Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 13 febbraio 2023 n. 05
PRINCIPI DI DIRITTO
Ai sensi degli articoli 7 bis, 10, comma 3, lettera d), 18, comma 1, 20, comma 1, 21, comma 4, e 29, comma 2, del Codice n. 42 del 2004, il ‘vincolo di destinazione d’uso del bene culturale’ può essere imposto quando il provvedimento risulti funzionale alla conservazione della integrità materiale della cosa o dei suoi caratteri storici o artistici, sulla base di una adeguata motivazione da cui risulti l’esigenza di prevenire situazioni di rischio per la conservazione dell’integrità materiale del bene culturale o del valore immateriale nello stesso incorporato.
Ai sensi degli articoli 7 bis, 10, comma 3, lettera d), 18, comma 1, 20, comma 1, 21, comma 4, e 29, comma 2, del Codice n. 42 del 2004, il ‘vincolo di destinazione d’uso del bene culturale’ può essere imposto a tutela di beni che sono espressione di identità culturale collettiva, non solo per disporne la conservazione sotto il profilo materiale, ma anche per consentire che perduri nel tempo la condivisione e la trasmissione della manifestazione culturale immateriale, di cui la cosa contribuisce a costituirne la testimonianza.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- La rilevanza delle questioni deferite all’Adunanza Plenaria per la decisione degli appelli proposti.
1.1. Il Ministero della Cultura ha apposto il vincolo di tutela al locale condotto dalla società appellante ai sensi dell’art. 10, comma 3, lett. d), del decreto legislativo n. 42 del 2004 (in base al quale sono da intendersi «beni culturali», allorché sia intervenuta la relativa dichiarazione di cui all’art. 13 del medesimo Codice, «le cose immobili e mobili, a chiunque appartenenti, che rivestono un interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere, ovvero quali testimonianze dell’identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose») e «in considerazione dei principi enunciati dall’art. 7 bis (“Espressioni di identità culturale collettiva”) D.Lvo 22 gennaio 2004 n. 42 ss.mm.ii».
1.2. È qui dunque controversa la legittimità di un decreto, con cui il Ministero della Cultura, pur dichiarando ai sensi dell’art. 10, comma 3, lett. d), l’interesse particolarmente importante di cose materiali, individuate tanto in un’unità immobiliare all’interno di un edificio (già dichiarato di interesse culturale) quanto nelle opere e negli elementi di arredo conservati al suo interno:
– ha tutelato l’immobile quale “ristorante”, valorizzando, dunque, l’attività commerciale in esso esercitata;
– ha evidenziato un interesse culturale per “riferimento” a specifici fatti ed eventi riguardanti la storia, artistica e culturale, della comunità nazionale e locale di cui la cosa tutelata ha costituito la sede o reca testimonianza;
– ha applicato anche i principi enunciati dall’art. 7 bis del D. Lgs. n. 42/04 in materia di ‘espressione di identità culturale collettiva’, a sua volta recante un rinvio alle Convenzioni Unesco in materia di ‘patrimonio cultuale immateriale’;
– ha integralmente recepito le prescrizioni recate nella richiamata relazione storico critica, ivi compresa l’esigenza di garantire la conservazione, oltre che degli aspetti architettonici e decorativi, anche della ‘continuità d’uso’ esplicata negli aspetti legati alla tradizione culturale di convivialità del locale.
1.3. In effetti, così provvedendo, il decreto ministeriale ha valorizzato, sia sotto il profilo sistematico che teleologico, la connessione inscindibile tra gli elementi materiali e quelli immateriali, ravvisando l’essenzialità della continuità dell’uso; il che poi si traduce nella sostanziale imposizione di un “vincolo di destinazione d’uso del bene culturale”, quale effetto direttamente conseguente soltanto al provvedimento impugnato in primo grado (sebbene già le prescrizioni poste dalla stessa Amministrazione statale con l’autorizzazione all’alienazione del complesso immobiliare in cui è inserito il locale per cui è causa fossero incentrate sulla conservazione delle attuali destinazioni d’uso dell’edificio).
1.4. Si tratta poi, come rilevato dall’ordinanza, di questioni di massima di particolare importanza, correlate alla tutela del patrimonio culturale, nonché all’oggetto e al contenuto dei poteri ministeriali esercitabili in materia, dal che l’esigenza di un chiarimento, in funzione nomofilattica, da parte dell’Adunanza Plenaria, anche al fine di orientare la futura azione amministrativa.
- L’ammissibilità di un vincolo culturale di destinazione d’uso: gli orientamenti della giurisprudenza e il contrasto esegetico.
- Come osservato dalla Sezione remittente, la giurisprudenza del Consiglio di Stato non ha in maniera univoca risolto la questione di diritto relativa all’ammissibilità di un ‘vincolo culturale di destinazione d’uso’: a fronte di pronunce contrarie, sono state rese decisioni favorevoli, che, tuttavia, pur ammettendo l’imposizione di un vincolo di destinazione ai fini della conservazione del bene culturale, hanno diversamente individuato i presupposti in base ai quali l’Amministrazione statale possa emanare il provvedimento di vincolo.
In particolare, vi sono stati tre orientamenti giurisprudenziali.
2.1. Per un primo indirizzo (Consiglio di Stato, sez. VI, 16 settembre 1998, n. 1266; sez. VI, 12 luglio 2011, n. 4198; sez. VI, 2 marzo 2015, n. 1003; sez. IV, 29 dicembre 2017, n. 6166; sez. V, 25 marzo 2019, n. 1933), il ‘vincolo culturale di destinazione d’uso’ non si può imporre, in quanto incompatibile con il dato positivo e contrastante con la tutela costituzionale e convenzionale del diritto di proprietà e della libertà di iniziativa economica. In siffatte ipotesi, difatti, verrebbe tutelata non la res di interesse culturale, ma la sua destinazione e, dunque, l’attività ivi esercitata.
Per questo indirizzo, il ritenere che l’Amministrazione possa vincolare un immobile non nella sua identità strutturale (intesa come specifica conformazione costruttiva), ma con riferimento alla sua specifica destinazione (e, quindi, a una determinata attività), si baserebbe su una ‘visione autoritaria e svalutativa del diritto di proprietà’ e fortemente restrittiva del principio di legalità, che caratterizza i poteri ablatori in senso lato dell’Amministrazione pubblica.
Si trasformerebbe, infatti, una disposizione che si limita a consentire prescrizioni accessorie e strumentali – conservative delle caratteristiche storico-architettoniche di determinati beni oggetto di tutela – in una disposizione attributiva di poteri sostanzialmente espropriativi, la quale escluderebbe a priori ogni destinazione diversa da quella in atto al momento dell’imposizione del vincolo.
In tale maniera, si forzerebbero la lettura e la ratio complessiva della legge, al punto da trasformare una disposizione permissiva del godimento del proprietario in conformità di limiti di interesse generale, secondo l’impostazione dell’art. 42 Cost., in un precetto impositivo di una servitù pubblica immobiliare legislativamente innominata (perché non attinente al valore del bene immobiliare in sé), quindi in contrasto con il principio di legalità ex artt. 42-43 Cost. (Consiglio di Stato, sez. VI, 16 settembre 1998, n. 1266).
A conforto di tale impostazione, è stato pure richiamato l’art. 51, comma 1, D. Lgs. n. 42/04, che prevede uno speciale tipo di vincolo a bene culturale per gli “studi d’artista” (Consiglio di Stato, sez. V, 25 marzo 2019, n. 1933): il legislatore avrebbe eccezionalmente imposto solo per tali beni, in deroga alla regola generale, il divieto di “modificare la destinazione d’uso (…) nonché rimuoverne il contenuto (…), qualora esso, considerato nel suo insieme ed in relazione al contesto in cui è inserito, sia dichiarato di interesse particolarmente importante per il suo valore storico…” (cfr. sul punto Consiglio di Stato, sez. VI, 12 luglio 2011, n. 4198).
