Corte Costituzionale, sentenza 10 luglio 2023, n. 139
Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4, secondo comma, prima parte, della legge 18 aprile 1975, n. 110 (Norme integrative della disciplina vigente per il controllo delle armi, delle munizioni e degli esplosivi), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Lagonegro, sezione penale, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE (sintesi massimata)
1.– Il Tribunale ordinario di Lagonegro, sezione penale, in composizione monocratica, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 4, secondo comma, prima parte, della legge n. 110 del 1975 – che vieta, sotto comminatoria di sanzione penale, di portare, senza giustificato motivo, fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa, bastoni muniti di puntale acuminato, strumenti da punta o da taglio atti ad offendere, mazze, tubi, catene, fionde, bulloni e sfere metalliche – nella parte in cui non richiede, ai fini della punibilità del fatto, «la sussistenza di circostanze di tempo e luogo dimostrative del pericolo di offesa alla persona».
Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata violerebbe l’art. 3 Cost., in quanto generatrice di una irragionevole disparità di trattamento rispetto al porto degli strumenti “innominati” indicati nella seconda parte del medesimo comma («qualsiasi altro strumento non considerato espressamente come arma da punta o da taglio, chiaramente utilizzabile, per le circostanze di tempo e di luogo, per l’offesa alla persona»): categoria atta a ricomprendere oggetti (ad esempio, bastoni e martelli) dotati di capacità lesiva equivalente, o addirittura maggiore, rispetto a quella di taluni degli strumenti “nominati”.
Sarebbe leso, altresì, l’art. 25, secondo comma, Cost., per contrasto con il principio di necessaria offensività del reato, sia nella sua declinazione astratta (con riguardo, cioè, al momento di redazione della norma), sia nella sua declinazione concreta (con riferimento, cioè, alla fase di applicazione giudiziale): sotto il primo profilo, in quanto l’incriminazione sarebbe basata su una presunzione assoluta di pericolo per l’ordine pubblico non rispondente all’id quod plerumque accidit (non riscontrandosi regole di esperienza per cui il porto di oggetti dalla destinazione principale lecita, quali quelli considerati, sarebbe volto all’offesa alla persona, allorché l’agente non riesca a darne nell’immediatezza una giustificazione plausibile); sotto il secondo profilo, giacché la formulazione complessiva dell’art. 4, secondo comma, della legge n. 110 del 1975 impedirebbe al giudice di verificare la concreta idoneità della condotta a porre il bene giuridico protetto in una effettiva situazione di rischio.
Di qui anche la violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost., in quanto l’irrogazione di una sanzione penale in difetto di una reale aggressione ai beni protetti genererebbe in chi ne è colpito un senso di sfiducia nell’ordinamento, atto a compromettere la funzione rieducativa della pena.
2.– Prodromica all’esame delle censure è una sintetica ricostruzione del panorama normativo di riferimento.
Oggetto dei dubbi di legittimità costituzionale è la disciplina del porto di armi improprie, delineata dal secondo comma dell’art. 4 della legge n. 110 del 1975: disciplina la cui inosservanza è punita dal successivo terzo comma con l’arresto da sei mesi a due anni e con l’ammenda da 1.000 a 10.000 euro.
Alla luce delle indicazioni ritraibili dall’art. 585, secondo comma, numero 2), del codice penale e dall’art. 45, secondo comma, del regio decreto 6 maggio 1940, n. 635 (Approvazione del regolamento per l’esecuzione del testo unico 18 giugno 1931, n. 773, delle leggi di pubblica sicurezza), si designano usualmente come armi improprie gli strumenti che – pur non avendo quale destinazione naturale l’offesa alla persona (come invece le armi proprie), in quanto concepiti per usi diversi e leciti (lavorativi, domestici, sportivi, scientifici e simili) – si prestano ad essere occasionalmente utilizzati per offendere.
Tali strumenti sono distinti dalla norma censurata in due sottocategorie: gli strumenti “nominati” (o “tipici”) e gli strumenti “innominati” (o “atipici”).
