazione del principio di rotazione, con conseguente divieto per il gestore uscente di essere inviato a concorrere per l’affidamento, le modalità con cui quello precedente gli è stato attribuito e le caratteristiche dello stesso, ivi compresa la durata.
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Il 15 settembre esce la sentenza della III sezione del Consiglio di Stato n. 5460 onde, ove il bando richieda per la partecipazione ad una procedura evidenziale (concorso pubblico o procedura di gara) il possesso di un determinato titolo di studio o di uno ad esso equipollente, la determinazione dello stesso deve essere intesa in senso tassativo, con riferimento alla valutazione di equipollenza formulata da un atto normativo, e non può essere integrata da valutazioni di tipo sostanziale compiute ex post dall’Amministrazione.
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Il 16 ottobre esce la sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 22 in tema di impugnazione di una clausola del bando nulla e successivo onere di impugnazione degli atti derivati.
I quesiti posti dalla quinta sezione del Consiglio di Stato sono due:
- a) se rientrino nel divieto di clausole cosiddette atipiche, di cui all’art. 83, comma 8, del decreto legislativo n. 50 del 2016, le previsioni dei bandi o delle lettere d’invito con le quali la stazione appaltante, limitando o vietando, a pena di esclusione, il ricorso all’avvalimento al di fuori delle ipotesi consentite dall’art. 89 del medesimo decreto legislativo, escluda, di fatto, la partecipazione alla gara degli operatori economici che siano privi dei corrispondenti requisiti di carattere economico-finanziario o tecnico-professionale;
- b) se, in particolare, possa reputarsi nulla la clausola con la quale, nel caso di appalti di lavori pubblici di importo pari o superiore a 150.000 euro, sia consentito il ricorso all’avvalimento dell’attestazione SOA soltanto da parte di soggetti che già ne posseggano una propria.
Ai fini della decisione, la norma che viene anzitutto in rilievo è l’art. 89 del decreto legislativo n. 50 del 2016, che consente l’utilizzazione dell’avvalimento in via generale da parte delle imprese che negoziano con la pubblica amministrazione, prevedendo quali uniche eccezioni alla regola le ipotesi contemplate nei commi 4, 10 e 11 della stessa.
La seconda disposizione che viene in rilievo è l’art. 83, comma 8, del medesimo decreto legislativo, laddove, nel disciplinare i criteri di selezione e il soccorso istruttorio, stabilisce che: «Le stazioni appaltanti indicano le condizioni di partecipazione richieste, che possono essere espresse come livelli minimi di capacità, congiuntamente agli idonei mezzi di prova, nel bando di gara o nell’invito a confermare interesse ed effettuano la verifica formale sostanziale delle capacità realizzative, delle competenze tecniche professionali, ivi comprese le risorse umane, organiche all’impresa, nonché delle attività effettivamente eseguite. I bandi e le lettere d’invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione rispetto a quelle previste dal presente codice e da altre disposizioni di legge vigenti. Dette prescrizioni sono comunque nulle».
Infine, la clausola del bando (art. 20 del disciplinare) così recita: «i concorrenti possono soddisfare la richiesta relativa al possesso dei requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico e professionale richiesti nel presente disciplinare di gara, avvalendosi dell’attestazione SOA di altro soggetto ad esclusione delle categorie di cui all’articolo 2, comma 1 del decreto ministeriale 10 novembre 2016, n. 248, ai sensi del comma 11 dell’articolo 89 del codice. Ai sensi del combinato disposto degli articoli 84 e 89, comma 1, del Codice i concorrenti che ricorrono all’Istituto dell’avvalimento devono, pena esclusione, essere in possesso di propria attestazione SOA da attestare secondo le modalità indicate nel precedente punto 17».
La disciplina contenuta nella prima disposizione si incentra sui rapporti tra l’impresa ausiliaria e l’impresa ausiliata nonché sui rapporti giuridici che ciascuna di esse instaura con la stazione appaltante, prevedendo in capo a quest’ultima penetranti poteri di controllo sull’effettivo possesso dei requisiti professionali e tecnico-finanziari, che si estendono anche alla fase esecutiva, dell’impresa ausiliaria, che, pur non diventando parte nel contratto che segue l’aggiudicazione, è obbligata in solido con l’impresa ausiliata. Naturalmente poteri di controllo e di conseguente disciplina specifica vengono esercitati dalla stazione appaltante anche nei confronti dell’impresa ausiliata, che è comunque l’unica che partecipa alla gara e sottoscrive il contratto in caso di aggiudicazione. Inoltre essa è garante dell’esatta esecuzione del contratto di avvalimento da parte dell’impresa ausiliaria.
La disciplina contenuta nella seconda norma ricordata (art. 83) non elimina, anzi lo regolamenta, il potere della stazione appaltante di indicare nel bando le condizioni minime di partecipazione e i mezzi di prova. Questo al fine di consentire la verifica, in via formale e sostanziale, delle capacità realizzative dell’impresa, nonché le competenze tecnico-professionali e le risorse umane, organiche all’impresa medesima.
Dalle richiamate disposizioni normative emerge tuttavia che, conformemente al diritto dell’Unione europea, la stazione appaltante incontra il limite di non poter escludere il meccanismo dell’avvalimento se non nei casi tassativamente previsti dalla legge.
Ritiene l’Adunanza Plenaria che l’art. 20 del disciplinare sia illegittimo, per contrasto con l’art. 83, comma 8. La disposizione, invero, in primo luogo appare intrinsecamente contraddittoria, nel consentire l’avvalimento dell’attestazione SOA di altro soggetto (primo periodo) e poi (secondo periodo), nel richiedere cionondimeno il possesso di propria attestazione SOA. Essa, inoltre, prevedendo una causa di esclusione (il mancato possesso della propria attestazione SOA) sprovvista di idonea base normativa, si pone in contrasto col divieto di porre cause di esclusione non previste per legge, a pena di nullità della clausola (art. 83, comma 8, ultimi due periodi).
Il codice dei contratti pubblici, in linea con la giurisprudenza divenuta infine prevalente, nel vigore del d. lgs. n. 163 del 2006, dopo un primo indirizzo che negava l’ammissibilità dell’avvalimento sul presupposto del carattere intrinsecamente e insostituibilmente soggettivo e quasi “personalistico” della certificazione di qualità, ammette ora l’avvalimento delle certificazioni di qualità e, in particolare, delle attestazioni SOA, poiché riconosce che anche la certificazione di qualità costituisce un requisito speciale di natura tecnico-organizzativa, come tale suscettibile di avvalimento, in quanto il contenuto dell’attestazione concerne il sistema gestionale dell’azienda e l’efficacia del suo processo operativo.
