Consiglio di Stato, Sezione VII, Sentenza 6 novembre 2024, n. 8862
PRINCIPIO DI DIRITTO
L’autotutela esecutiva di cui all’art. 823 c.c. “mira, in via diretta, al perseguimento dell’interesse pubblico cui risponde l’uso del bene, quale che sia – e dunque, anche il c.d. uso concesso – e solo in via indiretta al diritto dominicale della pubblica amministrazione”. Anche se l’effetto restitutorio consegue identicamente alle azioni ordinarie previste dal codice civile e all’autotutela esecutiva, “differenti ne sono i presupposti, poiché solo quest’ultima pone rimedio alla situazione di pericolo per l’interesse pubblico dovuta alla sottrazione da parte di terzi dell’uso cui il bene è destinato per le ragioni della collettività”. Ne segue che, “per esercitare la c.d. autotutela esecutiva non è neppure necessario, dunque, il previo accertamento della titolarità del diritto nell’esecuzione per via amministrativa, essendone l’obiettivo l’immediato ripristino della condizione del bene e dell’accesso alle utilità allo stesso connesse, “reprimendo” la fruizione abusiva di chi vi sia frapposto(…)
l’art. 823, secondo comma, c.c. “soddisfa l’esigenza di tutela non connessa al possesso, né alla mera proprietà pubblica, ma dipendente dagli interessi pubblici che il bene può soddisfare(…)
i poteri di cui al predetto art. 823, secondo comma, c.c., possono esercitati in relazione sia ai beni che, come nel caso di specie, appartengono al Demanio (necessario ed eventuale), sia a quelli che fanno parte del patrimonio indisponibile (cfr., ex multis, Cass civ., Sez. Un., ord. 20 luglio 2015, n. 15155; C.d.S., Sez. VII, 30 marzo 2024, n. 2980)(…)
fa capo alla P.A. il potere di controllo e di intervento di imperio, sia per proteggere il bene da turbative, sia per eliminare ogni situazione di contrasto riguardo alle esigenze del pubblico interesse che devono ispirare l’utilizzazione dei beni destinati a pubblico servizio (C.d.S., Sez. V, 1° ottobre 1999, n. 1224; id., 22 novembre 1993, n. 1164; Sez. VI, 25 novembre 1991, n. 969). Ciò giustifica l’ampio ambito di operatività dell’autotutela amministrativa dei beni sia demaniali, sia patrimoniali indisponibili, potendo la P.A. emettere provvedimenti autoritativi di riduzione in pristino, ovvero di revoca e di modificazione, con forza coattiva, degli atti e delle situazioni divenute incompatibili con la destinazione pubblica del bene (C.d.S., Sez. V, n. 1164/1993, cit.)(…)
una volta verificato (come nel caso di specie a seguito del sopralluogo del 1° luglio 2021) che un bene demaniale o patrimoniale indisponibile è adibito ad uso privato in difetto di un titolo idoneo, la P.A. legittimamente esercita, ai sensi dell’art. 823, secondo comma, c.c., il potere di autotutela possessoria emettendo un’ordinanza di rilascio (cfr. C.d.S., Sez. VI, 30 settembre 2015, n. 4554). “Siffatto provvedimento ha natura doverosa e vincolata e non necessita né della preventiva comparazione con gli interessi del privato occupante, non potendosi giammai ingenerare un affidamento “legittimo” in presenza di una situazione connotata da evidente abusività, né di specifica motivazione, se non quella necessaria a dare atto dell’accertamento dell’abusiva occupazione e nei confronti del quale non è configurabile il vizio di eccesso di potere, perché l’esercizio del potere di autotutela esecutiva si giustifica unicamente in ragione della perdurante occupazione sine titulo del bene pubblico (cfr. Cons. Stato, sez. VII, 29 gennaio 2024, n. 862)”
TESTO RILEVANTE DELLA PRONUNCIA
Viene in decisione l’appello proposto dalla Taverna della Rocca contro la sentenza del
T.A.R. Lazio, Roma, che ha respinto il ricorso della stessa avverso l’ordinanza dell’Agenzia del Demanio di rilascio dei locali occupati dalla Società facenti parte dell’immobile demaniale denominato “Stallone degli Estensi”, sito in Tivoli (Roma).