La prima parte del comma vieta, infatti, di portare fuori della propria abitazione e delle appartenenze di essa «[s]enza giustificato motivo» una serie di oggetti individuati in dettaglio («bastoni muniti di puntale acuminato, strumenti da punta o da taglio atti ad offendere, mazze, tubi, catene, fionde, bulloni, sfere metalliche»). Allo stesso regime risultano soggetti, per effetto della modifica operata dall’art. 5, comma 1, lettera b), numero 2), del decreto legislativo 26 ottobre 2010, n. 204 (Attuazione della direttiva 2008/51/CE, che modifica la direttiva 91/477/CEE relativa al controllo dell’acquisizione e della detenzione di armi), gli ulteriori strumenti indicati nella parte finale dello stesso secondo comma dell’art. 4 della legge n. 110 del 1975, non investita, peraltro, dalle censure del giudice rimettente.
Unica condizione per la punibilità del porto degli oggetti considerati fuori dai luoghi di pertinenza dell’agente è, dunque, che la condotta sia realizzata in assenza di un «giustificato motivo»: intendendosi per tale, secondo una ricorrente affermazione giurisprudenziale, quello determinato da «particolari esigenze dell’agente […] perfettamente corrispondenti a regole comportamentali lecite relazionate alla natura dell’oggetto, alle modalità di verificazione del fatto, alle condizioni soggettive del portatore, ai luoghi dell’accadimento, alla normale funzione dell’oggetto» (ex multis, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 30 settembre 2019-10 gennaio 2020, n. 578; nello stesso senso, Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 14 novembre-9 dicembre 2019, n. 49769). In sostanza, occorre che, al momento del porto, l’oggetto sia destinato a uno scopo lecito ad esso riferibile, avuto riguardo alle circostanze oggettive e soggettive.
La seconda parte del comma (preceduta dalla congiunzione «nonché»), con previsione residuale e di chiusura, estende il divieto di porto ingiustificato fuori dalla propria abitazione o dalle appartenenze di essa a un ulteriore complesso di oggetti, descritti con formula generale imperniata su una “clausola di offensività”: «qualsiasi altro strumento non considerato espressamente come arma da punta o da taglio, chiaramente utilizzabile, per le circostanze di tempo e di luogo, per l’offesa alla persona».
Affinché il porto di tali oggetti sia punibile non basta, pertanto, l’assenza di un giustificato motivo, ma occorre, altresì, che le circostanze spazio-temporali in cui il porto avviene rendano concreto il pericolo che l’agente si avvalga dell’oggetto in chiave aggressiva (Corte di cassazione, sezione prima penale, 7 novembre-24 dicembre 2019, n. 51946): l’avverbio «chiaramente» sta, infatti, a significare che deve esservi un collegamento non meramente ipotetico tra l’oggetto, non destinato naturalmente all’offesa e spesso di uso comune, e la sua utilizzazione per procurare lesioni (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 21 novembre-9 dicembre 2013, n. 49517), anche se poi tale utilizzazione non abbia effettivamente luogo (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 26 febbraio-18 marzo 2009, n. 11812).
Per opinione diffusa, la norma incriminatrice del porto di armi improprie, nella sua duplice articolazione, è diretta, al pari delle altre in materia di armi, a tutelare la sicurezza pubblica e l’incolumità individuale: si tratta segnatamente di una fattispecie «di sbarramento» (Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 27 agosto-3 settembre 1996, n. 8222), volta ad evitare, «in via di prevenzione» (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 17 gennaio-16 maggio 1985, n. 4750), che lo strumento possa essere utilizzato per la commissione di più gravi delitti lesivi di altri beni giuridici (vita, integrità fisica, patrimonio e via dicendo), quali omicidi, lesioni personali, rapine o minacce. In tale ottica, questa stessa Corte ha individuato l’oggetto della tutela nell’ordine pubblico e nella «pacifica convivenza sociale» (sentenza n. 79 del 1982).