Conferma di tale possibilità, coerente con la ratio dell’avvalimento, intesa a favorire il principio della massima partecipazione alle procedure di gara, si è avuta non solo nella legge delega per l’emanazione dell’attuale codice (legge n.11 del 2016), che, nell’art. 1, comma 1, lett. zz), ha previsto che «il contratto di avvalimento indichi nel dettaglio le risorse e i mezzi prestati, con particolare riguardo ai casi in cui l’oggetto di avvalimento sia costituito da certificazioni di qualità o certificati attestanti il possesso di adeguata organizzazione imprenditoriale ai fini della partecipazione alla gara», ma nella stessa formulazione dell’art. 89, comma 1, del d. lgs. n. 50 del 2016, come modificato dal d. lgs. n. 56 del 2017, nella parte in cui si prevede che l’operatore economico possa soddisfare la richiesta relativa al possesso dei requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico e professionale, di cui all’art. 83, comma 1, lett. b) e c), del d. lgs. n. 50 del 2016, necessari per partecipare ad una procedura di gara – con esclusione dei requisiti di cui all’art. 80 – avvalendosi delle capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con questi ultimi.
Per i soggetti esecutori a qualsiasi titolo di lavori pubblici di importo pari o superiore a 150.000 euro, il possesso di detti requisiti di qualificazione avviene esclusivamente, ai sensi dell’art. 84, comma 1, del d. lgs. n. 50 del 2016, mediante attestazione da parte delle società organismi di attestazione (SOA) autorizzate dall’ANAC.
Tuttavia, per evitare che l’avvalimento dell’attestazione SOA, ammissibile in via di principio per il favor partecipationis che permea l’istituto dell’avvalimento, divenga in concreto un mezzo per eludere il rigoroso sistema di qualificazione nel settore dei lavori pubblici, la giurisprudenza ha più volte ribadito che l’avvalimento dell’attestazione SOA è consentito ad una duplice condizione:
- a) che oggetto della messa a disposizione sia l’intero setting di elementi e requisiti che hanno consentito all’impresa ausiliaria di ottenere il rilascio dell’attestazione SOA;
- b) che il contratto di avvalimento dia conto, in modo puntuale, del complesso dei requisiti oggetto di avvalimento, senza impiegare formule generiche o di mero stile.
È stato così affermato che, in materia di gare pubbliche, quando oggetto dell’avvalimento sia un’attestazione SOA di cui la concorrente sia priva, occorre, ai fini dell’idoneità del contratto, che l’ausiliaria metta a disposizione dell’ausiliata l’intera organizzazione aziendale, comprensiva di tutti i fattori della produzione e di tutte le risorse, che, complessivamente considerata, le ha consentito di acquisire l’attestazione da mettere a disposizione, sicché è onere del concorrente dimostrare che l’impresa ausiliaria non si impegna semplicemente a prestare il requisito soggettivo richiesto e, nel caso di specie, l’attestazione SOA, quale mero requisito astratto e valore cartolare, ma assume la specifica obbligazione di mettere a disposizione dell’impresa ausiliata, in relazione all’esecuzione dell’appalto, le proprie risorse e il proprio apparato organizzativo, in tutte le parti che giustificano l’attribuzione del requisito di qualità.
Tali condizioni, del resto, sono coerenti con la ricostruzione dogmatica dell’istituto dell’avvalimento nelle gare pubbliche, ricondotto anche di recente da questa Adunanza plenaria (sent. n. 13 del 2020) ai c.d. contratti d’impresa.
In effetti anche le negoziazioni private conoscono tali tipi di collaborazione tra imprese, che hanno lo stesso (o comunque simile) risultato economico a quello che si realizza con l’avvalimento, solamente che per esse si fa ricorso ad istituti e meccanismi propri di quell’ordinamento (noleggio, affitto, consorzio, gruppo societario, subappalto, cessione di ramo d’azienda e così via).
In realtà sia gli strumenti civilistici sia l’avvalimento sono destinati ad amplificare l’effetto c. d. reale proprio del contratto di società, ossia la creazione di una struttura economica che vive oltre il contratto che l’ha generata. Sicché, l’avvalimento serve “ad integrare una organizzazione aziendale realmente esistente ed operante nel segmento di mercato proprio dell’appalto posto a gara, ma che, di certo, non consente di creare un concorrente virtuale costituito solo da una segreteria di coordinamento delle attività altrui, né di partecipare alla competizione ad un operatore con vocazione statutaria ed aziendale completamente estranea rispetto alla tipologia di appalto da aggiudicare” (Cons. di Stato, V, sent. n. 1772 del 20 novembre 2013). Con la conseguenza che è stata ben presto avvertita l’esigenza di evitare il possibile fenomeno del c. d. “avvalificio”, in cui cioè potessero operare imprese che si limitassero ad utilizzare la capacità economica di altre imprese, nonché di rendere possibile il controllo su tutte quelle forme di avvalimento che si sono delineate a seguito dell’applicazione pratica dell’istituto, come quello frazionato, quello plurimo e incrociato nonché il c.d. avvalimento ‘sovrabbondante’, e infine per sanzionare le forme di avvalimento vietate, come quello c.d. ‘a cascata’ (Adunanza Plenaria n. 13 del 2020).
Nel delineato quadro normativo, sussistendo il rispetto delle condizioni cui la giurisprudenza subordina la legittimità del ricorso all’avvalimento dell’attestazione SOA e, per converso, non ricorrendo alcuna delle ipotesi, anche indirette, in cui l’avvalimento risulta vietato, l’obbligo, imposto all’ausiliata dal disciplinare di gara, espressamente a pena di esclusione, di produrre la propria attestazione SOA, quando questa vorrebbe avvalersi dell’attestazione SOA dell’ausiliaria, non solo è contraddittorio rispetto alla previsione dello stesso articolo 20 (il quale consente che «i concorrenti possono soddisfare la richiesta relativa al possesso dei requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico e professionale richiesti nel disciplinare di gara, avvalendosi dell’attestazione SOA di altro soggetto»), ma si pone in contrasto con gli artt. 84 e 89 del d. lgs. n. 50 del 2016, che non escludono la possibilità dell’avvalimento dell’attestazione SOA né, tantomeno, subordinano tale possibilità alla condizione di depositare in sede di gara l’attestazione SOA dell’impresa ausiliata in proprio: una siffatta previsione si traduce in un vero e proprio divieto di applicare l’istituto dell’avvalimento mediante la previsione di un adempimento apparentemente formale che, in modo surrettizio ma certamente a pena di esclusione per il concorrente, ne comprime l’operatività senza alcuna idonea copertura normativa.
