Corte di Cassazione, Sez. Unite Civili, sentenza 25 marzo 2022 n. 9775
PRINCIPIO DI DIRITTO
In tema di concessione temporanea per l’occupazione di suolo pubblico in favore di un soggetto privato, con contestuale autorizzazione allo scavo, l’istanza del concessionario, con espressa assunzione dell’obbligo di rispettare anche gli impegni relativi allo scavo sanzionati con clausola penale, recepita da un regolamento comunale, per il relativo inadempimento o ritardo nell’adempimento, cui faccia seguito il rilascio del provvedimento amministrativo che richiami detto obbligo, dà luogo ad una convenzione accessiva alla concessione validamente stipulata in forma scritta ad substantiam, in base alla disposizione di cui all’art. 17 del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- – La decisione del ricorso è stata rimessa a queste Sezioni, ai sensi dell’art. 374 c.p.c., in ragione della questione di diritto posta dall’ordinanza interlocutoria n. 24704 del 2021 della Terza Sezione civile – siccome ritenuta oggetto di contrasto giurisprudenziale o, comunque, di questione di massima di particolare importanza -, i cui termini generali possono essere così sintetizzati:
“se in tema di concessione per l’occupazione di suolo pubblico in favore di un soggetto privato, l’applicazione di una clausola penale per l’inadempimento o il ritardo nell’adempimento del concessionario, che acceda al titolo autoritativo, possa fondarsi sulla proposta unilaterale dell’istante cui faccia seguito il rilascio del provvedimento amministrativo, ovvero debba essere trasfusa in un atto sottoscritto dall’amministrazione e dal concessionario perché possa dirsi rispettato il requisito della forma scritta ad substantiam, che si impone nella formazione dei rapporti negoziali tra amministrazione pubblica e privati in base alle disposizioni di cui agli artt. 16 e 17 del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440″.
6.1. – Si rendono, però, necessari ulteriori elementi di specificazione affinché i termini dell’anzidetta questione giuridica possano essere apprezzati come pienamente aderenti alla fattispecie portata alla cognizione giudiziale (anche) con la presente controversia.
Viene, infatti, in rilievo – secondo uno schema affatto incontroverso nella sua portata materiale e come tale oggetto di incontestato accertamento nei giudizi di merito [in tal senso anche la documentazione nuovamente depositata dalla ricorrente (con fascicolo separato, documenti distinti dalle lettere da “A” a “V”) e già prodotta in primo grado] – l’istanza di una società concessionaria del servizio di distribuzione di energia elettrica (Acea Distribuzione S.p.A.) nel Comune di Roma (ora Roma Capitale) volta ad ottenere un provvedimento di concessione per l’occupazione temporanea di suolo pubblico e di autorizzazione al fine di operare scavi nel territorio comunale nello svolgimento dei compiti di concessionaria di quel servizio pubblico (posa di condutture, manutenzione della rete, allacci in favore degli utenti, etc.: cfr. p. 3 ricorso).
In tale istanza, la società concessionaria del servizio pubblico dichiara “di accettare le condizioni e gli obblighi prescritti nel Regolamento Cavi ed in particolare le penali indicate nell’art. 26 del Regolamento medesimo”, ossia il Regolamento approvato con deliberazione n. 56 del 17 maggio 2002 del(l’allora) Comune di Roma. L’art. 26 citato (rubricato “Penalità”), prevede una serie di “penali di natura civilistica, fermo restando il risarcimento del danno” (così il comma 1), tra cui, al punto 5), la penale di euro 500,00 “per ogni giorno di ritardo sulla data di ultimazione dei lavori prevista nell’autorizzazione e per ogni giorno di ritardo nella riconsegna”.
Alla presentazione di siffatta istanza segue l’adozione, da parte del Comune in favore dell’ente societario gestore del servizio pubblico, del provvedimento di “concessione temporanea di suolo pubblico e autorizzazione all’apertura di cavi”, in cui l’autorizzazione stessa (la “licenza”) “è rilasciata a condizione che vengano rispettate tutte le leggi e i regolamenti vigenti in materia, con particolare riferimento al Regolamento Cavi, al Codice della Strada ed al Codice Civile (…)”.
- – L’esame della questione di diritto individuata dall’ordinanza interlocutoria della Terza Sezione civile – e, con essa, dello stato della giurisprudenza di questa Corte in medias res – non può prescindere, tuttavia, dalla previa delibazione del primo e terzo motivo di ricorso.
- – Il primo motivo di ricorso interroga sulla natura delle penali previste dall’art. 26.5 del Regolamento cavi, ossia se di natura civilistica, alla stregua anche di quanto testualmente indicato dalla stessa disposizione regolamentare, ovvero, come sostiene il ricorrente, di carattere sanzionatorio pubblicistico, consistenti in vere e proprie sanzioni amministrative; con la conseguenza che, se fossero da qualificarsi come tali, emanazione dunque della potestà autoritativa della pubblica amministrazione, non si porrebbe in radice neppure la questione oggetto del rinvio nomofilattico ai sensi dell’art. 374 c.p.c., ma occorrerebbe, per l’appunto, verificare se il Regolamento che dette penali prevede sia stato adottato in forza di idonea base legale.
La prospettazione di parte ricorrente, infatti, è orientata ad escludere in sé la possibilità di giungere a qualificare le anzidette penali come previsioni inerenti ad un “rapporto privatistico su basi paritarie”, giacché predeterminate unilateralmente dall’ente pubblico quale autorità e, quindi, in forza di poteri di supremazia esercitabili nell’ambito di un rapporto concessorio ed autorizzatorio, là dove l’istanza di autorizzazione presentata dall’interessato allo scavo avrebbe natura di “mera presa d’atto” dell’imposizione autoritativa.
Ad avviso di ACEA, saremmo, pertanto, in un ambito affatto estraneo a quello in cui la pubblica amministrazione si relaziona e agisce iure privatorum.
8.1. – Il motivo, così articolato, è infondato.
La sentenza impugnata (cfr., segnatamente, pp. 5 e 6) ha riconosciuto il carattere privatistico delle penali di cui all’art. 26.5 del Regolamento Cavi facendo riferimento al “rapporto complesso (c.d. concessione-contratto) nel quale, al momento autoritativo (valutazione dell’interesse pubblico e contemperamento con gli altri interessi coinvolti) si accompagnano le prescrizioni sulle modalità dello scavo e del ripristino e i tempi per la restituzione dell’area stradale all’uso proprio, quest’ultimo integrante un rapporto paritetico di tipo privatistico”, dovendo le penali anzidette, seppur contemplate dalla fonte regolamentare, trovare apposizione nell’”atto che disciplina dal punto di vista civilistico la relazione tra amministrazione e soggetto autorizzato allo scavo”.
