Massima
Allorché un soggetto non sia capace di capire né tampoco di volere, ciò che egli fa non può assumersi il frutto del relativo intendimento né della relativa volontà, non potendo dunque imputarglisi, con l’alternativa di considerarlo autore di un reato del quale non è punibile o, vieppiù radicalmente, di considerarlo autore di un fatto che non è neppure reato perché non gli si può rimproverare, non essendone egli “colpevole”; un quadro che si complica nelle delicate fattispecie in cui la incapacità di intendere e di volere sia il frutto di specifici comportamenti del soggetto agente intenzionali o financo, in qualche caso, preordinati alla commissione di un reato (in prima persona o attraverso terzi) alle cui conseguenze punitive si cerca, ex ante, il modo per sfuggire.
Crono-articolo
Nel diritto romano, nella fase arcaica le XII tavole (tavola 8.14) prevedono – sul crinale dell’età – una sanzione per il puer impubes che abbia commesso un furto, senza tuttavia dover accertare se egli sia capace di dolo (doli capax), circostanza che la dottrina riconduce alla scarsa importanza che in questa fase storica assai remota viene annessa all’elemento soggettivo dell’illecito; quando tuttavia si giunge alla giurisprudenza del II e III secolo d.C., un pupillo può essere assunto responsabile per i delitti privati del ius civile (come il furto o la rapina) solo laddove si accerti che abbia raggiunto una relativa maturità mentale, atteggiandosi a capace di dolo o colpa (doli o culpae capax); è invece esclusa la imputabilità del c.d. infans (il bimbo che ancora non parla) e, perché si possa parlare di una potenziale imputazione di responsabilità, occorre avere raggiunto almeno lo stadio del c.d. pupillus pubertate proximus. Per quanto invece concerne le malattie mentali, il c.d. furiosus è totalmente incapace – e come tale non imputabile – già nelle XII tavole (la tavola 5.7a attribuisce agli agnati e, laddove difettino, ai gentiles la potestas sulla relativa pecunia); anche nel periodo della tarda repubblica ed in quello classico egli resta totalmente incapace di agire e, in ambito penale, viene equiparato all’infans, discorrendosene nelle fonti quale “furiosus vel demens”, espressione ricomprendente tutti i casi di malattia mentale conosciuti al tempo. In sostanza dunque, e come affermato dalla dottrina di riferimento, in aderenza alla scuola ippocratica, i “furiosi” e i “fatui” che si rendano responsabili di reati vanno esenti da punizione, la “fatuitas” palesandosi assimilabile al difetto di intelligenza, e nel “furor” ricomprendendosi ogni forma di follia; si ammette tuttavia la possibilità di un “lucido intervallo“, onde se il delitto viene commesso in questo torno temporale, la punibilità non viene esclusa, Nella successiva legislazione giustinianea vengono distinte molteplici categorie di pazzia (“dementia“, “insania“, “fatuitas“, “mania“, “amentia“), tutte implicanti impunità per l’eventuale delitto (fatto sempre salvo il caso di lucido intervallo); sempre nel diritto giustinianeo gli intensi gradi delle passioni vengono assunti atti ad escludere la responsabilità, mentre l’ubriachezza derubrica il reato da doloso a colposo. Nel diritto penale germanico, che campeggia nel periodo successivo a quello giustinianeo, si ha riguardo esclusivo all’elemento oggettivo dell’illecito, obnubilando quello soggettivo e dunque considerando responsabili anche i malati di mente; una attenzione, quella per l’elemento soggettivo del reato, che non viene mai meno invece nel diritto penale canonico, il quale esclude recisamente l’imputabilità per coloro a cui facciano difetto il discernimento e la volontà libera – adombrandovisi già i più moderni concetti di capacità di intendere e di volere – e dunque per i dementi e i furiosi, comprendendosi nella fascia di impunità anche le situazioni di furore improvviso e transitorio; si assimilano poi alle malattie mentali anche la febbre violenta, il sonno, il sonnambulismo, l’ira subitanea, il dolore intenso e la stessa ubriachezza, proprio in quanto suscettibili di incidere sulla consapevolezza e sulla libertà dell’azione; ciò quand’anche – durante il potere dell’Inquisizione – considerazioni di politica criminale tendano a prevalere facendo assumere i folli comunque responsabili, ma ad altro titolo (la malattia mentale viene assunta effetto di stregoneria o di influenza diabolica).
1810
Viene varato il Codice napoleonico, che informerà tutta la codificazione europea del XIX secolo, e secondo il cui articolo 64 “non esiste né crimine né delitto allorché l’imputato trovavasi in stato di demenza al momento dell’azione, ovvero vi fu costretto da una forza alla quale non poté resistere“. Nei relativi lavori preparatori si afferma che l’azione è imputabile con il concorso simultaneo di cognizione, volontà e libertà, e che “è demente colui che soffre una privazione di ragione; che non conosce la verità; che ignora se ciò che fa sia bene o male; e che non può affatto adempiere i doveri più ordinari della vita civile. Un uomo posto in questo stato è un corpo che ha soltanto figura e ombra di uomo; il suo reato è tutto fisico, poiché moralmente non esiste nulla“. Nel codice napoleonico dunque lo stato di demenza (quale sorta di costringimento psichico) ed il costringimento fisico e/o la forza maggiore vanno a braccetto, escludendo la stessa configurabilità di un reato.
1859
Viene varato il Codice penale per gli Stati del Re di Sardegna che, a proposito dell’imputabilità, stabilisce all’art.94 non esservi reato “… se l’imputato trovavasi in istato di assoluta imbecillità, di pazzia, o di morboso furore quando commise l’azione, ovvero se vi fu tratto da una forza alla quale non poté resistere“; secondo il successivo art. 95 “allorché la pazzia, l’imbecillità, il furore o la forza non si riconoscessero a tal grado da rendere non imputabile affatto l’azione, i Giudici applicheranno all’imputato, secondo le circostanze dei casi, la pena del carcere estensibile anche ad anni dieci, o quella della custodia, estensibile anche ad anni venti..“. Con l’Unità tale disposizione verrà estesa all’Italia intera. Da notare, da un lato, l’accostamento (come nel codice napoleonico) tra la pazzia ed il costringimento fisico e/o la forza maggiore, e dall’altro l’annoverarsi tra le cause che diminuiscono l’imputabilità la mera appartenenza del soggetto agente al sesso femminile.