È ben vero che l’art. 89, comma 4, del d. lgs. n. 50 del 2016 consente alle stazioni appaltanti di prevedere nei documenti di gara che taluni compiti essenziali siano direttamente svolti dall’offerente, con un limite consentito all’avvalimento in ragione delle peculiari caratteristiche dell’opera richiesta, ma – in accordo con quanto ha affermato detta pronuncia – si deve escludere che sia questa l’ipotesi di cui si controverte, nella quale la stazione appaltante non ha mai previsto o richiesto che i lavori, per le loro specifiche caratteristiche tecniche, dovessero essere eseguiti direttamente dall’impresa ausiliata e anzi, come detto, ha ammesso in linea di principio il ricorso all’avvalimento, anche dell’attestazione SOA, salvo richiedere contemporaneamente il possesso e la produzione dell’attestazione SOA in capo all’impresa ausiliata.
Si tratta di un adempimento formale e procedurale che contrasta con le previsioni degli artt. 84 e 89 del d. lgs. n. 50 del 2016 e con la ratio dell’avvalimento stesso, applicabile alle attestazioni SOA secondo le modalità e nei limiti delineati dalla giurisprudenza, e di fatto, come ricorda la sezione rimettente, esso comporta l’esclusione dell’impresa priva dell’attestazione SOA dalla gara, con un effetto espulsivo che non è implicito o indiretto, ma espresso e diretto; ciò si evince dal tenore testuale dell’art. 20 del disciplinare di gara.
Pertanto, in un contesto normativo ormai mutato e volto a consentire la massima espansione all’avvalimento senza, però, sminuire l’affidabilità economica e tecnica delle imprese partecipanti alla gara, non si può dare seguito all’orientamento espresso con la sentenza n. 1772 del 27 marzo 2013, la quale ha inteso, peraltro, evitare gli effetti distorsivi del sistema, potenzialmente derivanti dall’ammissione dell’avvalimento della SOA in presenza di «mera sommatoria delle attestazioni SOA dell’impresa avvalente e dell’impresa ausiliaria, prescindendo dal fatto che ciascuna di esse sia autonomamente in possesso della qualificazione necessaria alla partecipazione alla gara»: nel ben diverso caso di specie, non è contestato che l’impresa ausiliaria sia in possesso dell’attestazione SOA richiesta per lo svolgimento dei lavori.
Neppure si può ritenere che la clausola in questione sia legittima, sulla base dell’art. 83, comma 8, primo periodo, del d. lgs. n. 50 del 2016, laddove prevede che «le stazioni appaltanti indicano le condizioni di partecipazione richieste, che possono essere espresse come livelli minimi di capacità».
Infatti, rileva il principio di tassatività delle cause di esclusione, affermato dallo stesso art. 83, comma 8, sicché la discrezionalità, comunque non illimitata né insindacabile, della pubblica amministrazione nel disporre ulteriori limitazioni alla partecipazione, integranti speciali requisiti di capacità economico-finanziaria o tecnica che siano coerenti e proporzionati all’appalto, è potere ben diverso dalla facoltà, non ammessa dalla legge, di imporre adempimenti che in modo generalizzato ostacolino la partecipazione alla gara, come è avvenuto nel presente caso per l’avvalimento dell’attestazione SOA, senza adeguata copertura normativa e in violazione del principio della concorrenza.
Pertanto risulta illegittima, per violazione degli artt. 84 e 89, comma 1, del d. lgs. n. 50 del 2016, la clausola del disciplinare di gara che, senza indicare le specifiche ragioni ai sensi dell’art. 89, comma 4, del d. lgs. n. 50 del 2016, subordini l’avvalimento dell’attestazione SOA alla produzione, in sede di gara, dell’attestazione SOA della impresa ausiliata.
Ritenuta l’illegittimità della clausola escludente in contestazione, dunque, il Collegio si pone il problema se trattasi di un caso di nullità o di annullabilità.
In estrema sintesi, deve ritenersi che la clausola escludente del bando è affetta da nullità, e pertanto da considerare come non apposta e quindi disapplicabile, poiché essa finisce per integrare un requisito ulteriore rispetto a quelli espressamente previsti dagli artt. 80 e 83 del codice dei contratti pubblici; cosa non consentita dall’ordinamento, che anzi in tal caso prevede la sanzione massima della nullità.
Da ciò l’Adunanza Plenaria desume che si tratti di una nullità parziale che non invalida l’intero bando e che non si configuri una fattispecie di nullità derivata o successiva, bensì propria, ossia di una clausola in contrasto con una norma imperativa di legge.
La questione effettivamente, come segnalato dalla sezione remittente, riveste carattere generale, in quanto si tratta di stabilire gli esatti termini del funzionamento dell’istituto della nullità nei rapporti amministrativi. Quindi si rendono necessarie alcune premesse di sistema nel cui contesto inquadrare il caso in esame.
Va ricordato che per la giurisprudenza, cui poi si è allineata anche la dottrina, il principio basilare su cui si è retta la teorica dell’atto amministrativo e dei conseguenti rapporti sostanziali e processuali -e che ha operato per decenni alla stregua di una norma positiva- è quello secondo cui lo stato naturale della fattispecie invalida è l’annullabilità. Sicché il sistema relativo all’invalidità si è incentrato sull’unico vizio principale, ossia l’illegittimità.
In questo sistema non ha trovato spazio la nullità, così come disciplinata dal codice civile a proposito dell’invalidità del contratto. La giurisprudenza più risalente riteneva che non può aversi nullità se legittimati a chiedere l’annullamento giudiziale o in autotutela sono solo i partecipanti al procedimento, se l’azione va proposta in brevi termini di decadenza, se il vizio non è rilevabile d’ufficio e se infine il provvedimento viziato è sanabile. Anche se –va ricordato- progressivamente sono state introdotte dalla legge ipotesi in cui la violazione di una norma imperativa è stata espressamente qualificata in termini di nullità e come tale riconosciuta in giurisprudenza (si pensi, per esempio, alle assunzioni disposte in violazione di divieti legislativi).