La statuizione del giudice di merito è corretta in diritto, trovando conferma nella stessa normativa di settore, di rango primario e secondario, nell’ambito della quale è da inquadrare, a monte, la vicenda in esame.
Occorre, infatti, rammentare che, in forza dell’art. 25, comma 1, del d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), è necessario che chi intenda effettuare “attraversamenti od uso della sede stradale e relative pertinenze con corsi d’acqua, condutture idriche, linee elettriche e di telecomunicazione, sia aeree che in cavo sotterraneo, sottopassi e sovrappassi, teleferiche di qualsiasi specie, gasdotti, serbatoi di combustibili liquidi, o con altri impianti ed opere, che possono comunque interessare la proprietà stradale”, è tenuto ad ottenere una “preventiva concessione dell’ente proprietario”.
La necessità di una concessione amministrativa per “eseguire i lavori per la costruzione e la manutenzione dei manufatti di attraversamento o di occupazione” della sede stradale o di sue pertinenze è ribadita dall’art. 67, comma 5, del d.p.r. 16 dicembre 1992, n. 495 (Regolamento di esecuzione e attuazione del nuovo codice della strada), che, a sua volta, stabilisce, però, che tale concessione venga “accompagnata dalla stipulazione di una convenzione tra l’ente proprietario della strada concedente e l’ente concessionario” nella quale devono trovare regolamentazione le modalità di utilizzo temporaneo del bene pubblico e di svolgimento dell’attività oggetto di concessione [“a) la data di inizio e di ultimazione dei lavori e di ingombro della carreggiata; b) i periodi di limitazione o deviazione del traffico stradale; c) le modalità di esecuzione delle opere e le norme tecniche da osservarsi; d) i controlli ed ispezioni e il collaudo riservato al concedente; e) la durata della concessione; f) il deposito cauzionale per fronteggiare eventuali inadempienze del concessionario sia nel confronti dell’ente proprietario della strada che dei terzi danneggiati; g) la somma dovuta per l’uso o l’occupazione delle sedi stradali, prevista dall’articolo 27 del codice”].
Viene, dunque, in rilievo quella fattispecie complessa, per l’appunto conosciuta come “concessione-contratto”, che trova configurazione nella “convergenza di un negozio unilaterale ed autoritativo (atto deliberativo) della Pubblica Amministrazione, e di una convenzione attuativa (contratto, capitolato o disciplinare) e quindi, di un rapporto contrattuale bilaterale fonte di obblighi e diritti reciproci dell’ente concedente e del privato concessionario”, senza che ciò valga comunque “ad immutare la natura ontologicamente concessoria della fattispecie” (così Cass., S.U., 19 febbraio 1999, n. 79).
A tale modulo procedimentale si sono riferite, del resto, le decisioni di questa Corte (Cass., Sez. I, 9 ottobre 2019, n. 25380; Cass., Sez. I, 14 ottobre 2019, n. 25849; Cass., Sez. I, 5 giugno 2020, n. 10738; Cass., Sez. I, 11 settembre 2020, n. 18904) rese in fattispecie similari, o identiche, a quella ora in esame.
Si è, infatti, precisato (segnatamente, nelle citate pronunce del 2019, che richiamano ulteriori precedenti a sostegno: Cass., 3 settembre 1998, n. 8768 e Cass., 25 settembre 1998, n. 9594) che la figura della concessione-contratto “è caratterizzata dalla contemporanea presenza di elementi pubblicistici e privatistici, per effetto della quale … un soggetto privato può divenire titolare di prerogative pubblicistiche, mentre l’Amministrazione viene a trovarsi in una posizione particolare e privilegiata rispetto all’altra parte, in quanto dispone, oltre che dei pubblici poteri che derivano direttamente dalla necessità di assicurare il pubblico interesse in quel particolare settore al quale inerisce la concessione, anche dei diritti e delle facoltà che nascono comunemente dal contratto ., tra i quali può essere previsto anche quello di esigere dalla controparte il pagamento di una penale in caso l’inadempimento degli obblighi posti a suo carico”.
La legittima previsione di clausole penali nell’ambito di tale complesso rapporto – ancora argomentano le ordinanze citate – è stata ammessa dalla stessa giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, Sez. IV, 3 dicembre 2015, n. 5492; ma si veda anche Cons. Stato, Sez. V, 5 dicembre 2013, n. 5786, Cons. Stato, Sez. IV, 19 agosto 2016, n. 3653), pur rimarcandosi le “peculiarità originate dall’inerenza all’esercizio di pubblici poteri”, tali da non comportare di per sé la diretta applicazione delle norme del codice civile in tema di obbligazioni e contratti, bensì dei relativi principi in termini di compatibilità con la persistenza ed immanenza del potere pubblico, pur sempre radicato nel provvedimento concessorio fondativo del rapporto tra l’amministrazione e il concessionario, rispetto al quale la convenzione (il contratto) si presenta come strumento ausiliario, idoneo alla regolazione di aspetti patrimoniali del rapporto.
In tal senso è anche il richiamo, ad opera dei citati precedenti in medias res, alla disciplina dettata dall’art. 11 della legge 7 agosto 1990, n. 241, che prevede pure “accordi con contenuto patrimoniale, ma afferenti al previo esercizio di potestà pubbliche”, osservandosi “che, nelle ipotesi di esercizio di un potere amministrativo ampliativo della sfera giuridica dei privati (e quindi non solo concessorio, ma anche autorizzatorio), pur essendo chiara la natura latamente contrattuale dell’atto bilaterale, volto a regolare aspetti patrimoniali, l’inosservanza delle condizioni concordate si riflette sull’interesse pubblico che costituisce la causa della concessione o dell’autorizzazione ed il fine al quale dev’essere orientata l’azione del concessionario (al di là delle ovvie finalità individuali), con la conseguenza che la penale svolge una duplice funzione, quella di sanzione per l’interesse pubblico violato e quella più squisitamente civilistica di determinazione preventiva e consensuale della misura del risarcimento del danno derivante dall’inadempimento o dal ritardo nell’adempimento”.