1889
Il 30 giugno viene varato il R.D. n.6133, codice Zanardelli, di impianto liberale, che intitola il Titolo IV del libro I “Della imputabilità e delle cause che la escludono e la diminuiscono”: l’imputabilità sembra essere avvinta strettamente al reato, se è vero che gli articoli da 44 a 60 che compendiano tale Titolo IV disciplinano anche le c.d. scriminanti, l’errore di diritto e l’error in persona. Rimanendo sulla imputabilità tout court, secondo l’art. 46 “non è punibile colui che, nel momento in cui ha commesso il fatto, era in tale stato di infermità di mente da togliergli la coscienza o la libertà dei propri atti “; il giudice, nondimeno, ove stimi pericolosa la liberazione dell’imputato prosciolto, ne ordina la consegna all’Autorità competente per i provvedimenti di legge; secondo poi il successivo art. 47 “quando lo stato di mente indicato nell’articolo precedente era tale da scemare grandemente l’imputabilità senza escluderla, la pena stabilita per il reato commesso è diminuita” secondo specifici parametri. L’art.48 disciplina poi gli effetti dell’ubriachezza (non si pone ancora il problema degli stupefacenti), muovendo (comma 1) dalla fattispecie di ubriachezza accidentale e prevedendo che le disposizioni contenute nella prima parte degli articoli 46 e 47 si applicano anche a colui che nel momento in cui ha commesso il fatto si trovi nello stato preveduto in detti articoli (relativi allo stato di mente) a cagione appunto di ubriachezza accidentale: in caso di ubriachezza volontaria (comma 2), la pena viene obbligatoriamente ridotta secondo specifici parametri, con la precisazione che laddove l’ubriachezza sia abituale (comma 3), la pena restrittiva della libertà personale può essere fatta scontare in un stabilimento speciale; infine (comma 4), la norma prescrive che le diminuzioni di pena stabilite nei comma precedenti non si applicano se l’ubriachezza sia stata procurata per facilitare la esecuzione del reato o per preparare una scusa (c.d. ubriachezza preordinata). All’art. 51 si afferma che “colui che ha commesso il fatto nell’impeto d’ira o d’intenso dolore, determinato da intensa provocazione, è punito con la reclusione non inferiore ai venti anni, se la pena stabilita per il reato commesso sia l’ergastolo, e negli altri casi con la pena stabilita per il reato commesso diminuita di un terzo. Se la provocazione sia grave, all’ergastolo è sostituita la detenzione da dieci a venti anni, e le altre pene sono diminuite dalla metà ai due terzi, sostituita alla reclusione la detenzione…”. In linea generale con riguardo a quanto sin qui rappresentato, fa la propria comparsa la dizione “stato di infermità di mente“, mentre scompaiono ad un tempo le specificazioni di “assoluta imbecillità, pazzia, morboso furore“, oltre che la c.d. “forza irresistibile” e, ad un tempo, la previsione dell’appartenenza al sesso femminile come causa minorante l’imputabilità. Sul crinale dell’età, ai sensi dell’art.53 non si procede contro colui che, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i 9 anni e tuttavia ove il fatto sia preveduto dalla legge come un delitto che importi l’ergastolo o la reclusione, ovvero la detenzione non inferiore ad un anno, il presidente del tribunale civile, su richiesta del PM, può ordinare, con provvedimento revocabile, che il minore sia rinchiuso in un istituto di educazione e di correzione per un tempo che non oltrepassi la maggiore età ovvero può ingiungere ai genitori, o a coloro che abbiano obbligo di provvedere all’educazione del minore, di vigilare sulla relativa condotta sotto pena, in caso d’inosservanza ed ove il minore commetta un delitto qualsiasi, di un’ammenda sino a lire duemila; ancora, alla stregua dell’art.54, colui che nel momento in cui ha commesso il fatto ha già compiuto i 9 anni, ma non ancora i 14, se non risulti che abbia agito con discernimento, non soggiace a pena (in sostanza, viene presunto non imputabile); nondimeno, ove il fatto sia preveduto dalla legge come un delitto che importi l’ergastolo o la reclusione, ovvero la detenzione non inferiore ad un anno, il giudice può dare l’uno o l’altro dei provvedimenti indicati nel capoverso del precedente articolo 53; qualora invece risulti che il giovane tra i 9 e i 14 anni ha agito con discernimento, la pena stabilita per il reato commesso viene diminuita secondo specifici parametri; si precisa che se la pena è restrittiva della libertà personale, ancorché sostituita ad una pena pecuniaria, il colpevole che al tempo della condanna non abbia ancora compiuto i diciotto anni la sconta in una casa di correzione (e non si applicano l’interdizione dai pubblici uffici e la sottoposizione alla vigilanza speciale dell’Autorità di pubblica sicurezza); per l’art.55 colui che, nel momento in cui ha commesso il fatto aveva compiuto i 14 anni, ma non ancora i 18, è punito secondo specifiche norme, ovvero: se al tempo della condanna il colpevole non abbia ancora compiuto i 18 anni, il giudice può ordinare che la pena restrittiva della libertà personale sia scontata in una casa di correzione; e l’interdizione dai pubblici uffici e la sottoposizione alla vigilanza speciale dell’Autorità di pubblica sicurezza non sono applicate; ancora, alla stregua del successivo art.55 colui che nel momento in cui ha commesso il fatto aveva compiuto i 18 anni, ma non ancora i 21, soggiace alla reclusione da venticinque a trent’anni se la pena stabilita per il reato commesso sia l’ergastolo, e negli altri casi alla pena stabilita per il reato commesso diminuita di un sesto; compiuti i 21 anni il soggetto è considerato pienamente imputabile, senza godere di alcuna riduzione di pena e di alcun trattamento penitenziario più favorevole. In tema di sordomutismo, l’art.57 statuisce che non si procede contro il sordomuto che, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i 14 anni (con facoltà tuttavia di applicargli la disposizione contenuta nel capoverso dell’art. 53, con facoltà di ordinare che rimanga nell’istituto di educazione e di correzione sino all’età dei 24 anni); per il successivo art.58 il sordomuto che nel momento in cui ha commesso il fatto ha compiuto i 14 anni, ove non risulti che abbia agito con discernimento, non soggiace a pena (e dunque si presume non imputabile); nondimeno, qualora il fatto sia preveduto dalla legge come un delitto che importi l’ergastolo o la reclusione, ovvero la detenzione non inferiore ad un anno, il giudice, se il sordomuto non abbia ancora compiuto i 24 anni, può applicargli la disposizione contenuta nel capoverso dell’art. 53, con facoltà di ordinare che rimanga nell’istituto di educazione e di correzione sino all’età dei 24 anni; se ha compiuto gli anni 24, il giudice può ordinarne la consegna all’ Autorità competente per i provvedimenti di legge. Infine, ove risulti che abbia agito con discernimento, se il sordomuto non ha ancora compiuto i 18 anni, si applicano le disposizioni contenute nei capoversi dell’art. 54; se ha compiuto i 18 anni ma non ancora i 21, si applicano quelle dell’art. 55; e se ha compiuto i 21, si applicano le disposizioni dell’art. 56; in sostanza dunque il sordomutismo fa “spostare” in avanti gli effetti della inimputabilità o della ridotta imputabilità previsti per la minore età.
1930
Il 19 ottobre viene varato il R.D. n.1398, nuovo codice penale, che all’art.85 prevede come nessuno possa essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile, assumendo imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere, e così prevedendo una “capacità di diritto penale” quale capacità di scegliere in modo libero e consapevole se commettere o meno un determinato fatto che la legge considera reato. La scelta del nuovo codice penale, rispetto al codice Zanardelli è dunque quella di definire l’imputabilità, allo stesso modo di come viene definito il dolo e la colpa, secondo una opzione di tipo qualificatorio esplicito che non si riscontra appunto nel codice del 1889. Importanti talune disposizioni che qualificano espressamente il fatto commesso dal non imputabile come “reato”, ed in particolare gli articoli 86 e 111 in tema di autore mediato e l’art.648 in tema di ricettazione. Per quanto concerne il vizio di mente, esso deve promanare, ai sensi dell’art.88, da una infermità, intesa qui ancora in senso riduttivo, quale malattia mentale vera e propria. Vengono poi disciplinate cause varie di non imputabilità o di imputabilità diminuita, riconducibili all’ubriachezza, all’assunzione di stupefacenti, al sordomutismo (il sordomuto non è più presunto incapace di intendere e di volere, dovendosene invece ora indagare in concreto il pertinente status di imputabilità), oltre alle fattispecie di determinazione in sé (c.d actio libera in causa: art. 87) o in altri (art.86) dello stato di incapacità allo scopo di commettere reati. Da rammentare infine gli articoli 111 (determinazione al reato di persona non imputabile o non punibile), 112, comma 1, n.4 (circostanza aggravante per chi, fuori del caso preveduto dall’articolo 111, ha determinato a commettere il reato un minore di anni 18 o una persona in stato d’infermità o di deficienza psichica, ovvero si è comunque avvalso degli stessi nella commissione di un delitto per il quale è previsto l’arresto in flagranza) e 613 in tema di stato di incapacità procurato mediante violenza.
1948
Viene varata la Costituzione che prevede la natura personale della responsabilità penale, cui è connessa la funzione tendenzialmente rieducativa della pena (art.27): il condannato deve percepire la pena come tendenzialmente rieducativa per la commissione di un fatto penalmente rilevante che gli viene rimproverato, circostanza da escludersi in presenza di fattispecie in cui la condotta (azione od omissione) non è in nessun modo riconducibile alla coscienza e volontà del relativo autore intese già a livello potenziale quali capacità di intendere e di volere.
1960
Il 9 luglio esce la sentenza della Cassazione alla cui stregua il vizio parziale di mente deve intendersi in linea teorica compatibile con lo stato d’ira determinato da fatto ingiusto altrui di cui all’art.62, n.2, c.p., e dunque con la provocazione, ma tale compatibilità (e con essa l’applicabilità di entrambe le diminuenti) va esclusa allorché si accerti che lo stato d’ira sia l’effetto, più che di fatti provocatori, della stessa malattia della quale il soggetto soffre.
1966
Il 7 marzo esce la sentenza Cassazione alla cui stregua la gelosia, quale stato passionale, ai sensi dell’art.90 c.p. non esclude né riduce l’imputabilità del soggetto attivo del reato, ma ciò quando essa non giunga a provocare disordini nelle funzioni della mente e perturbazioni nelle funzioni della volontà in guisa da assurgere a forma psico-patologica morbosa, come tale diagnosticabile e in questi casi riconducibile agli articoli 88 e 89 c.p.
Il 17 ottobre esce la sentenza della Cassazione, Giusta, alla cui stregua perché possa rilevare l’ubriachezza in termini di non imputabilità o di minore imputabilità occorre che la ridetta ubriachezza sia accidentale e che dunque il soggetto attivo si sia ubriacato non per propria volontà, cadendo in stato di ebbrezza alcolica senza colpa.