3.– Ciò premesso, occorre prendere preliminarmente in esame l’eccezione di inammissibilità delle questioni formulata dall’Avvocatura generale dello Stato, sotto il profilo dell’omessa sperimentazione, da parte del giudice a quo, di una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata.
Assume l’Avvocatura che il motivo addotto nel caso di specie dall’imputato per giustificare il porto dell’oggetto all’interno di un’autovettura mentre si trovava fuori del centro abitato – ossia la sua utilizzazione per l’esercizio di attività agricola – «non avrebbe dovuto essere integralmente pretermesso» dal rimettente, una volta appurato che si trattava di una roncola, e dunque di uno strumento abitualmente usato per il taglio di rami e arbusti. Secondo la giurisprudenza di legittimità, infatti, l’assenza di un giustificato motivo rappresenta un elemento di tipicità del fatto, sicché il giudice deve escludere la configurabilità del reato ove sussista un dubbio sulla sua ricorrenza; né, d’altro canto, la validità del motivo addotto richiede l’esistenza di un rapporto di immediata contestualità temporale fra il porto dello strumento e il suo utilizzo.
L’eccezione non è fondata.
Essa si risolve in una critica alla motivazione del giudice a quo in ordine alla rilevanza delle questioni, con particolare riguardo alla ritenuta insussistenza, nel caso di specie, di un giustificato motivo del porto. Tale motivazione appare, peraltro, in grado di superare il vaglio di non implausibilità, nel quale si sostanzia e si esaurisce il controllo “esterno” sulla rilevanza demandato a questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 192 del 2022, n. 207, n. 181 e n. 59 del 2021, e n. 218 del 2020).
Il rimettente ricorda infatti come, secondo consolidati indirizzi della giurisprudenza di legittimità, la giustificazione del porto di oggetti atti ad offendere debba essere fornita al momento del controllo e in modo specifico, così da consentire alla polizia giudiziaria di procedere a immediate verifiche (tra le molte, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 30 gennaio-7 maggio 2019, n. 19307; Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 15 marzo-15 aprile 2019, n. 16376); essa deve risultare, inoltre, attuale, tale cioè da dimostrare l’esigenza di un utilizzo lecito dello strumento al momento dell’accertamento (tra le altre, Corte di cassazione, sezione settima penale, ordinanza 15 gennaio-10 agosto 2015, n. 34774; Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 23 settembre-20 ottobre 2004, n. 41098). Per gli strumenti da lavoro, in particolare, il porto deve risultare legato da un nesso attuale di causalità rispetto allo svolgimento dell’attività lavorativa o ad altra ad essa, almeno indirettamente, ricollegabile (quale, tipicamente, il trasferimento da casa al luogo di lavoro e viceversa) (Corte di cassazione, n. 41098 del 2004); diversamente opinando, infatti, qualsiasi condotta di porto di strumento atto ad offendere potrebbe trovare giustificazione in una causa astrattamente connessa con esso, ma non effettiva al momento del comportamento vietato: il che contrasterebbe con la ratio legis, mirante a restringere, per motivi di ordine pubblico e di sicurezza per le persone e le cose, il più possibile il porto di strumenti e oggetti potenzialmente adoperabili per commettere atti di intimidazione e di violenza (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 14 gennaio-14 aprile 1999, n. 4696).
Nella specie, per converso, in base alla ricostruzione operata in punto di fatto dal giudice a quo – che non spetta a questa Corte sindacare – l’imputato si sarebbe limitato a dichiarare ai verbalizzanti, in modo del tutto generico, che lo strumento gli serviva per lavori agricoli, mentre le prove successivamente addotte in sede dibattimentale, oltre a risultare tardive, dimostrerebbero soltanto che egli svolgeva all’epoca un’attività lavorativa compatibile con l’uso dello strumento, ma non che questo dovesse essere impiegato o fosse stato appena impiegato al momento del controllo.