D’altro canto anche nei rapporti civilistici la fattispecie nulla produce effetti, nonostante se ne predicasse l’improduttività degli effetti, l’imprescrittibilità, l’impugnabilità da chiunque avesse interesse, la rilevabilità d’ufficio. Inoltre vi era la chiara consapevolezza che i termini nullità e annullabilità venivano usati dal legislatore in maniera non rigorosa e che fossero presenti nell’ordinamento casi di nullità relativa e casi di annullabilità assoluta. Gli esempi sono molti e noti: l’uso improprio del vocabolo “validità” nell’art. 1398 del codice civile, che invece contempla un chiaro caso di inefficacia, la conversione del negozio nullo in cui si producono gli effetti benché di una fattispecie negoziale altra con effetti diversi e più ridotti, l’usucapione e la pubblicità sanante, le nullità in materia di diritto di famiglia e di contratto di lavoro.
In coerenza con l’indicato sistema, incentrato sul binomio invalidità/annullabilità, è andata anche la legge 7 agosto 1990, n. 241 sul procedimento amministrativo sino a quando non è intervenuta la legge 11 febbraio 2005, n.15, che ha inserito, all’interno dell’originario impianto, l’intero capo IV bis, che all’art. 21-septies, intitolato «Nullità del provvedimento», stabilisce: «E’ nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge».
Alla disciplina sostanziale è seguita quella processuale, ossia quella contenuta nell’art. 31 del codice del processo amministrativo, intitolato «Azione avverso il silenzio e declaratoria di nullità», che, al comma 4, stabilisce: «La domanda volta all’accertamento delle nullità previste dalla legge si propone entro il termine di decadenza di 180 giorni. La nullità dell’atto può sempre essere opposta dalla parte resistente o essere rilevata d’ufficio dal giudice. Le disposizioni del presente comma non si applicano alle nullità di cui all’art. 114, comma 4, lettera b), per le quali restano ferme le disposizioni del Titolo I del Libro IV». L’ultimo rimando si riferisce al procedimento relativo al giudizio di ottemperanza, dove nella lettera indicata si stabilisce: «Dichiara nulli gli eventuali atti in violazione o elusione del giudicato». Infine l’art. 133, che, elencando le materie rientranti nella giurisdizione esclusiva, al comma 1, lett. a), n. 5 vi include: «(la) nullità del provvedimento amministrativo adottato in violazione o elusione del giudicato».
Dalla normativa indicata si ricava che sono state circoscritte a quattro le ipotesi di nullità ammesse, che diventano le uniche, tranne l’azione dichiarativa e quella della nullità c. d. testuale, visto che la giurisprudenza amministrativa ha escluso che ci fosse spazio per la cosiddetta nullità virtuale o di protezione di cui all’articolo 1418, primo comma, del codice civile, in quanto essa avrebbe avuto l’effetto di minare la stabilità e la continuità dell’azione amministrativa.
Infatti la medesima sezione remittente, in una pronuncia intervenuta quando era appena entrato in vigore il codice del processo amministrativo e che non risulta superata, ha statuito che: «La norma, introdotta dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15, tra le varie opzioni possibili -ossia tra quella di inserire nel sistema della patologia dell’atto tutte le ipotesi di nullità (testuale strutturale e virtuale) previste dall’articolo 1418 del codice civile e quella di ritenere sufficiente la categoria dell’annullabilità per quanto riguarda i rapporti amministrativi- ha scelto la soluzione di compromesso, ossia quella di escludere la nullità per contrasto con norme imperative di legge, giudicando tale categoria particolarmente pericolosa rispetto alle esigenze di certezza e di stabilità dell’azione amministrativa. In altri termini, le cause di nullità debbono intendersi a numero chiuso, così come peraltro già ritenuto dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato ( Cons. Stato, VI, 13 giugno 2007, n. 3173; V 26 novembre 2008, n. 5845). Pertanto, le ipotesi astrattamente riconducibili alla nullità c. d. virtuale vanno ricondotte al vizio di violazione di legge, atteso che le norme riguardanti l’azione amministrativa, dato il loro carattere pubblicistico, sono sempre norme imperative e quindi non disponibili da parte dell’amministrazione.>>. (Cons. di Stato, V, sent. n. 1498 del 15 marzo 2010).
Rispetto alla nullità civilistica le più visibili differenze sono costituite dal breve termine di decadenza per proporre l’azione di accertamento della nullità e il fatto che nella classica nullità strutturale (rectius: negoziale, attinente alla struttura), ossia quella che deriva dall’assenza degli elementi costitutivi dell’atto, manca una norma che espressamente indichi quali sono, contrariamente all’ipotesi contenuta nell’art. 1418, secondo comma, del codice civile, letto in correlazione con l’art. 1325 del medesimo codice.
Invece le ipotesi del difetto assoluto di attribuzione e del provvedimento adottato in violazione del giudicato sono proprie del diritto amministrativo e sconosciute dal diritto civile, dove il problema della violazione del giudicato non si pone, essendo sufficiente per fornire la tutela necessaria l’actio iudicati.
Infine, la ragione della previsione del termine di decadenza di 180 giorni, per la cui decorrenza vale quanto statuito dall’articolo 41, comma 2, del codice del processo amministrativo, va rinvenuta nella necessità di dare certezza e stabilità ai rapporti amministrativi; ragione che è la stessa per cui, a proposito dell’azione di annullamento è previsto il breve termine di 60 giorni per impugnare, ridotto a 30 negli altri casi espressamente previsti dal codice, tra cui il caso in esame. Peraltro, anche il diritto civile conosce casi di nullità in cui la relativa azione deve essere proposta entro un termine di decadenza, basti pensare alla materia delle nullità matrimoniali, di cui all’articolo 117, comma 4, del codice civile.
Ai fini della presente decisione più che le differenze con la nullità civilistica vanno individuati i punti di contatto, poiché essi consentono di delineare una sorta di quadro unico del sistema delle nullità.
Va premesso che al momento in cui la nullità è stata espressamente inserita nella legge generale sul procedimento amministrativo, la giurisprudenza e la dottrina civilistica avevano già da tempo superato l’impostazione derivante dalla tradizione pandettistica e, analizzando le norme del codice civile così come applicate nel diritto vivente, avevano dovuto prendere atto che in materia di invalidità le teorizzazioni generali costituiscono una via metodologicamente non esaustiva. Tant’è che –come osservato negli studi più recenti- nella contrattualistica moderna vi è una continua interferenza tra regole di validità, riferite alla struttura originaria dell’atto, e regole di comportamento, attinenti al profilo funzionale e legate alla responsabilità delle parti.