In via preliminare, deve essere respinta la richiesta di rinvio formulata dall’appellante, in quanto non assistita da adeguate motivazioni e, in specie, non basata su elementi tali da far assimilare l’odierna fattispecie a quei “casi eccezionali”, unicamente in presenza dei quali è consentito, ai sensi dell’art. 73, comma 1-bis, c.p.a., disporre il rinvio della causa ad altra udienza: i “gravissimi motivi di ordine personale” indicati dal difensore della Taverna della Rocca nella comunicazione inviata alle altre parti non sono stati specificati e lo stesso difensore è comparso in udienza e ha discusso la causa, rispondendo anche alla questione rilevata d’ufficio ex art. 73, comma 3, c.p.a. dal Collegio. Di tal ché, in conclusione, la carenza di idonee giustificazioni finisce per connotare la richiesta di rinvio come avente un contenuto oggettivamente dilatorio, che non può trovare condivisione, né accoglimento.
Va, quindi, delibata la questione, rilevata d’ufficio dal Collegio che l’ha sottoposta alla parte comparsa in udienza ai sensi dell’art. 73, comma 3, c.p.a., dell’ammissibilità e della tempestività delle memorie depositate dall’appellante il 1° e il 17 settembre 2024, in quanto recanti censure nuove, non dedotte nel ricorso di primo grado, e senza il rispetto dei termini a difesa.
In dette memorie, infatti, in aggiunta rispetto alle censure originariamente formulate, l’appellante: A) ha lamentato la carenza di legittimazione attiva dell’Agenzia del Demanio riguardo all’adozione del provvedimento di sgombero, in forza dell’avvenuto trasferimento del bene interessato al Comune di Tivoli con atto del 13 dicembre 2018, di cui la Società sarebbe venuta a conoscenza solo di recente (a seguito del suo deposito da parte del Comune di Tivoli in un separato giudizio pendente presso il T.A.R. Lazio, Roma, avente il n. 8374/2024 di R.G.), ma non prodotto nel presente giudizio; B) ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 823, secondo comma, c.c. per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost., sul rilievo che esso disciplinerebbe una procedura decisoria ed esecutiva totalmente sottratta al controllo giudiziale, che andrebbe a ledere le norme dell’ordinamento giuridico (incluso l’art. 112 c.p.c.) poste a tutela del diritto di difesa, del contraddittorio e della partecipazione al procedimento amministrativo.
La censura di cui al punto A), presente in termini pressoché analoghi sia nella memoria depositata il 1° settembre 2024, sia in quella del successivo 17 settembre, integra, a ben vedere, un vero e proprio motivo aggiunto ex art. 104, comma 3, c.p.a.: con la stessa, infatti, si deduce un nuovo vizio dell’atto impugnato – l’incompetenza dell’Agenzia emanante –, fondato sulla sopravvenuta conoscenza di un documento non prodotto dalle altre parti nel giudizio di primo grado.
Invero, è pacifico in giurisprudenza che, ai sensi dell’art. 104, comma 3, c.p.a., nel giudizio d’appello possono essere presentati motivi aggiunti qualora la parte ricorrente venga a conoscenza di nuovi documenti dopo la conclusione del giudizio di primo grado, non prodotti dalle altre parti in detto giudizio, e da tali documenti emergano (secondo la stessa parte) nuovi vizi degli atti già impugnati (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. III, 9 maggio 2024, n. 4168; Sez. V, 7 febbraio 2024, n. 1263; Sez. IV, 17 luglio 2023, n. 6933; C.G.A.R.S., Sez. Giurisd., 4 ottobre 2022, n. 996): la proposizione di motivi aggiunti è dunque consentita nei limiti in cui siano proposti avverso i medesimi atti già impugnati in prime cure (C.d.S., Sez. V, 4 maggio 2020, n. 2792; Sez. VI, 2 gennaio 2018, n. 21).
Trattandosi di un motivo aggiunto, per la sua proposizione l’appellante avrebbe dovuto rispettare la disciplina processuale dettata a tutela del contraddittorio, sotto i profili della sua notificazione alle controparti e della sua tempestività, anche ai fini del rispetto dei termini a difesa: senonché, nel caso di specie i suddetti profili non risultano osservati.
In particolare, è palese l’inammissibilità della proposizione della censura con la memoria depositata il 1° settembre 2024, non essendo questa stata notificata ad alcuna delle controparti, in violazione del consolidato orientamento giurisprudenziale che non consente l’ampliamento del thema decidendum mediante semplice memoria non notificata (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. IV, 8 aprile 2024, n. 3204; id., 26 marzo 2013, n. 1715; Sez. VII, 28 agosto 2023, n. 8016; id., 28 febbraio 2023, n. 2099; Sez. VI, 5 gennaio 2023, n. 188; Sez. III, 9 luglio 2014, n. 3493; Sez. V, 24 ottobre 2013, n. 5156; id., 12 maggio 2011, n. 2825). Invero, per costante giurisprudenza, una semplice memoria difensiva non notificata alla controparte e depositata nell’imminenza dell’udienza di discussione della causa non costituisce strumento idoneo ad ampliare la materia del contendere, potendo esserle affidato “il solo compito di una mera illustrazione esplicativa dei precedenti motivi di gravame” (tra le tante: C.d.S., Sez. VII, 3 agosto 2023, n. 7521; Sez. II, 17 luglio 2020, n. 4620).