1967
Il 9 novembre esce la sentenza della Cassazione, Marongiu, alla cui stregua il soggetto non imputabile versa in dolo (o in colpa) alla stessa stregua del soggetto imputabile, dovendosi assumere l’imputabilità del tutto autonoma rispetto alla colpevolezza, quale mera capacità di pena rispetto ad un reato commesso e colpevole; proprio per questo, nel caso in cui il reato sia stato commesso dal non imputabile per errore, quest’ultimo ai sensi dell’art.47 c.p. ne esclude il dolo, con efficacia scusante che consente di non applicare la misura di sicurezza, e ciò proprio perché – al di là della non imputabilità – non si configura reato per assenza del dolo, e dunque non può applicarsi nemmeno la misura di sicurezza che invece sarebbe applicabile laddove, pur essendovi reato, il soggetto fosse appunto non imputabile (e socialmente pericoloso).
1969
L’11 marzo esce la sentenza della Cassazione, Ladurner che, andando in contrario avviso rispetto ad un precedente orientamento, ammette la compatibilità tra il vizio parziale di mente ex art.89 c.p. e la circostanza aggravante dell’aver commesso il fatto in presenza di minorata difesa della vittima, ex art.61, n.5, c.p.
Il 7 maggio esce la sentenza della Cassazione alla cui stregua occorre far riferimento a modelli esplicativi dell’infermità di mente rilevante a fini di imputabilità alternativi rispetto a quello medico e, più in specie, a modelli di tipo psicologico, e dunque anche un disturbo psichico, seppure transitorio, può integrare infermità ai sensi dell’art.88 c.p. Ciò coincide con il dissolversi, in ambito psichiatrico, della tradizionale nozione di malattia mentale in senso medico, a favore dell’accoglimento di nozioni più psicologiche di malattia mentale, circostanza che fa il paio con un modello di imputabilità più ossequioso, in ottica garantista, del principio di responsabilità penale personale.
1970
Il 4 marzo esce la sentenza della Corte costituzionale n.33, che dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 92, primo comma, del codice penale, proposta in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione. Per la Corte, in caso di ubriachezza volontaria o colposa il titolo soggettivo di imputazione del reato (dolo o colpa) va verificato con riguardo al momento del fatto, la colpevolezza dell’ubriaco dovendo essere accertata caso per caso secondo i normali criteri, e non potendo farsi riferimento alla natura dolosa o colposa della ubriachezza, anteriore al fatto commesso. La prima questione che la Corte esamina, in ordine logico, attiene all’art. 3 Cost., il quale importa che situazioni diverse siano disciplinate in modo diverso, secondo la giurisprudenza costante della Corte medesima. Si assume nelle ordinanze di rimessione che l’art. 92 del codice penale (del quale é in discussione il primo comma) violerebbe l’art. 3, perché l’ubriachezza volontaria o colposa, pur producendo incapacità (totale o parziale) di intendere e di volere, non esclude l’imputabilità, contrariamente a quanto é statuito per l’infermo di mente (artt. 88 e 89 cod. pen.) e per l’ubriaco accidentale (art. 91 cod. pen.). Per la Corte, nondimeno, non può negarsi, da un lato, che l’incapacità naturale, totale o parziale (per infermità di mente), configuri una situazione fenomenicamente ed etiologicamente diversa dall’ubriachezza; dall’altro, che i fatti di reato commessi in stato di ubriachezza non possano essere sottoposti ad una disciplina unitaria, stante la varietà degli atteggiamenti che assumono i soggetti allorché cadono, o si pongono, in tale stato; la ragione della differente normativa tra ubriachezza derivata e ubriachezza non derivata da caso fortuito o da forza maggiore sta, per la Corte, nell’intento del legislatore di prevenire e reprimere l’ubriachezza come male sociale e, soprattutto, come situazione che, in certi soggetti, può spingere al delitto, circostanza che basta per giustificare, sotto il profilo costituzionale, la norma impugnata: l’ubriaco, che abbia commesso un reato, risponde per una condotta antidoverosa, cioè per essersi posto volontariamente o colposamente in condizione di commetterlo. Quali che siano – prosegue la Corte – le opinioni dottrinarie in materia (ed è noto che il progetto di riforma del 1949-1950 intendeva perseguire i reati commessi in stato di ubriachezza volontaria o colposa esclusivamente a titolo di colpa, mentre il disegno di legge del 1968, al pari di quelli del 1956 e del 1960, considera quello stato come causa di diminuzione facoltativa della pena, avvicinandosi al sistema del codice Zanardelli, ove, però, la diminuzione era obbligatoriamente prescritta), in realtà, l’ebbro é qui imputabile per la volontarietà o colposità dell’ubriachezza: ciò che spiega per la Corte la differenza di normazione rispetto al vizio di mente e all’ubriachezza accidentale. La norma, chiosa ancora la Corte, ha bensì dato e ancora dà luogo a critiche severe sul piano della logica e della psicopatologia, ma, considerata in relazione al fine, non può dirsi viziata di irragionevolezza onde la pertinente questione, alla stregua dell’art. 3 della Costituzione, viene giudicata infondata. Neppure l’art. 27, primo comma, della Costituzione, risulta per la Corte violato: chi si ubriaca (per sua volontà o per sua colpa) e commette un reato risponde, in verità, di un proprio comportamento (come già argomentato nella precedente sentenza n. 42 del 1965); se, poi, si riguardasse lo stato di incapacità di intendere e di volere dell’ubriaco, per dedurne che, ex art. 27, primo comma, verrebbe meno l’imputabilità, sarebbe facile replicare ancora una volta, da un lato, che il genus colpevolezza (distinto nelle due species del dolo e della colpa in senso stretto) sussiste nel comportamento iniziale (che ha provocato l’ubriachezza); dall’altro, che il precetto costituzionale non esclude che sia responsabilità personale per fatto proprio quella di chi, incapace nel momento in cui commette il reato, non lo sia stato (e, dunque, sia stato piuttosto pienamente capace) quando si é posto in condizione di commetterlo. La norma impugnata – prosegue la Corte – non contrasta neppure col comma 2 dell’art. 27 della Costituzione, dato che essa non pone una presunzione di colpevolezza da valere in giudizio; né può assumersi violarne il comma 3: infatti, la pena irrogata per il reato commesso da chi versi in stato di ubriachezza volontaria o colposa non differisce da quella a cui soggiace ogni altro autore di reato; né può ritenersi non emendativa, cioè non può contestarsi che essa sia diretta ad attivare, nel condannato, una controspinta all’abuso dell’alcool (ubriachezza volontaria) o a provocare un energico richiamo alla temperanza e alla prudenza (ubriachezza colposa). Spetterà al giudice di merito – conclude la Corte – sia valutare, caso per caso, se si tratti di ubriachezza colposa o di ubriachezza accidentale; sia, del pari, accertare di volta in volta, secondo la giurisprudenza corrente, il titolo di colpevolezza (dolo o colpa), sulla base dell’atteggiamento psicologico in concreto assunto dall’ubriaco al momento nel quale commise il fatto (e non già al momento in cui si è ubriacato).
1971
*Il 10 dicembre esce la sentenza della Cassazione alla cui stregua il vizio parziale di mente deve intendersi in linea teorica compatibile con lo stato d’ira determinato da fatto ingiusto altrui di cui all’art.62, n.2, c.p., e dunque con la provocazione, ma tale compatibilità (e con essa l’applicabilità di entrambe le diminuenti) va esclusa allorché si accerti che lo stato d’ira sia l’effetto, più che di fatti provocatori, della stessa malattia della quale il soggetto soffre.
1972
*Il 6 giugno esce la sentenza della Cassazione alla cui stregua occorre far riferimento a modelli esplicativi dell’infermità di mente rilevante a fini di imputabilità alternativi rispetto a quello medico e, più in specie, a modelli di tipo psicologico, e dunque anche un disturbo psichico, seppure transitorio, può integrare infermità ai sensi dell’art.88 c.p. Ciò coincide con il dissolversi, in ambito psichiatrico, della tradizionale nozione di malattia mentale in senso medico, a favore dell’accoglimento di nozioni più psicologiche di malattia mentale, circostanza che fa il paio con un modello di imputabilità più ossequioso, in ottica garantista, del principio di responsabilità penale personale.
1976
Il 21 dicembre esce la sentenza della Cassazione, Martugi, onde in caso di ubriachezza volontaria o colposa il titolo soggettivo di imputazione del reato (dolo o colpa) va verificato con riguardo al momento del fatto, la colpevolezza dell’ubriaco dovendo essere accertata caso per caso secondo i normali criteri, e non potendo farsi riferimento alla natura dolosa o colposa della ubriachezza, anteriore al fatto commesso.