Non a caso si è sempre più assottigliata la differenza tra nullità e annullabilità, a lungo ritenute categorie impermeabili e poi progressivamente sfumate in figure intermedie, quali, ad esempio, le invalidità rilevabili d’ufficio ma sanabili, ovvero sanabili ma non rilevabili d’ufficio. Cosicché è venuta meno anche la distinzione classica originariamente fondata tra rimedi dettati a tutela di interessi generali (nullità) e rimedi volti a proteggere uno solo dei contraenti (annullabilità). Pertanto, di fronte ad una norma che preveda che l’esito conseguente alla sua violazione determini la nullità non significa che la scelta del legislatore abbia fatto esclusivamente riferimento ad un interesse generale o pubblico, ma anche a interessi privati o di categorie di soggetti qualificati. In altri termini la norma presuppone una combinazione di criteri diversi alla luce dei quali il giudice deve valutare, caso per caso, la compatibilità tra le specifiche clausole del contratto e gli interessi o i valori che l’ordinamento intende garantire attraverso la norma imperativa.
La breve rassegna delle posizioni civilistiche intorno all’istituto della nullità si giustifica sia perché esso è nato in quell’ordinamento, sia perché consente di poterlo meglio collocare in un ordinamento, quello amministrativo, che ha funzionato senza mai avvertirne la mancanza.
La nullità dell’atto amministrativo -figura generale, assieme all’annullabilità, dell’invalidità e che può essere riguardata non solo come vizio, ma anche come azione, eccezione in senso tecnico e come sanzione- va analizzata nel contesto ordinamentale specifico, diverso da quello civile.
Essa opera in presenza di un provvedimento amministrativo, che viene emanato nell’ambito di un procedimento rigorosamente disciplinato e che costituisce la forma necessaria dell’azione tendenzialmente unilaterale, ancorché sempre più spesso partecipata, del potere amministrativo. Quest’ultimo si apre, prosegue e si chiude all’insegna del principio per cui l’amministrazione deve curare l’interesse pubblico datogli in attribuzione dalla legge in maniera da raggiungere il massimo risultato possibile con il minimo mezzo.
Il profilo dell’illegittimità del provvedimento, anche quando ridondi sul procedimento che lo contiene, rileva in maniera efficace solo in sede processuale, a meno che l’amministrazione non ritenga di aprire un procedimento di secondo grado di autotutela.
Pertanto la nullità emerge nel processo, che ha le sue regole. Quindi chi intenda farla valere deve necessariamente proporre l’azione di annullamento dell’atto emanato in esecuzione di un provvedimento che si assume nullo, mentre l’azione di accertamento è ammissibile solo nei pochi casi in cui il soggetto abbia interesse al mero accertamento e non al suo annullamento; ipotesi difficilmente riscontrabile quando l’amministrazione, proseguendo nel suo itinerario procedimentale, emani altri atti, che il primo presuppongano, i quali producono effetti sulla situazione sostanziale o procedimentale del soggetto inciso.
Nel complesso delineato contesto ordinamentale, l’Adunanza Plenaria ritiene che la clausola escludente – che si ponga in violazione dell’art. 83, comma 8, del ‘secondo codice’ sugli appalti pubblici – non si possa considerare annullabile (e dunque efficace).
Valgano al riguardo le considerazioni che seguono.
Ancor prima dell’entrata in vigore del ‘primo codice’ dei contratti pubblici (d.lg. n. 163 del 2006), per la tradizionale giurisprudenza amministrativa (Adunanza Plenaria, sentenza n. 1 del 2003) l’impresa potenzialmente lesa da una clausola escludente aveva l’onere di proporre subito un ricorso giurisdizionale, sicché si doveva considerare tardiva la sua impugnazione unitamente all’esclusione, se proposta dopo la scadenza del termine di impugnazione del bando.
Tale giurisprudenza è stata ribadita nel vigore del testo originario dell’art. 46 del ‘primo codice’ sui contratti pubblici, finché il decreto legge n. 70 del 2011 ha modificato tale art. 46, introducendo il principio della ‘tassatività delle cause di esclusione’ e disponendo al comma 1-bis che ‘sono comunque nulle’ le ‘clausole escludenti’ che violano tale principio.
Le finalità di tale riforma sono volte a imporre alla stazione appaltante di emanare gli ulteriori atti del procedimento senza attribuire rilievo alla clausola escludente contra legem, nonché a consentire la piena tutela giurisdizionale – senza preclusioni – quando poi sia emanato l’atto di esclusione.
Sul significato di tale nullità si è pronunciata l’Adunanza Plenaria con la sentenza n. 9 del 2014, per la quale “la sanzione della nullità… è riferita letteralmente alle singole clausole della legge di gara esorbitanti dai casi tipici; si dovrà fare applicazione, pertanto, dei principi in tema di nullità parziale e segnatamente dell’art. 1419, comma 2, c.c. (vitiatur sed non vitiat”).
Questa sentenza ha aggiunto che “la nullità di tali clausole incide sul regime dei termini di impugnazione …, atteso che la domanda di nullità si propone nel termine di decadenza di centottanta giorni e la nullità può sempre essere eccepita dalla parte resistente ovvero rilevata dal giudice d’ufficio’, e che la clausola escludente nulla è ‘priva di efficacia e dunque disapplicabile da parte della stessa stazione appaltante ovvero da parte del giudice”.
L’art. 83, comma 9, del vigente codice degli appalti (d.lg. n. 50 del 2016) ha confermato il principio di tassatività delle cause di esclusione e ha ribadito che ‘sono comunque nulle’ le clausole escludenti in contrasto con tale principio.
Ritiene l’Adunanza Plenaria che la nullità della clausola escludente contra legem, ora prevista dall’art. 83, comma 9, del codice, vada intesa anch’essa come nullità in senso tecnico (con la conseguente improduttività dei suoi effetti), similmente a quanto è stato deciso per la corrispondente disposizione del novellato art. 46 del ‘primo codice’. In altri termini, la clausola è nulla, ma tale nullità, se da un lato non si estende al provvedimento nel suo complesso (vitiatur sed non vitiat), d’altro canto impedisce all’amministrazione di porre in essere atti ulteriori che si fondino su quella clausola, rendendoli altrimenti illegittimi e quindi, attesa l’autoritatività di tali atti applicativi, annullabili secondo le regole ordinarie.