Per quanto riguarda la memoria depositata il 17 settembre 2024, l’appellante ha versato in atti il 19 settembre 2024 la copia di una comunicazione che attesterebbe l’invio alle controparti della suddetta memoria, in relazione alla quale, pertanto, l’onere di notificazione della stessa sarebbe stato da parte sua assolto. Tuttavia, anche a voler ritenere ammissibile la proposizione in tal guisa della censura de qua e che dunque ci si trovi innanzi a motivi aggiunti ritualmente formulati e notificati, gli stessi sono palesemente tardivi, in quanto presentati in data 17 settembre 2024, quindi senza il rispetto dei termini a difesa: ciò ne precluderebbe l’esame in questa fase e comporterebbe, onde garantire l’osservanza dei predetti termini, il rinvio della trattazione della causa ad altra udienza, come del resto ha richiesto la stessa parte appellante.
Vero è, infatti, che il Comune di Tivoli, con memoria depositata il 2 settembre 2024, ha controdedotto alla censura, nella formulazione di questa contenuta nella memoria del 1° settembre 2024 (di tenore identico, peraltro, a quella contenuta nella memoria del 17 settembre 2024): tuttavia, il principio del contraddittorio non risulta garantito rispetto all’Agenzia del Demanio, che non ha potuto difendersi sulla questione della sua pretesa incompetenza ad ordinare lo sgombero.
Nondimeno, il Collegio ritiene di applicare alla presente controversia la regola dell’art. 49, comma 2, c.p.a., applicabile ai giudizi di appello, che consente di statuire anche a contraddittorio non integro, senza tenere conto degli eventuali difetti di quest’ultimo, quando il ricorso risulti “manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondato” (cfr. C.d.S., A.P., 28 settembre 2018, n. 15; Sez. IV, 1° giugno 2016, n. 2316; id., 22 gennaio 2013, n. 370; Sez. III, 27 maggio 2013, n. 2893; C.G.A.R.S., Sez. Giurisd., 17 giugno 2016, n. 172).
Invero, come ben spiegato dalla Plenaria, la regola dell’art. 49, comma 2, c.p.a. si applica anche nei giudizi di appello per ragioni di economia processuale, onde prescindere da incombenti inutili (nella fattispecie qui in esame: il differimento della discussione ad altra udienza) quando le risultanze già acquisite consentano di definire il giudizio in senso sfavorevole per la parte ricorrente (C.d.S., A.P. n. 15/2018, cit.; id., 27 aprile 2015, n. 5).
Orbene, nel caso di specie non vi è necessità di rinviare la trattazione della causa per garantire a tutte le parti, inclusa l’Agenzia del Demanio, il contraddittorio sulla censura di carenza di legittimazione attiva dell’Agenzia stessa all’adozione dell’ordine di rilascio, poiché tale censura è manifestamente infondata, basandosi essa su un presupposto – quello dell’intervenuto trasferimento dal Demanio al Comune di Tivoli dell’area da rilasciare – infondato in fatto.
Detto presupposto, infatti, risulta smentito per tabulas dalla lettura dell’atto di trasferimento del 13 dicembre 2008 versato in atti dal Comune di Tivoli in data 2 settembre 2024, il cui deposito viene qui autorizzato, ai sensi degli artt. 104, comma 2, c.p.a. e 54, comma 1, c.p.a. visto il suo carattere indispensabile ai fini della decisione sulla presente censura, senza anche in questo caso alcuna necessità di procedere al rinvio della trattazione della causa in quanto il contraddittorio in relazione a tale atto si è svolto in modo pieno mediante la memoria depositata dall’appellante il successivo 17 settembre e i documenti depositati in pari data, che per le stesse ragioni vengono qui autorizzati con conseguente rispetto del principio della c.d. parità delle armi (fermo restando che sono le parti appellate che potrebbero dolersi della restrizione dei termini difensivi determinata dalla parte appellante secondo quanto detto in precedenza).