Si è anche osservato (Consiglio di Stato, sez. VI, 2 marzo 2015, n. 1003) che l’effetto di limitazione della destinazione d’uso violerebbe i principi di proporzionalità e ragionevolezza, generando un’insostenibilità economica del bene, in contrasto con le stesse finalità cui è orientata la legge di tutela.
In definitiva, tale primo indirizzo, basato sulla necessaria distinzione tra ‘vincolo strutturale’ e ‘vincolo di destinazione d’uso’ (Consiglio di Stato, sez. IV, 29 dicembre 2017, n. 6166), esclude l’ammissibilità di ‘vincoli culturali di mera destinazione’, specie per attività commerciali o imprenditoriali, anche se attinenti a valori storici e culturali presi in considerazione dalla legge.
2.2. Un’altra parte della giurisprudenza ha sostenuto posizioni parzialmente divergenti, tese ad affermare l’ammissibilità di un vincolo culturale di destinazione d’uso ove funzionale ad una migliore conservazione della res, seppur sulla base di una diversa modulazione delle condizioni legittimanti un tale intervento di tutela.
In taluni casi, la giurisprudenza (Consiglio di Stato, sez. VI, 28 agosto 2006, n. 5004; sez. VI, 6 maggio 2008, n. 2009; sez. IV, 12 giugno 2013, n. 3255), pur riaffermando il tendenziale divieto di vincoli culturali di destinazione d’uso – nel senso che non possono tutelarsi le gestioni commerciali o l’esercizio di attività artificiali, anche se attinenti ad alcuni dei valori storici, culturali o filosofici presi in considerazione dalla legge di riferimento – ha ritenuto ammissibile, in circostanze eccezionali, derogare a una tale regola generale, qualora il bene abbia subito una particolare trasformazione con una sua specifica destinazione e un suo stretto collegamento per un’iniziativa storico-culturale di rilevante importanza.
In tali ipotesi, il vincolo di destinazione d’uso non sarebbe incompatibile con la normativa di riferimento, in quanto volto a tutelare in via immediata e diretta il bene culturale e non l’attività in esso esercitata, e non potrebbe neppure ravvisarsi una irragionevole o sproporzionata compressione del diritto di proprietà o della libertà di iniziativa economica: si farebbe, infatti, questione non di un vincolo comportante l’obbligo di continuazione sine die dell’attività culturale, ma della sola individuazione dell’uso compatibile della res dichiarata di interesse culturale, a prescindere dall’identità della persona legittimata ad esercitare l’attività.
Con riferimento all’art. 42 della Costituzione, la limitazione della proprietà privata derivante dalla imposizione di un vincolo di destinazione sarebbe, comunque, legittima alla luce della legislazione vigente, rientrando nel potere conformativo attribuito all’Amministrazione con riguardo a particolari categorie di beni.
2.3. Infine, una terza impostazione ricostruisce con maggiore ampiezza il potere di tutela del bene culturale: la legittimità del vincolo di destinazione d’uso dovrebbe essere valutata, anziché sulla base di fattispecie derogatorie predeterminate in via astratta, avendo riguardo all’adeguatezza della motivazione alla base della decisione amministrativa concretamente assunta.
A questo ultimo orientamento ha aderito l’ordinanza di rimessione, per la quale la soluzione prospettata con riguardo ai beni culturali ex art. 10 D. Lgs. n. 42/04 si imporrebbe a fortiori a fronte di ‘espressioni di identità culturale collettiva’ ex art. 7 bis D. Lgs. n. 42/04, in relazione alle quali si ravvisa l’esigenza di garantire non soltanto la conservazione della res, ma pure la continuità del processo di condivisione, riproduzione e trasmissione delle manifestazioni immateriali a cui la cosa sia collegata.
2.4. In sintesi, tre sono le soluzioni prospettabili rispetto alla prima questione di diritto deferita dalla Sezione:
– quella che nega l’ammissibilità del vincolo culturale di destinazione d’uso;
– quella che l’ammette in circostanze eccezionali e circoscritte, correlate alla particolare trasformazione del bene con una sua specifica destinazione e al suo stretto collegamento per un’iniziativa storico-culturale di rilevante importanza;
– quella che ammette l’imposizione di un vincolo culturale di destinazione d’uso, previa adeguata esposizione delle ragioni che ne sono alla base.
III. La posizione dell’Adunanza Plenaria sul primo quesito.
- L’Adunanza Plenaria ritiene di aderire al terzo orientamento ora sintetizzato, in quanto è basato sulla legislazione vigente ed è anche maggiormente conforme agli obiettivi di interesse generale sottesi alla tutela dei beni culturali, oltre che coerente con il quadro costituzionale di riferimento.
3.1. Il potere di imporre limiti all’uso del bene culturale discende dal combinato disposto degli articoli 18, comma 1, 20, comma 1, e 21, comma 4, del Codice approvato con il decreto legislativo n. 42/04, il quale:
– da un lato, attribuisce al Ministero il potere di vigilanza sui beni culturali, al fine di garantire (altresì) il rispetto dei divieti posti dalla disciplina di riferimento, ivi compreso il divieto di usi non compatibili con il carattere storico o artistico del bene culturale oppure tali da recare pregiudizio alla sua conservazione;
– dall’altro, impone di comunicare al soprintendente il mutamento di destinazione d’uso del bene culturale, al fine di permettere all’Amministrazione di verificare la compatibilità del nuovo uso con le caratteristiche storiche o artistiche del bene o con la sua materiale conservazione.
L’art. 20 del d.Lgs. 42 del 2004 ha inoltre previsto che «i beni culturali non possono essere distrutti, deteriorati, danneggiati o adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione».
Ne deriva che la disciplina positiva valorizza l’uso del bene culturale quale strumento per consentirne la conservazione materiale.
3.2. Inoltre, una tale interpretazione del quadro normativo – che riconosce la maggior latitudine possibile alla tutela del bene culturale, valorizzando l’importanza della motivazione alla base della decisione amministrativa – consente il raggiungimento degli obiettivi di interesse generale sottesi alla disciplina in commento, correlati alla conservazione del patrimonio culturale quale elemento di formazione, promozione e trasmissione della memoria della comunità nazionale (art. 1, comma 2, D. Lgs. n. 42/04).
Per converso, il negare la possibilità di imporre vincoli culturali di destinazione d’uso – come il limitare un tale potere a fattispecie eccezionali, predeterminate in via astratta o correlate all’avvenuta trasformazione della res in relazione ad eventi culturali di particolare importanza – vanificherebbe le esigenze di tutela alla base del D. Lgs. n. 42/04, in tutte le ipotesi in cui un mutamento di destinazione d’uso possa comunque, tenuto conto delle particolarità concrete, essere pregiudizievole per la conservazione del bene e del relativo valore culturale che esso esprime.
3.3. Tale interpretazione non produce poi neanche un’irragionevole o sproporzionata limitazione del diritto di proprietà o della libertà di iniziativa economica.
Premesso che i vincoli culturali hanno natura non espropriativa, bensì conformativa (facendosi questione di limiti imposti alla proprietà privata in relazione a modi di godimento di intere categorie di beni – indirizzo accolto da tempo dalla giurisprudenza, anche costituzionale, cfr. Corte costituzionale, 20 dicembre 1976, n. 245), e rilevato che l’interesse culturale ex art. 9 Cost. prevale su qualsiasi altro interesse – ivi compresi quelli economici – nelle valutazioni concernenti i reciproci rapporti (Corte cost., 27 giugno 1986, n. 151), la Corte costituzionale con la sentenza 9 marzo 1990, n. 118, nel pronunciarsi sulla legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge 1° giugno 1939, n. 1089 recante ratione temporis la disciplina dei beni culturali “per riferimento” (oggi prevista dall’art. 10, comma 3, lett. d), D. Lgs. n. 42/04), ha affermato principi che depongono nel senso della legittimità dei provvedimenti impositivi dei ‘vincoli di destinazione d’uso’.
