Corte Costituzionale, sentenza 19 febbraio 2024, n. 19
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 83 della legge della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), limitatamente alle parole «e, comunque, in misura non inferiore all’ottanta per cento del costo teorico di realizzazione delle opere e/o lavori abusivi desumibile dal relativo computo metrico estimativo e dai prezzi unitari risultanti dai listini della Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura della provincia, in ogni caso, con la sanzione minima di cinquecento euro».
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE (sintesi massimata)
1.– Il TAR Lombardia, sezione staccata di Brescia, sezione prima, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione agli artt. 146 e 167, comma 5, cod. beni culturali.
La disposizione censurata stabilisce che «[l]’applicazione della sanzione pecuniaria, prevista dall’articolo 167 del D.Lgs. n. 42/2004, in alternativa alla rimessione in pristino, è obbligatoria anche nell’ipotesi di assenza di danno ambientale e, in tal caso, deve essere quantificata in relazione al profitto conseguito e, comunque, in misura non inferiore all’ottanta per cento del costo teorico di realizzazione delle opere e/o lavori abusivi desumibile dal relativo computo metrico estimativo e dai prezzi unitari risultanti dai listini della Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura della provincia, in ogni caso, con la sanzione minima di cinquecento euro».
Nel giudizio a quo è impugnato il provvedimento con cui il Comune di Mantova, dopo avere accertato la compatibilità paesaggistica di opere realizzate senza autorizzazione in un complesso industriale sito in un’area parzialmente assoggettata a vincolo paesaggistico, ha irrogato al trasgressore (Cartiere Villa Lagarina spa) la sanzione pecuniaria prevista all’art. 167, comma 5, cod. beni culturali. L’importo della sanzione, in assenza di un danno ambientale, è stato commisurato all’ottanta per cento del costo teorico di costruzione delle opere abusive, previa perizia di stima, in applicazione del criterio introdotto dall’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005.
La questione di legittimità costituzionale investe la parte della disposizione regionale che stabilisce la misura della sanzione, secondo le modalità indicate dalla stessa disposizione, con previsione di un minimo inderogabile di cinquecento euro.
Il giudice a quo ritiene che il legislatore regionale, adottando una disposizione difforme da quella stabilita dall’art. 167 cod. beni culturali, abbia invaso la competenza legislativa in materia di «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», attribuita in via esclusiva allo Stato dall’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.
A suo avviso, le norme di cui alla Parte terza del codice dei beni culturali e del paesaggio, nel cui ambito è contenuta la disciplina dell’autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146 dello stesso codice, perseguono scopi di conservazione dei beni paesaggistici, alla realizzazione dei quali sarebbero preordinate anche le sanzioni – sia ripristinatorie, sia pecuniarie – previste dall’art. 167 cod. beni culturali, in quanto dirette a scoraggiare interventi eseguiti su aree paesaggisticamente tutelate prima che l’autorità amministrativa si sia pronunciata sui relativi progetti.
Pertanto, rientrando la disciplina delle sanzioni per la violazione del citato art. 146 cod. beni culturali nella potestà legislativa esclusiva dello Stato, sarebbe precluso alle regioni di introdurre sanzioni ulteriori o diverse, anche solo nel quantum, rispetto a quelle fissate dalla legge statale.
2.– In via preliminare, si deve innanzi tutto escludere che influisca sull’ammissibilità della questione il fatto che questa Corte, con l’ordinanza n. 22 del 2023, abbia definito con una pronuncia di inammissibilità un’identica questione incidentale, sollevata dallo stesso giudice rimettente nel corso di una controversia analoga, vertente tra le stesse parti.
2.1.– L’inammissibilità è stata dichiarata, in quella pronuncia, per avere «il giudice a quo […] già deciso i due unici motivi di ricorso, respingendoli entrambi, con la conseguenza che, all’atto della rimessione della questione, la sua potestas iudicandi si era già esaurita»: da qui il difetto di rilevanza, «non residuando in capo al rimettente alcuno spazio di decisione, nel cui ambito soltanto potrebbe trovare applicazione la norma della cui legittimità costituzionale il giudice stesso dubita».
Una tale pronuncia, di carattere processuale, non preclude la riproposizione della questione in un diverso giudizio, in quanto non comporta alcun effetto impeditivo nei confronti di successive censure, pure analoghe, relative alla stessa norma (sentenza n. 99 del 2017).