Ritenere che la nullità sancita dal comma 8, ultima parte, dell’articolo 83 vada intesa come annullabilità si porrebbe in contrasto con la scelta del legislatore di qualificare come nulla la clausola escludente contra legem, e dunque non solo con il tenore testuale della legge, cui occorre attribuire primario rilievo in sede ermeneutica, ma anche con la sua composita ratio, volta a individuare un equilibrio tra radicale invalidità della clausola per contrasto con norma imperativa, ordinaria autoritatività dei provvedimenti amministrativi e interesse del ricorrente a far valere l’invalidità, in termini di nullità, quando essa si traduca in un provvedimento applicativo (esclusione o aggiudicazione) lesivo in concreto della sua situazione soggettiva tutelata.
12.4. A questo punto, e tirando del filo delle argomentazioni sin qui svolte, a integrazione di quanto già affermato dalla sentenza sopra richiamata n. 9 del 2014, ritiene l’Adunanza Plenaria che – al cospetto della nullità della clausola escludente contra legem del bando di gara – non vi sia l’onere per l’impresa di proporre alcun ricorso: tale clausola – in quanto inefficace e improduttiva di effetti – si deve intendere come ‘non apposta’, a tutti gli effetti di legge.
Non si possono considerare applicabili l’art. 21-septies della legge n. 241 del 1990 e l’art. 31 del codice del processo amministrativo, i quali si riferiscono ai casi in cui un provvedimento sia nullo ed ‘integralmente’ improduttivo di effetti: la clausola escludente affetta da nullità, in base al principio vitiatur sed non vitiat già affermato dalla sentenza di questa Adunanza n. 9 del 2014, non incide sulla natura autoritativa del bando di gara, quanto alle sue ulteriori determinazioni.
Il legislatore, nel prevedere la nullità della clausola in questione, ha disposto la sua inefficacia, tanto che – se anche il procedimento dura ben più dei sei mesi previsti dall’art. 31 del c.p.a. per l’esercizio della azione di nullità – la stazione appaltante comunque non può attribuire ad essa rilievo perché ritenuta “inoppugnabile”.
I successivi atti del procedimento, inclusi quelli di esclusione e di aggiudicazione, pur basati sulla clausola nulla, conservano il loro carattere autoritativo e sono soggetti al termine di impugnazione previsto dall’art. 120 del codice del processo amministrativo, entro il quale si può chiedere l’annullamento dell’atto di esclusione (e degli atti successivi) per aver fatto illegittima applicazione della clausola escludente nulla.
L’art. 120 non prevede alcuna deroga al termine di decadenza di trenta giorni, che sussiste qualsiasi sia il vizio – più o meno grave – dell’atto impugnato. Né può farsi discendere, quanto meno nell’ordinamento amministrativo, la nullità di un atto applicativo di un precedente provvedimento solo parzialmente affetto da una nullità riferita a una sua specifica clausola inidonea a inficiare la validità di quel provvedimento nel suo complesso.
Non vi è dunque alcun onere, in conclusione, per le imprese partecipanti alla gara di impugnare (entro l’ordinario termine di decadenza) la clausola escludente nulla e quindi “inefficace” ex lege, ma vi è uno specifico onere di impugnare nei termini ordinari gli atti successivi che facciano applicazione (anche) della clausola nulla contenuta nell’atto precedente.
Vengono quindi enunciati i seguenti princìpi di diritto:
- a) la clausola del disciplinare di gara che subordini l’avvalimento dell’attestazione SOA alla produzione, in sede di gara, dell’attestazione SOA anche della stessa impresa ausiliata si pone in contrasto con gli artt. 84 e 89, comma 1, del d. lgs. n. 50 del 2016 ed è pertanto nulla ai sensi dell’articolo 83, comma 8, ultimo periodo, del medesimo decreto legislativo;
- b) la nullità della clausola ai sensi dell’art. 83, comma 8, del d. lgs. n. 50 del 2016 configura un’ipotesi di nullità parziale limitata alla clausola, da considerare non apposta, che non si estende all’intero provvedimento, il quale conserva natura autoritativa;
- c) i provvedimenti successivi adottati dall’amministrazione, che facciano applicazione o comunque si fondino sulla clausola nulla, ivi compresi il provvedimento di esclusione dalla gara o la sua aggiudicazione, vanno impugnati nell’ordinario termine di decadenza, anche per far valere l’illegittimità derivante dall’applicazione della clausola nulla.
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Il 9 dicembre esce la sentenza della sezione II stralcio del TAR Lazio n. 13200 su alcuni aspetti processuali dell’impugnazione del bando.
In primo luogo, viene chiarito che, nel caso di impugnazione di un bando di concorso, non sono individuabili soggetti che possano essere qualificati come controinteressati, atteso che tale qualifica presuppone la titolarità di un interesse giuridicamente rilevante alla conservazione dell’atto impugnato, che non si configura in capo al mero partecipante laddove la procedura sia ancora in corso.
In secondo luogo, osserva il Tribunale che nell’ambito del processo amministrativo la proposizione di un ricorso “collettivo” o “cumulativo” è ammissibile alla duplice condizione che non sia ravvisabile un conflitto d’interessi tra i ricorrenti e che le posizioni sostanziali e processuali di questi siano omogenee, con riferimento al petitum azionato ed alle doglianze oggetto di deduzione. È pertanto inammissibile un ricorso collettivo proposto da alcuni partecipanti ad un concorso pubblico le cui posizioni sostanziali e processuali non sono omogenee.
Infine, il Collegio affronta la questione della riserva di posti affermando che in un concorso con posti riservati i concorrenti esterni ed interni partecipano in condizioni di parità di fronte alle prove previste dal bando di concorso e della riserva potrà tenersi conto al momento della redazione della graduatoria finale dei vincitori. Ne deriva quindi che l’interesse a censurare la mancata previsione della riserva può sorgere solo in capo a coloro che, oltre a essere dipendenti dell’Amministrazione che ha bandito la procedura, abbiano partecipato al concorso e superato le varie prove.