Una tale, condivisibile, ricostruzione della fattispecie controversa ne evidenzia, dunque, la distanza rispetto a quanto sostenuto da ACEA, che pretende “di ravvisare il fondamento della penale nel potere sanzionatorio attribuito agli enti territoriali per garantire il rispetto delle disposizioni dettate dai rispettivi regolamenti”, con ciò intendendo “ignorare la complessità degli accordi di cui all’art. 11 della legge n. 241 del 1990 e la loro autonomia rispetto al potere regolamentare dei predetti enti, nonché la natura prettamente pubblica degl’interessi presidiati dalle sanzioni contemplate in passato dall’art. 106 del r.d. n. 383 del 1934 ed oggi dall’art. 7-bis del d.lgs. n. 267 del 2000, che impone di riconoscere alle stesse una funzione radicalmente diversa da quella di una penale contrattualmente concordata”.
Una distanza che, nelle fattispecie esaminate e sovrapponibili alla presente, è segnata ancor più dalla specificità della posizione del cessionario e dall’attività da esso posta in essere in base al titolo convenzionale accessivo al provvedimento amministrativo, essendo l’accordo tra Comune di Roma ed Acea Distribuzione (società controllata da Acea S.p.A., che, a sua volta, aveva come azionista di riferimento proprio il Comune di Roma) “volto a contemperare il diritto dell’Acea di operare sui propri impianti interrati, in qualità di gestore dei servizi pubblici, e l’interesse collettivo alla fruizione della strada, cui occorre aggiungere quello prevalentemente patrimoniale ad un corretto ripristino dello stato dei luoghi, nonché l’interesse dello stesso Comune al funzionamento dei predetti servizi” (così, segnatamente, Cass. n. 25380/2019 e Cass. n. 25849/2019, citate).
Ed è in tale contesto che è venuta ad operare la clausola penale, inserita nel regolamento pattizio attraverso un rinvio ricettizio all’art. 26.5 del Regolamento Cavi, diretta a tutelare l’ente concedente contro l’inadempimento o il ritardo nell’adempimento delle condizioni imposte alla società autorizzata allo scavo, nonché a liquidare anticipatamente il pregiudizio dallo stesso derivante.
- – Occorre, quindi, esaminare ora il terzo motivo, che soluzione fosse davvero nel senso auspicato dalla ricorrente, da comportare in ogni caso la cassazione della sentenza della Corte territoriale, rendendo così ultroneo, in termini di utilità pratica dell’impugnazione, l’esame del tema rimesso alla decisione di queste Sezioni Unite.
La censura di ACEA, infatti, assume esservi giudicato esterno sulla illegittimità dell’art. 26 del Regolamento Cavi del 2002, con la predicata conseguenza che il rapporto negoziale, relativo alle penali di natura civilistica (anche se comunque qualificate come tali), avrebbe dovuto essere ritenuto dal giudice di appello affetto da nullità radicale, derivata dall’essere fondato su un atto amministrativo illegittimo, poiché annullato in sede giudiziale con decisione passata in cosa giudicata.
9.1. – Il motivo, tuttavia, ancor prima che se ne possa saggiare la fondatezza, è inammissibile, lasciando, dunque, spazio all’esame della questione veicolata dall’ordinanza interlocutoria n. 24704 del 2021.
Non vi è dubbio che l’esistenza e la portata del giudicato esterno (anche del giudice amministrativo), in quanto assimilato agli “elementi normativi”, possa essere direttamente accertata anche dal giudice di legittimità, con cognizione piena che si estende al diretto riesame degli atti del processo ed alla diretta valutazione ed interpretazione degli atti processuali, mediante indagini ed accertamenti, anche di fatto, indipendentemente dall’interpretazione data al riguardo dal giudice di merito (Cass., S.U., 28 novembre 2007, n. 24664).
Ma a tal fine occorre, anzitutto, che del giudicato esterno vi sia, agli atti del processo, prova della sua formazione e tale prova, pur in assenza di contestazioni (e salvo esplicita e chiara ammissione circa la definitività della decisione), deve risultare attraverso la produzione della sentenza munita del relativo attestato di cancelleria (Cass., 1° marzo 2018, n. 2018; Cass., 23 agosto 2018, n. 20974; Cass., 29 settembre 2021, n. 26310).
Nella specie, non vi è alcuna esplicita ammissione circa la definitività della sentenza n. 2238/2012 del T.A.R. del Lazio, non avendo la parte controricorrente fatto cenno alcuno alla formazione di un giudicato per mancata impugnazione di detta decisione ovvero per intervento di una pronuncia in grado di appello definitiva, ma unicamente discusso sul fondo della censura, adducendo argomenti in ordine alla diversità di piani su cui verrebbero a porsi le statuizioni del giudice amministrativo di primo grado rispetto a quelle adottate dall’adito giudice civile in sede di appello.
Del resto, la stessa ricorrente deduce che in sede di appello il Comune di Roma, a fronte della produzione della pronuncia anzidetta, “(non) l’aveva in alcun modo contestata o dedottane la non definitività”, così confermando, ancora una volta, l’insussistenza di una esplicita ammissione sull’esistenza di un giudicato.
Ciò posto, del passaggio in giudicato della sentenza n. 2238/2012 del T.A.R. Lazio non vi è evidenza alcuna in atti; donde, l’inammissibilità del motivo, che denuncia la violazione della portata di un giudicato esterno (che si assume di annullamento irretrattabile dell’atto dell’Amministrazione comunale) di cui, però, non sussiste prova della relativa formazione (il che rende superfluo ogni esame sulla portata stessa del preteso giudicato e sulla asserita influenza nella controversia civile).
- – Può, dunque, procedersi all’esame del tema veicolato dall’ordinanza interlocutoria della Terza Sezione, la quale postula come ancora controversa proprio l’avvenuta conclusione di una separata convenzione tra l’ente territoriale e il concessionario al fine di regolare condizioni e modalità dell’attività di scavo esercitata da quest’ultimo in quanto, nella specie, gestore di un servizio pubblico.
Ciò che impone, quindi, di dover indagare sulla portata applicativa della disciplina generale concernente la forma dei contratti in cui sia parte la pubblica amministrazione, dettata dagli artt. 16 e 17 del r.d. n. 2440 del 1923, alla quale occorre fare riferimento anche nel caso in esame.
Va, infatti, da subito rammentato (lasciando al prosieguo gli approfondimenti necessari sul tema) che, alla stregua di quanto già evidenziato da queste Sezioni Unite nella più recente sentenza n. 20684 del 9 agosto 2018, è affermazione incontrastata del diritto vivente quella per cui le norme poste dagli artt. 16 e 17 del r.d. n. 2440 del 1923 impongono la forma scritta per i contratti stipulati dallo Stato e dalle sue amministrazioni, venendo esse ad integrare una delle ipotesi richiamate dal n. 13 dell’art. 1350 c.c., per il quale “devono farsi per atto pubblico … sotto pena di nullità … gli altri atti specialmente indicati dalla legge”.
