CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA – sentenza 22 ottobre 2019 n. 10
GUIDA ALLA LETTURA
Si tratta di una interessante pronuncia che – al di là degli aspetti più strettamente di diritto commerciale (con peculiare riguardo alle fattispecie di fusione societaria) – afferma in modo perentorio la natura non punitiva e, dunque, potenzialmente retroattiva dell’ordine di bonifica, in un quadro di ormai risalente riconoscimento dell’”ambiente” quale bene nazionale ed europeo costituzionalmente presidiato che, in ipotesi di relativa aggressione dannosa, obbliga il responsabile al risarcimento del danno non già tanto e solo per equivalente, quanto piuttosto in forma (il più possibile) specifica.
(gb)
PRINCIPIO DI DIRITTO: la bonifica del sito inquinato può essere ordinata anche a carico di una società non responsabile dell’inquinamento, ma che sia ad essa subentrata per effetto di fusione per incorporazione, nel regime previgente alla riforma del diritto societario, e per condotte antecedenti a quando la bonifica è stata introdotta nell’ordinamento giuridico, i cui effetti dannosi permangano al momento dell’adozione del provvedimento.
E’ rimessa all’Adunanza plenaria la questione se possa essere destinataria di un ordine di bonifica di siti inquinati ai sensi dell’art. 244 del c.d. codice dell’ambiente (decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152) una società non responsabile di un inquinamento antecedente a quando la bonifica dei siti inquinati è stata prevista dalla legge, ma subentrata a quella responsabile per effetto di fusione per incorporazione nel regime antecedente alla riforma del diritto societario.
La pertinente risoluzione richiede di affrontare tre punti controversi, posti in rapporto di consecuzione logica, di seguito esposti: a) innanzitutto se la condotta di inquinamento ambientale commessa prima che nell’ordinamento giuridico fosse introdotta la bonifica dei siti inquinati sia qualificabile come illecito, fonte di responsabilità civile per il relativo autore, e in quale fattispecie normativa di quest’ultimo istituto il fatto possa essere inquadrato; b) quindi, in caso di risposta positiva al primo punto, quali siano i rapporti tra la figura di illecito così individuato e la bonifica e pertanto se, incontestata la discontinuità normativa tra i due istituti, sia nondimeno possibile ordinare la bonifica per fatti risalenti ad epoca antecedente alla relativa introduzione a livello legislativo; c) infine, ammessa l’ipotesi positiva per il secondo punto, se gli obblighi e le responsabilità conseguenti alla commissione dell’illecito siano trasmissibili per effetto di operazioni societarie straordinarie quale la fusione, secondo la legislazione civilistica vigente a quell’epoca vigente.
La risposta al quesito sub a) è nel senso che anche prima che nell’ordinamento giuridico venisse introdotta la bonifica, con l’art. 17 d.lgs. n. 22 del 1997, l’inquinamento ambientale era considerato un fatto illecito. Nel sostenere la tesi contraria la società appellante si pone in contrasto con acquisizioni pacifiche presso la dottrina e la giurisprudenza. Rimonta agli anni ’70 del secolo scorso ad opera della dottrina, in parallelo con l’affermarsi dello sviluppo urbanistico ed industriale ed il maturare in contrapposizione ad esso di una diffusa coscienza ecologica, l’elaborazione dell’ambiente come bene giuridico autonomo ed unitario, oggetto di protezione giuridica contro le aggressioni umane. L’emergere di questo “nuovo” bene giuridico nasce dall’opera di riduzione ad unità della legislazione dell’epoca, allora contraddistinta da normative di carattere settoriale poste a salvaguardia degli elementi costitutivi del paesaggio e delle bellezze naturali quali il suolo, l’aria e l’acqua, già oggetto sin da epoca antecedente alla Costituzione di tutela in altre forme e ad altri scopi, e cioè attraverso un regime di carattere essenzialmente conservativo proprio della tutela della tutela paesaggistica e culturale (in particolare con la legge 9 giugno 1939, n. 1497 – Protezione delle bellezze naturali; poi abrogata nel 1999). Alle caratteristiche tipiche della tutela conservativa tradizionale, essenzialmente incentrata sui vincoli alle attività umane a tutela del valore di bellezza naturale e paesaggistica del bene, si stava in quell’epoca di crescita industriale sviluppando per via legislativa un’azione di vigilanza, prevenzione e repressione delle condotte umane nocive per i singoli elementi costitutivi dell’ambiente sulla base di discipline normative di settore. Sulla base della descritta linea di tendenza è pertanto maturata presso la dottrina una nozione autonoma di quest’ultimo come bene giuridico, in funzione della relativa protezione contro pregiudizi in grado di tramutarsi in danno dello stesso “uomo aggressore”, con la privazione o il deterioramento irreversibile delle citate matrici ambientali fondamentali per la relativa esistenza. Nell’ambito di questa evoluzione del pensiero giuridico è stato quindi messo in luce