1982
Il 23 febbraio esce la sentenza della Cassazione, De Mani, che, andando in contrario avviso rispetto ad un precedente orientamento, ammette la compatibilità tra il vizio parziale di mente ex art.89 c.p. e la circostanza aggravante dell’aver commesso il fatto con crudeltà verso le persone, ex art.61, n.4, c.p.
Il 22 marzo esce la sentenza della Cassazione, Scarcelli, alla cui stregua laddove un fatto di reato sia stato commesso da un soggetto maggiore degli anni 14, ma minore degli anni 18, maturità ed infermità sono concetti che vanno tenuti ontologicamente distinti, potendo coesistere l’infermità mentale con la maturità ai fini della imputabilità, onde il giovane va considerato imputabile perché maturo, ma con possibilità di applicare l’attenuante prevista dall’art.89 c.p. per la seminfermità mentale.
1983
Il 22 giugno esce la sentenza della Cassazione, Mangascià, alla cui stregua l’ubriachezza patologica, dovuta ad abnormi ed imprevedibili effetti dell’alcol ingerito, può rientrare nell’ambito di applicazione dell’art.91 c.p., rilevando come accidentale, solo se realmente fortuita, e dunque solo laddove il soggetto non sia consapevole di esserne affetto.
1984
*Il 10 novembre esce la sentenza della Cassazione, Monti, alla cui stregua il vizio parziale di mente deve intendersi compatibile con lo stato d’ira determinato da fatto ingiusto altrui di cui all’art.62, n.2, c.p., e dunque con la provocazione.
Il 19 novembre esce la sentenza della Cassazione, alla cui stregua laddove un fatto di reato sia stato commesso da un soggetto maggiore degli anni 14, ma minore degli anni 18, occorre in concreto accertare se egli è imputabile considerando il ruolo specifico ricoperto, la capacità organizzativa palesata, il contegno assunto durante la realizzazione del fatto di reato e quello tenuto nel corso del successivo processo, occorrendo dunque considerare non già solo elementi di tipo bio-psichico ma anche socio economico e socio ambientale.
1985
*Il 29 gennaio esce la sentenza della Cassazione, Speranza, onde in caso di ubriachezza volontaria o colposa il titolo soggettivo di imputazione del reato (dolo o colpa) va verificato con riguardo al momento del fatto, la colpevolezza dell’ubriaco dovendo essere accertata caso per caso secondo i normali criteri, e non potendo farsi riferimento alla natura dolosa o colposa della ubriachezza, anteriore al fatto commesso.
L’8 febbraio esce la sentenza della Cassazione, Di Ponio che, andando in contrario avviso rispetto ad un precedente orientamento, ammette la compatibilità tra il vizio parziale di mente ex art.89 c.p. e la circostanza aggravante dell’aver commesso il fatto per motivi abietti o futili, ex art.61, n.1, c.p.
1986
Il 19 febbraio esce la sentenza della Cassazione, Dente, alla cui stregua si ha cronica intossicazione da alcol o da sostanze stupefacenti ex art.95 c.p. allorché la ridetta intossicazione, per il relativo carattere ineliminabile e per l’impossibilità di guarigione che ne consegue, determina alterazioni patologiche permanenti, tali da far apparire indiscutibile che ci si trovi dinanzi ad una vera e propria malattia psichica che giustifica l’applicazione degli articoli 88 e 89 c.p., siccome richiamati dal medesimo art.95.
Il 20 febbraio esce la sentenza della Cassazione, Rossini, onde – in caso di compromissione dei processi intellettivi e volitivi conseguente ad interazione tra alcol e farmaci – può operare l’art.91 c.p. solo allorché entrambe le componenti della ridetta interazione siano connotate da accidentalità, e siano dunque derivate da caso fortuito o forza maggiore.
Il 18 giugno esce la sentenza della Cassazione, Lambertini, alla cui stregua è ben possibile che il soggetto di età superiore ai 14 anni ed inferiore ai 18 sia maturo e dunque imputabile, ma seminfermo di mente, dovendosi assumere la semi-infermità mentale compatibile con la maturità fisio-psichica, onde si irroga in questi casi la pena (trattandosi di soggetto imputabile), ma si applica congiuntamente l’attenuante della minore età ex art.98 c.p. e quella della seminfermità mentale ex art.89 c.p..
Il 3 settembre esce la sentenza della Cassazione, Paladino, alla cui stregua laddove un fatto di reato sia stato commesso da un soggetto maggiore degli anni 14, ma minore degli anni 18, la eventuale capacità o incapacità di intendere e di volere ha carattere relativo e non assoluto, onde in relazione a certi comportamenti un dato sviluppo intellettivo può risultare bastevole per far dichiarare l’imputabilità del soggetto agente, cosa che all’opposto potrebbe non essere predicabile in relazione ad altre situazioni e ad altri comportamenti. Più precisamente, chiosa la Corte, occorre guardare, in concreto, di volta in volta alla maggiore o minore avvertibilità del disvalore etico-sociale del reato e della relativa immoralità secondo il comune sentire.
*Il 16 ottobre esce la sentenza della Cassazione, Vignali, alla cui stregua laddove un fatto di reato sia stato commesso da un soggetto maggiore degli anni 14, ma minore degli anni 18, maturità ed infermità sono concetti che vanno tenuti ontologicamente distinti, potendo coesistere l’infermità mentale con la maturità ai fini della imputabilità, onde il giovane va considerato imputabile perché maturo, ma con possibilità di applicare l’attenuante prevista dall’art.89 c.p. per la seminfermità mentale.
1987
Il 5 dicembre esce la sentenza della Cassazione, Galimberti, che – inserendosi nel solco tradizionale che distingue l’imputabilità dalla colpevolezza – assume come laddove sia stata emessa sentenza di proscioglimento per non imputabilità (nel caso di specie, di minore infradiciottenne), e successivamente intervenga amnistia per il medesimo fatto-reato, quest’ultima vada applicata a propria volta quale causa estintiva più favorevole, investendo essa (estinguendolo) il reato “colpevole”, e non già la mera punibilità soggettiva di esso.
1988
*Il 4 marzo esce la sentenza della Cassazione onde in caso di ubriachezza volontaria o colposa il titolo soggettivo di imputazione del reato (dolo o colpa) va verificato con riguardo al momento del fatto, la colpevolezza dell’ubriaco dovendo essere accertata caso per caso secondo i normali criteri, e non potendo farsi riferimento alla natura dolosa o colposa della ubriachezza, anteriore al fatto commesso.
Il 23 marzo esce la sentenza della Cassazione, Pantaleo, alla cui stregua laddove un fatto di reato sia stato commesso da un soggetto maggiore degli anni 14, ma minore degli anni 18, la eventuale capacità o incapacità di intendere e di volere ha carattere relativo e non assoluto, onde in relazione a certi comportamenti un dato sviluppo intellettivo può risultare bastevole per far dichiarare l’imputabilità del soggetto agente, cosa che all’opposto potrebbe non essere predicabile in relazione ad altre situazioni e ad altri comportamenti. Più precisamente, chiosa la Corte, occorre guardare, in concreto, di volta in volta alla maggiore o minore avvertibilità del disvalore etico-sociale del reato e della relativa immoralità secondo il comune sentire. Più in specie, avvertire il disvalore e l’illiceità di un reato contro la persona o di un reato contro la proprietà (come nel caso di specie, in cui un giovane di 17 anni ha commesso un reato contro la proprietà di terzi) richiede un grado di capacità e sviluppo intellettivo meno avanzato rispetto ad altre fattispecie di reato la cui contrarietà alle esigenze fondamentali della vita di relazione è meno evidente e richiede un grado di consapevolezza più evoluto (sulla scia di quanto già stabilito dalla Corte nelle sentenze del 9 aprile 1980, Longobardi e 18 marzo 1981, Rossi).
L’11 aprile esce la sentenza della Cassazione, Pizzuto, alla cui stregua, in tema di stati emotivi e passionali, ne va negata la rilevanza ai fini del giudizio di imputabilità laddove in sé e per sé considerati (e dunque astrattamente presi); una rilevanza che va invece riaffermata laddove essi costituiscano concreta epifania di una sottostante infermità, così rientrando sotto l’usbergo precettivo degli articoli 88 e 89 c.p.
Il 9 maggio esce la sentenza della Sezione I della Cassazione n.8719, Ciancabilla, che si pone quale isolato decisum rispetto all’indirizzo pretorio che resterà dominante, alla cui stregua il vizio parziale di mente è da intendersi incompatibile con il dolo eventuale.
