Corte Costituzionale, sentenza 26 luglio 2021 n. 174
Va dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 26 ottobre 2010, n. 204 (Attuazione della direttiva 2008/51/CE, che modifica la direttiva 91/477/CEE relativa al controllo dell’acquisizione e della detenzione di armi), nella parte in cui modifica l’art. 35, comma 8, del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), sollevata, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Savona, sezione penale.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
2.– La questione non è fondata.
2.1.– La giurisprudenza di questa Corte è costante nel ritenere che la delega legislativa non esclude ogni discrezionalità del legislatore delegato, la quale può essere più o meno ampia, in relazione al grado di specificità dei criteri fissati nella legge delega: pertanto, al fine di valutare se lo stesso legislatore delegato abbia ecceduto da tali margini di discrezionalità, occorre individuare la ratio della delega, per verificare se la norma delegata sia con questa coerente (ex plurimis, sentenze n. 142 del 2020, n. 96 del 2020 e n. 10 del 2018).
Al contempo, il contenuto della delega e dei relativi principi e criteri direttivi deve essere identificato accertando il complessivo contesto normativo e le finalità che la ispirano, tenendo conto che i principi posti dal legislatore delegante costituiscono non solo la base e il limite delle norme delegate, ma strumenti per l’interpretazione della loro portata. Queste vanno, quindi, lette nel significato compatibile con detti principi, i quali, a loro volta, vanno interpretati avendo riguardo alla ratio della delega ed al complessivo quadro di riferimento in cui si inscrivono (sentenze n. 170 del 2019, n. 10 del 2018 e n. 210 del 2015).
In punto di sanzioni, questa Corte ha altresì chiarito che il legislatore delegante deve adottare criteri direttivi configurati in modo assai preciso, sia definendo la specie e l’entità massima delle pene, sia dettando il criterio, in sé restrittivo, del ricorso alla sanzione penale solo per la tutela di determinati interessi rilevanti (sentenze n. 49 del 1999 e n. 53 del 1997, ordinanza n. 134 del 2003). Per la materia penale è infatti più elevato il grado di determinatezza richiesto per le regole fissate nella legge delega, questo perché il controllo sul rispetto dell’art. 76 Cost. da parte del Governo è anche strumento di garanzia del principio della riserva di legge (art. 25, secondo comma, Cost.), che attribuisce al Parlamento funzione centrale nella individuazione dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni loro applicabili (sentenze n. 127 del 2017 e n. 5 del 2014).
2.2.– Ciò premesso, occorre evidenziare che i criteri direttivi contenuti nella legge delega n. 88 del 2009 per l’attuazione della direttiva 2008/51/CE sono previsti sia nell’art. 2, sia nell’art. 36.
Nell’art. 2 sono enunciati i criteri che hanno carattere generale, in quanto riferiti all’insieme dei decreti legislativi che dovevano essere adottati dal Governo per dare attuazione alle numerose direttive comunitarie elencate negli allegati alla medesima legge.
I criteri specifici per il recepimento della suddetta direttiva risultano elencati all’art. 36. Tale disposizione sancisce espressamente che nell’attuazione della direttiva il Governo debba seguire detti criteri congiuntamente a quelli generali di cui all’art. 2. Nel caso di specie, quindi, poiché i criteri specifici non costituiscono deroga a quelli generali, entrambi sono egualmente posti a base della delega legislativa e – dovendosi integrare reciprocamente – vanno coordinati per essere interpretati in termini unitari (sentenza n. 49 del 1999).
2.3.– Esaminando per primo il criterio specifico di cui all’art. 36, comma 1, lettera n), in materia di sanzioni deve escludersi che la norma censurata lo violi.
Esso stabilisce che il legislatore delegato è tenuto a «prevedere l’introduzione di sanzioni penali, nei limiti di pena di cui alla legge 2 ottobre 1967, n. 895 ed alla legge 18 aprile 1975, n. 110, per le infrazioni alle disposizioni della legislazione nazionale di attuazione della direttiva 2008/51/CE».