Con tale sentenza, la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla conformità delle disposizioni sopra indicate all’art. 9 Cost., nella parte in cui non avrebbero previsto la possibilità di tutelare le attività tradizionali caratterizzanti una parte del territorio cittadino e, in particolare, i centri storici, ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale, evidenziando come «il valore culturale dei beni di cui all’art. 2…, al cui genere appartengono quelli di cui trattasi, è dato dal collegamento del loro uso e della loro utilizzazione pregressi con accadimenti della storia, della civiltà o del costume anche locale. In altri termini, essi possono essere stati o sono luoghi di incontri e di convegni di artisti, letterati, poeti, musicisti ecc.; sedi di dibattiti e discussioni sui più vari temi di cultura, comunque di interesse storico-culturale, rilevante ed importante, da accertarsi dalla pubblica amministrazione competente. La detta utilizzazione non assume rilievo autonomo, separato e distinto dal bene ma si compenetra nelle cose che ne costituiscono il supporto materiale e, quindi, non può essere protetta separatamente dal bene».
La Corte ha quindi concluso che “[l]’esigenza di protezione culturale dei beni, determinata dalla loro utilizzazione e dal loro uso pregressi, si estrinseca in un vincolo di destinazione che agisce sulla proprietà del bene e può trovare giustificazione, per i profili costituzionali, nella funzione sociale che la proprietà privata deve svolgere (art. 42 della Costituzione)”.
Resta fermo che il vincolo non può riguardare l’attività in sé e per sé, considerata separatamente dal bene, la quale attività deve, invece, essere libera secondo i principi costituzionali (artt. 2, 9, 21 e 33); così come è libera l’iniziativa economica, “salvo il suo indirizzo e coordinamento a fini sociali a mezzo leggi (art. 41 della Costituzione)” (Corte costituzionale, 9 marzo 1990, n. 118).
Dai sopra riportati principi, si ricava, dunque, che la tutela del bene culturale non può che estendersi anche al suo uso, ogni qualvolta anche quest’ultimo contribuisca alla sua rilevanza culturale.
3.4. Infine, tale interpretazione è coerente con il complessivo sistema normativo di tutela dell’interesse culturale, basato non soltanto sull’azione delle Autorità statali ai sensi del D. Lgs. n. 42/04, ma anche sull’esercizio di distinti poteri pubblici, ascrivibili pure ad Amministrazioni non statali.
La Sezione remittente ha correttamente richiamato il potere di pianificazione territoriale, il cui esercizio ben può tenere conto delle esigenze legate alla tutela di interessi costituzionalmente primari, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del territorio su cui detto potere è esercitato (Consiglio di Stato, sez. II, 29 ottobre 2020, n. 6628).
In tale contesto, si inquadra quell’orientamento giurisprudenziale del Consiglio di Stato che ha ammesso l’esercizio del potere di pianificazione territoriale anche in funzione dell’imposizione di ‘vincoli di destinazione d’uso, motivati dal riferimento al carattere storico-identitario che talune attività possano rivestire in determinati luoghi per la collettività locale: in tali ipotesi, è ben possibile che un bene, pur privo in sé di valenza culturale, rivesta una oggettiva centralità identitaria per una città e sia considerato dagli abitanti (e dagli organi elettivi comunali) come elemento idoneo a rappresentarne il passato ed a rammentarlo (Consiglio di Stato, sez. IV, 22 agosto 2018, n. 5029, per un vincolo di destinazione a “caffè-bar”).
Sarebbe dunque irragionevole negare un’analoga possibilità all’Amministrazione istituzionalmente competente a tutelare i beni culturali, non consentendole di apprestare adeguata tutela a quelle attività – di qualsiasi natura – che nella storia sono divenute coessenziali con quella stratificazione del costruito, rappresentandone in una certa misura la stessa ragione d’essere.
3.5. Ad avviso del Collegio argomenti contrari a tale tesi non possono, invece, ricavarsi dall’art. 51 D. Lgs. n. 42/04 in materia di studi d’artista.
Infatti, la circostanza che il legislatore in relazione a una particolare categoria di bene culturale abbia ravvisato, in via generale e astratta, la necessità di imporre un vincolo di destinazione d’uso per rendere immodificabile l’ambiente e i luoghi in cui operò l’artista – al fine di conservare intatta la testimonianza dei valori culturali in esso insiti, prescindendo da una concreta valutazione amministrativa – non determina l’inammissibilità di un siffatto vincolo di tutela in relazione alle altre categorie di beni culturali, ma significa soltanto che, se per gli studi d’artista l’imposizione del vincolo di destinazione d’uso discende direttamente dal dato positivo per effetto della mera qualificazione della res in tali termini e, quindi, dell’accertamento di tale qualitas del bene, viceversa per le altre categorie di beni culturali occorre una valutazione amministrativa delle circostanze del caso concreto, che dia conto delle ragioni per cui usi della res diversi da quelli attuali siano di pregiudizio per la conservazione dei suoi caratteri artistici o storici ovvero per la sua integrità materiale.
Neppure rileva in senso contrario la sentenza n. 185/2003 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disposizione sull’esenzione degli studi d’artista dai provvedimenti di rilascio previsti dalla normativa in materia di locazione di immobili urbani.
In primo luogo, tale sentenza ha riguardato una disposizione diversa da quella di cui trattasi, ossia l’art. 52 D.Lgs. 490/1999, il quale – nel disporre «l’interdizione dei provvedimenti di rilascio di immobili nei quali si trovino studi d’artista di particolare valore storico» – è stato considerato dalla Corte “misura assolutamente esuberante rispetto alla finalità di tutela perseguita”.
In secondo luogo, tale pronuncia ha ritenuto «il vincolo di destinazione già gravante sull’immobile … pienamente sufficiente a tutelare l’interesse artistico alla conservazione dello studio e del suo contenuto», non essendo consentita “già in forza dei predetti vincoli di legge (…) la rimozione di alcuno dei beni contenuti nello studio né tantomeno l’attuazione di una diversa destinazione dell’immobile”.
In conclusione, l’imposizione in via generale e astratta di un vincolo di destinazione d’uso (come è nel caso degli studi d’artista di cui all’art. 51 cit.) è consentita da una disposizione speciale che ha attribuito rilievo alla mera qualitas di bene culturale, rispetto alla quale sussistono i “generali obblighi di conservazione dei beni culturali”.
3.6. Deve così ritenersi non estranea al sistema dei vincoli per la tutela delle cose di interesse storico o artistico la previsione del potere amministrativo di porre limiti alla loro destinazione, quando la misura imposta miri a salvaguardare l’integrità e la conservazione del bene (Cons. Stato, sez. VI, 18 ottobre 1993, n. 741), senza che ciò si risolva nell’obbligo di gestire una determinata attività.
Si tratta di uno strumento di tutela del bene culturale che deve ritenersi generalmente ammesso dalla legislazione di settore e che è riconducibile ai poteri di cui è titolare il Ministero della Cultura, occorrendo però – a differenza delle ipotesi tipicamente normate, in cui la valutazione circa la necessità del vincolo di destinazione d’uso è operata a monte, in via generale e astratta dal legislatore – l’intermediazione del potere amministrativo e una valutazione motivata in relazione alle peculiarità concrete, all’esito di un’adeguata istruttoria.