che la qualificazione normativa di bene ambientale nasce dal riscontro delle relative, oggettive caratteristiche materiali, per cui l’atto giuridico (legge o provvedimento amministrativo) che tale lo qualifichi e ne istituisca il relativo regime di tutela ha natura dichiarativa, di accertamento di una qualità ad esso immanente; ed inoltre che rispetto alla considerazione unitaria del bene con finalità di tutela ambientale sono recessivi gli aspetti legati alla relativa composizione materiale (se cioè il bene sia composto a sua volta da un insieme di singole cose materiali) e al relativo regime dominicale, pubblico, collettivo o privato cui gli lo stesso è sottoposto, poiché l’elevazione a bene ambientale determina comunque una funzionalizzazione delle relative facoltà. L’elaborazione dottrinale ha trovato riscontro nella giurisprudenza di quell’epoca che, traendo fondamento dalla Costituzione, ed in particolare gli artt. 9 e 32, ha elevato l’ambiente a diritto individuale, tutelabile attraverso la tecnica della responsabilità civile extracontrattuale ex art. 2043 cod. civ., a fondamento della quale sta il precetto generale del neminem laedere; in parallelo si è sviluppata la tutela della proprietà contro immissioni intollerabili prevista dall’art. 844 cod. civ., intesa tuttavia secondo una logica non più meramente dominicale, ma in funzione del benessere dell’individuo e del relativo interesse personale a godere di un habitat naturale salubre ed incontaminato. Nella descritta temperie culturale il danno all’ambiente è stato infine positivizzato, con l’art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349 (Istituzione del Ministero dell’ambiente e norme in materia di danno ambientale), ora abrogato, che in assonanza con la fattispecie generale prevista dal poc’anzi citato art. 2043 cod. civ. ha tipizzato come fatto illecito «Qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte», fonte di obbligo per il relativo «autore» al risarcimento del danno a favore dello Stato (comma 1).
Come affermato dalla Corte costituzionale, con la nuova fattispecie di illecito ambientale si è avuto il recepimento a livello normativo della concezione dell’ambiente come «bene immateriale unitario sebbene a varie componenti, ciascuna delle quali può anche costituire, isolatamente e separatamente, oggetto di cura e di tutela; ma tutte, nell’insieme, sono riconducibili ad unità»; oggetto di considerazione legislativa «come elemento determinativo della qualità della vita» in relazione ad «un habitat naturale nel quale l’uomo vive ed agisce e che è necessario alla collettività e, per essa, ai cittadini, secondo valori largamente sentiti»; e pertanto elevato a bene protetto attraverso l’azione dei pubblici poteri «imposta anzitutto da precetti costituzionali (artt. 9 e 32 Cost.), per cui esso assurge a valore primario ed assoluto» (sentenza 31 dicembre 1987, n. 641, di rigetto delle questioni di costituzionalità della nuova fattispecie di danno ambientale nella parte in cui la relativa cognizione è stata devoluta al giudice ordinario anziché alla Corte dei conti). Nell’inquadrare il danno all’ambiente nel paradigma generale della responsabilità civile la Corte costituzionale ha poi precisato che l’art. 2043 cod. civ. «va posto in correlazione con la disposizione che prevede il bene giuridico tutelato attraverso la posizione del divieto primario. La sanzione risarcitoria è conseguenza della lesione della situazione giuridica tutelata. (…) Risultano rimedi a tutta la indefinita e sterminata serie degli eventi lesivi che l’uomo quotidianamente si inventa utilizzando anche, in maniera distorta e a proprio esclusivo vantaggio, il progresso tecnologico». La pronuncia ora richiamata si colloca nel solco della concezione dell’istituto della responsabilità civile extracontrattuale “aperta” ai valori costituzionali («rilettura costituzionale di tutto il sistema codicistico dell’illecito civile») espressa dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza 14 luglio 1986, n. 184, sul danno biologico. In base a tale concezione è considerato illecito civile ogni fatto ingiusto lesivo di beni giuridicamente tutelati, ivi compresi quelli per i quali il bisogno di protezione matura sulla base delle spinte emergenti «dall’esperienza, ispirata ai valori, personali, esplicitamente garantiti dalla Carta costituzionale». Sul piano tecnico-giuridico la tutela di questi “nuovi beni” viene consentita sulla base dell’atipicità della fattispecie prevista dall’art. 2043 cod. civ., imperniata sulla clausola generale del «danno ingiusto» provocato da «Qualunque fatto doloso o colposo»; e della relativa natura di norma secondaria o sanzionatoria: «obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno» (va ricordato che sulla base della stessa qualificazione dell’art. 2043 cod. civ. di norma secondaria o sanzionatoria è stata affermata la risarcibilità per equivalente dell’interesse legittimo, con la sentenza delle Sezioni unite civili della Cassazione del 22 luglio 1999, n. 500).