Nell’odierno giudizio a quo, infatti, il rimettente non ha esaurito la potestas iudicandi, in quanto, dopo avere accertato l’infondatezza dei primi due motivi di ricorso, deve ancora decidere in ordine al terzo, con il quale l’illegittimità del provvedimento impugnato è fatta derivare dalla (eccepita) illegittimità costituzionale della sua base normativa.
Sotto questo profilo, dunque, la questione è ammissibile.
2.2.– La Regione Lombardia ha eccepito il difetto di rilevanza sotto plurimi profili. In primo luogo, perché nel giudizio a quo si controverte della quantificazione della sanzione amministrativa, tema che «ben p[otrebbe] trovare soluzione indipendentemente dall’applicazione della normativa regionale».
L’eccezione non è fondata. Tale assertiva affermazione non considera che, come riferisce il rimettente, il provvedimento impugnato nel giudizio a quo ha determinato l’entità della sanzione esclusivamente sulla base del criterio previsto dall’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 (id est, «in misura non inferiore all’ottanta per cento del costo teorico di realizzazione delle opere e/o lavori abusivi»), sul presupposto dell’assenza di un danno ambientale. Di conseguenza, non si vede come la definizione della controversia sul quantum potrebbe prescindere dall’applicazione della norma regionale censurata.
In secondo luogo, ad avviso della difesa regionale, il rimettente non avrebbe fornito elementi idonei a ricostruire né il procedimento amministrativo avviato dal Comune di Mantova per calcolare la sanzione, né la valutazione tecnica posta a base della perizia di stima «effettuata dal consulente della società», limitandosi a «indicare i diversi criteri adottati e gli esiti dell’applicazione di tali criteri raggiunti nelle rispettive valutazioni», senza rendere noti gli elementi posti a base delle «differenti quantificazioni». Il rimettente, inoltre, avrebbe verificato la rilevanza in astratto, limitandosi ad affermare che il profitto conseguito è «di regola inferiore all’80% del costo di costruzione», senza neppure considerare la possibilità di interpretare la norma in senso costituzionalmente orientato.
Va premesso che con queste argomentazioni la Regione contesta, piuttosto, un difetto di motivazione sulla rilevanza, che non sussiste.
Le lacune lamentate, peraltro non tutte di agevole comprensione (specie dove l’interveniente allude a una perizia di parte e a non meglio precisate «differenti quantificazioni»), non sono comunque idonee a dimostrare la mancanza dei requisiti minimi di ammissibilità della questione.
Il TAR, infatti, motiva in modo non implausibile sull’applicabilità della norma censurata nel giudizio a quo. L’ordinanza di rimessione contiene chiari riferimenti all’accertamento di compatibilità paesaggistica e al conseguente provvedimento sanzionatorio adottato ai sensi dell’art. 167 cod. beni culturali, precisando che la sanzione è stata determinata sulla base del criterio introdotto dall’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, alla cui stregua, in assenza di un danno ambientale, la sanzione è comunque quantificata nella misura minima dell’ottanta per cento del costo teorico di realizzazione delle opere abusive, previa perizia di stima.
È dunque illustrato in modo esaustivo il nesso esistente tra la norma censurata e il provvedimento sottoposto alla cognizione del rimettente, il quale, lungi dall’aver esaminato la rilevanza in astratto, ha verificato come, in concreto, solo la caducazione di tale norma (e, con essa, il venir meno del rigido criterio legale di quantificazione minima dell’importo dovuto dal trasgressore) potrebbe condurre all’annullamento della sanzione e consentire l’eventuale rideterminazione di quest’ultima nel minor importo indicato dalla ricorrente nel processo principale.
Quanto al rilievo concernente il mancato tentativo di interpretazione conforme a Costituzione, è sufficiente osservare che il giudice a quo ha accolto non implausibilmente una piana lettura della norma regionale, secondo cui essa introduce un criterio di calcolo non previsto dalla norma statale interposta, mentre la Regione ipotizza che tale difformità non leda effettivamente la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia ambientale: ciò che attiene al merito della questione.
3.– Prima di esaminare il merito, va ricostruito il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento.