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Il 17 dicembre esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n. 8101 che richiama il consolidato orientamento secondo cui la funzione principale del capitolato speciale d’appalto è quella di definire i contenuti del futuro rapporto contrattuale mentre nella prodromica procedura di affidamento svolge invece il ruolo di fonte integratrice delle regole di gara rispetto al bando e al disciplinare, senza alcuna portata modificatrice di questi ultimi.
In linea di principio, quindi, se alcuni mezzi non siano richiesti espressamente dal bando di gara ai fini dell’ammissione (nei limiti consentiti dall’art. 83 del Codice dei contratti pubblici, limiti presidiati, per un verso, dalla sanzione di nullità di cui al comma 8 della medesima disposizione e, per altro verso, dai principi sopra richiamati in tema di tutela della concorrenza, non discriminazione, proporzionalità), l’eventuale mancato rispetto da parte dell’aggiudicataria degli impegni, pur se assunti con la presentazione dell’offerta in sede di gara, rileva quale inadempimento contrattuale, sanzionabile con i rimedi apprestati dall’ordinamento, ma non costituisce motivo di esclusione per mancanza dei requisiti di partecipazione.
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Il 30 dicembre esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n. 8505 che ritorna sul tema delle clausole escludenti e dell’onere di immediata impugnazione.
Il bando di gara o di concorso o la lettera d’invito, normalmente impugnabili con l’atto applicativo, conclusivo del procedimento concorsuale, devono tuttavia considerarsi immediatamente impugnabili allorché contengano clausole impeditive dell’ammissione dell’interessato alla selezione. In tale ipotesi, infatti, dette clausole, precludendo esse stesse la partecipazione dell’interessato alla procedura concorsuale, appaiono idonee a generare una lesione immediata, diretta ed attuale nella situazione soggettiva dell’interessato ed a suscitare, di conseguenza, un interesse immediato all’impugnazione, dal momento che questo sorge al momento della lesione.
Peraltro, nelle gare pubbliche l’accettazione delle regole di partecipazione non comporta l’inoppugnabilità di clausole del bando regolanti la procedura che siano, in ipotesi, ritenute illegittime, in quanto una stazione appaltante non può mai opporre ad una concorrente un’acquiescenza implicita alle clausole del procedimento, che si tradurrebbe in una palese ed inammissibile violazione dei principi fissati dagli artt. 24, comma 1, e 113 comma 1, Cost., ovvero nella esclusione della possibilità di tutela giurisdizionale; deve pertanto escludersi l’acquiescenza implicita alle regole della gara per l’operatore che vi ha partecipato.
Viene poi affrontata l’ulteriore questione dell’indicazione degli oneri per la sicurezza con l’affermazione del principio secondo cui, ai fini del soddisfacimento dell’obbligo del concorrente di indicare separatamente gli oneri per la sicurezza aziendale in sede di offerta, ferma restando l’insuscettibilità di una integrazione a posteriori della offerta incompleta sul punto, non rileva che detti oneri siano articolati in una sede diversa (se ex se non illegittima) da quella ordinaria costituita dall’offerta economica (si trattava di un caso in cui i costi della sicurezza erano stati inseriti nelle cc. dd. “giustificazioni preventive”), essendo sufficiente che la formulazione della proposta negoziale da parte dell’operatore economico concorrente ne abbia sostanzialmente tenuto conto, trattandosi di un onere non “formale”, né “formalistico”.
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Lo stesso giorno esce la sentenza della III sezione del Consiglio di Stato n. 8537 onde, nel caso in cui in sede di apertura delle buste contenenti le offerte si sia constatata la presenza di due offerte identiche, classificatesi prime a pari merito, avendo offerto il medesimo ribasso, in mancanza di apposita previsione del bando di gara, deve ritenersi che il bando stesso sia eterointegrato dall’art. 77 R.D. n. 827/1924 e, in applicazione di quest’ultima norma, nel caso in cui nessuno degli offerenti sia stato presente alla seduta di apertura delle offerte, deve procedersi al sorteggio previsto dalla citata norma.
2021
L’8 febbraio esce la sentenza della I sezione del TAR Emilia Romagna n. 88 che afferma l’esistenza di una gerarchia differenziata tra bando, lettera di invito e disciplinare di gara.
Pur nell’ambito della diversa funzione svolta da tali atti, deve ritenersi che il contenuto del bando di gara (o della lettera d’invito) prevalga, mentre le disposizioni del capitolato speciale possono soltanto integrare, ma non modificare le prime.
Questioni intriganti
Cosa sottende la c.d. evidenza pubblica?
- i precipui limiti alla libertà negoziale ed all’autonomia contrattuale che contraddistinguono la PA rispetto ai soggetti privati;
- le conseguenti caratteristiche di una fattispecie contrattuale nella quale campeggia la identificazione dell’interlocutore privato col quale stipulare il contratto;
- l’”evidenza” del pubblico interesse che la PA – la cui attività è, a differenza di quella di un privato, funzionalizzata – intende perseguire con il contratto che essa palesa di voler stipulare;
- la possibilità per la PA di formare una propria volontà contrattuale in modo legittimo ed orientato alla maggior convenienza e vantaggiosità delle condizioni che gli operatori economici, potenziali controparti, possono garantirle;
- soprattutto, la possibilità per gli operatori economici potenziali contraenti di concorrere in condizioni di perfetta parità in ambito europeo per aggiudicarsi il contratto, in un contesto concorrenziale e non discriminatorio.
Che natura giuridica ha l’evidenza pubblica?
- natura privatistica (tesi recessiva): si tratta di una fattispecie assimilabile alle trattative nel diritto civile dei contratti e dunque, segnatamente, alla fase pre-contrattuale;
- natura pubblicistica (tesi recessiva): si tratta di uno strumento procedimentale inteso a selezionare il miglior interlocutore privato col quale stipulare il contratto;
- natura mista o “doppia” (tesi ormai accreditata): si ha nello stesso momento una trattativa ed un procedimento, dovendosi inquadrare la tradizionale trattativa pre-contrattuale privatistica in un prisma procedimentale inteso alla selezione del migliore interlocutore privato in un quadro di concorrenza e parità di trattamento.
Quali sono le caratteristiche peculiari della determina (o delibera) a contrarre?