In base alla descritta concezione dell’illecito civile extracontrattuale si è poi escluso che l’art. 18 della legge n. 349 del 1986 abbia avuto portata innovativa sul piano della considerazione dell’ambiente come bene giuridico protetto. La fonte genetica della relativa tutela è stata invece individuata «direttamente nella Costituzione, considerata dinamicamente, come diritto vigente e vivente, attraverso il combinato disposto di quelle disposizioni (quali gli articoli 2,3,9,41 e 42) che concernono l’individuo e la collettività nel suo habitat economico, sociale, ambientale» (Cass. civ., III, 19 giugno 1996, n. 5650, di conferma della condanna al risarcimento dei danni subiti dai Comuni coinvolti nel disastro del Vajont, come noto avvenuto molti anni prima dell’entrata in vigore della legge n. 349 del 1986). Nella pronuncia ora richiamata la Suprema Corte ha invece individuato quale unico elemento di novità della fattispecie introdotta nel 1986 quello consistito nel definire il riparto di competenze nella tutela dell’ambiente tra Stato, enti territoriali ed associazioni di protezione ambientale. Ai rilievi svolti dalla Cassazione può aggiungersi che l’illecito così tipizzato ha sancito sul più generale piano sistematico la dimensione collettiva e super-individuale del danno all’ambiente, comprensivo di tutti i costi sociali conseguenti ad aggressioni dell’habitat naturale, consisenti in diseconomie esterne di produzione ed emergente, tra l’altro: – dal riferimento operato dal comma 5 dell’art. 18 l. n. 349 del 1986 al «costo necessario per il ripristino» per la determinazione del danno, nel caso di impossibilità di una sua «precisa quantificazione»; – e dalla previsione contenuta nel comma 8, per cui in caso di condanna è disposto «ove possibile, il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile».
Illuminanti rispetto alle caratteristiche del danno ambientale sono ancora una volta i passaggi motivazionali della sentenza della Corte costituzionale del 31 dicembre 1987, n. 641, in particolare laddove: si afferma che il danno risarcibile per l’illecito ambientale «è certamente patrimoniale, sebbene sia svincolato da una concezione aritmetico-contabile e si concreti piuttosto nella rilevanza economica che la distruzione o il deterioramento o l’alterazione o, in genere, la compromissione del bene riveste in sé e per sé e che si riflette sulla collettività la quale viene ad essere gravata da oneri economici»; e si precisa che l’ambiente, benché non sia «un bene appropriabile», nondimeno «si presta a essere valutato in termini economici e può ad esso attribuirsi un prezzo». Secondo la Corte costituzionale quest’ultimo corrisponde ai costi dell’azione pubblica di conservazione e tutela «tra cui quella di polizia che regolarizza l’attività dei soggetti e crea una sorveglianza sull’osservanza dei vincoli; la gestione del bene in senso economico con fine di rendere massimo il godimento e la fruibilità della collettività e dei singoli e di sviluppare le risorse ambientali». Su questa base – prosegue la Corte – è pertanto possibile «confrontare i benefici con le alterazioni; si può effettuare la stima e la pianificazione degli interventi di preservazione, di miglioramento e di recupero; si possono valutare i costi del danneggiamento. E per tutto questo l’impatto ambientale può essere ricondotto in termini monetari. Il tutto consente di dare all’ambiente e quindi al danno ambientale un valore economico». Dalle considerazioni svolte dalla Corte costituzionale emerge pertanto una funzione riparatoria dell’illecito ambientale non circoscritta alla sola differenza di valore del bene leso rispetto a quello che aveva prima del danno, secondo lo schema proprio del tipico illecito civile fonte lesivo di beni di carattere individuale, ma estesa a tutti costi necessari per ripristinare il complessivo pregiudizio inferto all’ecosistema naturale. Sotto il profilo ora evidenziato il danno all’ambiente risarcibile ai sensi dell’art. 18 l. n. 349 del 1986, anche attraverso una somma di denaro, assume pertanto i connotati della reintegrazione in forma specifica ex art. 2058 cod. civ. (in questi termini è la costante giurisprudenza di legittimità: cfr. Cass. civ., I, 3 luglio 1997, n. 5993; III, ord. 21 novembre 2017, n. 27546). Tuttavia, rispetto al rimedio di carattere generale previsto da quest’ultima disposizione, il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile previsto dal sopra citato comma 8 del medesimo art. 18 della legge istitutiva del Ministero dell’ambiente non soggiace al limite dell’eccesiva onerosità, ma solo a quello della possibilità, per cui sotto questo profilo la tutela dell’ambiente è rafforzata rispetto agli ordinari strumenti dell’illecito civile.