3.1.– L’art. 167 cod. beni culturali, sotto la rubrica «Ordine di rimessione in pristino o di versamento di indennità pecuniaria», al comma 1 prevede che, «[i]n caso di violazione degli obblighi e degli ordini previsti dal Titolo I della Parte terza, il trasgressore è sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese, fatto salvo quanto previsto al comma 4».
Per regola generale, dunque, le opere realizzate senza autorizzazione paesaggistica, in violazione dell’art. 146 cod. beni culturali (disposizione contenuta nel Titolo I della Parte terza del codice), non sono suscettibili di “sanatoria”, tramite il pagamento di una somma di denaro, ma comportano l’applicazione della sanzione di carattere reale della riduzione in pristino.
Le uniche deroghe alla sanzione ripristinatoria reale sono contemplate al comma 4 dello stesso art. 167, secondo cui l’autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica dopo la realizzazione delle opere (onde tale accertamento viene comunemente definito “postumo”) nei seguenti casi tassativi:
- a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
- b) per l’impiego di materiali in difformità dall’autorizzazione paesaggistica;
- c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell’art. 3 t.u. edilizia.
In queste ipotesi, il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile o dell’area è ammesso a presentare domanda di accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi (comma 5, primo periodo).
L’autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni (comma 5, secondo periodo).
Qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione (comma 5, terzo periodo).
L’importo della «sanzione pecuniaria» è determinato previa perizia di stima (comma 5, quarto periodo).
In caso di rigetto della domanda si applica la sanzione demolitoria di cui al comma 1 (comma 5, quinto periodo).
A tale disciplina si raccorda l’art. 146 cod. beni culturali, alla cui stregua, «[f]uori dai casi di cui all’articolo 167, commi 4 e 5, l’autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi» (comma 4, secondo periodo).
Questo assetto normativo è il risultato della modifica introdotta dall’art. 27, comma 1, del decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 157 (Disposizioni correttive ed integrative al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, in relazione al paesaggio), che ha integralmente sostituito l’art. 167 cod. beni culturali.
Il previgente comma 1 di tale ultima disposizione prevedeva, infatti, che «[i]n caso di violazione degli obblighi e degli ordini previsti dal Titolo I della Parte terza, il trasgressore è tenuto, secondo che l’autorità amministrativa preposta alla tutela paesaggistica ritenga più opportuno nell’interesse della protezione dei beni indicati nell’articolo 134, alla rimessione in pristino a proprie spese o al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione. La somma è determinata previa perizia di stima».
Il trattamento delle violazioni degli obblighi e degli ordini a tutela del paesaggio era dunque caratterizzato, prima della novella del 2006, dalla titolarità in capo all’amministrazione del potere di scegliere in ogni caso fra ripristino dello status quo ante e pagamento di una somma di denaro. Ciò, in linea con quanto precedentemente disposto, in termini sostanzialmente identici, prima dall’art. 15 della legge 29 giugno 1939, n. 1497 (Protezione delle bellezze naturali), poi dall’art. 164 del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell’articolo 1 della legge 8 ottobre 1997, n. 352).
La modifica del 2006 ha dunque significativamente innovato rispetto al nucleo essenziale di una disciplina risalente nel tempo, prevedendo che l’amministrazione non abbia più la descritta possibilità di scegliere fra riduzione in pristino e misura pecuniaria, nonché relegando quest’ultima ad alcune fattispecie abusive minori, previo accertamento della loro compatibilità paesaggistica.
Ciò premesso, a venire qui in rilievo sono, nel caso in cui sopravvenga l’accertamento “postumo” di compatibilità paesaggistica, i criteri di calcolo della somma dovuta dal trasgressore, che il legislatore statale ha individuato nel «maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione».
3.1.1.– La rubrica dell’art. 167 cod. beni culturali parla di «indennità pecuniaria» in relazione all’importo che il trasgressore è tenuto a pagare, una volta accertata la compatibilità paesaggistica degli interventi.
Il medesimo art. 167 è peraltro inserito nel Capo II del Titolo I della Parte quarta del codice dei beni culturali e del paesaggio, dedicato alle «Sanzioni relative alla Parte terza» dello stesso codice.