Ed è, del pari, diritto vivente che dette norme, nonostante sia venuto meno, per effetto dell’abrogazione del r.d. n. 383 del 1934 ad opera dell’art. 274, lett. a) del d.lgs. n. 267 del 2000, il richiamo ad esse operato per Comuni e Province dagli artt. 87 e 140 del citato r.d. del 1934, continuino ad applicarsi “pure a Comuni e Province e non solo in ragione del tempo di conclusione del contratto (Cass., 22 marzo 2012, n. 4570; Cass., 10 aprile 2008, n. 9340), ma esplicitamente, nonostante l’abrogazione, quale principio generale finalizzato al controllo istituzionale e della collettività sull’operato dell’ente pubblico (territoriale) e, quindi, funzionale all’esigenza di assicurare l’imparzialità ed il buon andamento della pubblica amministrazione (Cass., 7 luglio 2007, n. 1752)”.
Pertanto, la risoluzione questione di diritto rimessa a queste Sezioni Unite non può essere ostacolata – come, del resto, la stessa ordinanza di rimessione ex art. 374 c.p.c. evidenzia – dal fatto che nessuno dei motivi di ricorso formulati dal concessionario denunci la nullità dell’accordo con l’Amministrazione per difetto della forma scritta ad substantiam, essendo stata sollevata la relativa questione, per la prima volta, soltanto con la memoria ex art. 378 c.p.c., poiché viene in rilievo una nullità negoziale, ex art. 1418 c.c., come tale rilevabile d’ufficio anche in sede di legittimità (Cass., S.U., 12 dicembre 2014, n. 26242).
10.1. – Il nucleo (ancora) vitale (una volta superato il profilo inerente al rilievo officioso della nullità negoziale per difetto di forma ad substantiam) del contrasto giurisprudenziale ravvisato dall’ordinanza interlocutoria della Terza Sezione civile – per cui si assume, in condivisione con le conclusioni scritte del pubblico ministero, essere contrapposte, da un lato, le decisioni rese nel 2018 e nel 2019 (Cass., Sez. I, 11 giugno 2018, n. 15146; Cass., Sez. III, 15 giugno 2018, n. 15754; Cass., Sez. I, 9 ottobre 2019, n. 25380; Cass., Sez. I, 14 ottobre 2019, n. 25849) e, dall’altro, quelle del 2020 (Cass., Sez. I, 5 giugno 2020, n. 10738; Cass., Sez. I, 11 settembre 2020, n. 18904) – risiede nel fatto che “(l)a validità e l’efficacia di una convenzione negoziale accessoria e integrativa rispetto al rapporto di concessione che si perfezioni mediante l’adesione del concessionario, contenuta nella stessa istanza di concessione, al regolamento comunale che preveda le penalità la cui legittimità è in discussione, viene infatti espressamente affermata nelle prime decisioni (quelle del 2018 e del 2019), mentre viene negata altrettanto espressamente nelle ultime (quelle del 2020), sulla base del rilievo di vizi nelle modalità di formazione dell’accordo negoziale attinenti non solo alla necessità della mera forma scritta ma anche alla necessità dell’espressione del consenso in un testo del regolamento contrattuale che sia formato e approvato contestualmente dalla parte pubblica e da quella privata”.
Nelle pronunce da ultimo richiamate (Cass. n. 10738/2020 e Cass. n. 18904/2020), infatti, la validità (invece presupposta in modo inequivoco, segnatamente, dalle citate decisioni del 2019) della convenzione tra Amministrazione comunale e Acea Distribuzione, comprensiva delle clausole penali recepite dall’art. 26.5 Regolamento Cavi, è esclusa per un difetto di forma ad substantiam, ai sensi degli artt. 16 e 17 del r.d. n. 2440 del 1923, giacché lo schema adottato dalle parti (impegno unilaterale del concessionario ad osservare gli obblighi di detto Regolamento) non era rispondente “ai moduli negoziali espressamente individuati dal legislatore, con una scelta coerente con le regole generali in tema di contratti della P.A.”.
Al Collegio rimettente, tuttavia, non sembra persuasiva la tesi della nullità per difetto di forma della convenzione integrativa del rapporto di concessione fondata, essenzialmente, sulla necessità dell’espressione del consenso in un testo contrattuale formato e approvato contestualmente dal concessionario e dall’ente locale.
Nell’ordinanza interlocutoria si prefigura la diversa soluzione dell’accordo validamente perfezionatosi in ragione del rilievo per cui “le penali in discussione sono previste da un regolamento comunale, vale a dire un atto amministrativo con valore ufficiale che, come tale, è ovviamente espresso in forma scritta ed è sottoscritto dagli organi competenti dell’ente locale” e, per altro verso, che le stesse penali “sono state accettate con un atto scritto e sottoscritto dal legale rappresentante della società concessionaria, in occasione della domanda di concessione di occupazione di area pubblica”.
Una soluzione, questa, che troverebbe conforto, ad avviso della Sezione rimettente, nello stesso disposto dell’art. 17 del r.d. n. 2440 del 1923, là dove sono prese in considerazione, come modalità della stipulazione, anche le “obbligazioni stese appiedi del capitolato” ovvero derivanti da “atto separato di obbligazione sottoscritto da chi presenta l’offerta”, che darebbero evidenza al fatto che l’accordo negoziale integrativo del rapporto di concessione, nella specie, non solo sia stato concluso nella forma scritta, ma anche secondo moduli compatibili e non certo confliggenti con le espresse previsioni normative in materia, soprattutto considerando l’emersione, nella giurisprudenza di questa Corte, di «una nozione “funzionale” delle forme negoziali, che ha consentito addirittura di ritenere sussistente il requisito della forma scritta anche in totale mancanza della sottoscrizione da parte di uno dei contraenti» (si citano, tra le altre: in materia di contratti quadro per investimenti finanziari, Cass., S.U., 16 gennaio 2018, n. 898; in materia di contratti bancari, Cass., 6 settembre 2019, n. 22385).