Chiarito pertanto che anche prima che venisse introdotto l’istituto della bonifica, con l’art. 17 del decreto legislativo n. 22 del 1997, il danno all’ambiente costituiva un illecito civile, previsto dall’art. 2043 cod. civ., si può passare pertanto ad esaminare il punto sub b) e dunque a stabilire i rapporti tra i due istituti. Come esposto in precedenza, l’ordinanza di deferimento della IV Sezione non ha inteso contestarne il rapporto di discontinuità normativa, affermato dalla V Sezione nel più volte ricordato precedente di cui alla sentenza del 5 dicembre 2008, n. 6055, sulla base di un’approfondita analisi strutturale delle norme ad esse relative. La Sezione rimettente ha invece proposto una diversa chiave di lettura di tali rapporti, incentrata sulla comune funzione «ripristinatoria-reintegratoria», della responsabilità civile e della bonifica, tale da consentire di ordinare quest’ultima per fenomeni di inquinamento risalenti ad epoca antecedente alla relativa introduzione nell’ordinamento giuridico. I rilievi svolti dalla Sezione rimettente sono corretti. L’art. 17 d.lgs. n. 22 del 1997 ha introdotto il rimedio della «messa in sicurezza», «bonifica» «ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti dai quali deriva il pericolo di inquinamento», nei confronti di situazioni anche solo di «pericolo concreto ed attuale» di superamento dei livelli di concentrazione di sostanze inquinanti – fissati con il regolamento di attuazione approvato con decreto interministeriale del 25 ottobre 1999, n. 471 – causate «anche in maniera accidentale» (comma 2), ed attribuito la competenza all’autorità amministrativa (commi 3 e seguenti). Lungi dal segnare una discontinuità con la precedente legislazione in materia, le misure in questione sono al contrario state poste in dichiarata concorrenza con esse, ai sensi dell’art. 18, comma 4, del citato regolamento approvato con d.m. n. 471 del 1999 (ora abrogato), secondo cui «E’ fatto comunque salvo l’obbligo di ripristino dello stato dei luoghi e di risarcimento del danno ambientale ai sensi dell’articolo 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349». Nel ravvisare sulla base degli elementi ora descritti, e di ulteriori, un’«assenza di continuità normativa» tra la disposizione introdotta nel 1997 e la figura generale di illecito civile, e nel concludere nel senso dell’impossibilità di applicare la prima in via retroattiva a fatti antecedenti alla relativa entrata in vigore, la V Sezione non ha quindi considerato nel precedente del 2008 che le (pur innegabili) differenze strutturali tra le due norme sono conseguenti non già all’introduzione di un nuovo fatto illecito, offensivo di un bene in precedenza non ritenuto meritevole di protezione ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., ma all’esigenza di rafforzare la tutela del bene ambiente, già oggetto di protezione legislativa con il rimedio previsto da quest’ultima disposizione e con la specifica disposizione dell’art. 18 della legge istitutiva del Ministero dell’ambiente. La citata disposizione regolamentare è nello specifico indice del fatto che tanto le misure introdotte con il decreto legislativo n. 22 del 1997, poi trasfuse nel codice dell’ambiente attualmente vigente, quanto il rimedio del risarcimento del danno già riconosciuto sulla base dell’art. 2043 cod. civ., e poi con la legge n. 349 del 1986, hanno la medesima funzione («ripristinatoria-reintegratoria») di protezione dell’ambiente. Le prime si pongono in particolare l’obiettivo di non limitare la tutela al solo equivalente monetario dei danni prodotti, come per il passato, ma di prevenirne la verificazione e, in caso contrario, di porre a carico del responsabile la rimozione e i relativi oneri. Come in precedenza accennato, la funzione di prevenzione è peraltro consustanziale alla generale azione dei pubblici poteri di tutela dell’ambiente. Essa emerge dall’evoluzione legislativa in materia, realizzatasi sulla spinta del diritto europeo e del principio cardine “chi inquina paga” (ora sancito a livello sovranazionale dall’art. 191 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea e dall’art. 3-ter del codice dell’ambiente di cui al d.lgs. n. 152 del 2006), con il quale si mira a fare ricadere i costi dei danni causati all’ambiente sui soggetti responsabili piuttosto che non sulla collettività e riparati con denaro pubblico, o su soggetti incolpevoli che nondimeno si trovano in una qualche relazione materiale o giuridica con il sito inquinato. Solo attraverso un’azione di tutela preventiva è infatti possibile impedire che danni all’ambiente si producano e che, dunque, accertate le relative responsabilità, debbano attivarsi tutte le procedure necessarie per rimuovere la situazione di pregiudizio, con il rischio di una loro inattuazione e dell’impossibilità di integrale riparazione per equivalente dei costi del ripristino. Oltre alla funzione preventiva, gli istituti introdotti a partire dal decreto legislativo n. 22 del 1997, su impulso della legislazione europea (in particolare della direttiva 2004/35/CE del 21 aprile 2004 – «sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale»), hanno quindi posto in rilievo l’esigenza di assicurare il ripristino ambientale, sulla base del rilievo, espresso nel considerando n. 13, che la responsabilità civile prevista dagli ordinamenti giuridici nazionali