Inoltre, il comma 5 dell’art. 167 prevede, come già detto, che l’importo della «sanzione pecuniaria» sia determinato previa perizia di stima.
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, non si tratta di una forma di risarcimento del danno, ma di una sanzione amministrativa applicabile a prescindere dalla concreta produzione di un danno ambientale. Nella previsione normativa, il danno viene in considerazione solo come criterio di commisurazione della sanzione – in alternativa al profitto conseguito – e non come parametro che ne condiziona l’an. L’assenza di un danno ambientale non ostacola, dunque, il potere sanzionatorio, ma assume rilievo sotto il profilo della quantificazione dell’importo dovuto, che sarà ragguagliata al solo profitto conseguito (tra le molte, Consiglio di Stato, sezione seconda, sentenza 30 ottobre 2020, n. 6678, sentenza 25 luglio 2020, n. 4755, sentenza 4 maggio 2020, n. 2840; sezione sesta, sentenza 8 gennaio 2020, n. 130).
Lo stesso costante orientamento giurisprudenziale qualifica la misura in esame come sanzione riparatoria alternativa al ripristino dello status quo ante. A tal riguardo, il Consiglio di Stato osserva che, «proprio in funzione della sua natura di carattere ripristinatori[o] alternativa alla demolizione», la sanzione «viene ragguagliata “al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione” e, in base all’art. 167 del d.lgs. 42 del 2004, le somme “sono utilizzate per finalità di salvaguardia, interventi di recupero dei valori ambientali e di riqualificazione delle aree degradate”» (Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenze 30 giugno 2023, n. 6380 e n. 6381; nello stesso senso, tra le molte, Consiglio Stato, sezione prima, parere definitivo 18 maggio 2022, n. 877; sezione seconda, sentenza 30 ottobre 2020, n. 6678).
3.1.2.– Come si è visto, l’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 è censurato dal giudice a quo nel testo, attualmente in vigore, introdotto dall’art. 27, comma 1, della legge reg. Lombardia n. 17 del 2018.
Il testo anteriore alla modifica era il seguente: «1. L’applicazione della sanzione pecuniaria, prevista dall’articolo 167 del D.Lgs. 42/2004, in alternativa alla rimessione in pristino, è obbligatoria anche nell’ipotesi di assenza di danno ambientale e, in tal caso, deve essere quantificata in relazione al profitto conseguito e, comunque, in misura non inferiore a cinquecento euro».
Nella versione originaria, l’art. 83 si limitava dunque a prevedere, nella sostanza, che la sanzione si dovesse applicare anche in assenza di danno e fosse in tal caso determinata esclusivamente sulla base del profitto conseguito dal trasgressore. Previsione che era già desumibile dall’art. 167 cod. beni culturali nell’interpretazione accolta dalla richiamata giurisprudenza amministrativa, secondo cui l’assenza di un danno ambientale non ostacola il potere sanzionatorio, ma assume rilievo sotto il profilo della commisurazione della sanzione, che sarà ragguagliata al solo profitto conseguito. Si aggiungeva, peraltro, una misura minima non inferiore «comunque» a cinquecento euro.
Con la modifica introdotta dal citato art. 27, comma 1, della legge reg. Lombardia n. 17 del 2018 è stato mantenuto il minimo inderogabile di cinquecento euro, ma, per determinare la sanzione pecuniaria in caso di assenza di danno ambientale, si è aggiunto l’ulteriore criterio parametrato al costo teorico di realizzazione degli interventi abusivi, da desumere nei modi indicati dalla medesima disposizione. In quest’ultima versione, l’art. 83 è interpretabile nel senso che la nuova misura percentuale pari all’ottanta per cento di detto costo (che non può «in ogni caso» scendere al di sotto di cinquecento euro, in forza della previsione di chiusura) si applicherà sia nel caso in cui il «profitto conseguito» dal trasgressore risulti inferiore ad essa o di incerta quantificazione, sia nel caso in cui anche il profitto, come il danno ambientale, non sussista.
4.– Ciò premesso, la questione è fondata.
4.1.– Da un lato, la misura prevista dall’art. 167, comma 5, cod. beni culturali costituisce, come si è detto, una sanzione amministrativa pecuniaria di natura riparatoria.
D’altro lato, non è dubitabile che la norma regionale censurata incida sulla determinazione del quantum di tale sanzione.