Invero, se per un verso vengono correttamente osservati gli ampi limiti edittali previsti dalle leggi testé richiamate, al contempo non può essere condivisa l’interpretazione del giudice a quo secondo cui la previsione, in detta disposizione, della delega alla «introduzione di sanzioni penali» escluderebbe la possibilità di incidere su quelle già esistenti, ammettendo la previsione di trattamenti sanzionatori esclusivamente se attinenti a nuove ipotesi di reato.
Tale interpretazione non risulta suffragata dalla lettera della disposizione: per «introduzione di sanzioni» deve infatti intendersi la loro previsione in relazione sia a fattispecie previgenti, eventualmente modificate anche nel precetto, sia a ipotesi di reato inserite ex novo nell’ordinamento dal legislatore delegato.
La lettura del rimettente non è comunque coerente con la ratio della legge delega, rappresentata – secondo l’espressa intenzione del legislatore – dall’attuazione della direttiva 2008/51/CE, intesa come recepimento delle prescrizioni ivi contenute in uno con la finalità di conseguire il grado più elevato possibile di ottemperanza alle medesime.
2.4.– L’analisi dei lavori parlamentari, del resto, conferma questa conclusione.
Nel parere favorevole espresso il 30 settembre 2010 allo schema di decreto legislativo in esame, la I Commissione permanente presso la Camera dei deputati (Affari costituzionali, della Presidenza del Consiglio e interni) – con riguardo al trattamento sanzionatorio concernente i reati ivi disciplinati, inclusa la contravvenzione prevista a carico dell’armaiolo dall’art. 35 TULPS – ha riconosciuto espressamente in capo al legislatore delegato il potere di aggravare le sanzioni relative a fattispecie incriminatrici preesistenti. In particolare, nell’atto richiamato, si legge che il legislatore delegato ha inteso perseguire «la finalità pienamente condivisibile di conseguire il grado più elevato possibile di ottemperanza alle disposizioni di legge in materia di armi, prevede[ndo] un significativo inasprimento delle sanzioni penali, soprattutto pecuniarie, previste dall’ordinamento per alcuni reati connessi con le armi».
2.5.– Peraltro il criterio specifico in esame va letto alla luce dell’art. 16 della direttiva 91/477/CEE, come sostituito dall’art. 1, numero 11), della direttiva 2008/51/CE, che riconosce ampia discrezionalità al legislatore interno nella definizione degli strumenti da adottare per dare effettività al provvedimento europeo, compreso quindi quello di intervenire sui trattamenti sanzionatori previgenti. Agli Stati membri viene, infatti, conferita libertà di scelta nello stabilire le sanzioni da irrogare in caso di violazione delle disposizioni nazionali adottate in attuazione della direttiva, purché siano «efficaci, proporzionate e dissuasive».
2.6.– Alla stregua di quanto evidenziato, deve concludersi che non era precluso al legislatore delegato, nell’ambito dei criteri di cui all’art. 36, comma 1, lettera n), della legge n. 88 del 2009, rivedere anche l’impianto sanzionatorio delle fattispecie incriminatrici rientranti nell’oggetto della delega. In particolare, nel dare attuazione alla direttiva 2008/51/CE, con la disposizione censurata il legislatore delegato ha proceduto alla riformulazione dell’art. 35 TULPS, ampliando l’area penalmente rilevante con la contestuale estensione dei soggetti attivi del reato (ricondotti alla nozione unitaria di armaiolo) e la previsione di obblighi aggiuntivi a carico dei medesimi, ed ha aggravato – proprio al fine di assicurare l’osservanza di tali obblighi – il precedente trattamento sanzionatorio mediante l’individuazione di una sanzione ritenuta più efficace, proporzionata e dissuasiva, nel rispetto in ogni caso dei limiti di pena di cui alla citata lettera n).
