Corte costituzionale, sentenza 24 novembre 2023, n. 208
PRINCIPIO DI DIRITTO
Il diverso trattamento riservato alle armi comuni e agli oggetti atti ad offendere rispetto alla generalità delle altre cose colpite da confisca penale trova giustificazione nella particolare natura degli strumenti considerati. Si tratta, infatti, di oggetti intrinsecamente pericolosi, stante l’estrema gravità delle conseguenze che possono derivare da un loro improprio utilizzo, le quali incidono su beni giuridici primari – la vita umana, la sicurezza e l’incolumità pubblica – che lo Stato ha il dovere costituzionale di tutelare.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1.– Il GIP del Tribunale di Macerata, in funzione di giudice dell’esecuzione, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 6 della legge n. 152 del 1975, nella parte in cui prevede che «[l]e armi comuni e gli oggetti atti ad offendere confiscati, ugualmente versati alle direzioni di artiglieria, devono essere destinati alla distruzione, salvo quanto previsto dal nono e decimo comma dell’art. 32 della legge 18 aprile 1975, n. 110».
Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata violerebbe l’art. 3 Cost., in quanto «del tutto irrazionale». Non vi sarebbe, infatti, alcun ragionevole motivo per sottrarre gli oggetti considerati alla disciplina generale prevista dall’art. 86 norme att. cod. proc. pen. e dagli artt. 149 e seguenti t.u. spese di giustizia, in base alla quale i beni confiscati sono venduti con acquisizione all’erario del ricavato, salvo che essi abbiano interesse scientifico o pregio di antichità o di arte.
La distruzione, imposta dalla norma denunciata, di ogni arma (propria o impropria) confiscata, anche se di valore – esclusa l’ipotesi eccezionale del riconoscimento di un suo interesse storico o artistico – non sarebbe in effetti giustificabile:
- a) né con i limiti di commerciabilità della cosa, discutendosi di beni suscettibili di vendita e detenzione lecita, ove l’acquirente sia munito di titolo idoneo, e addirittura senza necessità di alcun titolo, quanto agli oggetti atti ad offendere;
- b) né con l’esigenza di evitare che l’originario detentore rientri in possesso del bene, giacché, se questi è stato privato del titolo abilitativo all’acquisto o alla detenzione (anche a seguito dell’illecito commesso), non potrà riacquistare le armi, mentre, se è ancora abilitato, potrà acquistarne altre, anche più letali, in un’armeria o da un privato, ovvero – quando si tratti di oggetti atti ad offendere – recandosi in una qualsiasi rivendita del settore;
- c) né, ancora, con l’intento di limitare le armi in circolazione, in quanto nessun limite è posto alla produzione e alla commercializzazione di armi, e tanto meno di oggetti atti ad offendere; d) né, infine, con l’opportunità di evitare morbose ricerche di armi impiegate in fatti di particolare risonanza, trattandosi di evenienza marginale che evoca preoccupazioni etico-morali delle quali lo Stato non dovrebbe farsi carico, e rispetto alla quale potrebbe operare, comunque sia, il potere, attribuito al giudice dall’art. 86 norme att. cod. proc. pen., di disporre la distruzione della cosa se la vendita non è opportuna.
2.– Prodromica all’analisi della questione – sia quanto ai profili di ammissibilità, sia quanto a quelli di merito – è una sintetica ricostruzione del panorama normativo e giurisprudenziale in cui essa si colloca.
2.1.– La tematica cui attiene il dubbio di illegittimità costituzionale sottoposto a questa Corte è la destinazione delle cose oggetto di confisca penale. La disciplina generale della materia è offerta dall’art. 86 norme att. cod. proc. pen. e da alcune delle disposizioni contenute nel Titolo III della Parte IV t.u. spese di giustizia. In base ad essa, la destinazione “ordinaria” dei beni confiscati è la vendita.
L’art. 86, comma 1, norme att. cod. proc. pen. stabilisce, infatti, che le cose di cui è stata ordinata la confisca debbono essere vendute a cura della cancelleria, «salvo che per esse sia prevista una specifica destinazione».
Il ricavato confluisce nel bilancio dello Stato, divenuto proprietario del bene a seguito della misura ablativa.
Si tratta di una destinazione “normale”, ma non indefettibile, essendo previste delle eccezioni.