Con particolare riguardo al presupposto ermeneutico che fonda i dubbi di legittimità costituzionale – l’impossibilità, cioè, di riferire il requisito della chiara utilizzabilità per l’offesa, alla luce delle circostanze di tempo e di luogo, al porto degli strumenti “nominati” – il giudice a quo esclude, d’altro canto, espressamente e in modo motivato, che sia possibile una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata. Il tenore letterale di quest’ultima impedirebbe, infatti, di “generalizzare” il requisito in questione, estendendolo a strumenti diversi da quelli ai quali è specificamente riferito.
Tale conclusione risponde al diritto vivente: la giurisprudenza di legittimità è, infatti, costante nel ritenere che, alla luce del dettato normativo, il requisito in parola sia richiesto unicamente per gli strumenti “innominati” di cui alla seconda parte del comma (per tutte, Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenza 8 marzo-26 aprile 2022, n. 15908; Cass., ordinanza n. 34774 del 2015).
4.– Nel merito, le questioni non sono tuttavia fondate.
4.1.– Quanto alla dedotta violazione del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), la censura fa perno sull’assunto per cui – stante la comune caratteristica di tutte le armi improprie, di essere strumenti aventi una destinazione naturale lecita, solo occasionalmente utilizzabili per l’offesa – il trattamento più rigoroso riservato agli strumenti “nominati” non potrebbe essere giustificato con una loro maggiore pericolosità, essendovi strumenti “innominati” (ad esempio, bastoni di legno o martelli) con capacità offensiva pari o addirittura superiore a quella di taluni degli strumenti “nominati” (quali tubi o bulloni).
In senso contrario, va tuttavia osservato che la distinzione tra strumenti “nominati” e “innominati” operata dalla norma censurata non è priva di ratio.
Il legislatore ha incluso tra gli strumenti “nominati”, anzitutto, gli strumenti che, per le loro caratteristiche, si presentano come quelli oggettivamente più pericolosi: bastoni con puntale acuminato e strumenti da punta o da taglio atti ad offendere (quali coltelli, forbici a punta, asce, roncole, machete e simili). Si tratta, infatti, di strumenti strutturalmente prossimi alle armi proprie cosiddette bianche e che, non a caso, corrispondono al nucleo storico delle armi improprie già contemplato in origine dall’art. 42, secondo comma, TULPS.
Il legislatore ha preso poi in considerazione gli strumenti che, in base all’esperienza, relativa soprattutto a manifestazioni violente di piazza, più facilmente e con maggior frequenza si prestano ad essere impiegati per l’offesa alla persona: mazze, tubi, catene, fionde, bulloni, sfere metalliche.
Proprio con riguardo alla normativa penale in materia di armi, questa Corte ha affermato che, nella determinazione delle fattispecie tipiche di reato, correttamente il legislatore tiene conto «non […] soltanto della struttura e pericolosità astratta dei fatti che va ad incriminare», ma anche «della concreta esperienza nella quale quei fatti si sono verificati e dei particolari inconvenienti provocati, in precedenza, dai fatti stessi, in relazione ai beni che intende tutelare»: quindi, non solo della astratta capacità di offesa dei singoli strumenti, ma anche dell’uso concreto che di essi viene fatto in base all’esperienza (sentenza n. 132 del 1986; in senso analogo, con riferimento alla disciplina penale degli stupefacenti, sentenza n. 333 del 1991). Su tale rilievo, questa Corte ha ritenuto quindi non ingiustificata la sottoposizione delle armi ad aria compressa (considerate, a certe condizioni, armi comuni da sparo) a un regime più rigoroso di quello previsto per le armi da pesca, come il fucile subacqueo (escluse da tale considerazione, ancorché funzionanti anch’esse ad aria compressa), posto che le seconde, in base all’esperienza, meno si prestano ad usi distorti (sentenza n. 132 del 1986).