Si legge per vero all’art. 2 del predetto atto che “l’Agenzia del Demanio-Direzione Regionale Lazio, […] trasferisce e attribuisce, a titolo gratuito, al Comune di Tivoli (Rm) ai sensi dell’art. 5, comma 5, del D.Lgs. n. 85 del 28 maggio 2010 e ss.mm.ii, la proprietà del compendio immobiliare denominato “Torrione o Rocca Pia S. Croce”, situato in Tivoli (RM), riportato al Catasto fabbricati del Comune di Tivoli al Foglio 55, particelle O e 560, subalterno 2 graffate, avente Cat. B/3, Classe
1, […], rendita di € 4.339,81 confinante nel suo insieme con restanti beni del Demanio dello Stato e con altri beni comunali, salvi altri, con distacco sul Vicolo del Barchetto, con altro distacco su Viale Trieste e con ulteriore distacco su Via Aldo Moro”.
La porzione immobiliare che forma oggetto dell’ordinanza di rilascio è, invece, quella identificata al Catasto di Tivoli fabbricato fg. n. 55, part. n. 299, sub. n. 3, graffato con part. n. 560, sub. n. 1, terreno fg. n. 255, part. nn. 299/parte, 300 e 800. Come si vede, i dati catastali nei due atti non coincidono, riguardando il provvedimento particelle diverse da quelle cui si riferisce l’atto di trasferimento, con il ché deve concludersi – in adesione all’eccezione formulata dal Comune di Tivoli nelle sue difese – che le aree trasferite al Comune sono diverse e distinte da quelle che formano oggetto dell’ordine di rilascio. Né vale affermare, come fa l’appellante, che le aree interessate dal provvedimento gravato rivestirebbero natura pertinenziale inscindibile, trattandosi di affermazione priva di riscontri, di tal ché, in definitiva, essendo dette aree rimaste in capo all’Agenzia del Demanio, questa risulta fornita della legittimazione attiva a disporne lo sgombero.
Passando alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 823, secondo comma, c.c. sollevata dalla Taverna della Rocca nella memoria del 1° settembre 2024 e ribadita in forma più sintetica in quella del successivo 17 settembre, sopra riportata al punto B), la stessa sconta anzitutto i medesimi profili di inammissibilità e di tardività poc’anzi illustrati per la censura di carenza di legittimazione attiva di cui al punto A). Essa è poi affetta da un ulteriore profilo di inammissibilità, connesso alla violazione del divieto di nova ex art. 104, comma 1, c.p.a., trattandosi di una questione nuova, che non è neppure configurabile quale motivo aggiunto ai sensi del comma 3 del citato art. 104.
In ogni caso, la questione è manifestamente infondata, atteso che, contrariamente all’avviso espresso dall’appellante, i provvedimenti della P.A. espressione di autotutela esecutiva ai sensi dell’art. 823, secondo comma, c.c., non sono in alcun modo sottratti al sindacato giurisdizionale, né essi conculcano – in relazione ai rigorosi presupposti previsti per la loro adozione – il diritto di difesa, il principio del contraddittorio o le garanzie di partecipazione procedimentale.
Al riguardo, infatti, la giurisprudenza di questo Consiglio (Sez. V, 29 dicembre 2023, n. 11314) ha avuto modo di evidenziare che l’autotutela esecutiva di cui all’art. 823 c.c. “mira, in via diretta, al perseguimento dell’interesse pubblico cui risponde l’uso del bene, quale che sia – e dunque, anche il c.d. uso concesso – e solo in via indiretta al diritto dominicale della pubblica amministrazione”. Anche se l’effetto restitutorio consegue identicamente alle azioni ordinarie previste dal codice civile e all’autotutela esecutiva, “differenti ne sono i presupposti, poiché solo quest’ultima pone rimedio alla situazione di pericolo per l’interesse pubblico dovuta alla sottrazione da parte di terzi dell’uso cui il bene è destinato per le ragioni della collettività”. Ne segue che, “per esercitare la c.d. autotutela esecutiva non è neppure necessario, dunque, il previo accertamento della titolarità del diritto nell’esecuzione per via amministrativa, essendone l’obiettivo l’immediato ripristino della condizione del bene e dell’accesso alle utilità allo stesso connesse, “reprimendo” la fruizione abusiva di chi vi sia frapposto”.