Anzitutto, se i beni hanno interesse scientifico o pregio di antichità o di arte, prima di procedere alla vendita occorre avvisare il Ministero della giustizia, che può disporre l’assegnazione delle cose al museo criminale presso il Ministero o altri istituti (art. 152 t.u. spese di giustizia). È, per altro verso, previsto che il giudice possa disporre la distruzione delle cose confiscate «se la vendita non è opportuna» (art. 86, comma 2, norme att. cod. proc. pen.): formula atta a ricomprendere, per communis opinio, anche i casi in cui l’alienazione risulti tecnicamente difficoltosa o antieconomica. Lo stesso art. 86, comma 1, norme att. cod. proc. pen., come già ricordato, fa, inoltre, espressamente salva l’ipotesi in cui per le cose confiscate sia prevista una specifica destinazione.
Numerose disposizioni prefigurano, in effetti, destinazioni specifiche – diverse dalla vendita – per talune categorie di beni confiscati, o quando la confisca sia disposta in relazione a determinate fattispecie di reato. Nella maggior parte dei casi la destinazione speciale consiste nell’assegnazione del bene a determinati organismi o soggetti – solitamente pubblici, ma talora anche privati – affinché se ne avvalgano per particolari finalità.
Non mancano, però, ipotesi nelle quali la legge stabilisce che la cosa confiscata debba essere distrutta, escludendone in radice la reimmissione in commercio o il reimpiego. La distruzione – che nei casi ordinari, come già ricordato, può essere disposta discrezionalmente dal giudice, allorché la vendita appaia in concreto inopportuna – viene qui imposta in modo diretto dalla legge. È quanto avviene, ad esempio, per le sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 87 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, recante «Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza»).
2.2.– Fra le destinazioni specifiche del genere ora considerato rientra anche quella delineata dal censurato art. 6 della legge n. 152 del 1975: legge volta nel suo insieme – come si afferma nella relazione al disegno di legge C. 3659, da cui essa ha tratto origine – a dare risposta alle «profonde [e] legittime preoccupazioni» generate nell’opinione pubblica dai «gravissimi episodi di criminalità comune e politica» propri di quel periodo storico (caratterizzato dai fenomeni del terrorismo politico e delle manifestazioni violente di piazza).
In questa cornice, il citato art. 6 esordisce prevedendo, al primo comma, che «[i]l disposto del primo capoverso dell’art. 240 del codice penale» – che individua in via generale i casi di confisca obbligatoria – «si applica a tutti i reati concernenti le armi, ogni altro oggetto atto ad offendere, nonché le munizioni e gli esplosivi».
Per giurisprudenza consolidata, mediante tale formula di richiamo, la disposizione ha reso obbligatoria la confisca delle cose che costituiscono oggetto materiale dei reati testé indicati (siano essi delitti o contravvenzioni), la quale deve essere sempre disposta, anche se non è stata pronunciata condanna (dunque, anche nel caso di dichiarazione di estinzione del reato), con le uniche eccezioni dell’assoluzione dell’imputato nel merito e dell’appartenenza dell’arma a persona estranea al reato, se legalmente detenuta ( ex plurimis, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 5-26 aprile 2022, n. 15860; sezione settima penale, sentenza 13 maggio-22 giugno 2021, n. 24370; sezione prima penale, sentenza 3 luglio-6 agosto 2019, n. 35712).
Come recentemente affermato da questa Corte, in sintonia con le indicazioni della giurisprudenza di legittimità, si tratta di misura connotata da una finalità essenzialmente preventiva, e non già strettamente sanzionatoria, essendo volta a neutralizzare, mediante la privazione della disponibilità della res da parte del suo detentore, «una situazione di pericolo, particolarmente allarmante in relazione alle gravissime conseguenze per la vita umana e per l’ordine pubblico che [l’]uso illecito [degli oggetti in questione] può provocare» (sentenza n. 5 del 2023).
Nei commi successivi, l’art. 6 della legge n. 152 del 1975 reca quindi una articolata disciplina speciale sulla destinazione dei beni confiscati, variamente calibrata secondo la loro tipologia. In particolare, in base al secondo comma, le armi da guerra e tipo guerra «debbono essere versate alla competente direzione di artiglieria che ne dispone la rottamazione e la successiva alienazione, ove non le ritenga utilizzabili da parte delle forze armate».
In virtù del terzo comma, le armi comuni e gli oggetti atti ad offendere, «ugualmente versati alle direzioni di artiglieria, devono essere destinati alla distruzione, salvo quanto previsto dal nono e decimo comma dell’art. 32 della legge 18 aprile 1975, n. 110», i quali stabiliscono che le armi antiche e artistiche non possono essere distrutte senza il preventivo consenso di un esperto nominato dal sovrintendente per le gallerie competente per territorio e, se riconosciute di interesse storico e artistico, debbono essere destinate alle raccolte pubbliche indicate dalla sovrintendenza. Ai sensi del quarto comma, infine, le munizioni e gli esplosivi «devono essere versati alla competente direzione di artiglieria, per l’utilizzazione da parte delle forze armate, ovvero per l’alienazione nei modi previsti dall’art. 10, secondo comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110, o per la distruzione».