non sempre è «uno strumento adatto per trattare l’inquinamento a carattere diffuso e generale nei casi in cui sia impossibile collegare gli effetti ambientali negativi a atti o omissioni di taluni singoli soggetti». In questa direzione si collocano da ultimo le modifiche introdotte al codice dell’ambiente, ed in particolare all’art. 311, relativo all’«Azione risarcitoria in forma specifica» (così la rubrica), introdotte dalla legge europea 2013 (legge 6 agosto 2013, n. 97), incentrate nel loro complesso ad attribuire ad esso carattere prioritario ed invece subordinato alla tutela per equivalente, in funzione di una più efficace tutela dell’ambiente. Rispetto all’assetto originariamente prefigurato dalla legge istitutiva del Ministero dell’ambiente di equiordinazione tra i due rimedi, ripristinatorio e di reintegrazione per equivalente, la legislazione successiva ha così sancito la priorità del primo. Può pertanto ritenersi pacifico che le misure introdotte nel 1997, ed ora disciplinate dagli artt. 239 e ss. del codice di cui al d.lgs. n. 152 del 2006, hanno nel loro complesso una finalità di salvaguardia del bene ambiente rispetto ad ogni evento di pericolo o danno, nelle quali è assente ogni matrice di sanzione rispetto al relativo autore. Come inoltre puntualmente rilevato dalla Sezione rimettente tali misure non appartengano al «diritto lato sensu punitivo», sebbene per esse sia imprescindibile un accertamento di responsabilità (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., ord. 13 novembre 2013, nn. 21 e 25), ma si collocano invece nel tessuto connettivo formato dalla normativa ora menzionata. Se poi nemmeno l’appellante arriva a sostenere la tesi opposta, è sufficiente allora osservare che le misure in questione si concretizzano in obblighi di fare a carico del responsabile, sotto la vigilanza dell’amministrazione pubblica competente (attraverso l’approvazione del progetto di bonifica) con l’unico scopo di ripristinare la situazione di fatto antecedente all’inquinamento ambientale e di rimuoverne gli effetti. Come correttamente rilevato dalla IV Sezione nell’ordinanza di deferimento all’Adunanza plenaria, la bonifica costituisce in estrema sintesi «uno strumento pubblicistico teso non a monetizzare la diminuzione del relativo valore (in ciò sostanziandosi la tutela per equivalente), ma a consentirne il recupero materiale a cura e spese del responsabile della contaminazione». Sotto il profilo ora evidenziato si palesa pertanto nella bonifica la funzione di reintegrazione del bene giuridico «leso dall’illecito» (così ancora l’ordinanza di rimessione) propria della responsabilità civile e riecheggiante il rimedio della reintegrazione in forma specifica ex art. 2058 cod. civ., già espressamente previsto per il danno all’ambiente dall’art. 18, comma 8, della legge n. 349 del 1986 nella forma del «ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile», come in precedenza esposto. Sul punto va aggiunto che prima che fosse introdotta quest’ultima disposizione la fattispecie di carattere generale della reintegrazione in forma specifica ai sensi del medesimo art. 2058 cod. civ. doveva comunque ritenersi applicabile in virtù del rapporto di alternatività con il rimedio dell’equivalente monetario previsto in caso di fatto illecito dall’art. 2043 del codice civile. Inoltre, analogamente a quanto avvenuto in occasione dell’istituzione del Ministero dell’ambiente e della fattispecie di illecito relativo a tale bene, anche allorché è stata introdotta nell’ordinamento giuridico la bonifica di siti inquinati, con il più volte citato d.lgs. n. 22 del 1997, non è stato previsto il limite dell’eccessiva onerosità (previsto dal comma 2 dell’art. 2058). Si tratta nondimeno di una differenza che, lungi dal segnare l’incompatibilità tra il rimedio della bonifica dei siti inquinati rispetto all’istituto della responsabilità civile per fatto illecito e la relativa collocazione nella materia del diritto punitivo, si spiega invece alla luce del preminente valore assegnato dalla Costituzione all’ambiente nella gerarchia dei beni giuridici, sulla base dei già citati artt. 9 e 32 della Carta fondamentale, e della sopra evidenziata dimensione collettiva del danno a tale bene, rispetto ai pregiudizi riferibili alla sfera soggettiva del singolo. In senso conforme depone l’indagine condotta sulla base dei principi affermati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di diritto punitivo, in relazione al principio del ne bis in idem (sancito dall’art. 4 del Protocollo addizionale n. 7 alla Convenzione), secondo la quale a prescindere dalla formale qualificazione giuridica da parte del diritto nazionale occorre avere riguardo alla natura, scopo e gravità delle conseguenze sull’autore dell’illecito (cfr. la sentenza “capo stipite” dell’8 giugno 1976, Engel v. Paesi Bassi). A questo riguardo la Corte europea ha in particolare negato natura di sanzione penale alle misure che soddisfano pretese risarcitorie o che siano essenzialmente dirette a ripristinare la situazione di legalità e restaurare così l’interesse pubblico leso (sentenza 7 luglio 1989, Tre Traktörer Aktiebolag c. Svezia, citata dalla VI Sezione di questo Consiglio di Stato nella sentenza del 9 novembre 2018, n. 6330, nell’ambito di una più approfondita analisi della giurisprudenza convenzionale in materia, alla quale si fa rinvio).