In un recentissimo arresto intervenuto nella materia in esame (C.d.S., Sez. V, 6 settembre 2024, n. 7473) la giurisprudenza ha avuto modo di ribadire:
– che l’art. 823, secondo comma, c.c. “soddisfa l’esigenza di tutela non connessa al possesso, né alla mera proprietà pubblica, ma dipendente dagli interessi pubblici che il bene può soddisfare”;
– che i poteri di cui al predetto art. 823, secondo comma, c.c., possono esercitati in relazione sia ai beni che, come nel caso di specie, appartengono al Demanio (necessario ed eventuale), sia a quelli che fanno parte del patrimonio indisponibile (cfr., ex multis, Cass civ., Sez. Un., ord. 20 luglio 2015, n. 15155; C.d.S., Sez. VII, 30 marzo 2024, n. 2980);
– che fa capo alla P.A. il potere di controllo e di intervento di imperio, sia per proteggere il bene da turbative, sia per eliminare ogni situazione di contrasto riguardo alle esigenze del pubblico interesse che devono ispirare l’utilizzazione dei beni destinati a pubblico servizio (C.d.S., Sez. V, 1° ottobre 1999, n. 1224; id., 22 novembre 1993, n. 1164; Sez. VI, 25 novembre 1991, n. 969). Ciò giustifica l’ampio ambito di operatività dell’autotutela amministrativa dei beni sia demaniali, sia patrimoniali indisponibili, potendo la P.A. emettere provvedimenti autoritativi di riduzione in pristino, ovvero di revoca e di modificazione, con forza coattiva, degli atti e delle situazioni divenute incompatibili con la destinazione pubblica del bene (C.d.S., Sez. V, n. 1164/1993, cit.).
Da ultimo, mette conto richiamare le affermazioni contenute in un recente arresto di questa Sezione (n. 2980 del 30 marzo 2024), in cui si è evidenziato che, una volta verificato (come nel caso di specie a seguito del sopralluogo del 1° luglio 2021) che un bene demaniale o patrimoniale indisponibile è adibito ad uso privato in difetto di un titolo idoneo, la P.A. legittimamente esercita, ai sensi dell’art. 823, secondo comma, c.c., il potere di autotutela possessoria emettendo un’ordinanza di rilascio (cfr. C.d.S., Sez. VI, 30 settembre 2015, n. 4554). “Siffatto provvedimento ha natura doverosa e vincolata e non necessita né della preventiva comparazione con gli interessi del privato occupante, non potendosi giammai ingenerare un affidamento “legittimo” in presenza di una situazione connotata da evidente abusività, né di specifica motivazione, se non quella necessaria a dare atto dell’accertamento dell’abusiva occupazione e nei confronti del quale non è configurabile il vizio di eccesso di potere, perché l’esercizio del potere di autotutela esecutiva si giustifica unicamente in ragione della perdurante occupazione sine titulo del bene pubblico (cfr. Cons. Stato, sez. VII, 29 gennaio 2024, n. 862)”.
Orbene, l’onere di dimostrare in giudizio i fatti che costituiscono il fondamento dell’esercizio del potere di autotutela esecutiva incombe, ai sensi degli artt. 2697 c.c. e 823, secondo comma, c.c., in capo all’Amministrazione che tale potere abbia esercitato (C.d.S., Sez. VII, 5 gennaio 2024, n. 21; Sez. VI, 29 agosto 2019, n. 5934): se ne evince la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 823, secondo comma, c.c. e dunque va respinta la richiesta dell’appellante di sollevare la suddetta questione.
Venendo adesso all’analisi delle censure contenute nell’originario atto di appello, il Collegio ritiene che nessuna di esse sia suscettibile di positivo apprezzamento.
In dettaglio, è infondato anzitutto il primo motivo di gravame, poiché la circostanza che la Taverna della Rocca continui ad oggi ad esercitare l’attività di ristorazione nei locali interessati dall’ordine di rilascio ha assunto rilevanza in sede cautelare (v. l’ordinanza n. 2731/2022 cit.), ma non può in sede di merito supplire alla mancanza in capo alla Società di un titolo idoneo, che legittimi la perdurante occupazione da parte sua dei locali in questione.