2.3.– Le censure del rimettente investono, peraltro, non l’intera disciplina speciale ora ricordata, ma unicamente quella relativa alle armi comuni e agli oggetti atti ad offendere racchiusa nel terzo comma dell’art. 6 della legge n. 152 del 1975 (pur non richiamato numericamente nell’ordinanza di rimessione).
Vale, al riguardo, osservare che la nozione di «armi comuni» abbraccia la generalità delle cosiddette armi proprie – quelle, cioè, «la cui destinazione naturale è l’offesa alla persona» (art. 585, secondo comma, numero 1, cod. pen. e art. 30, primo comma, numero 1, del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, recante «Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza») – fatta eccezione per le armi da guerra o tipo guerra; mentre la locuzione «oggetti atti ad offendere» evoca la categoria delle cosiddette armi improprie. Si tratta di oggetti ideati per scopi diversi (lavorativi, domestici, sportivi, scientifici e via dicendo), ma che, in ragione della loro conformazione, possono essere occasionalmente utilizzati per l’offesa alla persona (art. 45, secondo comma, del r.d. 6 maggio 1940, n. 635, recante «Approvazione del regolamento per l’esecuzione del testo unico 18 giugno 1931, n. 773, delle leggi di pubblica sicurezza») e dei quali la legge vieta il porto in modo assoluto o senza giustificato motivo (art. 585, secondo comma, numero 2, cod. pen. e art. 4 della legge n. 110 del 1975).
Ciò posto, occorre ricordare come, negli anni immediatamente successivi alla sua entrata in vigore, la disposizione di cui al censurato terzo comma dell’art. 6 della legge n. 152 del 1975 abbia dato luogo a dubbi interpretativi, alimentati dalla diversità della sua formulazione rispetto a quella del secondo comma. Infatti, mentre quest’ultimo enuncia in modo diretto un obbligo di versamento delle armi da guerra o tipo guerra confiscate alla competente direzione di artiglieria per i fini ivi indicati («debbono essere versate»), il terzo comma impiega una formula diversa ed ellittica («[l]e armi comuni e gli oggetti atti ad offendere confiscati, ugualmente versati alle direzioni di artiglieria, devono essere destinati alla distruzione, …»).
Secondo un’ipotesi interpretativa, recepita a suo tempo in una circolare del Ministero di grazia e giustizia, emessa in risposta a quesiti rivoltigli da taluni uffici di cancelleria (Ministero di grazia e giustizia, Direzione generale degli affari civili e delle libere professioni, prot. n. 4/3040/42 del 26 febbraio 1977), in questo modo il legislatore non avrebbe escluso in radice la vendita delle cose in questione, ma si sarebbe limitato a stabilire la sorte finale delle armi versate alle direzioni di artiglieria, da identificare in quelle sole che non potessero essere messe in circolazione o delle quali la legge vietasse la fabbricazione o il porto.
Tale lettura sarebbe stata avvalorata dal fatto che la legge n. 152 del 1975 non aveva abrogato la disciplina delle aste pubbliche di armi, introdotta appena un mese prima dall’art. 33 della legge n. 110 del 1975, che vietava la vendita, nelle pubbliche aste, delle sole armi da guerra e tipo guerra, nonché delle armi comuni prive dei contrassegni prescritti, consentendola invece negli altri casi, sia pure con la prescrizione di particolari cautele.
2.4.– I dubbi sul punto sono venuti, peraltro, meno a seguito del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203 – ulteriore provvedimento “emergenziale” adottato per far fronte a gravissimi fenomeni di criminalità organizzata – il cui art. 10-bis riformulava l’art. 33 della legge n. 110 del 1975 nel testo che è ancora attualmente in vigore, vietando in assoluto, sotto comminatoria di sanzioni penali, la vendita nelle pubbliche aste, non soltanto di armi da guerra e tipo guerra, ma anche di armi comuni da sparo.