10.2. – Queste Sezioni Unite ritengono di dare seguito alla tesi – fatta propria dall’ordinanza interlocutoria e ampiamente sviluppata nelle condivisibili conclusioni scritte depositate, da ultimo, dall’Ufficio della Procura Generale, “parte pubblica chiamata, nel processo civile di cassazione, a collaborare all’attuazione dell’ordinamento in maniera indipendente rispetto agli interessi concreti delle parti” (Cass., S.U., 6 marzo 2020, n. 6459) – della valida stipulazione, nel caso di specie, di una convenzione accessiva alla concessione temporanea di occupazione del suolo pubblico, con autorizzazione allo scavo, intercorsa tra il Comune di Roma (ora Roma Capitale) e Acea Distribuzione S.p.A.
10.3. – Come detto, ai fini della individuazione della forma dei contratti stipulati da una Pubblica Amministrazione va ascritto specifico rilievo agli artt. 16 e 17 del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440.
L’art. 16, primo comma, del citato r.d. n. 2440 del 1923, contempla la c.d. “forma pubblica amministrativa” (“I contratti sono stipulati da un pubblico ufficiale delegato a rappresentare l’amministrazione e ricevuti da un funzionario designato quale ufficiale rogante, con le norme stabilite dal regolamento”).
Il successivo art. 17 disciplina la stipulazione dei “contratti a trattativa privata”, i quali, oltre a poter assumere la forma indicata dall’art. 16, “possono anche stipularsi: per mezzo di scrittura privata firmata dall’offerente e dal funzionario rappresentante l’amministrazione; per mezzo di obbligazione stesa appiedi del capitolato; con atto separato di obbligazione sottoscritto da chi presenta l’offerta; per mezzo di corrispondenza, secondo l’uso del commercio, quando sono conclusi con ditte commerciali”.
Dal combinato disposto di tali norme, la giurisprudenza, come già ricordato, da sempre fa discendere la necessità della forma scritta ad substantiam.
La ratio di tale principio – per cui i contratti conclusi dallo Stato e dagli enti locali richiedono, per l’appunto, la forma scritta a pena di nullità, con esclusione di qualsivoglia manifestazione di volontà implicita o desumibile da comportamenti meramente attuativi – trova fondamento nei principi costituzionali di buon andamento ed imparzialità della Pubblica Amministrazione di cui all’art. 97 Cost., nella misura in cui la forma scritta assolve la funzione di garanzia del regolare svolgimento dell’attività amministrativa, permettendo di identificare con precisione l’obbligazione assunta ed il contenuto negoziale dell’atto, così da renderlo controllabile da parte dell’autorità tutoria (fra le molte: Cass., 14 dicembre 2006, n. 26826; Cass., 26 ottobre 2007, n. 22537; Cass., 14 aprile 2011, n. 8539; Cass., 22 dicembre 2015, n. 25798; Cass., 17 giugno 2016, n. 12540; Cass., 27 ottobre 2017, n. 25631; Cass., 23 gennaio 2018, n. 1549; Cass., S.U., 9 agosto 2018, n. 20684).
10.4. – Fermo restando l’onere della forma scritta a pena di nullità quando una delle parti del negozio sia una Pubblica Amministrazione, emergono, però, nella giurisprudenza di questa Corte due orientamenti non collimanti quanto alla necessità, o meno che il vincolo trovi espressione in un unico documento contrattuale recante la contestuale sottoscrizione di entrambe le parti.
10.4.1. – Un primo orientamento, dalle origini più risalenti e che muove da Cass., S.U., 29 maggio 1967, n. 1169, afferma che l’esigenza della forma scritta per i contratti con gli enti pubblici “non esclude che il complesso obbligatorio che astringe la pubblica amministrazione al privato possa risultare da un insieme di dichiarazioni scritte oggetto di scambio tra i contraenti, dichiarazioni che nella fase formativa del contratto si atteggiano come proposta e come accettazione tra assenti, così come avviene nella sfera della negoziazione comune” (cosi, segnatamente, Cass., 14 marzo 1970, n. 675; in senso conforme anche: Cass., 20 giugno 1990, n. 6210 e Cass., S.U., 30 marzo 1994, n. 3132).
E’ un filone giurisprudenziale che ha trovato ulteriore e significativa conferma anche più di recente, essendosi ribadito, chiaramente, che il “requisito della forma scritta, richiesta ad substantiam per la stipulazione dei contratti della P.A., nei contratti conclusi con la modalità della trattativa privata, non richiede necessariamente la redazione dell’atto su di un unico documento sottoscritto da entrambe le parti, ma può essere soddisfatto anche mediante lo scambio delle missive recanti, rispettivamente, la proposta e l’accettazione, entrambe sottoscritte ed inscindibilmente collegate, in modo da evidenziare inequivocabilmente la formazione dell’accordo, perché questa modalità di stipulazione del contratto, generalmente ammessa dall’ordinamento, non è esclusa per tali contratti dalla formula di cui all’art. 17 del r.d. n. 2440 del 1923” (così Cass., 27 ottobre 2017, n. 25631; analogamente: Cass., 21 luglio 2005, n. 15293, Cass., 16 aprile 2008, n. 9977, Cass., 30 maggio 2013, n. 13656).
L’indirizzo trae linfa, evidentemente, dal principio, più generale e di risalente enunciazione (a partire da Cass., 2 aprile 1964, n. 719), per cui, alla stregua delle regole generali sulla formazione dell’accordo tra le parti contrattuali (art. 1326 c.c.), “nei contratti a forma vincolata non occorre che la volontà negoziale sia manifestata da entrambi i contraenti contestualmente e contemporaneamente, per modo che il requisito della forma scritta ad substantiam, in caso di sottoscrizioni contenute in due documenti diversi, deve intendersi osservato anche quando la seconda sottoscrizione sia espressa in un documento separato, se questo sia inscindibilmente collegato al primo, sì da evidenziare inequivocabilmente l’incontro dei consensi nelle suddette forme” (così, in particolare, Cass., 19 novembre 1991, n. 12411, ma già nello stesso senso: Cass., 7 febbraio 1972, n. 282, Cass., 26 marzo 1979, n. 1762, Cass., 20 giugno 1990, n. 6210; successivamente, tra le altre: Cass., 13 febbraio 2007, n. 3088, Cass., 11 luglio 2014, n. 15993, Cass., 24 marzo 2016, n. 5919).
10.4.2. – Altro filone giurisprudenziale – maturato in tema di rapporti d’opera professionale con la Pubblica amministrazione (a partire da Cass., 14 marzo 1998, n. 2772) – si muove secondo una prospettiva più stretta.