Impostati in questi termini i rapporti tra i due istituti, l’indagine condotta sul piano della continuità normativa tra gli stessi si rivela errato nelle sue premesse. La tecnica di analisi dei rapporti tra norme ora richiamata è infatti propria del diritto penale o punitivo in generale, nel quale, per il carattere in sé afflittivo delle sanzioni in esso previste, domina il principio di legalità, che nella relativ dimensione diacronica si declina tra l’altro secondo i principi dell’irretroattività della norma incriminatrice o sanzionatoria e dell’applicazione della norma più favorevole in caso di successione di norme di tale natura (artt. 2 del codice penale e 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689 – Modifiche al sistema penale). La stessa tecnica non è invece riproducibile nel caso dell’illecito civile, in cui la reazione dell’ordinamento giuridico per il danno procurato è dominata dall’esigenza di assicurare la reintegrazione del bene giuridico leso. Va allora ribadito sul punto che nel caso del danno ambientale con l’introduzione degli obblighi di bonifica ad opera dell’art. 17 d.lgs. n. 22 del 1997 non si è estesa l’area dell’illiceità rispetto a condotte in precedenza considerate conformi a diritto, ma si sono ampliati i rimedi rispetto a fatti di aggressione dell’ambiente già considerati lesivi di un bene giuridico meritevole di tutela, con l’aggiunta rispetto alla reintegrazione per equivalente monetario già consentita in base agli artt. 2043 cod. civ. e 18 della legge n. 349 del 1986, ed in espressa concorrenza con quest’ultimo (secondo quanto previsto dal più volte citato art. 18, comma 4, d.m. n. 471 del 1999), degli obblighi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale dei siti inquinati. Deve al medesimo riguardo essere sottolineato che nemmeno vi è contestazione da parte della società appellante sul fatto che, come puntualmente rilevato dalla Sezione rimettente, la bonifica può essere ordinata a condizione che vi sia una situazione di inquinamento ambientale e che possa essere rimossa dal soggetto responsabile. Il rilievo ora svolto consente di lumeggiare il carattere permanente del danno ambientale, perdurante cioè fintanto che persista l’inquinamento (secondo la pacifica giurisprudenza di legittimità, da ultimo ribadita da Cass. civ., III, 19 febbraio 2016, n. 3259, 6 maggio 2015, n. 9012; nel medesimo senso può essere richiamata la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, tra cui si segnala la sentenza della VI Sezione del 23 giugno 2014, n. 3165). Da tale inquadramento si ricava pertanto la conseguenza che l’autore dell’inquinamento, potendovi provvedere, rimane per tutto questo tempo soggetto agli obblighi conseguenti alla propria condotta illecita, secondo la successione di norme di legge nel frattempo intervenuta: e quindi dall’originaria obbligazione avente ad oggetto l’equivalente monetario del danno arrecato, o in alternativa alla reintegrazione in forma specifica ex art. 2058 cod. civ., poi specificato nel «ripristino dello stato dei luoghi» ai sensi del più volte richiamato art. 18, comma 8, l. n. 249 del 1986, fino agli obblighi di fare connessi alla bonifica del sito secondo la disciplina attualmente vigente. Pertanto, diversamente da quanto affermato dalla V Sezione nella più volte menzionata sentenza del 5 dicembre 2008, n. 6055, non vi è luogo nel caso ora descritto ad alcuna retroazione di istituti giuridici introdotti in epoca successiva alla commissione dell’illecito, ma casomai all’applicazione da parte della competente autorità amministrativa degli istituti a protezione dell’ambiente previsti dalla legge al momento in cui si accerta una situazione di pregiudizio in atto.
Giunti a questa conclusione rimane da esaminare il punto controverso sub c), e cioè se gli obblighi ora enunciati possano essere posti a carico di un soggetto non qualificabile come responsabile dell’inquinamento, per non essere mai stato proprietario, né tanto meno avere mai gestito l’impianto industriale da cui è scaturito l’inquinamento, nel caso di specie fatto addirittura oggetto di trasferimento a terzi mediante cessione di ramo d’azienda prima della fusione per incorporazione, e che pertanto mai abbia potuto provvedere a rimuovere gli effetti di condotte illecite altrui sull’ambiente circostante. Il quesito richiede di affrontare le caratteristiche e gli effetti della fusione per incorporazione, nel regime antecedente alla riforma del diritto societario di cui al d.lgs. n. 6 del 2003, in cui si colloca la presente vicenda contenziosa e sulla cui base la Provincia di Asti ha emesso l’ordine di bonifica nei confronti della Alcatel-Lucent Italia, onde verificare se questa operazione straordinaria determini una cesura nel fenomeno successorio proprio del carattere permanente dell’illecito ambientale, come poc’anzi esposto. L’appellante sottolinea al riguardo che nel previgente regime «la società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società estinte»: art. 2504-bis cod. civ., nella versione antecedente alla citata riforma ed applicabile ai fatti di causa, quando l’appellante ha incorporato la S.I.E.T.T.E. (1991). Viene al riguardo evidenziato che in base alla legislazione all’epoca vigente non può essere compresa la bonifica, poiché introdotta nell’ordinamento