- è atto meramente interno alla PA, proprio del soggetto legittimato ad esprimere all’esterno la volontà della PA medesima, ma che non impegna ancora la parte pubblica ad alcunché, essendo revocabile ad nutum e palesandosi non idonea a far insorgere alcuna posizione di aspettativa o affidamento tutelati in capo ai terzi interessati a farsi interlocutori privati della parte pubblica;
- laddove difetti, manca il presupposto essenziale previsto dalla legge per procedere a selezionare il contraente privato, con conseguente illegittimità derivata di tutti gli atti successivi; una illegittimità che tuttavia potrà essere fatta valere dai privati solo impugnando gli atti successivi, difettando l’interesse ad impugnare la sola determina a contrarre laddove non seguita da ulteriori atti della procedura contrattuale;
- la revocabilità ad nutum è possibile fino alla pubblicazione del bando o della lettera di invito, che invece sono atti che già si rivolgono all’esterno e manifestano ai terzi la volontà della PA di contrarre;
Quale è la natura giuridica del bando, laddove inteso in senso privatistico?
Si tratta di un atto di natura privatistica cui fa da contraltare un atto, del pari di natura privatistica, chiamato aggiudicazione. Il bando allora:
- è una offerta al pubblico, e come tale una proposta contrattuale (tesi privatistica recessiva); la successiva aggiudicazione compendia allora una nuova formalizzazione della proposta contrattuale, non già al pubblico, quanto ormai piuttosto all’interlocutore privato siccome selezionato;
- è un invito ad offrire, dal momento che tra gli elementi essenziali per poter configurare una proposta contrattuale vi è il prezzo della prestazione, che nel bando ovviamente ancora difetta (tesi privatistica prevalente); la successiva aggiudicazione compendia allora la irrevocabilità della vera e propria proposta contrattuale, fatta dall’interlocutore privato siccome selezionato sulla base di un prezzo della prestazione ormai individuato.
Quale è la natura giuridica del bando, laddove inteso in senso pubblicistico?
Si tratta di un atto con il quale la PA dà il via ad un procedimento amministrativo, nello stesso momento in cui manifesta all’esterno la volontà di addivenire alla stipula di un contratto con l’interlocutore privato che andrà a selezionare: da questo punto di vista, l’aggiudicazione è atto del pari amministrativo che definisce la procedura aperta dal bando, che ha del pari natura autoritativa e che identifica in concreto l’interlocutore privato della PA. Il bando compendia allora un atto:
- di natura normativa: se ne parla in termini di lex specialis della procedura di evidenza pubblica alla quale esso dà l’abbrivio. Proprio per questa sua intrinseca normatività, le relative prescrizioni vincolano tanto i privati concorrenti quanto la PA che bandisce, la quale deve attuarle senza disporre della discrezionalità per disattenderle, e non può disapplicarle, potendo al più procedere ad annullare il bando in via di autotutela laddove se ne ravvisino i presupposti; il bando non è disapplicabile dalla PA che lo ha pubblicato, ma lo è invece – proprio perché di natura normativa – da parte del GA laddove si ponga in contrasto con fonti normative sovraordinate, non dovendo dunque essere tempestivamente impugnato nel termine di decadenza tradizionale; sempre perché normativo, esso va interpretato secondo le regole che presidiano alla interpretazione degli atti normativi;
- di natura amministrativa (generale): si tratta di un atto che non è innovativo dell’ordinamento (spiega i relativi effetti solo sulla singola gara cui afferisce e che disciplina), né è corredato da astrattezza (non è indefinitamente ripetibile), pur essendo un atto (amministrativo) generale, il cui contenuto è dunque formalmente e sostanzialmente amministrativo (e non normativo). Peraltro, neppure il requisito della generalità potrebbe dirsi esistente secondo questa opzione ermeneutica, in quanto i relativi destinatari, se ex ante sono indeterminati, sono invece individuabili ex post; difetta l’astrattezza, non potendo le relative norme assumersi suscettibili di una ripetitività indefinita, quanto a relativa attuazione; la idoneità del bando a normare il solo, singolo procedimento di gara, implica poi come esso non abbia capacità di innovare l’ordinamento (e, in particolare, di vincolare l’Amministrazione in fattispecie diverse rispetto a quella di cui alla gara o al concorso specificamente normati). Se il bando ha natura attizia, esso va interpretato secondo le regole che presidiano alla interpretazione dei provvedimenti amministrativi; esso inoltre non è disapplicabile dal GA e va impugnato, laddove assunto lesivo, nel tradizionale termine di decadenza previsto dal processo amministrativo di impugnazione;
- di natura mista, in parte normativa ed in parte amministrativa generale. Più nel dettaglio, sono di natura amministrativa le clausole del bando che non sono destinate a ripetersi e che disciplinano solo la singola gara di cui al divisato bando: tali clausole devono essere impugnate nei termini di decadenza; sono invece normative le clausole usualmente ricorrenti, e dunque ripetibili, come ad esempio quelle che disciplinano i criteri per la valutazione delle offerte o per la verifica dell’anomalia delle offerte medesime: si tratta di clausole dalla natura provvedimentale, ma dalla funzione sostanzialmente normativa essendo esse usualmente previste in tutti i bandi e i regolamenti di gara della PA aggiudicatrice. A questa tesi si obietta tuttavia che un bando è comunque destinato esclusivamente a disciplinare la gara che esso forgia, e come tale difetta dei requisiti della innovatività del sistema e dell’astrattezza, quand’anche siano presenti clausole che usualmente si ripetono.
E’ possibile procedere ad una etero-integrazione negoziale del bando di gara?
- tesi che assume la natura privatistica dell’evidenza pubblica: è possibile per la PA e per le imprese partecipanti alla gara etero-integrare per via negoziale il bando di gara, con particolare riguardo al d. patto di integrità giusta il quale sia la PA aggiudicatrice che le imprese partecipanti si obbligano ad un comportamento leale e in buona fede, oltre che corretto e trasparente, con accettazione da parte dei privati partecipanti della possibilità di irrogazione di una sanzione nel caso in cui – durante la procedura – essi tengano un comportamento scorretto o negligente, come nell’ipotesi di un accordo tra imprese che pregiudichi la concorrenza (in simili casi, frequente è l’ipotesi previsionale dell’incameramento della cauzione provvisoria);
- tesi che assume la natura pubblicistica dell’evidenza pubblica: in linea di principio non è etero integrabile attraverso l’autonomia privata quello che, come il bando, è un atto autoritativo (normativo o, al più, amministrativo generale), anche se non manca chi valorizza l’art.11 della legge 241.90 considerando l’eventuale accordo tra PA e privati concorrenti come accordo (accessivo) sostitutivo o integrativo di provvedimento.