Si ritiene, infatti, che «i contratti con la P.A. devono essere redatti, a pena di nullità, in forma scritta e – salva la deroga prevista dall’art. 17 del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440 per i contratti con le ditte commerciali, che possono essere conclusi a distanza, a mezzo di corrispondenza “secondo l’uso del commercio” (sempre che, pure in questa ipotesi, non siano necessari accordi specifici e complessi, come di regola accade nel caso di appalto di opere pubbliche) – con la sottoscrizione, ad opera dell’organo rappresentativo esterno dell’ente, in quanto munito dei poteri necessari per vincolare l’amministrazione, e della controparte, di un unico documento, in cui siano specificamente indicate le clausole disciplinanti il rapporto. Tali regole formali sono funzionali all’attuazione del principio costituzionale di buona amministrazione in quanto agevolano l’esercizio dei controlli e rispondono all’esigenza di tutela delle risorse degli enti pubblici contro il pericolo di impegni finanziari assunti senza l’adeguata copertura e senza la valutazione dell’entità delle obbligazioni da adempiere» (così, Cass., 20 marzo 2014, n. 6555; in precedenza, oltre la citata Cass. n. 2772/1998: Cass., 3 gennaio 2001, n. 59, Cass., 3 agosto 2004, n. 14808, Cass., S.U., 22 marzo 2010, n. 6827; più di recente: Cass., 17 marzo 2015, n. 5263, Cass., 22 dicembre 2015, n. 25798, Cass., 17 giugno 2016, n. 12540, Cass., 31 ottobre 2018, n. 27910, Cass., 20 marzo 2020, n. 7478).
Dunque, secondo tale indirizzo, è la marcata esigenza di garanzia del regolare svolgimento dell’attività amministrativa che condurrebbe a privilegiare una prospettiva di maggior rigore formale, “permettendo di identificare con precisione il contenuto del programma negoziale, anche ai fini della verifica della necessaria copertura finanziaria e dell’assoggettamento ai controlli dell’autorità tutoria” (così, segnatamente, Cass. n. 7478/2020, citata).
10.5. – Nel caso di specie, più ragioni militano affinché debba preferirsi l’impostazione seguita dal primo e più risalente orientamento di questa Corte.
10.5.1. – Come in precedenza evidenziato (cfr. § 6.1., che precede), il rilascio, da parte del Comune di Roma, dei provvedimenti di concessione temporanea di uso pubblico e di autorizzazione allo scavo in favore di ACEA, si è realizzato secondo la scansione che ha visto, dapprima, quest’ultima società presentare un’istanza nella quale essa dichiarava “di accettare le condizioni e gli obblighi prescritti nel Regolamento Cavi ed in particolare le penali indicate nell’art. 26 del Regolamento medesimo” e, quindi, il Comune adottare gli anzidetti provvedimenti con la specifica indicazione che l’autorizzazione era “rilasciata a condizione che vengano rispettate tutte le leggi e i regolamenti vigenti in materia, con particolare riferimento al Regolamento Cavi, al Codice della Strada ed al Codice Civile (…).
Ed è in tale contesto che è venuta ad operare la clausola penale, inserita nel regolamento pattizio attraverso un rinvio ricettizio e diretta a tutelare l’ente concedente nella fase funzionale o di svolgimento del rapporto, in ipotesi di inadempimento o di ritardo nell’adempimento delle condizioni imposte alla società autorizzata allo scavo.
Si tratta, quindi, di una volontà negoziale che le parti della concessione-contratto, quanto alla disciplina del rapporto negoziale paritario di carattere patrimoniale, hanno espresso, in modo compatibile con l’atteggiarsi di detto complesso schema provvedimentale, ciascuna in forma scritta e – come rilevato in modo puntuale e condivisibile nelle predette conclusioni scritte del pubblico non v’è – non può esservi – discordanza o incertezza sul tenore prescrittivo di quella clausola, essendo la stessa da un lato predisposta (nel Regolamento) e poi trasfusa in un testo (l’atto concessorio-autorizzatorio) e dall’altro fatta oggetto di richiamo e accettazione”.
Ne consegue che una siffatta modalità di conclusione della convenzione accessiva al provvedimento concessorio-autorizzatorio adottato dal Comune di Roma in favore di ACEA non confligge con quanto disposto dall’art. 17 del r.d. n. 2440/1923, letto, in modo coerente alla sua formulazione letterale e alla ratio legis che esprime, dalla stessa giurisprudenza di questa Corte in precedenza richiamata (§ 10.4.1., che precede).
10.5.2. – Detta disposizione, infatti, non postula in modo indefettibile che la conclusione del contratto tra amministrazione e privato debba realizzarsi tramite un unico documento sottoscritto dalle parti, salvo l’ipotesi dei rapporti di natura commerciale con le imprese dedite a tale attività (le “ditte commerciali”).
Ipotesi, questa, che, peraltro, non sarebbe neppure configurabile – secondo l’orientamento più restrittivo – a fronte di contratti, come l’appalto di opere pubbliche, in cui siano necessari citata); principio che, tuttavia, deve ora misurarsi con la specifica disciplina di settore, dettata dal codice degli appalti pubblici di cui al “accordi specifici e complessi” (tra le altre, Cass. n. 25798/2015, d.lgs. n. 50 del 2016, la quale, sebbene in caso in caso di procedura negoziata ovvero per gli affidamenti di importo non superiore a 40.000 euro, ribadisce la facoltà di stipulare il contratto – pur sempre in forma scritta a pena di nullità – anche “mediante corrispondenza secondo l’uso del commercio consistente in un apposito scambio di lettere, anche tramite posta elettronica certificata o strumenti negli altri Stati membri” (art. 32, comma 14).
L’art. 17 del r.d. n. 2440 del 1933 contempla, infatti, le ulteriori ipotesi – del rogito apposto in calce al c.d. “capitolato” (“per mezzo di obbligazione stesa appiedi del capitolato”, ossia all’atto amministrativo che contiene le condizioni e le modalità relative all’esecuzione di un contratto fra l’amministrazione pubblica e un privato o all’esercizio di una concessione fatta dalla prima al secondo), nonché dell’”atto separato di obbligazione sottoscritto da chi presenta l’offerta” -, rispetto alle quali la valida formazione del vincolo contrattuale si viene a determinare anche in base alla dichiarazione scritta del privato, manifestata separatamente e unilateralmente, di adesione alla volontà, precedentemente manifestata anche nelle forme di un atto amministrativo, dall’Amministrazione.
Ed è evidente che nel caso dell’atto separato di obbligazione sottoscritto da chi presenta l’offerta”, la dichiarazione scritta del privato si atteggia non solo come separata dalla volontà negoziale della controparte, ma anche non consacrata su di un unico documento sottoscritto da entrambi i contraenti.