In particolare, il provvedimento di imposizione di un ‘vincolo di destinazione come modalità di uso’ si deve basare su adeguata motivazione sulla sussistenza di valori culturali, estetici e storici tutelabili, avendo riguardo al riferimento della res alla storia della cultura e alla rilevanza artistica degli arredi ivi conservati (Consiglio di Stato, sez. VI, 10 ottobre 1983, n. 723, relativa al vincolo su una “fiaschetteria”, per la quale l’Amministrazione ben può salvaguardare la prosecuzione di una certa attività economica in atto nell’immobile, ai sensi dell’articolo 11 della legge n. 1089 del 1939, all’epoca vigente ratione temporis, con la precisazione che l’Amministrazione non può, invece, imporre né che l’attività economica prosegua, né che continui ad essere svolta dallo stesso soggetto; cfr. anche sez. VI, 18 ottobre 1993, n. 741; 16 novembre 2004, n. 7471).
3.7. Acclarata l’ammissibilità, alla luce del quadro normativo vigente, di un vincolo che riverberi i propri effetti sulla utilizzazione del bene culturale oggetto di tutela, dovendo ammettersi anche vincoli più incisivi che impongano “in positivo” e non solo “in negativo” le destinazioni d’uso da preservare e valorizzare, va ribadito che il vincolo di destinazione non deve, comunque, imporre alcun obbligo di esercizio o prosecuzione dell’attività commerciale e imprenditoriale, né attribuire una ‘riserva di attività’ in favore di un determinato gestore, al quale non può essere attribuita una sorta di “rendita di posizione”.
Il provvedimento di imposizione di un vincolo che giunga a individuare un solo ‘uso compatibile’ sarebbe illegittimo per sviamento ove venisse apposto, qualora mirasse non alla conservazione ed alla salvaguardia della res in cui è incorporato il valore storico culturale particolarmente importante, ma a far continuare la prosecuzione di una specifica attività commerciale o imprenditoriale (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 10 ottobre 2002, n. 5434): solo una espressa disposizione di legge potrebbe attribuire all’Amministrazione tale ulteriore potere.
3.8. In definitiva, quel che può essere imposto è un divieto di usi diversi da quello attuale, a tutela tanto del bene culturale quanto dei valori in esso incorporati.
Tale tipologia di vincolo, a carattere e contenuto “misto” (di tipo “intrinseco” e di tipo “relazionale esterno” o “testimoniale”) ai sensi dell’art. 10, comma 3, lett. d) del Codice, è funzionale sia alla conservazione della res che alla prosecuzione dell’attività ivi svolta, se inscindibile e compenetrata negli elementi materiali considerati di interesse storico-culturale.
A tal fine la motivazione del provvedimento di vincolo del bene, che vi imprima altresì una destinazione d’uso, potrà valorizzare, anche nell’ambito delle relazioni specialistiche allegate che ne costituiscano parte integrante, il collegamento tra gli elementi culturali materiali e quelli immateriali, inverato nello svolgimento di un’attività, strumentale alla conservazione della res e del valore culturale che essa esprime, in ragione della sussistenza sia dell’immedesimazione dei valori storico culturali con le strutture materiali (l’immobile e gli arredi in esso contenuti) che del collegamento dei beni e della loro utilizzazione con determinati eventi della storia e della cultura (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 6 maggio 2008, n. 2009; sez. VI, 17 febbraio 1999, n. 170).
Pertanto, l’Amministrazione, nel dichiarare l’interesse culturale del bene, può sia (in negativo) precludere ogni uso incompatibile con la conservazione materiale della res, sia (in positivo) disporre la continuità dell’uso attuale cui la cosa è stata, storicamente e fin dalla sua realizzazione, destinata: e ciò anche in assenza di un processo di trasformazione della res e a prescindere dal suo riferimento a una specifica iniziativa storico culturale di rilevante importanza.
Sotto tale ultimo profilo, si osserva, infatti, che, ai fini della dichiarazione dell’interesse culturale dei beni c.d. “per riferimento” ex art. 10, comma 3, lett. d), può essere sufficiente anche il richiamo a fatti ed eventi – comunque specifici – della ‘storia locale’ ovvero della ‘storia minore’, pur sempre idonei a giustificare la conservazione e la trasmissione del valore culturale (Consiglio di Stato, sez. VI, 14 giugno 2017, n. 2920; sez. VI, 16 novembre 2004, n. 7471; Cons. Stato, VI, 18 ottobre 1993, n. 741, la quale, in relazione alla disciplina previgente dei beni culturali “per riferimento”, ha chiarito che il riferimento di un immobile con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte e della cultura, di cui è cenno nell’art. 2 della legge 1° giugno 1939 n. 1089, all’epoca vigente, non implicava necessariamente che in esso si fosse verificato un evento di rilevanza storica o culturale, ma richiedeva quantomeno che la cosa immobile esprimesse una relazione con la storia della politica o della cultura, tale da consentire la conservazione o la trasmissione del valore culturale).
Anche sulla base del vigente quadro normativo, l’Amministrazione può porre alla base del provvedimento di vincolo ai fini del riconoscimento dell’interesse culturale ex art. 10, comma 3, lett. d) cit. il collegamento del bene con specifici fatti e accadimenti relativi alla storia sociale, politica, artistica e culturale, se essi, apprezzati unitariamente dalla stessa Amministrazione, consentano di riconoscere, all’esito di un’approfondita istruttoria, l’interesse culturale di cui il bene costituisce e reca testimonianza.
3.9. La motivazione del provvedimento dovrà essere adeguata e sorretta dalla rappresentazione delle ragioni per le quali il valore culturale espresso dalla res non possa essere salvaguardato e trasmesso se non attraverso la conservazione del suo pregresso uso che, compenetratosi nelle cose che ne costituiscono il supporto materiale, è divenuto ad esso ‘consustanziale’.
Tali valutazioni potranno poi essere oggetto di sindacato giurisdizionale nei consueti limiti previsti per gli atti implicanti esercizio di discrezionalità tecnica riservata all’Amministrazione in merito alla qualitas di bene culturale (cfr., tra le altre, Consiglio di Stato, sez. VI, 7 giugno 2021, n. 4318 e Consiglio di Stato, sez. VI, 14 ottobre 2015, n. 4747): in sede di giurisdizione di legittimità, l’apprezzamento compiuto dall’Amministrazione preposta alla tutela potrà essere sindacato sotto i profili della logicità, coerenza e completezza della valutazione, considerati anche per l’aspetto concernente la correttezza del criterio tecnico e del procedimento applicativo prescelto, fermo restando il limite della relatività delle valutazioni scientifiche; non sarà, invece, ammissibile alcun sindacato di tipo sostitutivo che vada a sovrapporre a una valutazione connotata da discrezionalità tecnica, implicante l’applicazione di cognizioni tecniche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari della storia, dell’arte e dell’architettura e caratterizzata da ampi margini di opinabilità, una valutazione alternativa, parimenti opinabile (come è stato già chiarito da Cons. giust. amm. Sicilia, 7 maggio 2021, n. 406; Consiglio di Stato, sez. VI, 4 settembre 2020 n. 5357).
Tale potere è poi esercitabile sia all’atto della comunicazione del mutamento della destinazione d’uso (ai sensi dell’art. 21, comma 4, cit.), che in via anticipata, al momento della dichiarazione dell’interesse culturale della res, in applicazione del principio di prevenzione (art. 29, comma 2, D. Lgs. n. 42/04), che impone di limitare ex ante le situazioni di rischio connesse al diverso possibile uso del bene culturale.
Parimenti, il vincolo di destinazione può essere imposto anche su un immobile già sottoposto a tutela per il proprio intrinseco pregio artistico, stante l’autonomia dei due vincoli, i quali vanno tra loro coordinati (così Cons. Stato, VI, 28 febbraio 1990, n. 321).
Infine, deve rilevarsi come l’astratta possibilità di fatti successivi ed eventuali (quale, ad esempio, la cessazione dell’attività) non influisce sulla legittimità del provvedimento di vincolo, che va valutata in relazione alla situazione di fatto esistente al momento della sua adozione.