Nel caso oggi in esame, per riprendere l’esempio prospettato dal rimettente, può anche essere vero che un martello di grosse dimensioni abbia, astrattamente, una capacità di offesa pari o maggiore a quella di un tubo: ma l’esperienza – della quale il legislatore si è fatto interprete – ha mostrato che l’impiego per l’offesa del primo è meno agevole e frequente di quello del secondo.
Ciò, senza considerare che nel giudizio a quo si discute del porto di una roncola; dunque, di un oggetto appartenente pacificamente alla categoria di armi improprie anche oggettivamente più pericolose, quale quella degli strumenti da punta o da taglio (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 7 febbraio-11 giugno 2020, n. 17942; Corte di cassazione, sezione quinta penale, 5 marzo-9 luglio 1982, n. 6763): strumenti atti a ferire – e non semplicemente ad essere occasionalmente usati come corpi contundenti – e caratterizzati, altresì, da una particolare maneggevolezza.
Va aggiunto, per completezza, che, rispetto ai moltissimi oggetti in uso nella vita comune occasionalmente utilizzabili per l’offesa alla persona – che il legislatore non potrebbe enumerare in modo casistico, senza incorrere nel rischio della lacuna – la condizione della sussistenza di circostanze che facciano apparire verosimile un impiego in pregiudizio dell’altrui incolumità svolge anche una insostituibile funzione di delimitazione del fatto tipico: funzione debitamente valorizzata a suo tempo da questa Corte – come sottolineato dall’Avvocatura dello Stato – al fine di escludere l’indeterminatezza della categoria degli strumenti “innominati” (sentenza n. 79 del 1982).
4.2.– Quanto, poi, alla denuncia di violazione del principio di necessaria offensività del reato, giova ricordare che, per costante giurisprudenza di questa Corte, tale principio – la cui matrice costituzionale è ricavabile dall’art. 25, secondo comma, Cost. (sentenza n. 211 del 2022), in una lettura sistematica cui fa da sfondo l’«insieme dei valori connessi alla dignità umana» (sentenze n. 225 del 2008 e n. 263 del 2000) – opera su due piani distinti. Da un lato, cioè, come precetto rivolto al legislatore, diretto a limitare la repressione penale a fatti che, nella loro configurazione astratta, esprimano un contenuto offensivo di beni o interessi ritenuti meritevoli di protezione (offensività “in astratto”); dall’altro, come criterio interpretativo-applicativo affidato al giudice, il quale, nella verifica della riconducibilità della singola fattispecie concreta al paradigma punitivo astratto, dovrà evitare che ricadano in quest’ultimo comportamenti privi di qualsiasi attitudine lesiva (offensività “in concreto”) (sentenze n. 211 del 2022, n. 278 e n. 141 del 2019, n. 109 del 2016, n. 265 del 2005, n. 263 del 2000 e n. 360 del 1995).
Quanto al primo versante, il principio di offensività in astratto non implica che l’unico modello, costituzionalmente legittimo, sia quello del reato di danno. Rientra, infatti, nella discrezionalità del legislatore optare per forme di tutela anticipata, le quali colpiscano l’aggressione ai valori protetti nello stadio della semplice esposizione a pericolo, nonché, correlativamente, individuare la soglia di pericolosità alla quale riconnettere la risposta punitiva (sentenze n. 211 del 2022, n. 141 del 2019, n. 109 del 2016 e n. 225 del 2008): prospettiva nella quale non è precluso, in linea di principio, il ricorso al modello del reato di pericolo presunto (sentenze n. 211 del 2022, n. 278 e n. 141 del 2019, n. 109 del 2016, n. 247 del 1997, n. 360 del 1995, n. 133 del 1992 e n. 333 del 1991).