È poi infondato il secondo motivo, poiché la sussistenza di un nesso di pregiudizialità nei confronti dei contenziosi civilistici pendenti in relazione al compendio in esame è argomentazione già disattesa dal T.A.R. e che è riproposta in termini del tutto generici nell’appello. Ma la sentenza di prime cure l’ha confutata con motivazioni analitiche (non censurate in modo adeguato dall’appellante), richiamando in particolare la consapevolezza in capo alla Società della demanialità dei locali di cui ha acquisito la disponibilità, desunta: 1) dalla richiesta della ricorrente all’Agenzia del Demanio della concessione dell’uso speciale dei locali in parola, che comporta il riconoscimento in capo all’Agenzia del potere di trasferirgliene la disponibilità; 2) dalle dichiarazioni rese dal legale rappresentante della Taverna della Rocca in occasione della stipula dell’atto di concessione, avvenuta il 20 dicembre 2002; 3) dalla consapevolezza in capo alla Società della natura transitoria del predetto uso speciale, con scadenza – non rinnovabile – fissata al 19 dicembre 2008; 4) dalla presentazione (mediante predisposizione di idoneo elaborato grafico di progetto), ad opera della Società, di un’istanza alla Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici di autorizzazione ad eseguire opere di manutenzione dell’immobile, nonché di un’analoga istanza rivolta anche all’Intendenza di Finanza, con la dichiarazione espressa che gli interventi avrebbero avuto ad oggetto il “Complesso Demaniale detto “Stallone egli Estensi” e “Torrione Rocca Pia”; 5) dall’invio in data 7 maggio 2022 all’Agenzia del Demanio, da parte del legale rappresentante della Società, del computo metrico estimativo relativo ai “lavori indifferibili da realizzarsi nell’immobile in parola”.
In presenza di tali elementi, il T.A.R. ha concluso per l’assenza di qualsiasi incertezza tra le parti su quali fossero “fisicamente” i locali richiesti e affidati in uso speciale alla Taverna della Rocca, con piena validità della relativa concessione e, d’altro lato, con obbligo della concessionaria di procedere al loro rilascio in ragione dell’intervenuta scadenza del titolo che ne legittimava l’occupazione da parte sua. Il tutto, con il corollario dell’inesistenza di un nesso di pregiudizialità rispetto ai giudizi pendenti in sede civile, la cui definizione – dice la sentenza con un’affermazione che questo Giudice di appello condivide appieno – non condiziona in alcun modo l’odierna controversia.
Ancora, è palesemente infondato il terzo motivo di appello, poiché l’ordinanza di questa Sezione che ha accolto l’appello cautelare (la già citata n. 2731/2022 del 16 giugno 2022) si è limitata a demandare alla sede di merito l’approfondimento delle questioni al centro della controversia.
In ordine alle molteplici questioni sollevate con il quarto motivo, si osserva:
– che è palesemente infondata la doglianza di illegittimità dell’intervento in autotutela in ragione del mancato previo esperimento da parte della P.A. di un giudizio ordinario di cognizione, atteso che la stessa appellante riferisce che la circolare dell’Agenzia del Demanio da essa invocata ha riguardo alla fattispecie, totalmente diversa da quella ora in esame, del mancato pagamento degli indennizzi dovuti per l’occupazione senza titolo di area demaniale ed afferma che in detta ipotesi si rende necessaria l’instaurazione del giudizio innanzi al G.O. per ottenere sentenza di condanna al pagamento di quanto dovuto;
– che la tesi della nullità radicale della concessione del 2002 per indeterminatezza/indeterminabilità del suo oggetto prova troppo ed è irrilevante ai fini che qui interessano, poiché, come già osservato con l’ordinanza n. 4894/2023 cit., recante reiezione dell’istanza di sospensione della sentenza, ove si volesse ritenere nulla la predetta concessione, ciò vieppiù confermerebbe che la Società occupa sine titulo i locali per cui è causa;
– che è del pari infondata la doglianza di esercizio dell’autotutela possessoria ad opera dell’Agenzia oltre i termini di legge, poiché nessuna delle norme richiamate si rivela pertinente al caso in esame. Infatti la disciplina sull’esercizio dell’autotutela entro un termine ragionevole e comunque nel termine di diciotto mesi ex art. 6 della l. n. 124/2015 (c.d. riforma Madia) – poi ridotto a dodici mesi dall’art. 63, comma 1, del d.l. n. 77/2021, convertito con l. n. 108/2021 – si riferisce al potere di annullamento d’ufficio dei provvedimenti illegittimi di cui all’art. 21-nonies della l. n. 241/1990 e non può essere estesa al ben diverso potere di autotutela possessoria ex art. 823, secondo comma c.c.. Né può essere condiviso l’indirizzo minoritario secondo cui l’autotutela ex art. 823 c.c. non potrebbe essere esperita quando sia decorso un anno dall’alterazione o dalla turbativa (il termine di un anno dal presunto spoglio essendo il limite temporale per la tutela possessoria nel diritto privato), cosicché in tal ipotesi l’Amministrazione dovrebbe adire il G.O. con un’azione petitoria tesa all’accertamento del diritto vantato. Come si è visto sopra, infatti, il potere ex art. 823 c.c. è finalizzato alla tutela di beni pubblici e pertanto a fini eccedenti e comunque differenti dalla mera tutela possessoria stabilita per qualsiasi bene: esso, perciò, non incontra limiti temporali, non trovando per lo stesso applicazione analogica il termine annuale di cui all’art. 1168 c.c., data l’eterogeneità degli istituti, l’uno relativo ad una potestà amministrativa volta a perseguire interessi pubblici, l’altro concernente una forma speciale di tutela giurisdizionale di interessi privati (C.d.S., Sez. V, 2 novembre 1998, n. 1558; T.A.R. Friuli Venezia Giulia, Sez. I, 8 aprile 2011, n. 184).