Ad ogni modo anche tali aspetti potranno essere regolati, dopo l’apposizione del vincolo c.d. culturale, dal potere di controllo dell’amministrazione ai sensi degli artt. 18, 19, 20, 21 del Codice, tenuto conto che anche “i privati proprietari, possessori o detentori di beni culturali sono tenuti a garantirne la conservazione” (art. 30, comma 3).
- Le espressioni di identità culturale collettiva.
4.1. La soluzione condivisa con riguardo ai beni culturali ex art. 10 D. Lgs. n. 42/04 va seguita anche con riguardo alle ‘espressioni di identità culturale collettiva’ ex art. 7 bis D. Lgs. n. 42/04, in relazione alle quali, come rilevato dal giudice remittente, si ravvisa l’esigenza di salvaguardare non soltanto la conservazione della res, ma pure la continuità della condivisione, della riproduzione e della trasmissione delle manifestazioni immateriali a cui la cosa sia collegata.
4.2. Ai sensi dell’art. 7 bis del D. Lgs. n. 42/04 (introdotto nel Codice dei beni culturali dall’art. 1 del d.lgs. n. 62 del 2008), “Le espressioni di identità culturale collettiva contemplate dalle Convenzioni UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e la promozione delle diversità culturali, adottate a Parigi, rispettivamente, il 3 novembre 2003 ed il 20 ottobre 2005, sono assoggettabili alle disposizioni del presente codice qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano i presupposti e le condizioni per l’applicabilità dell’articolo 10”.
4.3. Nella relazione illustrativa del decreto legislativo n. 62 del 2008, è rilevato che l’art. 7 bis è stato inserito a seguito delle due Convenzioni internazionali promosse dall’UNESCO e sottoscritte a Parigi, rispettivamente, il 2005 e il 2003, e che “le espressioni di identità culturale collettiva prese in considerazione dalle citate Convenzioni sono assoggettabili alle disposizioni del Codice qualora siano rappresentate da testimonianze materiali, e per queste sussistano i presupposti e le condizioni per la tutela stabiliti dall’articolo 10 del Codice medesimo”.
La relazione ha richiamato le iniziative che vi sono state anche sul piano internazionale per la salvaguardia delle diversità culturali e la protezione del patrimonio culturale immateriale ed ha rimarcato l’esigenza di ridefinire i settori disciplinari contigui e perfettamente coincidenti, per evitare interpretazioni fuorvianti sia degli obblighi assunti in via pattizia con altri Stati, sia dei confini fra la tradizionale tutela relativa alle cose di interesse storico ed artistico e la salvaguardia afferente a manifestazioni e valori della cultura immateriale.
L’art. 7 bis ha inteso valorizzare le espressioni culturali condivise, riprodotte e trasmesse dalle collettività di riferimento, per propria natura aventi valore immateriale, purché di tali espressioni sussista una testimonianza materiale e vi siano i presupposti di cui all’art. 10 D. Lgs. n. 42/04.
4.4. A sua volta, la Convenzione UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale del 2003 (richiamata dal richiamato art. 7 bis), all’art. 1, lett. b), prevede tra le sue finalità quella di «assicurare il rispetto per il patrimonio culturale immateriale delle comunità, dei gruppi e degli individui interessati», aggiungendo al successivo art. 2, che «per “patrimonio culturale immateriale” s’intendono le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale. Questo patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia e dà loro un senso d’identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana».
4.5. Va rilevato che il procedimento di candidatura dei siti UNESCO non coincide necessariamente con l’azione di salvaguardia che il Ministero della Cultura è tenuto a svolgere sul territorio italiano, ove ritenga sussistenti i presupposti previsti dal Codice dei beni culturali, e che i provvedimenti di tutela di cui all’art. 7 bis cit. non impongono l’attivazione delle candidature, rilevanti per l’UNESCO.
Infatti, la disposizione statale richiama le Convenzioni Unesco al solo fine di identificare quelle fattispecie, costituenti “espressioni di identità culturale collettiva”, che possono essere assoggettate alle tutele di cui al Codice dei beni culturali, sussistendone le necessarie condizioni (e cioè “qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano i presupposti e le condizioni per l’applicabilità dell’articolo 10”).
4.6. Ciò posto, mentre in ambito convenzionale la rilevanza degli elementi materiali (strumenti, oggetti, manufatti e spazi culturali) associati alle espressioni di identità culturale è soltanto eventuale, ben potendo tutelarsi in via immediata e diretta l’immaterialità della manifestazione culturale in sé, la disciplina nazionale richiede un collegamento qualificato con un elemento materiale.
La res, in particolare:
– da un lato, deve testimoniare l’esistenza e il modo di essere dell’espressione di identità culturale collettiva, potendo assumere indifferentemente la valenza di oggetto, mezzo o luogo su cui, attraverso cui o in cui vengono ricreate, condivise e trasmesse le espressioni che la comunità riconosce come componenti del proprio patrimonio culturale, distintive della propria storia, costituenti un lascito del passato, da preservare nel presente per la trasmissione alle future generazioni;
– dall’altro, deve essere già, di per sé, tutelabile ai sensi dell’art. 10 D. Lgs. n. 42/04, occorrendo l’integrazione dei presupposti e delle condizioni per la sua dichiarazione di interesse culturale.
In questa ottica può concludersi che, ai fini dell’applicazione della disciplina in commento, la res deve avere un proprio interesse culturale ai sensi dell’art. 10 D. Lgs. n. 42/04, e rivestire anche una particolare rilevanza per il suo collegamento qualificato con una manifestazione culturale immateriale, della cui esistenza la stessa res costituisce prova, consentendo di ricostruirne contenuto e caratteristiche identitarie.
4.7. Ciò posto, nell’attuale quadro ordinamentale e alla luce del collegamento tra la res e l’espressione culturale identitaria stabilito dalla disciplina vigente, deve ritenersi che gli strumenti di tutela del patrimonio culturale nazionale non possono essere evidentemente circoscritti, stante la portata innovativa e la ratio della norma, entro i tradizionali limiti della conservazione della res, propri delle manifestazioni culturali meramente materiali.
Infatti, le manifestazioni culturali immateriali, destinate per loro natura ad essere costantemente ricreate e condivise a beneficio della comunità di riferimento, necessitano ancor più di strumenti di tutela che ne permettano una continua riproduzione, indispensabile per evitarne la dispersione.
In particolare, ferme rimanendo le misure promozionali delle attività culturali, suscettibili di essere previste anche in ambito regionale (cfr. Corte cost., 28 marzo 2003, n. 94), il potere di tutela è funzionale, in siffatte ipotesi, a garantire non soltanto l’integrità fisica della res, ma anche la continuità dell’espressione culturale di cui la cosa costituisce “testimonianza vivente”.
4.8. Ai fini di un tale rafforzamento degli ordinari strumenti di tutela, è valorizzabile il vincolo di destinazione d’uso, che, come per i beni meramente materiali, ponga la res a servizio dell’espressione culturale di cui essa costituisce la testimonianza, in relazione al messaggio che il bene culturale, come un vero e proprio documento, è in grado di perpetuare per le generazioni future (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 4 settembre 2020, n. 5357).
Si fa questione, in definitiva, di un ulteriore strumento di tutela disponibile in capo all’Amministrazione ai sensi dell’art. 7 bis cit. in combinato disposto con gli artt. 18, comma 1, 20, comma 1, 21, comma 4, e 29, comma 2, D. Lgs. n. 42/04, che prescinde dall’avvio del procedimento di candidatura in ambito UNESCO, essendo riconducibile a potestà amministrative esercitabili, in ambito interno, dal Ministero della Cultura, attraverso i moduli procedimentali ordinari, propri della tutela dei beni culturali ex artt. 13 e ss. D. Lgs. n. 42/04.