Uno schema, dunque, che è da ritenersi rispettato pure là dove, come nella specie, viene in rilievo un’istanza del privato, incorporante una certa disciplina del rapporto negoziale paritario accessivo al provvedimento amministrativo che si intende ottenere, la quale si atteggia a proposta accettata dall’Amministrazione mediante il rilascio, congruente rispetto alla richiesta, del provvedimento stesso.
Si tratta, quindi, di un modello di formazione del vincolo contrattuale che è da reputarsi consentito dall’ordinamento e compatibile con la lettera dell’art. 17 citato, venendo a manifestarsi tramite “proposta e accettazione, entrambe sottoscritte ed inscindibilmente collegate, in modo da evidenziare inequivocabilmente la formazione dell’accordo” (Cass. n. 25631/2017, citata).
10.5.3. – Né, del resto, può convenirsi con Acea sul fatto che – come argomentato con la memoria ex art. 378 c.p.c. da ultimo depositata (pp. 6 e 7) – la disposizione del predetto art. 17 non potrebbe trovare applicazione nel caso di specie in quanto sarebbe assente una “trattativa privata”, giacché, proprio in forza della peculiare posizione di Acea Distribuzione S.p.A. quale società concessionaria del servizio di distribuzione di energia elettrica, non si imponevano, per lo svolgimento dei compiti affidati al concessionario (nella specie, l’attività di scavo coerente con le finalità del servizio pubblico erogato), moduli procedimentali diversi da quello delineato da detta norma del r.d. n. 2440/1933.
Anche le esigenze, alla cui soddisfazione è volta la forma scritta ad substantiam dei contratti della Pubblica Amministrazione, non sono frustrate dall’adozione dell’anzidetto modello di formazione del vincolo negoziale.
Come detto, le esigenze sono quelle, coerenti con il principio costituzionale di buon andamento ed imparzialità della Pubblica Amministrazione, di vincolare quest’ultima in forza di un programma contrattuale univoco, chiaro, senza incertezze dovute a contenuti impliciti o taciti, tale, quindi, che le obbligazioni assunte possano essere individuate in modo preciso, anche al fine di rendere pianamente esercitabili i controlli tutori sull’attività negoziale della parte pubblica.
E tali esigenze sono soddisfatte dallo schema che hanno seguito il Comune di Roma e ACEA nel regolare i loro rapporti quanto all’autorizzata attività di scavo sul suolo pubblico, poiché l’inserimento (per quanto qui interessa) della clausola penale di cui all’art. 26.5 del Regolamento cavi, tramite rinvio ricettizio a quest’ultimo, nell’istanza di ACEA (proposta) e il congruente richiamo espresso (accettazione) nel provvedimento amministrativo del Comune di Roma, non consente dubbi su quale sia il contenuto delle obbligazioni a carico del privato e delle conseguenze dalle parti stabilite in caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento quanto alle modalità e ai tempi di esecuzione dell’anzidetta attività.
Né l’incertezza potrebbe declinarsi nei termini che ACEA indica nella memoria ex art. 378 c.p.c., ossia nel rilevare come sussistano, in relazione alle c.d. penali, proprio quei “margini di opinabilità sugli impegni assunti nell’ambito delle relazioni tra p.a. e privati”, come sarebbe testimoniato dal nutrito contenzioso tra le parti sul punto, con difformità di decisioni che non “vi sarebbe mai stata se Roma Capitale avesse seguito il requisito della contestualità” (pp. 8 e 9).
Il piano di incertezza cui si riferisce l’Acea è quello dell’interpretazione negoziale, che, alla stregua dei criteri ermeneutici dettati dal codice civile (art. 1362-1371 c.c.), impone in tutti i contratti di fissare l’esatta portata degli impegni giuridicamente assunti dalle parti; ciò che vale anche per i contratti della Pubblica Amministrazione.
La certezza che, invece, garantisce la forma scritta, anche secondo il modello di stipulazione che viene in evidenza nella fattispecie, è quella del testo contrattuale, degli enunciati significanti che segnano il contenuto del rapporto obbligatorio; ed è su tale contenuto – e non già sul significato del testo concordato – che la forma scritta si impone per impedire di ravvisare “margini di opinabilità”.
In questo senso, come peraltro evidenziato nelle già richiamate conclusioni scritte del pubblico ministero, la fattispecie in esame, ove venisse regolata in base all’indirizzo che postula come necessaria contestualità e, segnatamente, l’unicità del documento che racchiude il regolamento pattizio, patirebbe la conseguenza – invero paradossale rispetto alla ratio che impone come ineludibile la forma scritta ad substantiam nei contratti in cui è parte la Pubblica Amministrazione – “di pregiudicare l’assetto di interessi regolato dalle parti in danno della stessa pubblica amministrazione, nonostante l’accordo raggiunto su un’unica disposizione negoziale inequivoca”.
10.6. – Va, dunque, esclusa la nullità per difetto di forma ad substantiam della convenzione, per cui è causa, stipulata tra Roma Capitale (già Comune di Roma) ed ACEA.
A tal riguardo, va enunciato il seguente principio di diritto: in tema di concessione temporanea per l’occupazione di suolo pubblico in favore di un soggetto privato, con contestuale autorizzazione allo scavo, l’istanza del concessionario, con espressa assunzione dell’obbligo di rispettare anche gli impegni relativi allo scavo sanzionati con clausola penale, recepita da un regolamento comunale, per il relativo inadempimento o ritardo nell’adempimento, cui faccia seguito il rilascio del provvedimento amministrativo che richiami detto obbligo, dà luogo ad una convenzione accessiva alla concessione validamente stipulata in forma scritta ad substantiam, in base alla disposizione di cui all’art. 17 del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440.
- – Può, quindi, procedersi allo scrutinio dei restanti motivi di ricorso.
11.1. – Il secondo mezzo è infondato.
Con esso è veicolata una censura che, in termini sostanzialmente coincidenti con quella in esame, è stata già delibata da questa Corte (cfr. la già richiamata Cass. n. 25380/2019, da cui le citazioni che seguono), con esiti che queste Sezioni Unite condividono, non essendo stati addotti, peraltro, profili nuovi che possano indurre ad un diverso avviso.