Il quinto motivo di appello, dal canto suo, è infondato per le medesime ragioni già sopra illustrate a dimostrazione dell’infondatezza del secondo motivo: ad esse si fa perciò integrale rinvio, per esigenze di economia processuale.
Venendo al sesto motivo d’appello, avente a oggetto la pretesa omissione delle garanzie partecipative a danno della Società, esso – come giustamente osservato dal primo giudice in relazione all’analoga censura del ricorso di primo grado – trova smentita nel verbale ricognitivo degli esiti del sopralluogo svoltosi in data 1° luglio 2021 alla presenza in loco del rappresentante legale della Società ricorrente e del suo tecnico di fiducia: verbale che viene puntualmente richiamato nelle premesse dell’ordinanza di rilascio, nelle quali si legge che in detto sopralluogo è stata riscontrata l’occupazione sine titulo da parte della Taverna della Rocca dell’immobile demaniale per cui è causa.
Nel predetto verbale viene indicato, tra l’altro, che: a) il sopralluogo era stato previsto per il giorno 3 giugno 2021, ma essendo emersa per tale data l’indisponibilità della Società a presenziarvi, lo stesso è stato fissato al 1° luglio 2021; b) in tale ulteriore data il sopralluogo si è poi svolto alla presenza sia delle parti pubbliche, sia del privato e in particolare il Commissario della Polizia Locale di Tivoli ha chiesto agli occupanti l’autorizzazione a ispezionare il sito e gli occupanti hanno aderito alla richiesta e durante il sopralluogo hanno assistito alle relative operazioni; c) il tecnico della Società presente alle operazioni si è impegnato a fornire all’Agenzia del Demanio, onde velocizzare le operazioni di rilievo, il “disegno CAD del sito”, cosicché le attività di rilievo metrico sono state interrotte, ma tale impegno non è stato poi mantenuto nonostante i numerosi solleciti effettuati.
Si può, pertanto, concludere che le Amministrazioni procedenti hanno rispettato scrupolosamente le garanzie partecipative della Società appellante, non procedendo al sopralluogo se non in presenza dei rappresentanti di questa e che, semmai, è stata la Società, attraverso il proprio tecnico, ad omettere di fornire la documentazione richiesta
A ciò aggiungasi che successivamente il legale della Società ha inviato, con e-mail dell’8 luglio 2021 versata in atti (doc. 9 dell’Agenzia del Demanio), una diffida alle Amministrazioni che conferma in sostanza lo svolgimento delle operazioni di sopralluogo di cui al citato verbale. Tale elemento toglie valore alla circostanza, di cui l’appellante si duole, che la stesura del verbale sarebbe avvenuta negli Uffici dell’Agenzia del Demanio, in assenza della parte ricorrente e dei suoi tecnici e/o difensori e, del resto, la Società non ha documentato l’esperimento vittorioso del giudizio di falso avverso il citato verbale, né la proposizione della relativa querela di falso, quale unico strumento per contrastare la certezza legale privilegiata che assisteva il predetto verbale, in quanto atto pubblico ex art. 2700 c.c., almeno nella parte attinente alla descrizione delle operazioni effettuate (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. VI, 17 ottobre 2022, n. 8811; id., 4 aprile 2022, n. 2441; id., 28 maggio 2019, n. 3510; Sez. II, 6 luglio 2021, n. 6797; Sez. IV, 1° luglio 2019, n. 4472; id., 5 ottobre 2018, n. 5738).
Di conseguenza, le doglianze formulate al riguardo nel sesto motivo di appello sono prive di pregio, essendo detto motivo nel suo complesso infondato.