In senso contrario non depone l’art. 52, comma 1 bis, D. Lgs. n. 42/04, sulle misure promozionali e di salvaguardia dei locali in cui si svolgono attività di artigianato tradizionale e altre attività commerciali tradizionali, “riconosciute quali espressione dell’identità culturale collettiva ai sensi delle convenzioni UNESCO di cui al medesimo articolo 7-bis, al fine di assicurarne apposite forme di promozione e salvaguardia, nel rispetto della libertà di iniziativa economica di cui all’articolo 41 della Costituzione”.
Infatti, tale comma 1 bis prevede una tutela procedimentale differente e non sovrapponibile a quella prevista dall’art. 7 bis (come disvela l’inciso iniziale: “fermo restando quanto previsto dall’articolo 7-bis”), affidandola ai Comuni, i quali devono “sentire il soprintendente”.
Tale previsione, regolando, per lo più, le misure promozionali a sostegno delle attività culturali ivi richiamate, da un lato, fa salva proprio la disciplina di cui all’art. 7 bis cit., non influendo, dunque, sugli strumenti di tutela riconducibili a quest’ultima disposizione; dall’altro, conferma come talune attività tradizionali, pure ove artigianali o commerciali, possano integrare gli estremi dell’espressione di identità culturale collettiva ex art. 7 bis cit. e, dunque, in tale qualità, essere assoggettati ai relativi strumenti di tutela previsti dalle disposizioni del Codice dei beni culturali, ricorrendone i presupposti di legge.
L’art. 7 bis non introduce una forma di tutela distinta o alternativa, sul piano ontologico (salvo il quid pluris concernente la categoria di beni culturali assoggettabili a tutela) e procedimentale, rispetto alle misure di protezione ordinarie e tradizionali previste dal Testo Unico, ma integra e rafforza il sistema delle tutele ivi contemplate.
Pertanto, a una formalistica visione che contrappone, nell’ambito delle misure di protezione dei beni culturali, la “tutela delle cose” ex art. 10 D.Lgs. 42/2004 (basata su un procedimento autoritativo di tipo verticale) alla “tutela delle attività” di cui all’art. 7 bis cit. (che richiederebbe, invece, l’intervento delle comunità interessate e un procedimento di tipo partecipativo), deve preferirsi un approccio integrato e dinamico della tutela del bene culturale, considerato nella sua interezza.
Tale approccio, coerente con la più efficace tutela del bene culturale, è conforme ai principi affermati della Corte Costituzionale, la quale, con la menzionata sentenza n. 118 del 1990, ha statuito che il collegamento di un bene con il suo uso pregresso può imprimere e dare al medesimo il valore culturale che gli si riconosce, nella misura in cui detta utilizzazione, che non assume rilievo autonomo, separato e distinto dal bene, si compenetri nelle cose che ne costituiscono il supporto materiale, dovendo essere insieme a questa protetta.
Non rileva sotto tale profilo la ‘candidatura UNESCO’ del bene, poiché il richiamo legislativo al diritto pattizio mira unicamente a definire l’oggetto della tutela, per cui troverà applicazione sempre la disciplina interna.
In altri termini, la disposizione sopra richiamata non configura un sistema di protezione “binario” all’interno del Codice dei beni culturali e non contrappone le tradizionali misure vincolistiche, che hanno ad oggetto l’immobile in cui si svolgono le attività (quali quelle elencate all’art. 52, comma1 bis), alle « classiche misure promozionali utilizzate per il sostegno delle attività (artigianali e commerciali) ivi svolte, riconosciute di valore culturale, in quanto espressione dell’identità collettiva ai sensi dell’articolo 7-bis» del medesimo D.Lgs. 42/04.
Non sussiste, dunque, una diversità degli strumenti di tutela, ben potendo le misure previste dal legislatore per conservare le “cose” essere adeguatamente utilizzate per salvaguardare le “attività culturali” che per esse e in esse si svolgono, al ricorrere delle condizioni indicate dalla norma.
Anche in tale ipotesi, non può essere disposta una riserva di attività a favore di un determinato gestore, né può essere imposto un obbligo di prosecuzione dell’attività a suo carico.
Infatti, oggetti di tutela sono sempre il bene e l’attività culturale svolta in esso o per mezzo di esso, senza rilevare il ‘chi’ la svolga: se venisse meno o l’uno o l’altro -il locale, le opere e gli arredi o l’uso e l’attività – verrebbe meno la stessa ragion d’essere della tutela, che risiede in un’intima connessione tra gli elementi materiali tangibili e quelli immateriali.
È questo tutt’uno inscindibile che dà forma, infatti, a quella peculiare espressione artistica e storica riconosciuta di particolare interesse culturale, meritevole di perpetuarsi nel tempo.
Si tratta di una tutela che, al di là degli interessi contingenti dei singoli e dei gruppi, riguarda il bene culturale considerato in sé e nella sua interezza, come luogo di ritrovo e di memoria collettiva, da preservare e tramandare alle future generazioni: il bene culturale viene così ad assumere una particolare valenza identitaria per una determinata comunità, nazionale o locale, veicolandola nella contemporaneità, in una linea ininterrotta tra passato e presente, per effetto della continua ricreazione, condivisione e trasmissione della manifestazione culturale di cui la cosa costituisce testimonianza.
Ne consegue che possono essere tutelati, mediante un vincolo di destinazione d’uso, anche i beni che sono espressione di una identità collettiva (perché in quel bene o per suo tramite sono accaduti eventi di rilevanza storica e culturale ovvero perché personaggi storici e illustri vi hanno trovato, in un dato momento, la loro collocazione), per i quali si riconosca l’impossibilità di scindere le dimensioni materiali da quelle immateriali, stante la loro immedesimazione.
Il potere conformativo dell’Amministrazione che a tal fine sacrifichi, ragionevolmente e in modo proporzionato, altri interessi e diritti soggettivi realizza, pertanto, un interesse pubblico primario e sovraordinato.
Alla luce dei principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale, tale interpretazione deve, infatti, ritenersi conforme all’art. 9 Costituzione (ai sensi del quale “la Repubblica … tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione») e, in virtù della primarietà del valore artistico culturale rispetto al valore economico (cfr. Corte Costituzionale, n. 151/1986 cit), non viola i principi di ragionevolezza e proporzionalità.
Inoltre, tale impostazione è coerente con l’impianto normativo di settore, da cui non si evince un limite astratto all’operatività del vincolo di destinazione d’uso, né che questo debba essere circoscritto a ipotesi specifiche (come nei casi previsti dagli artt. 11 e 51 per la tutela degli “studi d’artista” e, soprattutto, dal combinato disposto degli artt. 11 e 52 comma 1 bis).
Per contro in siffatte ipotesi (può essere, come nella specie, il caso di un ristorante, ma anche di un teatro, di una sala cinematografica, di una farmacia o di una libreria di interesse storico, beni la cui presenza sul territorio rappresenta una componente particolarmente rilevante dell’offerta culturale del Paese), il vincolo sull’immobile e su quanto esso contiene non può prescindere, pena la sua vanificazione, dall’imprimervi un determinato uso.
In definitiva, anche la tutela dei beni culturali (in uno alle attività) che costituiscono “espressione di identità culturale collettiva” può essere disposta sulla base del Codice dei beni culturali.
In tal caso, il provvedimento dichiarativo dell’interesse culturale del bene- che si esplica come atto unitario rispetto all’immobile, alle opere d’arte e agli arredi in esso contenuti (art. 10, comma 3, lett. d), nonché agli aspetti immateriali (art. 7 bis)- dovrà dare evidenza dell’esistenza di un’indissolubile connessione fra beni materiali e beni immateriali che attribuisca ad un tempo rilevanza storico- artistica ai beni e valore storico e sociale all’attività svolta.
- Alcune considerazioni generali sul patrimonio culturale.