Compete, nondimeno, a questa Corte verificare – tramite lo strumento del sindacato di costituzionalità – se le soluzioni adottate siano rispettose del principio di offensività “in astratto”, acclarando se la fattispecie delineata dal legislatore esprima un reale contenuto offensivo: esigenza che, nell’ipotesi del reato di pericolo – e, segnatamente, di pericolo presunto – presuppone «che la valutazione legislativa di pericolosità del fatto incriminato non risulti irrazionale e arbitraria, ma risponda all’id quod plerumque accidit» (sentenze n. 211 del 2022, n. 141 del 2019, n. 109 del 2016 e n. 225 del 2008; nello stesso senso, sentenza n. 278 del 2019).
Ove tale condizione risulti soddisfatta, «il compito di uniformare la figura criminosa al principio di offensività nella concretezza applicativa resta affidato al giudice ordinario, nell’esercizio del proprio potere ermeneutico». Quest’ultimo «– rimanendo impegnato ad una lettura “teleologicamente orientata” degli elementi di fattispecie, tanto più attenta quanto più le formule verbali impiegate dal legislatore appaiano, in sé, anodine o polisense – dovrà segnatamente evitare che l’area di operatività dell’incriminazione si espanda a condotte prive di un’apprezzabile potenzialità lesiva» (sentenza n. 225 del 2008).
4.2.1.– Nel caso in esame, si deve escludere che la norma censurata confligga con il principio di offensività “in astratto”.
Contrariamente a quanto assume il giudice a quo, la presunzione di pericolo sottesa alla norma incriminatrice non può essere ritenuta irrazionale o arbitraria, tenuto conto della natura degli strumenti “nominati” avuti di mira – selezionati, come si è visto, in ragione della particolare attitudine lesiva, legata alle loro caratteristiche intrinseche (quanto agli strumenti da punta o da taglio), o alla frequenza del loro impiego per usi distorti, in base all’esperienza (quanto agli altri) – e del richiesto difetto di una giustificazione del loro porto fuori dell’abitazione o delle sue appartenenze. Condotta – quella del porto fuori dai luoghi privati di pertinenza dell’agente – che si presenta, peraltro, come quella più vicina all’uso pregiudizievole, e dunque connotata da un maggior coefficiente di pericolosità.
Al riguardo, occorre considerare che, nella logica della norma, come di altre norme incriminatrici in tema di armi, gli oggetti atti ad offendere non sono soltanto lo strumento utilizzabile per la commissione premeditata di illeciti penali, ma anche occasionali mezzi di commissione di reati da parte di chi, trovandosi coinvolto in un conflitto, sia spinto a usarli contro il proprio avversario. Si tratta, quindi, di oggetti che, in base a regole di esperienza, presentano un significativo rischio di poter essere utilizzati in modo illecito: anziché attendere che l’agente tenti di commettere un reato con lo strumento in suo possesso, non può ritenersi arbitrario che il diritto penale intervenga in una fase precedente per prevenire tale rischio.
L’anticipazione della tutela risulta qui giustificata – anche in chiave di proporzionalità dell’intervento – dall’elevato rango degli interessi in gioco, al culmine dei quali si pone la salvaguardia della vita e dell’integrità fisica delle persone.
Non appare persuasivo, d’altro canto, il ragionamento del giudice a quo, secondo il quale l’assenza di giustificato motivo del porto costituirebbe elemento insignificante nella logica dell’offensività, in quanto uno strumento portato per giustificato motivo potrebbe bene essere utilizzato illecitamente subito dopo il controllo di polizia. Invero, anche il fatto che un’arma comune da sparo venga portata da un soggetto munito di licenza non ne esclude l’impiego per scopi criminosi.
Nel caso in esame, in cui si discute di strumenti con destinazione principale lecita, il riferimento al giustificato motivo, da un lato, attenua significativamente la probabilità che lo strumento sia destinato ad essere utilizzato per l’offesa; dall’altro, vale a circoscrivere la punibilità ai soli comportamenti che creano la situazione di pericolo senza avere alcuna utilità apprezzabile nella vita sociale.