Il 22 settembre viene varato il D.p.R. n.477, nuovo codice di procedura penale, il cui art.530, al comma 1, afferma che se il fatto non sussiste, se l’imputato non lo ha commesso, se il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato ovvero se il reato è stato commesso da persona non imputabile o non punibile per un’altra ragione, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione indicandone la causa nel dispositivo. Si tratta di una norma che – col distinguere la formula assolutoria per non imputabilità da quelle legate alla insussistenza del reato – viene invocata come freccia nell’arco della tesi tradizionale che tende a distinguere l’imputabilità dalla colpevolezza, predicando la possibile configurabilità di un fatto reato colpevole e tuttavia non punibile a cagione del peculiare status soggettivo di non imputabilità del reo. Quel medesimo giorno viene varato anche il D.p.R. n.448 in tema di processo minorile, alla stregua del cui art.9 – al fine di accertare l’imputabilità e il grado di responsabilità di un soggetto minore degli anni 18 e ultraquattordicenne (art.98 c.p.) – il PM e il giudice acquisiscono elementi circa le condizioni e le risorse personali e familiari, sociali e ambientali del minorenne medesimo.
1989
*Il 21 marzo esce la sentenza della Cassazione, Leoncini, alla cui stregua laddove un fatto di reato sia stato commesso da un soggetto maggiore degli anni 14, ma minore degli anni 18, occorre in concreto accertare se egli è imputabile considerando il ruolo specifico ricoperto, la capacità organizzativa palesata, il contegno assunto durante la realizzazione del fatto di reato e quello tenuto nel corso del successivo processo, occorrendo dunque considerare non già solo elementi di tipo bio-psichico ma anche socio economico e socio ambientale.
*Il 28 aprile esce la sentenza della Cassazione, Filippi, onde in caso di ubriachezza volontaria o colposa il titolo soggettivo di imputazione del reato (dolo o colpa) va verificato con riguardo al momento del fatto, la colpevolezza dell’ubriaco dovendo essere accertata caso per caso secondo i normali criteri, e non potendo farsi riferimento alla natura dolosa o colposa della ubriachezza, anteriore al fatto commesso.
Il 7 luglio esce la sentenza della Cassazione, Radaelli, onde mentre nel passato la giurisprudenza ha definito “infermità” solo il disturbo psichico poggiante su di una base organica o comunque che possieda caratteri patologici così definiti da poter essere ricondotto ad un preciso quadro nosografico-clinico, con il passare degli anni la definizione di infermità è stato fatto oggetto di un processo evolutivo che la ha via via sganciata dal concetto di malattia mentale in senso stretto, individuandone il fondamento in uno stato patologico nel cui novero vengono ricondotte non già solo le malattie fisiche o mentali in senso stretto, ma altresì le anomalie psichiche che, seppure non classificabili secondo precisi schemi nosografici, in quanto sprovviste di una sicura base organica, siano tali per la relativa intensità da escludere o scemare grandemente la capacità di intendere e di volere.
*Il 28 settembre esce la sentenza della Cassazione, Amicar, alla cui stregua laddove un fatto di reato sia stato commesso da un soggetto maggiore degli anni 14, ma minore degli anni 18, la eventuale capacità o incapacità di intendere e di volere ha carattere relativo e non assoluto, onde in relazione a certi comportamenti un dato sviluppo intellettivo può risultare bastevole per far dichiarare l’imputabilità del soggetto agente, cosa che all’opposto potrebbe non essere predicabile in relazione ad altre situazioni e ad altri comportamenti. Più precisamente, chiosa la Corte, occorre guardare, in concreto, di volta in volta alla maggiore o minore avvertibilità del disvalore etico-sociale del reato e della relativa immoralità secondo il comune sentire.
*Il 21 dicembre esce la sentenza della Cassazione, Agostinelli, alla cui stregua laddove un fatto di reato sia stato commesso da un soggetto maggiore degli anni 14, ma minore degli anni 18, maturità ed infermità sono concetti che vanno tenuti ontologicamente distinti, potendo coesistere l’infermità mentale con la maturità ai fini della imputabilità, onde il giovane va considerato imputabile perché maturo, ma con possibilità di applicare l’attenuante prevista dall’art.89 c.p. per la seminfermità mentale.
1990
*Il 30 aprile esce la sentenza della I Sezione della Cassazione, Picchedda, onde in caso di ubriachezza volontaria o colposa il titolo soggettivo di imputazione del reato (dolo o colpa) va verificato con riguardo al momento del fatto, la colpevolezza dell’ubriaco dovendo essere accertata caso per caso secondo i normali criteri, e non potendo farsi riferimento alla natura dolosa o colposa della ubriachezza, anteriore al fatto commesso.
*Il 2 luglio esce la sentenza della I Sezione della Cassazione, Salemi, onde mentre nel passato la giurisprudenza ha definito “infermità” solo il disturbo psichico poggiante su di una base organica o comunque che possieda caratteri patologici così definiti da poter essere ricondotto ad un preciso quadro nosografico-clinico, con il passare degli anni la definizione di infermità è stato fatto oggetto di un processo evolutivo che la ha via via sganciata dal concetto di malattia mentale in senso stretto, individuandone il fondamento in uno stato patologico nel cui novero vengono ricondotte non già solo le malattie fisiche o mentali in senso stretto, ma altresì le anomalie psichiche che, seppure non classificabili secondo precisi schemi nosografici, in quanto sprovviste di una sicura base organica, siano tali per la relativa intensità da escludere o scemare grandemente la capacità di intendere e di volere.
*Il 5 luglio esce la sentenza della Cassazione, Ciardi, che – inserendosi nel solco tradizionale che distingue l’imputabilità dalla colpevolezza – assume come laddove sia stata emessa sentenza di proscioglimento per non imputabilità, e successivamente intervenga amnistia per il medesimo fatto-reato, quest’ultima vada applicata a propria volta quale causa estintiva più favorevole, investendo essa (estinguendolo) il reato “colpevole”, e non già la mera punibilità soggettiva di esso.
*Il 3 dicembre esce la sentenza della Cassazione, Fornaro, alla cui stregua, in tema di stati emotivi e passionali, ne va negata la rilevanza ai fini del giudizio di imputabilità laddove in sé e per sé considerati (e dunque astrattamente presi); una rilevanza che va invece riaffermata laddove essi costituiscano concreta epifania di una sottostante infermità, così rientrando sotto l’usbergo precettivo degli articoli 88 e 89 c.p.
1991
*Il 27 giugno esce la sentenza della Cassazione, La Placa, che – inserendosi nel solco tradizionale che distingue l’imputabilità dalla colpevolezza – assume come laddove sia stata emessa sentenza di proscioglimento per non imputabilità, e successivamente intervenga amnistia per il medesimo fatto-reato, quest’ultima vada applicata a propria volta quale causa estintiva più favorevole, investendo essa (estinguendolo) il reato “colpevole”, e non già la mera punibilità soggettiva di esso. Su altro crinale, mentre nel passato la giurisprudenza ha definito “infermità” solo il disturbo psichico poggiante su di una base organica o comunque che possieda caratteri patologici così definiti da poter essere ricondotto ad un preciso quadro nosografico-clinico, con il passare degli anni la definizione di infermità è stato fatto oggetto di un processo evolutivo che la ha via via sganciata dal concetto di malattia mentale in senso stretto, individuandone il fondamento in uno stato patologico nel cui novero vengono ricondotte non già solo le malattie fisiche o mentali in senso stretto, ma altresì le anomalie psichiche che, seppure non classificabili secondo precisi schemi nosografici, in quanto sprovviste di una sicura base organica, siano tali per la relativa intensità da escludere o scemare grandemente la capacità di intendere e di volere.
1992
*Il 24 gennaio esce la sentenza della Cassazione, Milani, alla cui stregua si ha cronica intossicazione da alcol o da sostanze stupefacenti ex art.95 c.p. allorché la ridetta intossicazione, per il relativo carattere ineliminabile e per l’impossibilità di guarigione che ne consegue, determina alterazioni patologiche permanenti, tali da far apparire indiscutibile che ci si trovi dinanzi ad una vera e propria malattia psichica che giustifica l’applicazione degli articoli 88 e 89 c.p., siccome richiamati dal medesimo art.95.
Il 24 giugno esce la sentenza della I sezione della Cassazione, Di Mauro, alla cui stregua poiché l’imputabilità è qualcosa di diverso dal reato, il reo non imputabile commette un reato “colpevole” e possono dunque applicarglisi le circostanze soggettive legate alla colpevolezza, come ad esempio la premeditazione, che rileva tuttavia ai soli fini della determinazione della durata della misura di sicurezza (non essendo operativa una pena).