Per costante giurisprudenza di questa Corte, «la competenza a prevedere sanzioni amministrative non costituisce materia a sé stante, ma “accede alle materie sostanziali” […] alle quali le sanzioni si riferiscono, spettando dunque la loro previsione all’ente “nella cui sfera di competenza rientra la disciplina la cui inosservanza costituisce l’atto sanzionabile […]» (sentenza n. 121 del 2023; nello stesso senso, sentenze n. 201 del 2021, n. 84 del 2019, n. 148 e n. 121 del 2018, n. 90 del 2013 e n. 271 del 2012).
Si tratta quindi di verificare quale sia la materia a cui si riferisce la sanzione e se in tale materia la competenza legislativa spetti allo Stato o alle regioni.
Sulla base del quadro normativo ricostruito in precedenza, la sanzione consegue alla realizzazione di lavori rientranti nei casi tassativi indicati al comma 4 dell’art. 167 cod. beni culturali, per i quali sia intervenuto l’accertamento “postumo” di compatibilità paesaggistica di cui al successivo comma 5.
L’atto sanzionabile è costituito, dunque, dall’inosservanza della disciplina relativa alla tutela del vincolo paesaggistico-ambientale, e segnatamente dall’inosservanza delle norme che regolano l’autorizzazione paesaggistica, la quale, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, deve essere annoverata tra gli istituti di protezione ambientale uniformi, validi in tutto il territorio nazionale (tra le molte, sentenze n. 201 del 2021, n. 246 del 2017, n. 238 del 2013 e n. 101 del 2010).
In ragione di ciò, la disciplina sostanziale cui si riferisce la sanzione pecuniaria in esame deve necessariamente ascriversi alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., stante l’esistenza di un evidente interesse unitario alla tutela del paesaggio e a un eguale trattamento in tutto il territorio nazionale della tipologia di abusi paesaggistici suscettibili di accertamento di compatibilità.
Si è già chiarito che la quantificazione della sanzione, in caso di assenza di danno ambientale, nella misura non inferiore all’ottanta per cento del costo teorico di costruzione «delle opere e/o lavori abusivi», con il minimo inderogabile di cinquecento euro, non è prevista dalla disciplina adottata dallo Stato nell’esercizio della sua competenza legislativa esclusiva; in particolare, non è prevista dall’art. 167 cod. beni culturali.
Le ineludibili esigenze di uniformità di trattamento appena evidenziate impediscono al legislatore regionale di intervenire con norme difformi dalle previsioni statali di tutela paesaggistica in senso stretto (sentenza n. 201 del 2021), come quelle che disciplinano l’inosservanza del regime autorizzatorio.
4.2.– La Regione si difende sostenendo che la potestà legislativa statale non sarebbe violata, in quanto il censurato art. 83 non si porrebbe «in contraddizione» con essa, né ridurrebbe i livelli di tutela dell’ambiente, limitandosi a colmare una lacuna della norma statale, che ne vanificherebbe l’applicazione nei casi di opere abusive non recanti alcun danno e dalle quali non deriva alcun profitto per il trasgressore. Il legislatore regionale, in altri termini, avrebbe completato «l’apparato di tutela di cui al D. Lgs. n. 42/2004».
L’argomento non è condivisibile.
La norma regionale non è censurata perché avrebbe arrecato un vulnus alla tutela del paesaggio, ma per violazione della competenza legislativa statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. Pertanto, la tesi difensiva volta ad escludere che il legislatore regionale abbia ridotto i livelli di tutela ambientale non è conferente.
Quanto al dedotto completamento «[del]l’apparato di tutela di cui al D. Lgs. n. 42/2004», è sufficiente osservare che anche la potestà di colmare per via legislativa asserite lacune di norme sanzionatorie spetta al soggetto dotato di competenza nell’ambito materiale cui le sanzioni stesse si riferiscono (quindi, nella specie, allo Stato).
Né si può ritenere – aderendo a un assunto che traspare dalle difese della Regione – che la norma sanzionatoria in oggetto non vìoli la competenza legislativa esclusiva dello Stato perché avrebbe elevato la tutela dell’ambiente, com’è consentito fare alle regioni, a certe condizioni, nell’esercizio di competenze interferenti con quella ambientale (ampiamente sul punto, sentenza n. 16 del 2024; in precedenza, sentenze n. 163 del 2023, n. 66 del 2018, n. 212 del 2017, n. 210 del 2016, n. 171 del 2012 e n. 407 del 2002). La Regione non può interferire con la disciplina dettata dal codice dei beni culturali e del paesaggio.