Va, quindi, osservato che la sentenza impugnata, nel ricollegare l’applicazione della penale al ritardo nella riconsegna dell’area interessata dalla posa dei cavi, indipendentemente dall’avvenuta fine dei lavori nel termine previsto dall’autorizzazione, ha correttamente attribuito rilievo alla ratio del predetto termine, consistente “nell’assicurare il riacquisto della piena disponibilità dell’area da parte dell’Amministrazione, in modo da destinarla nuovamente all’uso collettivo, evidenziando la necessità, a tal fine, di un preventivo controllo della agibilità della stessa, che non avrebbe potuto aver luogo in assenza della comunicazione da parte della società autorizzata dell’avvenuta ultimazione dei lavori”.
Trattasi di interpretazione solo «apparentemente contraria alla lettera della clausola, nella quale si faceva riferimento a “lavori eseguiti oltre il termine di ultimazione fissato nell’autorizzazione”», ma, invero, “conforme al tenore complessivo dell’accordo intervenuto tra le parti e degl’interessi allo stesso sottesi, come ricostruiti dalla sentenza impugnata” e, quindi, rispettosa del dettato dell’art. 1363 c.c., che impone di trarre il significato dell’accordo in base all’intero testo della dichiarazione negoziale, così da coordinare fra loro e ricondurre ad armonica unità e concordanza le varie espressioni che in essa figurano (tra le altre: Cass., 14 aprile 2006, n. 8876; Cass., 4 maggio 2011, n. 9755; Cass., 30 gennaio 2018, n. 2267).
Non è, poi, condivisibile “il richiamo della ricorrente al criterio di cui all’art. 1370 cod. civ., per la cui applicazione non è sufficiente che l’intero testo del contratto sia stato predisposto da uno dei contraenti e l’altra parte si sia limitata a prestarvi adesione, come si afferma che sarebbe accaduto nel caso di specie, ma è necessario anche che lo schema negoziale fosse precostituito e le condizioni generali siano state predisposte mediante moduli e formulari, al fine di poter essere utilizzate in una serie indefinita di rapporti” (tra le altre: Cass., 8 marzo 2001, n. 3392; Cass., 27 maggio 2003, n. 8411).
Ed infine, non risulta pertinente neppure l’evocazione dell’art. 1371 c.c., che – alla stregua del principio di gerarchia interna che governa i criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 e ss. c.c. – il criterio interpretativo ivi contemplato ha carattere espressamente supplementare e trova, quindi, applicazione soltanto nel caso in cui, nonostante il ricorso a tutti gli altri criteri previsti dagli artt. 1362 e ss. c.c., la volontà delle parti rimanga dubbia (tra le molte: Cass., 4 gennaio 1995, n. 74; Cass., 6 novembre 2008, n. 26626; Cass., 23 giugno 2014, n. 14206): esso, pertanto, non può ritenersi utilizzabile nel caso di specie, giacché la Corte territoriale è pervenuta “ad una plausibile ricostruzione della volontà negoziale attraverso l’utilizzazione degli altri criteri ermeneutici, e non essendo consentito a questa Corte un sindacato sui risultati raggiunti, alla stregua del mero squilibrio asseritamente determinato dalla predetta interpretazione in danno di uno dei contraenti” (cfr. Cass., 28 luglio 2000, n. 9921; Cass., 10 febbraio 2015, n. 2465).
11.2. – Il quarto motivo è anch’esso infondato, sebbene occorra correggere la motivazione della sentenza impugnata ai sensi dell’art. 384, quarto comma, c.p.c.
E’, infatti, dirimente osservare (anche alla stregua di quanto rilevato dal pubblico ministero nelle sue conclusioni scritte) che, una volta recepite le clausole penali di cui all’art. 26.5 del Regolamento Cavi del 2002 – come definite al momento della stipula della convenzione che ha dato origine al rapporto, paritario e di carattere patrimoniale, tra Comune di Roma ed ACEA (secondo lo schema che, nella specie, è stato adottato dalle parti) – nel contesto della medesima convenzione, le successive modifiche di quel Regolamento ad opera dell’Amministrazione comunale, seppure riguardanti quelle stesse clausole, non spiegano più alcun rilievo su una vicenda ormai di carattere negoziale, in cui il perimetro ed il contenuto dei reciproci obblighi di natura civilistica è rimasto governato soltanto dalla già intervenuta fonte contrattuale.
11.3. – Il quinto motivo è infondato.
L’apprezzamento della eccessività dell’importo fissato con clausola penale dalle parti contraenti, per il caso di inadempimento o di ritardato adempimento, e della misura della riduzione equitativa dell’importo medesimo rientra nel potere, discrezionale, del giudice di merito, attribuitogli dall’art. 1384 c.c. a tutela dell’interesse generale dell’ordinamento e, quindi, esercitabile d’ufficio (tra le altre, Cass., 13 novembre 2006, n. 24166; Cass., 1° ottobre 2018, n. 23750).
Una siffatta valutazione deve essere compiuta sulla scorta delle circostanze, allegate e provate dalla parte istante, rilevanti al fine di dimostrare la notevole sproporzione tra la misura della penale e l’interesse del creditore all’adempimento, non assumendo rilievo l’elemento del danno in concreto, che resta estraneo alla struttura della clausola penale (Cass., 9 maggio 2007, n. 10626; Cass., 28 marzo 2008, n. 8071; Cass., 28 ottobre 2008, n. 25888; Cass., 19 dicembre 2019, n. 34021; Cass., 15 giugno 2020, n. 11439).
Le censure di parte ricorrente non colgono, dunque, nel segno, giacché la Corte territoriale, in armonia con i principi anzidetti, ha pronunciato sull’istanza di ACEA di riduzione della penale, mettendo in risalto la carenza di elementi (collocazione specifica dello scavo e dell’area di intervento, se periferica o meno) per una valutazione aderente al raffronto tra misura della penale ed interesse del creditore all’adempimento, valorizzando proprio quelle esigenze sottese all’interesse dell’Amministrazione comunale di riacquisto pieno e tempestivo dell’area di scavo per “destinarla nuovamente all’uso collettivo”, con il minor disagio per la collettività stessa.
Per contro, ACEA insiste, piuttosto, su specificamente pertinenti alla valutazione anzidetta, attinenti all’esatto adempimento o ridondanti sulla consistenza del concreto pregiudizio, che, per un verso, rimettono in discussione, in modo inammissibile, il risultato dell’interpretazione della Corte territoriale sulla portata degli obblighi del concessionario (cfr. § 11.1., che precede) e, per altro verso, non attengono alla struttura della penale. 12. – Il ricorso va, dunque, rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità vanno interamente compensate in ragione del contrasto giurisprudenziale insorto sulla questione rimessa all’esame di queste Sezioni Unite.
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