- Il bene culturale, oltre a essere oggetto diretto della tutela apprestata dalle norme, rileva anche come “testimonianza vivente”, vale a dire come mezzo di prova dell’esistenza della manifestazione culturale, immateriale e collettiva, che, per mezzo di esso, si alimenta e si ricrea, perpetuandosi nel tempo.
5.1. Infatti, il bene culturale non si esaurisce soltanto nelle testimonianze materiali che lo rappresentano, attribuendogli il valore estetico o storico che gli è proprio, ma presenta anche una particolare forza “evocativa” in virtù del valore in esso insito, che assume significato per l’intera collettività di riferimento, la quale da esso trae un senso di identità e di continuità.
5.2. Rilevato che la manifestazione culturale “immateriale” deve riferirsi ad una cosa materiale, mobile o immobile, che consenta di ricostruirne contenuti e caratteristiche, va rimarcato come deve esservi tra esse un ‘rapporto bilaterale’: la cosa acquista valore di testimonianza per mezzo del suo rilievo culturale.
5.3. L’elemento immateriale e quello materiale vengono così a coesistere in un tutt’uno inscindibile, in cui spazio e tempo attribuiscono nel loro insieme alla res il valore culturale meritevole di tutela.
Il bene culturale è percepito come tale dalla comunità attraverso quel determinato uso, ma al contempo lo trascende, diventando non solo “patrimonio culturale”, in un’ottica soltanto “conservativa” per la sua preservazione, ma anche una “eredità culturale” da trasmettere alle future generazioni (c.d. cultural heritage, come definita dalla Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società, fatta a Faro il 27 ottobre 2005, ratificata con la legge 1° ottobre 2020, n. 133, la quale ha definito il “patrimonio culturale” come l’insieme delle risorse ereditate dal passato, riflesso di valori e delle credenze, delle conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione, rilevanti per una comunità di persone, rimarcando il valore e il potenziale del patrimonio culturale come risorsa per lo sviluppo sostenibile e per la qualità della vita e individuando il “diritto al patrimonio culturale”).
5.4. Va anche rimarcata la differenza tra le espressioni di identità culturale collettiva di cui all’art. 7 bis cit. e il patrimonio immateriale di cui alle Convenzioni UNESCO.
Le ‘espressioni di identità culturale collettiva’ sono state autonomamente contemplate, come possibile oggetto di tutela, dal legislatore interno, che le ha connotate in modo “misto”, nel senso che all’espressione immateriale e identitaria deve sempre accompagnarsi un substrato materiale, dato da una cosa che la testimoni e che giustifichi una tutela ai sensi dell’art. 10 del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Il ‘patrimonio culturale’ in base alle citate Convenzioni va tutelato anche nelle sue ‘manifestazioni immateriali’, anche se queste non siano riconducibili a specifici beni materiali che le testimonino.
L’art. 7 bis ha ricondotto la protezione di queste espressioni alle forme ordinarie di tutela, che si operano innanzitutto attraverso i decreti di vincolo; sicché a tal fine non occorrono procedure specifiche di inclusione negli elenchi di beni tutelati ai sensi delle Convenzioni UNESCO.
Il quid pluris introdotto dall’art. 7 bis sta dunque nel consentire riguardo alla cosa materiale non solo la conservazione del valore culturale in essa incorporato e derivante già dalla sua qualificazione come bene culturale ai sensi dell’art. 10 D. Lgs. n. 42/04, ma anche la continuità dell’espressione culturale di cui la cosa costituisce testimonianza.
In base all’art. 7 bis è quindi possibile riconoscere, alle ivi indicate condizioni, rilievo e significato nel nostro ordinamento anche ai c.d. “beni culturali intangibili” (o “patrimonio culturale immateriale”), per il quale la ratio di tutela risiede nella ravvisata impossibilità di scindere la dimensione materiale da quella immateriale del bene culturale.
L’articolo 7 bis sottolinea la pregnanza della dimensione immateriale di tali beni, il cui valore culturale non risulta circoscrivibile solo al riferimento alla storia dell’arte e dell’architettura, in quanto essi costituiscono, nel loro insieme, un punto di riferimento identitario per la comunità e un veicolo di costruzione della memoria collettiva, sicché i diversi elementi, materiali e immateriali, che li compongono, traendo forza e sostanza dal legame inscindibile gli uni con gli altri, non possono essere separatamente considerati e tutelati.
5.5. Pertanto, in materia di protezione dei beni culturali ‘la tutela delle cose’ non può essere contrapposta alla ‘tutela delle attività’, laddove la cosa materiale vada salvaguardata e protetta non solo per la sua intrinseca consistenza (ovvero: per il suo valore strutturale ed estetico), ma anche per la sua connessione funzionale con una attività, un costume o una tradizione che le attribuiscono quella peculiare rilevanza artistica, storica e culturale.
5.6. Se dunque sono pur sempre le testimonianze materiali di tali espressioni culturali e identitarie ad essere assoggettate alla disciplina vincolistica, ciò può accadere, ove ricorrano le condizioni di legge, anche in virtù dei significati (immateriali) che esse rivestono per determinate “comunità, gruppi e individui interessati” (Convenzione UNESCO 2003, art. I, b).
In tali ipotesi, le forme di tutela non differiscono, come evidenziato, da quelle di cui all’art. 10 D.Lgs. 42/2004, cioè i procedimenti “autoritativi” ex art. 13 del Codice; altre forme di tutela, di tipo orizzontale e partecipativo, potranno coesistere con tali forme procedurali tipiche, ma mai escluderne l’applicabilità alle fattispecie contemplate dal più volte citato art. 7 bis.
La tutela integrata del patrimonio culturale comporta che, nell’ambito dei procedimenti di verifica e di dichiarazione di interesse culturale, rilevano anche i valori e gli elementi identitari, di memoria collettiva e di testimonianza storica di cui i beni culturali mobili e immobili sono espressione per determinati gruppi sociali e contesti culturali, congiuntamente all’interesse storico-artistico, architettonico e archeologico (come è stato rilevato nella circolare n. 20 del 26 luglio 2019 della Direzione generale, richiamata dal Ministero appellante).
- Conclusioni.
- La nozione di bene culturale, in una visione dinamica e moderna, deve essere intesa in senso ampio: essa, pur presupponendo res quae tangi possunt, può anche ricomprendervi un quid pluris di carattere immateriale.
6.1. A fronte di tale ampiezza di significato deve corrispondere la maggior estensione possibile, a legislazione vigente, delle forme di tutela previste dall’ordinamento, che consentano una protezione ‘elastica’ ed efficace al bene culturale, senza limitarsi alla sua consistenza materiale, ma considerandolo globalmente, per i valori culturali che esso esprime e reca in sé.
6.2. Il bene culturale viene così integralmente salvaguardato nell’insieme unitario e inscindibile dei suoi specifici aspetti: il valore culturale ‘estrinseco’, correlato a fatti della storia e della cultura, ma anche quello ‘intrinseco’, che, immedesimatosi con la cosa stessa, rende necessario tutelare non soltanto il ‘contenente’ ma anche il ‘contenuto’ del bene culturale, materiale o immateriale che esso sia.
6.3. Infatti, declinando i principi di diritto enunciati dalla Corte Costituzionale, la legislazione vincolistica non può che essere interpretata se non facendo riferimento al concetto di ‘compenetrazione’ del valore culturale con i beni che ne costituiscono il supporto materiale, trasformati, per l’effetto, nelle loro stesse intrinseche caratteristiche.
Pertanto, come l’avviamento di un’azienda non è un bene a sé stante, ma una sua qualità, che non può essere trasferita separatamente dall’azienda stessa e dal complesso di beni da cui questa è costituita, così in tali ipotesi, l’uso pregresso che contribuisce al valore culturale immateriale insito nella cosa non può venir meno, perché altrimenti andrebbe dispersa l’essenza del bene protetto e la sua stessa ragione di tutela.