successivo solo nel 1997. Sennonché a confutazione delle argomentazioni difensive ora sintetizzate è sufficiente richiamare le considerazioni svolte in sede di esame dei precedenti punti controversi, dalle quali si ricava che è in particolare errata la premessa su cui gli assunti della medesima società poggiano, ovvero che prima che la bonifica fosse introdotta a livello legislativo il danno ambientale non integrasse alcun illecito e che, quindi, la stessa non potrebbe essere ordinata per condotte antecedenti alla sua introduzione a livello legislativo. Né l’uno né l’altro rilievo sono corretti, posto che il danno all’ambiente è inquadrabile nella fattispecie generale di illecito civile ex art. 2043 cod. civ. e che la relativa natura di illecito permanente consente di ritenere il relativo responsabile soggetto agli obblighi, risarcitori ed in primis di reintegrazione o ripristino dello stato dei luoghi, da esso derivanti. In altri termini, allorché la situazione di danno all’ambiente si protragga in un arco di tempo in cui per effetto della successione di norme di legge al rimedio risarcitorio si aggiunga quello della bonifica, nessun ostacolo di ordine giuridico è ravvisabile ad applicare quest’ultima ad un soggetto che, pur non avendo commesso la condotta fonte del danno, sia nondimeno subentrato a quest’ultimo. Ciò che occorre a questo punto chiarire e se gli obblighi in questione siano trasmissibili in virtù di fusione per incorporazione dalla società responsabile del danno incorporata alla società incorporante. Al quesito ora posto non può che essere data risposta positiva proprio sulla base del tenore letterale del poc’anzi richiamato art. 2504-bis, comma 1, cod. civ., che include espressamente nella vicenda traslativa in questione «gli obblighi delle società estinte», ovvero di quelle incorporate (analoga formulazione reca peraltro la medesima disposizione dopo la riforma del diritto societario, con la sola differenza che in luogo delle società estinte si fa riferimento alle «società partecipanti alla fusione» e al fatto che in tutti i rapporti giuridici di queste ultime, anche quelli processuali, vi è una “prosecuzione” dell’incorporante). Con riguardo al previgente regime, nel senso che negli obblighi dell’incorporata di cui l’incorporante diviene l’unico obbligato a seguito di fusione rientrano anche quelli derivanti da responsabilità civile si è espressa la Cassazione (Sezione III civile, sentenza 11 novembre 2015, n. 22998, in un caso di responsabilità da cose in custodia ex art. 2051 cod. civ.). Sul piano dogmatico la conclusione è avvalorata dal fatto che “responsabilità civile” è espressione che designa l’insieme delle conseguenze cui un soggetto deve sottostare per legge in conseguenza di un fatto illecito da lui commesso, che nel caso dell’illecito civile consistono nell’«obblig(o) (…) a risarcire il danno» o nell’alternativa della «reintegrazione in forma specifica», anch’essa pertanto oggetto di obbligo, rispettivamente ai sensi dei più volte richiamati artt. 2043 e 2058 del codice civile, oltre che della più generale norma contenuta nell’art. 1173 cod. civ., che pone il fatto illecito tra le fonti di obbligazione. La successione dell’incorporante negli obblighi dell’incorporata è espressione del principio espresso dal brocardo cuius commoda eius et incommoda, cui è informata la disciplina delle operazioni societarie straordinarie, tra cui la fusione, anche prima della riforma del diritto societario, per cui alla successione di soggetti sul piano giuridico-formale si contrappone nondimeno sul piano economico-sostanziale una continuazione dell’originaria impresa e della sottostante organizzazione aziendale. Anche prima che venisse sancito il carattere evolutivo-modificativo di quest’ultimo tipo di operazione era infatti indubbio che l’ente societario subentrato a quello estintosi per effetto dell’incorporazione acquisiva il patrimonio aziendale di quest’ultimo, di cui sul piano contabile fanno parte anche le passività, ovvero i debiti inerenti all’impresa esercitata attraverso la società incorporata. Nel sancire la natura evolutivo-modificativo della fusione la riforma del diritto societario ha pertanto inteso superare quella artificiosa concezione antropomorfista accolta nel codice civile e radicatasi presso la giurisprudenza civile dell’epoca antecedente alla riforma del diritto societario, tendente a dare rilievo preminente al dato formale della personalità giuridica riconosciuta alle società di capitali, che secondo la migliore dottrina commercialistica ha invece carattere strumentale rispetto al regime giuridico di separazione dei patrimoni e delle responsabilità della società rispetto ai soci. Nella critica alla concezione tradizionale si era in particolare evidenziato che pur in presenza di una vicenda intrinsecamente contraddistinta da una prospettiva di continuità dell’impresa si faceva nondimeno ricorso all’istituto delle successioni mortis causa per trarre le regole giuridiche applicabili al caso di specie, tra cui in particolare: sul piano sostanziale, il principio per cui ogni atto deve essere indirizzato al nuovo ente, unico centro di imputazione giuridica per i debiti dei soggetti definitivamente estinti per effetto della fusione (cfr. ex multis: Cass. civ., I, 22 settembre 1997, n. 9349, 