A fronte di tale intervento normativo, che ha privato la tesi opposta del principale tra gli argomenti di sostegno, appare attualmente indiscusso che, in forza della norma censurata, le armi comuni e gli oggetti atti ad offendere confiscati debbano essere indefettibilmente versati alla direzione di artiglieria competente, la quale dovrà destinarli alla distruzione, ove non consti un interesse storico o artistico alla conservazione in raccolte pubbliche: rimanendo esclusa, in ogni caso, la possibilità di una loro vendita da parte delle cancellerie (nel senso che il versamento presso i competenti uffici di artiglieria dell’esercito italiano è imposto, unitamente alla misura di sicurezza patrimoniale della confisca, per tutti i reati concernenti le armi comuni e ogni altro oggetto atto ad offendere, ex plurimis, Corte di cassazione, sentenze n. 47394 e n. 15860 del 2022, e n. 35712 del 2019). Il presupposto interpretativo che fonda l’odierna questione corrisponde, pertanto, al diritto vivente.
3.– Successivamente all’ordinanza di rimessione, il decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari) – entrato in vigore il 30 dicembre 2022 (in forza del suo art. 99, comma 1-bis) – ha modificato l’art. 86 norme att. cod. proc. pen., evocato dal rimettente come tertium comparationis (in quanto espressivo della regola generale cui egli vorrebbe ricondurre la fattispecie considerata).
Le modifiche – operate segnatamente dall’art. 41, comma 1, lettera i), numeri 1) e 2), del citato decreto – non sono, tuttavia, tali da giustificare la restituzione degli atti al giudice a quo, per un nuovo esame della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione. Da un lato, infatti, si è previsto che le operazioni di vendita delle cose confiscate possono essere delegate, oltre che a un istituto all’uopo autorizzato – come già stabilito dall’art. 13 del decreto ministeriale 30 settembre 1989, n. 334 (Regolamento per l’esecuzione del codice di procedura penale) –, a uno dei professionisti esterni (notai, avvocati o commercialisti iscritti in appositi elenchi) indicati negli artt. 534-bis e 591-bis del codice di procedura civile.
La modifica non muta, dunque, in alcun modo i termini della questione, confermando che la destinazione “normale” dei beni confiscati è la vendita, che essa mira anzi ad agevolare. Dall’altro, si è previsto che, quando sia stata disposta una confisca per equivalente di beni non sottoposti a sequestro o, comunque sia, non specificamente individuati nel provvedimento che dispone la confisca, l’esecuzione si svolge con le modalità previste per l’esecuzione delle pene pecuniarie: modifica anch’essa chiaramente ininfluente ai fini dell’odierno giudizio, nel quale si discute della confisca di beni specifici.
4.– L’Avvocatura generale dello Stato ha formulato, nell’atto di intervento e nella memoria, tre distinte eccezioni di inammissibilità della questione.
4.1.– La prima, in ordine logico, attiene all’asserito difetto di rilevanza. In proposito, va premesso che, secondo quanto riferito nell’ordinanza di rimessione, il giudice a quo si trova investito, quale giudice dell’esecuzione, della richiesta del pubblico ministero di ordinare la confisca e la distruzione di una pistola, in relazione alla cui omessa custodia era stato emesso decreto penale di condanna, divenuto esecutivo a seguito della rinuncia dell’imputato all’opposizione.
Il rimettente si reputa competente a pronunciare sulla richiesta ai sensi dell’art. 676 cod. proc. pen.
Per costante giurisprudenza, tale disposizione, nell’attribuire al giudice dell’esecuzione la competenza in materia di confisca, lo legittima a disporre la misura ablativa quando il giudice della cognizione non vi abbia provveduto e si tratti di confisca obbligatoria (ex aliis, Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenze 27 maggio-9 settembre 2020, n. 25602, e 16 ottobre-16 novembre 2018, n. 52007): ipotesi, questa, che ricorrerebbe nella specie, in quanto la contravvenzione di omessa custodia di armi, di cui all’art. 20, primo e secondo comma, della legge n. 110 del 1975, rientra pacificamente tra i reati per i quali l’art. 6, primo comma, della legge n. 152 del 1975 impone l’applicazione della misura (in questo senso, anche con riguardo al caso in cui la contravvenzione risulti estinta per oblazione, ex plurimis, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze n. 35712 del 2019 e 14 giugno-6 agosto 2019, n. 35706).
Consequenzialmente, il rimettente sarebbe competente a provvedere anche sulla destinazione del bene. Obietta, tuttavia, l’Avvocatura dello Stato che, per quanto pure si legge nell’ordinanza di rimessione, il pubblico ministero aveva dato atto, nella richiesta di decreto penale di condanna, che la pistola era già stata confiscata in altro procedimento, aperto per il reato di cui all’art. 580 cod. pen. a seguito del suicidio della moglie dell’imputato con l’arma in questione. Competente a provvedere sulla destinazione della pistola, quale giudice dell’esecuzione, sarebbe allora – secondo l’Avvocatura – soltanto il giudice di quel procedimento, che ha preventivamente adottato la misura ablativa, al quale il rimettente avrebbe dovuto trasmettere gli atti. L’eccezione non è fondata.