In ogni caso, non è corretto affermare che, sempre al fine di elevare la tutela ambientale, l’intervento legislativo regionale abbia effettivamente colmato una lacuna dell’art. 167, comma 5, cod. beni culturali, completandone il dettato per l’ipotesi di assenza sia di danno ambientale sia di profitto. La norma statale, infatti, ben può essere interpretata nel senso che in tale ipotesi non sia irrogabile alcuna sanzione, non senza considerare che la sfera di efficacia della norma censurata è più ampia di quella prospettata dalla Regione, poiché introduce «comunque» la sanzione pari all’ottanta per cento del costo teorico di realizzazione, anche nel caso in cui un profitto esista, ma sia quantificabile in misura inferiore.
4.3.– La Regione sostiene inoltre che l’art. 83, nella parte censurata, potrebbe essere ricondotto alle materie «valorizzazione dei beni culturali e ambientali» e «governo del territorio», attribuite alla competenza legislativa concorrente delle regioni dall’art. 117, terzo comma, Cost.
A suo avviso, la sanzione, ove manchi un danno ambientale, riguarderebbe «quelle ipotesi in cui il bene non è compromesso, ma vi è stata comunque una alterazione». In tal caso, la sanzione non potrebbe riferirsi alla tutela paesaggistica, riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, ma ricadrebbe nell’ambito della «gestione» dei beni ambientali, rientrante nella materia «valorizzazione dei beni culturali e ambientali», o nell’ambito della difesa del territorio, riconducibile alla materia «governo del territorio».
Anche questa tesi non è condivisibile.
È chiaro, infatti, che la tutela dell’ambiente e del paesaggio prescinde dalla sussistenza di un danno ambientale. Essa si sostanzia nel predisporre strumenti di protezione di tali beni comuni, come i piani paesaggistici, o le autorizzazioni, o i divieti, strumenti questi tutti previsti dal codice dei beni culturali e del paesaggio.
Nella prospettiva indicata, l’eventuale assenza di un danno ambientale non costituisce una ragione idonea a scindere il collegamento tra la sanzione e la disciplina di tutela paesaggistica.
L’atto sanzionabile, come si è detto, è costituito dall’inosservanza delle norme che disciplinano uno dei fondamentali istituti di protezione ambientale, quale l’autorizzazione paesaggistica. La conseguente sanzione riparatoria, alternativa alla riduzione in pristino nei casi tassativi di abusi suscettibili di accertamento di compatibilità paesaggistica, partecipa della medesima natura di ricomposizione della legalità violata propria della misura di carattere reale, a prescindere dall’effettiva produzione di un danno ambientale. In ragione di ciò, il danno si configura come un mero criterio di commisurazione della sanzione e non ne condiziona l’applicabilità.
Anche da questo angolo visuale, dunque, è indubbia la riconducibilità della norma censurata alla sfera degli interessi pubblici concernenti la tutela ambientale e paesaggistica, la cura dei quali spetta in via esclusiva allo Stato.
4.4.– Accertata la violazione del riparto di competenze tra Stato e regioni, si osserva che il rimettente non circoscrive il petitum alle parti dell’art. 83 aggiunte dalla legge reg. Lombardia n. 17 del 2018. Le sue censure si appuntano sull’introduzione della misura non inferiore all’ottanta per cento del costo teorico di costruzione e, implicitamente, anche sulla previsione della sanzione minima inderogabile di cinquecento euro (presente sia nel testo originario della norma che in quello novellato, con alcune variazioni lessicali), anch’essa difforme rispetto alla disciplina di cui all’art. 167, comma 5, cod. beni culturali.
Va dunque dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, limitatamente alle parole «e, comunque, in misura non inferiore all’ottanta per cento del costo teorico di realizzazione delle opere e/o lavori abusivi desumibile dal relativo computo metrico estimativo e dai prezzi unitari risultanti dai listini della Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura della provincia, in ogni caso, con la sanzione minima di cinquecento euro».