11 giugno 2003, n. 9355); sul piano processuale, le norme relative all’interruzione e alla successione nel processo, ex artt. 110 e 299 e ss. cod. proc. civ. per il caso di fusione avvenuta in corso di causa. La volontà innovatrice della riforma del diritto societario rispetto al descritto assetto si coglie appunto nel riferimento testuale del nuovo art. 2504-bis cod. civ. al fatto che oltre ad “assumere” i diritti e gli obblighi delle incorporate la società incorporante prosegue «in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione». Lo stesso fondamento logico ricavabile dal principio cuius commoda eius et incommoda è poi alla base: – dell’analoga disciplina prevista nella fattispecie della cessione di azienda (sull’analogia con la fusione per incorporazione cfr. le sentenze di questa Adunanza plenaria del 4 maggio 2012, n. 10, e del 7 giugno 2012, n. 21), con la sola particolarità che in questo caso la successione dell’acquirente nei debiti inerenti all’azienda è limitata a quelli risultanti dai libri contabili obbligatori (art. 2560, comma 2, cod. civ.); – dell’opposta regola, per cui non vi è successione nel debito, in caso di estinzione della società, conseguente alla relativa cancellazione dal registro delle imprese, con efficacia costitutiva ai sensi dell’art. 2495, comma 2, cod. civ., laddove sulla base dell’art. 2456 cod. civ., nella versione antecedente alla riforma del diritto societario, la giurisprudenza di legittimità era invece orientata per la sopravvivenza della società in caso di rapporti non esauriti: Cass. civ., II, 4 ottobre 1999, n. 11201; – del pari, anche in caso di fallimento, il quale non dà luogo ad alcuna successione della procedura concorsuale rispetto alla società in bonis e che ha invece la funzione di gestione e liquidazione della massa attiva aziendale al fine del soddisfacimento concorsuale dei creditori (in questi termini, con riguardo al caso, per plurimi aspetti analogo a quello oggetto del presente giudizio, di un provvedimento di messa in sicurezza di un sito inquinato, si rinvia a Cons. Stato, IV, 4 dicembre 2017, n. 5668; più in generale: Cass. civ., SS.UU, 20 febbraio 2013, n. 4213; I, 7 luglio 2015, n. 14054).
Ritornando al caso della fusione per incorporazione, qui in discussione, deve precisarsi che l’effetto suo tipico della successione negli obblighi della società incorporata, già sancito nella previgente formulazione dell’art. 2504-bis cod. civ., non è impedito dal fatto che l’accertamento dell’illecito ambientale possa eventualmente essere successivo all’operazione straordinaria di fusione, come nel caso di specie. Infatti, anche quando funge da presupposto di un provvedimento amministrativo come quello che ordina la bonifica oggetto del presente giudizio, e che dunque modificando la realtà giuridica costituisce obblighi a carico del destinatario del provvedimento, l’accertamento del danno all’ambiente risale per sua natura all’epoca della sua commissione. Alla successione nell’obbligo non osta inoltre il fatto che lo stabilimento industriale da cui è provenuto l’inquinamento oggetto dell’ordine di bonifica impugnato nel presente giudizio non sia mai stato acquistato dalla società odierna appellante, ma – come questa sottolinea – sia stato in epoca precedente alla fusione per incorporazione della società responsabile dell’inquinamento fatta oggetto di cessione di ramo d’azienda a terzi. Come infatti statuito dalla Sezione rimettente nella sentenza non definitiva coeva all’ordinanza di rimessione, in base all’art. 2560, comma 1, cod. civ. la cessione d’azienda non libera il cedente dei debiti dallo stesso contratti, tra cui quelli da fatto illecito civile. Rispetto a quanto finora considerato può aggiungersi che la successione sul piano civilistico negli obblighi inerenti a fenomeni di contaminazione di siti e di inquinamento ambientale in caso di operazioni societarie contraddistinte dalla continuità dell’impresa pur a fronte del mutamento formale del centro di imputazione giuridica consente di assicurare una miglior tutela dell’ambiente. Come infatti evidenziato in sede di discussione dalla difesa della contro interessata, attraverso l’istituto elaborato dalla prassi commerciale della due diligence è possibile per il soggetto interessato all’acquisto di un complesso aziendale venire a conoscenza del fenomeno da parte del cedente, autore dei fatti e di concordare sul piano negoziale strumenti in grado di riversare su quest’ultimo le relative conseguenze sul piano economico (ad esempio: attraverso garanzie per sopravvenienze passive), o altrimenti avvalersi dei rimedi civilistici per la responsabilità del medesimo cedente per omessa informazione.Come poi evidenzia la Sezione rimettente, la tesi contraria alla successione consentirebbe una facile elusione degli obblighi maturati nel corso della gestione di una società. Anche per questo ordine di rilievi la Corte di giustizia dell’Unione europea ha infatti stabilito in materia il principio per cui la fusione mediante incorporazione comporta la trasmissione alla società incorporante dell’obbligo di pagare l’ammenda inflitta con decisione definitiva successivamente a tale fusione per infrazioni al diritto del lavoro commesse dalla società incorporata precedentemente alla fusione stessa (sentenza 5 marzo 2015, C-342/13).