6.4. Nel complesso di tali beni, tangibili e intangibili, si concretizza e si esplica anche l’“espressione di identità culturale collettiva”, tutelato dal Codice del 2004 per la conservazione del bene materiale e per la continua condivisione e trasmissione della manifestazione culturale di cui la cosa costituisce testimonianza.
Qualora un bene abbia il valore che gli è proprio anche per il collegamento con una determinata attività, la sola conservazione del bene materiale mediante il provvedimento di vincolo è condizione necessaria, ma non sufficiente per la sua adeguata protezione, in quanto la destinazione a un uso incompatibile o diverso da quello cui esso è stato nel tempo stabilmente destinato finirebbe per obliterare proprio il valore storico-culturale che è alla base del provvedimento di vincolo, vanificando gli interessi pubblici che ne sono alla base.
6.5. Un tale vincolo di destinazione può operare soltanto sul piano oggettivo, regolando l’uso della res, senza disporre alcun obbligo di prosecuzione dell’attività svolta né la riserva di una tale attività, a prescindere dagli accordi conclusi tra le parti, in favore dell’attuale gestore.
6.6. Così intesa, la previsione di un vincolo di destinazione finalizzata alla conservazione dell’uso del bene- riferito alla sola res e inidonea ad imporre obblighi di prosecuzione dell’attività o a riservarne soggettivamente la gestione – da un lato, non viola la libera iniziativa economica (stante l’assenza di obblighi di esercizio), dall’altro, limita in maniera proporzionata e ragionevole il diritto di proprietà, perché, senza svuotare le facoltà dominicali, ne assicura la funzione sociale per la tutela di interessi pubblici prevalenti, correlati alla salvaguardia ed alla conservazione del patrimonio culturale della Nazione.
Come ha già rilevato questo Consiglio (v. la sentenza n. 1933 del 2019), se è vero che l’attività dei «negozi storici» di per sé non può essere oggetto di vincolo culturale, quest’ultimo ben può essere apposto nei confronti degli immobili nei quale i suddetti negozi sono ospitati, in quanto in tal caso il valore culturale dei beni è ravvisabile nel collegamento del loro uso e della loro utilizzazione pregressi con accadimenti della storia e della civiltà.
La tutela può dunque essere estesa dal bene alla sua destinazione quando la rilevanza storico, artistica e culturale del bene sia anche la conseguenza dello svolgimento di una determinata attività.
6.7. L’art. 7 bis cit. ha dunque integrato il sistema di tutele tradizionali già previsto dalla normativa di settore, consentendo di tutelare anche le manifestazioni culturali immateriali, costituenti ‘espressioni di identità culturale collettiva’, in uno alle testimonianze materiali che le rappresentano.
Il relativo procedimento va seguito sia nel caso delle “espressioni di identità culturale collettiva” richiamate nell’articolo 7-bis (con espressione ignota alle convenzioni Unesco), sia in quello dei beni etnoantropologici materiali disciplinati dall’art. 10 del Codice, il cui interesse si definisce in virtù degli elementi immateriali che lo sostanziano, riconducibili al valore identitario e rappresentativo che i membri di una comunità gli attribuiscono, agli usi che ne vengono fatti, ai saperi, alle pratiche e alle conoscenze che la sua conservazione permette di tramandare.
A tal fine è necessaria, tuttavia, anche l’ulteriore condizione della loro “materializzazione” in una cosa che possa essere considerata (prima ancora che tutelata) come “bene” culturale, cioè come “oggetto” cui indirizzare l’attività amministrativa di tutela volta ad assicurarne la conservazione (oltre che, se di proprietà pubblica, la fruizione e la valorizzazione).
A differenza delle discipline legislative regionali aventi ad oggetto la salvaguardia e la valorizzazione dei locali storici o dei centri storici (cfr. legge Regione Lazio n. 31 del 6 dicembre 2001; l.r. Lazio n. 1/2022), tale forma di protezione del bene culturale (che fa leva sulla normativa sopravvenuta di cui all’art. 7 bis cit., in combinato disposto con l’art. 10 dello stesso Codice) non configura poi una tutela di tipo meramente merceologico e “promozionale”, volta a preservare e sostenere la sola tipologia di attività svolta in un determinato luogo, in ragione della sua rilevanza storico, artistica ed ambientale, ma completa il sistema ordinamentale interno disciplinato dal vigente Codice dei beni culturali e del paesaggio.
6.8. Nel ponderato contemperamento degli interessi coinvolti, la tutela dei beni culturali può comportare delle limitazioni alla libertà di impresa e alla proprietà privata (entrambe garantite dalla Costituzione nei limiti della loro funzione sociale), se del caso ponendosi in contrasto con tendenze del “mercato” al fine di “garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione” (art. 3, comma 1, del Codice).
Tuttavia, ciò non comporta una violazione dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, quando il provvedimento di vincolo non sia finalizzato a garantire in modo sviato la continuità d’uso a favore di un determinato gestore o volto a favorire una specifica attività imprenditoriale o commerciale: oggetto di tutela è l’interesse pubblico primario correlato alla protezione del bene culturale, che giustifica l’apposizione del vincolo di destinazione in ragione della funzione sociale della proprietà privata (Consiglio di Stato, 6 maggio 2008, n. 2009) e della preminenza del bene “cultura”.
Rientrano nel potere conformativo attribuito all’Amministrazione anche i c.d. locali storici che, oltre a qualificare spesso in maniera determinante il tessuto urbano del centro storico (che è l’“anima” di una città, alla continua ricerca del suo equilibrio, tra la conservazione del passato e l’elaborazione del nuovo), costituiscono un importante elemento di memoria storica e una testimonianza culturale, la cui tutela e valorizzazione concorre “a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio” (art. 1, comma 2).
All’esito di una adeguata istruttoria, il provvedimento di tutela deve, dunque, farsi carico di individuare le narrazioni, la memoria collettiva e le pratiche culturali che si sono incentrate storicamente intorno al bene culturale, materializzandosi nelle testimonianze costituite dagli oggetti ivi raccolti e conservati, che assumono particolari significati e valori identitari per la comunità; sicché la documentazione degli aspetti, materiali e immateriali, diventa funzionale alla più completa e olistica valutazione dell’interesse culturale del bene da tutelare, considerato nella sua globalità.
VII. Risposta ai quesiti
- In conclusione vanno enunciati i seguenti principi di diritto:
– ai sensi degli articoli 7 bis, 10, comma 3, lettera d), 18, comma 1, 20, comma 1, 21, comma 4, e 29, comma 2, del Codice n. 42 del 2004, il ‘vincolo di destinazione d’uso del bene culturale’ può essere imposto quando il provvedimento risulti funzionale alla conservazione della integrità materiale della cosa o dei suoi caratteri storici o artistici, sulla base di una adeguata motivazione da cui risulti l’esigenza di prevenire situazioni di rischio per la conservazione dell’integrità materiale del bene culturale o del valore immateriale nello stesso incorporato;
– ai sensi degli articoli 7 bis, 10, comma 3, lettera d), 18, comma 1, 20, comma 1, 21, comma 4, e 29, comma 2, del Codice n. 42 del 2004, il ‘vincolo di destinazione d’uso del bene culturale’ può essere imposto a tutela di beni che sono espressione di identità culturale collettiva, non solo per disporne la conservazione sotto il profilo materiale, ma anche per consentire che perduri nel tempo la condivisione e la trasmissione della manifestazione culturale immateriale, di cui la cosa contribuisce a costituirne la testimonianza.
Il giudizio va restituito alla Sezione remittente, ai sensi dell’art. 99, comma 4, cod. proc. amm., la quale dovrà decidere gli appelli sulla base dei principi di diritto enunciati.