Nei passaggi argomentativi dell’ordinanza di rimessione è insita, in effetti, una critica alla lettura troppo rigorosa del requisito dell’assenza di giustificato motivo adottata dalla giurisprudenza di legittimità, in particolare per quanto attiene alla pretesa – priva di riscontro nell’elaborazione giurisprudenziale relativa alla contravvenzione, per molti versi strutturalmente affine, di possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli (art. 707 cod. pen.) – che l’interessato fornisca al momento stesso del controllo una spiegazione adeguata del porto dell’oggetto, suscettibile di immediata verifica da parte degli organi di polizia (con conseguente irrilevanza a priori di ogni successiva allegazione difensiva): spiegazione che il portatore, per molteplici ragioni, potrebbe essere non in grado di offrire, pur avendo in animo di fare un uso lecito dello strumento. Ma allora sarebbe semmai questo specifico e distinto aspetto che dovrebbe formare oggetto di censura.
4.2.2.– Riguardo, poi, al dedotto contrasto con il principio di offensività “in concreto” – del quale, secondo il giudice a quo, la norma censurata precluderebbe l’operatività, in ragione della sua formulazione – va rilevato che il rimettente muove da una interpretazione non condivisibile della valenza del principio richiamato.
È ben vero che il tenore letterale della disposizione esclude – secondo il diritto vivente – che, riguardo al porto degli strumenti “nominati”, il giudice debba accertare una situazione di pericolo concreto di impiego dello strumento per l’offesa, alla luce delle circostanze di tempo e di luogo (come invece per gli strumenti “innominati”). Ma rispetto ai reati di pericolo presunto non è in questo modo che opera il principio di offensività in sede di applicazione da parte del giudice comune.
In effetti, se rispetto ai reati di pericolo presunto il giudice dovesse accertare la concreta pericolosità della condotta verrebbe meno la stessa distinzione tra essi e i reati di pericolo concreto.
In realtà, in questi ultimi il giudice deve appurare se, alla luce delle specifiche circostanze, sussistesse una seria probabilità della verificazione del danno. Di contro – come emerge dalla giurisprudenza di questa Corte sul principio di offensività che si è avuto modo di richiamare – nei reati di pericolo presunto, il giudice deve escludere la punibilità di fatti pure corrispondenti alla formulazione della norma incriminatrice, quando alla luce delle circostanze concrete manchi ogni (ragionevole) possibilità di produzione del danno.
In questa prospettiva, il principio di offensività “in concreto” può – e deve – operare anche in rapporto alla figura criminosa considerata.
Il giudice potrebbe escludere la punibilità, in primo luogo, alla luce delle caratteristiche dell’oggetto, anche se di per sé rispondente alla definizione legislativa. Si tratta, del resto, di un criterio del quale questa Corte ha già fatto applicazione in tema di detenzione illegale di esplosivi (art. 2 della legge 2 ottobre 1967, n. 895, recante «Disposizioni per il controllo delle armi»), al fine di escludere che possa ritenersi punibile la detenzione di quantitativi minimi di materia esplodente, che non raggiungano la «soglia dell’offensività dei beni in discussione» (come nel caso, prospettato dal rimettente dell’epoca, della detenzione di polvere da sparo bastante per il caricamento di una sola cartuccia) (sentenza n. 62 del 1986).
Ma potrebbero venire in rilievo, nella stessa direzione, anche le condizioni spazio-temporali del porto, qualora esse dimostrino l’inesistenza di qualsiasi (apprezzabile) pericolo di tale utilizzazione.
4.3.– La residua censura di violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost. appare priva di autonomia rispetto a quella di violazione del principio di necessaria offensività del reato. Il giudice a quo fa, infatti, discendere automaticamente la compromissione della finalità rieducativa della pena dalla circostanza che, nell’ipotesi in esame, una sanzione penale verrebbe applicata in difetto di una reale aggressione dell’interesse protetto.
La censura cade, pertanto, con quella cui accede.
5.– Alla luce delle considerazioni che precedono, le questioni vanno dichiarate non fondate.