Il 16 novembre esce la sentenza della Cassazione, Renato, onde è ben possibile che un soggetto attivo sia imputabile rispetto ad un determinato fatto penalmente rilevante e non lo sia rispetto ad un altro, sicché se un soggetto è stato giudicato incapace (e dunque inimputabile) in un dato procedimento penale, ciò non può assumersi vincolante in un giudizio successivo per un altro fatto a carico dello stesso soggetto.
Il 7 dicembre esce la sentenza della Sezione III della Cassazione, Trinca, alla cui stregua la seminfermità mentale ex art.89 c.p. comporta l’applicazione di una circostanza attenuante che diminuisce la pena e che, come tale, va soggetta a bilanciamento con le circostanze aggravanti ai sensi dell’art.69 c.p.
1993
Il 3 marzo esce la sentenza della Cassazione, Zannoni, alla cui stregua, in distonia rispetto al nuovo corso della giurisprudenza, le infermità che influiscono sull’imputabilità sono (solo) le malattie mentali in senso stretto.
Il 6 aprile esce la sentenza della Cassazione, Olivieri, alla cui stregua – stante la presunzione iuris tantum di capacità di intendere e di volere al raggiungimento del diciottesimo anno di età, ai sensi dell’art.85 c.p. – il giudice ha l’obbligo di motivare in punto di imputabilità del soggetto attivo del reato solo laddove la difesa prospetti elementi specifici potenzialmente atti a vincere tale presunzione.
Il 28 ottobre esce la sentenza della Sezione I della Cassazione, Recchi, onde la malattia mentale rilevante ai sensi dell’art.89 c.p. e dunque comportante un vizio parziale di mente è solo quella medico-legale, dipendente da uno stato patologico realmente serio e tale da comportare una degenerazione della sfera intellettiva o volitiva del soggetto.
1994
*Il 9 marzo esce la sentenza della Cassazione, Bussi, alla cui stregua si ha cronica intossicazione da alcol o da sostanze stupefacenti ex art.95 c.p. allorché la ridetta intossicazione, per il relativo carattere ineliminabile e per l’impossibilità di guarigione che ne consegue, determina alterazioni patologiche permanenti, tali da far apparire indiscutibile che ci si trovi dinanzi ad una vera e propria malattia psichica che giustifica l’applicazione degli articoli 88 e 89 c.p., siccome richiamati dal medesimo art.95.
1995
Il 26 ottobre esce la sentenza della Sezione I della Cassazione, Radicetti, alla cui stregua la seminfermità mentale ex art.89 c.p. comporta l’applicazione di una circostanza attenuante che diminuisce la pena e che, come tale, va soggetta a bilanciamento con le circostanze aggravanti ai sensi dell’art.69 c.p. La Corte nell’occasione afferma la manifesta infondatezza della questione di costituzionalità dell’art.69 c.p. nella parte in cui consente il giudizio di comparazione con l’attenuante di cui all’art.89 c.p.
1996
*Il 18 dicembre esce la sentenza della Cassazione, El Sayed, onde è ben possibile che un soggetto attivo sia imputabile rispetto ad un determinato fatto penalmente rilevante e non lo sia rispetto ad un altro, sicché se un soggetto è stato giudicato incapace (e dunque inimputabile) in un dato procedimento penale, ciò non può assumersi vincolante in un giudizio successivo per un altro fatto a carico dello stesso soggetto.
1997
Il 6 aprile esce la sentenza della Cassazione, Cireddu, onde la malattia mentale rilevante ai sensi dell’art.89 c.p. e dunque comportante un vizio parziale di mente, non è solo quella medico-legale, ma va abbracciato un concetto più ampio di seminfermità mentale onde anche la psicopatia e le nevrosi possono influire sull’imputabilità, grandemente scemandola.
*Il 22 aprile esce la sentenza della Sezione I della Cassazione, Ortolina, onde mentre nel passato la giurisprudenza ha definito “infermità” solo il disturbo psichico poggiante su di una base organica o comunque che possieda caratteri patologici così definiti da poter essere ricondotto ad un preciso quadro nosografico-clinico, con il passare degli anni la definizione di infermità è stato fatto oggetto di un processo evolutivo che la ha via via sganciata dal concetto di malattia mentale in senso stretto, individuandone il fondamento in uno stato patologico nel cui novero vengono ricondotte non già solo le malattie fisiche o mentali in senso stretto, ma altresì le anomalie psichiche che, seppure non classificabili secondo precisi schemi nosografici, in quanto sprovviste di una sicura base organica, siano tali per la relativa intensità da escludere o scemare grandemente la capacità di intendere e di volere.
*Il 19 giugno esce la sentenza della Sezione II della Cassazione n.8038, Milani, onde è ben possibile che un soggetto attivo sia imputabile rispetto ad un determinato fatto penalmente rilevante e non lo sia rispetto ad un altro, sicché se un soggetto è stato giudicato incapace (e dunque inimputabile) in un dato procedimento penale, ciò non può assumersi vincolante in giudizio successivo per un altro fatto a carico dello stesso soggetto.
1998
Il 16 aprile esce la sentenza della Corte costituzionale n.114 che dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 94 e 95 c.p. in relazione agli articoli 3 e 111 Cost. Il problema è quello di distinguere – stante la assoluta similarità delle epifanie sintomatologiche – le ipotesi di abitualità nell’assunzione di alcool o di sostanze stupefacenti, che aggravano la pena, dalle fattispecie di intossicazione cronica in cui invece, giusta richiamo agli articoli 88 e 89 c.p., la pena viene diminuita o addirittura esclusa. Per la Corte, affinché si possa pervenire ad una pronuncia di incostituzionalità occorre che i dati sui quali la legge presunta incostituzionale riposa siano incontrovertibilmente erronei o comunque raggiungano un tale livello di indeterminatezza da non consentire in alcun modo una interpretazione ed una applicazione razionali da parte del giudice, circostanza che non si verifica al cospetto appunto degli articoli 94 e 95 c.p. laddove, pur stante la palmare incertezza nosologica tra mera assunzione abituale ed intossicazione cronica, le difficoltà che a tale incertezza sono avvinte non sono in grado di scalfire la giustificatezza del diverso trattamento penale riservato all’assuntore abituale, come tale non ancora mentalmente compromesso nella relativa sfera intellettiva e volitiva, la cui imputabilità resta piena e la cui speciale colpevolezza è anzi sanzionata dall’aumento di pena ove il reato sia stato commesso in stato di ebbrezza, rispetto all’alcolista o al tossicomane cronico, e dunque affetto da infermità mentale tale da escludere o da scemare grandemente la capacità di intendere e di volere, la cui imputabilità viene invece per la Corte ad essere esclusa ovvero solo parzialmente riconosciuta. Per la Corte, per distinguere le due ipotesi occorre affidarsi non già al fattore della reversibilità (abitualità) o irreversibilità (cronicità) della intossicazione, quanto piuttosto alla capacità di incisione sulla colpevolezza del soggetto attivo, onde – per la sussistenza di una cronica intossicazione – non rileva la presenza di una vera e propria infermità irreversibile tale da eliminare o attenuare la capacità intellettiva e volitiva del soggetto attivo, palesandosi piuttosto necessaria la presenza di una condizione soggettiva determinata dall’assunzione di droga o di alcol che sia tale da escludere che, nel momento dell’atto incriminato (e dunque della condotta) il soggetto fosse capace di intenderlo e volerlo, e quindi fosse nelle condizioni di valutare il significato o gli effetti della propria condotta e di autodeterminarsi scientemente al momento dell’attuazione di questa. Si tratta di una presa di posizione della Corte costituzionale che, in linea più generale, sembra accostare convintamente l’imputabilità alla colpevolezza e, dunque, alla costruzione (sul crinale soggettivo) del reato, senza rimanere al di fuori di esso.
*Il 7 luglio esce la sentenza della Cassazione, Saccavino, onde la malattia mentale rilevante ai sensi dell’art.89 c.p. e dunque comportante un vizio parziale di mente, non è solo quella medico-legale, ma va abbracciato un concetto più ampio di seminfermità mentale onde anche la psicopatia e le nevrosi possono influire sull’imputabilità, grandemente scemandola.
2002
Il 4 giugno esce la sentenza della Cassazione, Di Mauro, che – inserendosi nel solco tradizionale che distingue l’imputabilità dalla colpevolezza – assume tali due istituti operare su piani divaricati, onde in caso di non imputabilità esiste il reato come fatto storico materiale colpevole, cui tuttavia non fa seguito una punizione del relativo autore.