Di là da ogni altro possibile rilievo, la difesa dello Stato omette di considerare che nell’ordinanza di rimessione si precisa che l’affermazione del pubblico ministero è risultata errata, in quanto nel procedimento per il reato di istigazione o aiuto al suicidio, chiuso con decreto di archiviazione, nulla era stato in realtà disposto quanto alla pistola. Donde appunto l’odierna richiesta del pubblico ministero, su cui il giudice a quo è chiamato a pronunciare.
4.2.– È già insita in quanto precede la non fondatezza della seconda eccezione, relativa a un preteso difetto di descrizione della fattispecie concreta. Secondo l’Avvocatura dello Stato, il rimettente avrebbe omesso di precisare quale esito abbia avuto il procedimento connesso e quale destinazione sia stata eventualmente data all’arma attinta in esso dalla misura ablativa (se la pistola fosse stata già distrutta o destinata ad altro scopo la questione diverrebbe irrilevante). L’omissione denunciata non sussiste, giacché, come dianzi ricordato, il giudice a quo ha indicato che il procedimento parallelo è stato archiviato, senza che sia stato adottato in esso alcun provvedimento riguardo alla pistola.
4.3.– Non fondata è anche l’ultima eccezione, relativa a un asserito difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza.
Secondo la difesa dello Stato, il rimettente non si sarebbe confrontato con la giurisprudenza di questa Corte, in base alla quale, per poter ravvisare un vulnus costituzionale quale quello ipotizzato, connesso all’illogicità della norma, è necessario che la scelta operata con quest’ultima contrasti in modo manifesto con il canone della ragionevolezza, palesando un uso distorto della discrezionalità legislativa. L’eccezione attiene al merito e non all’ammissibilità della questione.
5.– Nel merito, la questione non è, peraltro, fondata. Il diverso trattamento riservato alle armi comuni e agli oggetti atti ad offendere rispetto alla generalità delle altre cose colpite da confisca penale, di cui il rimettente si duole, trova giustificazione nella particolare natura degli strumenti considerati.
Si tratta, infatti, di oggetti intrinsecamente pericolosi, stante l’estrema gravità delle conseguenze che possono derivare da un loro improprio utilizzo, le quali incidono su beni giuridici primari – la vita umana, la sicurezza e l’incolumità pubblica – che lo Stato ha il dovere costituzionale di tutelare (sentenze n. 5 del 2023 e n. 109 del 2019).
Circostanza, questa, particolarmente evidente per le armi comuni da sparo, come la pistola della quale si discute nel giudizio a quo: armi il cui acquisto e il cui porto sono, proprio per questo, soggetti a una rigorosa disciplina limitativa, volta ad assicurare, per quanto possibile, l’affidabilità di coloro i quali vi procedono circa il corretto impiego delle armi stesse (con riguardo al porto, sentenza n. 109 del 2019).
Come già posto in evidenza, d’altro canto, la confisca obbligatoria delle armi prevista dall’art. 6, primo comma, della legge n. 152 del 1975 mira precipuamente a prevenire i pericoli connessi all’uso illecito di tali oggetti (supra, punto 2.2.). In questo quadro, la ratio della norma censurata appare agevolmente identificabile nella volontà di evitare che siano proprio gli organi dello Stato a rimettere in circolazione, tramite vendita al miglior offerente (e magari, quindi, a prezzi “di realizzo”), armi che lo Stato stesso ha confiscato – non di rado con seri rischi per le forze di polizia – in un’ottica di prevenzione dei gravissimi fatti realizzabili mediante l’uso di tali oggetti.
La norma esprime, dunque, una avvertita esigenza di coerenza, a fronte della quale il legislatore ha ritenuto che debba restare recessivo l’interesse meramente economico dello Stato a trarre profitto dalla misura ablativa, esitando al pubblico le cose da essa colpite secondo le regole generali.
Al legislatore deve riconoscersi, d’altronde, un ampio margine di discrezionalità nei bilanciamenti fra i contrapposti interessi coinvolti dalla disciplina delle armi (con riguardo alla determinazione dei presupposti che consentono il rilascio della licenza di porto d’armi, sentenza n. 109 del 2019): discrezionalità che incontra il solo limite – nella specie non valicato – della non manifesta irragionevolezza delle soluzioni adottate.
6.– La questione va dichiarata, pertanto, non fondata, non potendosi ritenere che la Costituzione imponga allo Stato di rimettere sul mercato le armi confiscate al fine di trarre un lucro dalla misura ablativa.