Con il settimo motivo la Società ha criticato la sentenza, per avere questa denegato la sussistenza di una lesione del suo legittimo affidamento e per avere affermato l’avvenuta risoluzione del rapporto concessorio, sostenendo che, al contrario, la concessione sarebbe proseguita in forza di proroga e/o rinnovo tacito, come attesterebbero: I) il fatto che essa avrebbe continuato a pagare i canoni ben oltre la scadenza della concessione, con accettazione degli stessi da parte del Demanio; II) l’insorgere di una serie di contenziosi sia sulla radicale nullità della concessione, sia sui pagamenti effettuati e sul controcredito della parte privata, sia sulla legittimità del possesso in capo a quest’ultima dei beni, in quanto assistito da un doppio titolo (contratto di locazione con i precedenti titolari dell’esercizio ed atto di concessione); III) la circostanza che, ai sensi dell’art. 5 della concessione, alla liquidazione dei rapporti tra le parti derivanti dalla concessione stessa avrebbe dovuto far seguito la restituzione della cauzione ad opera dell’Agenzia del Demanio, ma tale restituzione non sarebbe mai avvenuta, così confermando la non estinzione del rapporto; IV) la natura dello stesso atto di concessione del 2002, quale mera formalizzazione di uno stato di fatto già esistente da tempo.
Le doglianze sono tutte infondate, dovendosi confermare, pur al più approfondito esame proprio della fase di merito del giudizio, quanto già affermato in sede cautelare con l’ordinanza n. 4894/2023 cit. e cioè: a) che la Taverna della Rocca non ha dimostrato di essere munita di un titolo per l’occupazione del bene cui si riferisce l’ordinanza di rilascio impugnata; b) che la concessione da essa stipulata nel 2002 per l’occupazione del bene è scaduta nel 2008 e non è mai stata rinnovata, né in forma espressa, né tacitamente.
Come rammentato di recente da questa Sezione con sentenza n. 1841 del 23 febbraio 2024, costituisce ius receptum (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. V, 26 settembre 2013, n. 4775) che quando una concessione di suolo pubblico sia scaduta, la tollerata occupazione del bene pubblico non radica alcuna posizione di diritto soggettivo o di interesse legittimo in capo all’occupante (anche ex concessionario), a tal fine essendo irrilevante anche il pagamento delle somme corrispondenti all’originario canone (anche se maggiorato), in quanto tali somme valgono solo a compensare l’occupazione sine titulo (C.d.S., Sez. V, 27 settembre 2004, n. 6277) e non essendo ammissibile il rinnovo di una concessione per facta concludentia, considerata l’impossibilità di desumere per implicito la volontà dell’Amministrazione di vincolarsi (C.d.S., Sez. V, 22 novembre 2005, n. 6489).
Di qui l’irrilevanza di tutti gli elementi sopra elencati ai punti da I) a IV), ivi compresa la mancata restituzione della cauzione da parte dell’Agenzia del Demanio, essendo onere dell’interessata adottare ogni opportuna iniziativa finalizzata al suo recupero. Non vi è dubbio che lo spirare del termine della concessione (il che nel caso di specie si è verificato nel 2008) costituisca circostanza “pienamente sufficiente a radicare la potestà dell’Amministrazione di agire per il recupero del bene nell’esercizio dei propri poteri di autotutela esecutiva all’uopo previsti dall’art. 823 Cod. Civ.” (C.d.S., Sez. VII, n. 1841/2024, cit.).
Si è già visto, del resto, che la presenza di una situazione connotata da abusività impedisce in radice di configurare un legittimo affidamento in capo all’occupante abusivo. Vanno condivise, infatti, le osservazioni formulate sul punto dalla difesa erariale, la quale ha eccepito come: a) non vi sia alcuna incertezza sulla titolarità del bene in capo al Demanio; b) la concessione al privato per l’occupazione dell’area demaniale sia scaduta nel 2008 e – si ribadisce – non sia stata mai rinnovata o prorogata né in forma espressa, né tacitamente.
Quanto finora esposto vale altresì a confutare le doglianze contenute nell’ottavo e ultimo motivo di gravame, che risulta a sua volta integralmente infondato, non ravvisandosi nella fattispecie in esame alcuna violazione dei principi stabiliti dalla l. n. 241/1990.
In conclusione, previo rigetto della richiesta di rinvio formulata dall’appellante, nonché declaratoria di manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 823, secondo comma, c.c. sollevata dall’appellante, l’appello e i motivi aggiunti sono nel loro complesso infondati e devono, perciò, essere respinti, dovendo la sentenza impugnata essere confermata.
Le spese del giudizio di appello seguono la soccombenza e sono liquidate a carico dell’appellante e a favore delle Amministrazioni appellate nella misura di cui al dispositivo.