2005
L’8 marzo vede la luce l’importante pronuncia delle SSUU n.9163 che si occupa dei c.d. “gravi disturbi della personalità” e della relativa sussumibilità nell’ambito del concetto di infermità mentale. Per la Corte, nonostante l’imputabilità sia sistematicamente collocata nel Titolo IV del libro I del codice penale, essa non può essere considerata autonoma rispetto al reato, né può venire additata quale mera capacità di pena o semplice presupposto o aspetto della capacità giuridica penale, dovendosene piuttosto cogliere il più autentico ruolo muovendo proprio dalla dogmatica del reato quale fatto tipico, antigiuridico e colpevole dove la colpevolezza non è solo il dolo o la colpa ma va intesa, più precisamente, nel senso di rimproverabilità e di riprovevolezza, in ottica valutativa della condotta del reo; muovendo da questo presupposto, l’imputabilità non può per la Corte essere vista quale mera condizione soggettiva di riferibilità della pena quale conseguenza del reato, dovendosi piuttosto vedere quale condizione in capo all’autore che rende predicabile proprio la rimproverabilità del fatto, atteggiandosi dunque non già a mera capacità di pena, quanto piuttosto e più precisamente a “capacità di reato” o, meglio, “capacità di colpevolezza”, non potendosi riscontrare colpevolezza senza imputabilità. Quanto ai disturbi della personalità, per la Corte gli articoli 88 e 89 del codice penale non possono che essere letti in stretto rapporto, sistematico e derivativo, con il generale disposto di cui all’art.85 c.p. onde – anche con riguardo alle rigide classificazioni nosografiche della psichiatria ottocentesca di stampo organicistico-positivistico – pertinente appare alla Corte il rilievo di autorevole dottrina onde, a conferma della maggiore ampiezza del termine “infermità” rispetto a quello di “malattia”, non interessa tanto che la condizione del soggetto sia esattamente catalogabile nel novero delle malattie elencate nei trattati di medicina, quanto che il disturbo abbia in concreto l’attitudine a compromettere gravemente la capacità sia di percepire il disvalore del fatto commesso, sia di recepire il significato del trattamento punitivo, dovendosi valutare se detto disturbo lasci integra o meno la capacità di “poter agire altrimenti”, e ciò in quanto solo nei confronti dei soggetti dotati di tali capacità può concretamente discorrersi di colpevolezza. Ciò comporta per la Corte la irrimediabile crisi del criterio della ritenuta, necessaria sussumibilità dell’anomalia psichica nel novero delle rigide e predeterminate categorie nosografiche, a tale sostanzialistica (e non formalistica) esigenza mostrando per la Corte, talora implicitamente, di fare riferimento tutte quelle decisioni che hanno ritenuto essenziale non tanto la rigida classificabilità del disturbo psichico in una specifica categoria nosografica, quanto invece e piuttosto la relativa attitudine ad incidere, effettivamente e nel caso concreto, nella misura e nei termini voluti dalla norma, sulla capacità di intendere e di volere del soggetto agente. Per la Corte dunque, che raccoglie i risultati più frammentari della precedente giurisprudenza sul punto portandoli ad autorevole compimento, anche i disturbi della personalità possono acquisire rilevanza al fine di affermare o di negare la capacità di intendere e di volere del soggetto agente, sempre che tuttavia siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da concretamente incidere sulla ridetta capacità di intendere e di volere; simili disturbi – come in genere quelli derivanti da nevrosi o da psicopatie – quand’anche non siano inquadrabili nelle figure tipiche della nosografia clinica riferibili al più ristretto novero delle “malattie mentali”, possono tuttavia fare luogo ad una “infermità”, anche temporanea, rilevante ai sensi degli articoli 88 e 89 c.p., laddove determinino il medesimo risultato di pregiudicare, grandemente o totalmente, la capacità di intendere e di volere. Per la Corte deve trattarsi di un disturbo idoneo a determinare una situazione di assetto psichico incontrollabile ed ingestibile (totalmente o in grave misura) che, incolpevolmente, renda l’agente incapace di esercitare il dovuto controllo sui propri atti, di conseguentemente indirizzarli, di percepire il disvalore sociale del fatto, di autonomamente, liberamente, autodeterminarsi. Ad un simile accertamento il giudice penale deve per la Corte giungere avvalendosi di tutti gli strumenti che ha a disposizione, ivi compreso l’indispensabile apporto e contributo tecnico, oltre che di ogni altro elemento di scandaglio e giudizio desumibile dalle acquisizioni processuali.
Il 7 aprile esce la sentenza della III della Cassazione, Tiani, alla cui stregua la seminfermità mentale ex art.89 c.p. è compatibile con forme di particolare intensità del dolo e può come tale giustificare il diniego di applicazione delle circostanze attenuanti generiche.
2011
Il 18 maggio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.19369 onde sussiste compatibilità tra il vizio parziale di mente ed il dolo eventuale, poiché i due concetti operano su piani diversi, l’uno attenendo alla capacità di intendere e di volere e l’altro alla intensità del dolo.
Il 20 agosto esce la sentenza del GIP di Como, resa in sede di rito abbreviato, che lambisce il tema della incapacità c.d. settoriale; nel caso di specie l’imputata è accusata di aver ucciso la sorella e sequestrato la madre, e viene condannata a 20 anni di reclusione con riconoscimento del vizio parziale di mente per la riscontrata presenza di alterazioni in un’area circoscritta del cervello, ovvero quella che ha la funzione di regolare le azioni aggressive, oltre alla acclarata presenza, in ottica genetica, di fattori significativamente associati ad un maggior rischio di comportamento aggressivo, impulsivo e violento. Il Tribunale si avvale per la prima volta, al fine di accertare l’imputabilità, delle c.d. neuroscienze, fondando la propria decisione non già solo su accertamenti psichiatrici di tipo tradizionale, ma anche su analisi appunto di tipo neuroscientifico capaci di rivelare la morfologia del cervello dell’imputata anche in rapporto al relativo patrimonio genetico. Se dal punto di vista psichiatrico tradizionale è affiorato l’imputata essere affetta da un quadro caratterizzato dalla menzogna patologica e da una sindrome dissociativa, gli accertamenti di tipo neuroscientifico – che maggiormente pesano sulla decisione del GIP – ricostruiscono il correlato anatomo funzionale della sfera psichica della paziente, attraverso indagini di imaging cerebrale e di genetica molecolare, lasciando affiorare anomalie traducentesi in un significativo aumento del rischio di sviluppare certi tipi di comportamento; risultano evidenti in particolare, all’esito della perizia neuro scientifica, delle differenze nella morfologia e nel volume delle strutture cerebrali dell’imputata, nonché delle alterazioni nella densità della sostanza grigia in talune zone chiave del cervello, con incidenza sui processi che regolano la menzogna, su quelli che regolano le azioni aggressive e su quelli di suggestionabilità ed autosuggestionabilità. Hanno poi dato esito positivo gli accertamenti genetici finalizzati a verificare se la perizianda presenti alleli, secondo la letteratura scientifica tradizionale, significativamente associati ad un maggior rischio di comportamento impulsivo, aggressivo e violento, con conseguente declaratoria di vizio parziale di mente.
Il 20 dicembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.47379, alla cui stregua il riconoscimento della diminuente del vizio parziale di mente è pienamente compatibile con la sussistenza del dolo, poiché l’imputabilità, quale capacità di intendere e di volere, e la colpevolezza, quale coscienza e volontà del fatto illecito, costituiscono nozioni autonome ed operanti su piani diversi, sebbene la prima, quale componente naturalistica della responsabilità, debba essere accertata con priorità rispetto alla seconda.
2013
L’11 gennaio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.7907 onde – ai fini della imputabilità – non possono avere rilievo delle mere “anomalie caratteriali”, “disarmonie della personalità”, “alterazioni di tipo caratteriale”, “deviazioni del carattere o del sentimento”, legate “all’indole” del soggetto considerato che – pur afferendo alla sfera del processo psichico di determinazione e di inibizione – non siano rivestite di quelle connotazioni indicate dalla giurisprudenza e non siano dunque idonee ad attingere a quel rilievo di incisività sulla capacità di autodeterminazione del soggetto agente nei termini e nella misura voluti dalle pertinenti norme del codice penale. Per la Corte, di regola, non possono poi assumere rilevanza gli stati emotivi e passionali, stante l’espressa disposizione normativa in tal senso di cui all’art.90 c.p., salvo che essi non si inseriscano, eccezionalmente, per le relative peculiarità specifiche, in un più ampio quadro di infermità, aventi le connotazioni più volte indicate dalla giurisprudenza. La Corte rammenta peraltro come la stessa dottrina critichi la norma di cui all’art.90 c.p. sugli stati emotivi e passionali, assumendola priva di una fondata base empirica e motivata piuttosto da mere considerazioni di prevenzione generale, ponendosi così in contrasto con il principio di colpevolezza.