2.7.– Non risultano nemmeno violati i criteri generali contenuti nell’art. 2, comma 1, lettera c), che riguardano l’attuazione di tutte le numerose direttive cui il Governo è tenuto a dare attuazione.
In questo quadro, l’inciso «al di fuori dei casi previsti dalle norme penali vigenti», con cui si apre la lettera in questione, non può intendersi – come ritiene il rimettente – nel senso che dette norme fossero tutte intangibili con preclusione per il legislatore delegato di incidere sulla legislazione esistente, laddove la medesima disposizione anzi consentiva, «ove necessario per assicurare l’osservanza delle disposizioni contenute nei decreti legislativi», la previsione di sanzioni penali oltre che amministrative, entro definiti limiti qualitativi e quantitativi. Ciò sarebbe incongruo – come già statuito da questa Corte con riguardo ad un criterio direttivo analogo a quello in esame – «poiché la delega conferita per l’attuazione di numerose direttive comunitarie nei campi più diversi comportava necessariamente il potere-dovere del Governo di dettare discipline sostanziali suscettibili di integrarsi con la normativa preesistente nella materia, innovandola anche profondamente ove ciò fosse richiesto dalle esigenze di attuazione delle norme comunitarie, e quindi anche adattando le previsioni sanzionatorie alla nuova disciplina sostanziale» (sentenza n. 456 del 1998).
La clausola in questione deve quindi interpretarsi, «in senso più restrittivo, come intesa a precludere al Governo la possibilità di incidere […] sulla disciplina penale più generale, di fonte codicistica o comunque afferente ad ambiti e ad interessi che, per quanto implicati anche nella nuova normativa, in essa non si esauriscano» (sentenza n. 456 del 1998).
Ciò è confermato dall’ultimo inciso della medesima lettera c) secondo cui, «entro i limiti di pena indicati nella presente lettera» (ammenda fino a 150.000 euro e arresto fino a tre anni), «sono previste sanzioni identiche a quelle eventualmente già comminate dalle leggi vigenti per violazioni che siano omogenee e di pari offensività rispetto alle infrazioni alle disposizioni dei decreti legislativi» disciplinate dalla legislazione delegata. Il riferimento è, invero, a sanzioni «previste dalla legislazione previgente riguardo ad oggetti diversi da quelli cui la delega si riferisce e destinate a rimanere immutate appunto perché estranee all’ambito della delega» (sentenza n. 456 del 1998).
Inoltre, posto che il criterio generale delle sanzioni identiche non si applica ai rapporti tra norme incriminatrici preesistenti rientranti nell’oggetto della delega e norme modificative delle medesime, ma solo ai rapporti tra incriminazioni attinenti ad oggetti diversi, si rivela del tutto erroneo un ulteriore argomento del giudice rimettente: quello secondo cui – anche ad ammettere, per assurdo, che al legislatore delegato fosse conferito il potere di modificare norme incriminatrici – il criterio indicato avrebbe imposto di confermare per la nuova fattispecie di cui all’art. 35 TULPS l’originario trattamento sanzionatorio. Ed infatti, assumendo rilievo nel caso di specie un’ipotesi di successione di leggi penali “modificativa”, il criterio delle sanzioni identiche è in tutta evidenza non pertinente.
2.8.– In conclusione qquesta Corte ritiene che il Governo non abbia travalicato i fisiologici margini di discrezionalità impliciti in qualsiasi legge di delegazione, essendosi mantenuto entro il perimetro sancito dal legittimo esercizio delle valutazioni che gli competono nella fase di attuazione della delega, «nel rispetto della ratio di quest’ultima e in coerenza con esigenze sistematiche proprie della materia penale» (sentenza n. 127 del 2017). Dal che discende la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Tribunale di Savona, sezione penale, dell’art. 3, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 204 del 2010, nella parte in cui modifica l’art. 35, comma 8, TULPS.