Il 15 aprile esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.17086 alla cui stregua il vizio di mente deriva da uno stato morboso che a propria volta dipende da una alterazione patologica tale da rendere certo che l’imputato, nel momento della commissione del reato, è per infermità in uno stato mentale tale da scemare grandemente o da escludere la propria capacità di intendere e di volere, onde solo in presenza di un simile stato soggettivo il giudice di merito deve ritenere sussistente il vizio di mente ed il concorso di gravi e fondati indizi per dar luogo a perizia psichiatrica. In sostanza, occorre dunque che il vizio di mente promani da uno stato patologico, da una infermità, ai sensi dell’art.88 c.p..
Il 17 aprile esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.17608 secondo la quale non può affermarsi in termini assolutistici che il disturbo della personalità sia ex se inidoneo ad integrare l’ipotesi della incapacità di intendere e di volere; del pari l’esclusione di tale status, laddove non accompagnata da una vera e propria patologia o infermità, abbisogna di una specificazione in merito alla portata di quella infermità che non necessariamente deve consistere in una patologia di tipo mentale o intellettivo-cognitivo, potendo discendere anche da altre forme morbose che possono incidere proprio sul piano della capacità di intendere e di volere. Ne deriva per la Corte la necessità che il giudice del merito, laddove investito di una questione che involga comunque un disturbo caratteriale o relazionale di una determinata persona imputata (o imputabile), accerti funditus se tale anomalia abbia un qualche collegamento con una situazione di malattia tale da compromettere la capacità intellettiva e volitiva del soggetto considerato, esigenza tanto più insopprimibile se riscontrata da dati clinici ricavabili ex actis o, comunque, da elementi tali da determinare una necessità di approfondimento specifico.
Il 21 maggio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.25608 alla cui stregua, sulla scia di un costante orientamento pretorio, in tema di omicidio non sussiste in astratto una incompatibilità tra il vizio parziale di mente ex art.89 c.p. e la premeditazione, trattandosi di figure operanti su piani diversi, anche se in concreto tale incompatibilità può essere accertata laddove la premeditazione sia originata da cause che escludono la seminfermità.
2014
Il 4 giugno esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.23295 alla cui stregua, in tema di imputabilità, esula dalla nozione di infermità mentale tutto il gruppo delle c.d. “abnormità psichiche”, quali le nevrosi di ansia o le c.d. reazioni a corto circuito, stante la relativa natura transitoria e la non indicatività di uno stato morboso, da intendersi quale ragionevole alterazione della capacità di intendere e di volere, trattandosi dunque di disturbi che di regola non sono in grado di incidere sulla imputabilità del pertinente soggetto attivo del reato. Più precisamente, afferma la Corte, per costante indirizzo giurisprudenziale affinché una c.d. reazione a corto circuito possa assumersi epifania di una vera e propria malattia tale da compromettere la capacità di intendere e di volere del soggetto agente, è necessario che essa si inquadri in una preesistente alterazione patologica comportante infermità o seminfermità mentale.
*Il 25 giugno esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.52951 onde – ai fini della imputabilità – non possono avere rilievo delle mere “anomalie caratteriali”, “disarmonie della personalità”, “alterazioni di tipo caratteriale”, “deviazioni del carattere o del sentimento”, legate “all’indole” del soggetto considerato che – pur afferendo alla sfera del processo psichico di determinazione e di inibizione – non siano rivestite di quelle connotazioni indicate dalla giurisprudenza e non siano dunque idonee ad attingere a quel rilievo di incisività sulla capacità di autodeterminazione del soggetto agente nei termini e nella misura voluti dalle pertinenti norme del codice penale. Per la Corte, di regola, non possono poi assumere rilevanza gli stati emotivi e passionali, stante l’espressa disposizione normativa in tal senso di cui all’art.90 c.p., salvo che essi non si inseriscano, eccezionalmente, per le relative peculiarità specifiche, in un più ampio quadro di infermità, aventi le connotazioni più volte indicate dalla giurisprudenza. La Corte rammenta peraltro come la stessa dottrina critichi la norma di cui all’art.90 c.p. sugli stati emotivi e passionali, assumendola priva di una fondata base empirica e motivata piuttosto da mere considerazioni di prevenzione generale, ponendosi così in contrasto con il principio di colpevolezza.
2015
Il 29 gennaio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.4292 alla cui stregua l’imputabilità e la colpevolezza esprimono concetti diversi ed operano anche su piani diversi, sebbene la prima, quale componente naturalistica della responsabilità, debba essere accertata con priorità rispetto alla seconda, con la conseguenza che il dolo generico è compatibile con il vizio parziale di mente. Per la Corte, più nel dettaglio, l’imputabilità, quale capacità di intendere e di volere, e la colpevolezza, quale coscienza e volontà del fatto illecito che l’agente sta compiendo, esprimono categorie giuridiche concettualmente diverse ed operanti su piani diversi, benché ovviamente la prima, come substrato naturalistico della responsabilità penale, vada accertata con criterio di priorità rispetto alla seconda. In particolare il vizio parziale di mente (art. 89 c.p.) deve per la Corte valutarsi logicamente compatibile con il dolo, non essendovi contrasto fra la seminfermità mentale ed il ritenere provato il dolo. La coscienza e la volontà, pur diminuite, non sono inconciliabili con il vizio parziale di mente, perché sussiste piena autonomia concettuale tra la diminuente, che attiene alla sfera psichica del soggetto al momento della formazione della relativa volontà, e l’intensità del dolo, che riguarda il momento (successivo) nel quale la volontà si esteriorizza e persegue l’obiettivo avuto di mira dal soggetto agente (vengono richiamate: le pronunce della Sez. 1, n. 40808 del 14.10.2012, Cazzaniga, e della Sez. 6, n. 47379 del 13.10.2011, Dall’Oglio). Con la conseguenza, chiosa la Corte, che nel caso di un reato commesso da persona seminferma di mente deve essere in ogni caso oggetto di ricognizione e verifica la sussistenza dell’elemento psicologico del commesso reato, compatibile – come detto- con il vizio parziale di mente, atteso che anche nella condizione di imputabilità diminuita residua pur sempre la capacità di intendere e di volere, la cui contrazione può assumere possibile rilievo nei reati a dolo specifico, ma non in quelli connotati da dolo generico, come il reato di evasione ascritto all’imputato nel caso di specie. L’autonomia concettuale e di corrispondente manifestazione esterna delle nozioni di imputabilità e di colpevolezza implica che il reato di evasione domiciliare può essere configurabile, e il giudice di merito deve accertare simile evenienza, indipendentemente dalla capacità di intendere e di volere, piena o scemata, del relativo autore.
Il 9 aprile esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 14458 che, inserendosi in un collaudato filone giurisprudenziale, ribadisce la piena compatibilità tra il vizio parziale di mente ex art.89 c.p. ed il dolo eventuale, il primo attenendo alla parziale incapacità di intendere e di volere e il secondo all’intensità del dolo.
2018
Il 23 gennaio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.3075 alla cui stregua, onde procedere al riconoscimento della sentenza di condanna emessa in un altro Stato membro dell’Unione europea ai fini della relativa esecuzione in Italia, la Corte territoriale deve, tra l’altro, accertare che la durata e la natura della pena o della misura di sicurezza applicate nello Stato di emissione siano compatibili con quelle previste in Italia per reati simili (art. 10, commi 1, lett. f, e 5, D.Lvo n. 161 del 2010). Per individuare il tipo di pena o di misura di sicurezza applicabile nell’ordinamento italiano al fatto ritenuto nella sentenza oggetto di riconoscimento, e la relativa cornice edittale, la Corte di appello deve quindi necessariamente determinare per la Corte a quale fattispecie astratta di reato sia nell’ordinamento interno riconducibile quel fatto, “indipendentemente dagli elementi costitutivi o dalla denominazione” (così, testualmente, l’art. 10, comma 1, lett. e, D.Lvo 161/2010). Se la durata e la natura della pena e della misura di sicurezza applicate con la sentenza di condanna sono incompatibili con quelle previste in Italia per reati simili, la Corte di appello procede al loro adattamento. In tal caso, la durata e la natura della pena o della misura di sicurezza adattate non possono essere inferiori alla pena o alla misura di sicurezza previste dalla legge italiana per reati simili, né più gravi di quelle applicate dallo Stato di emissione con la sentenza di condanna (art. 10, comma 5, D.Lvo n. 161 del 2010). Orbene, la Corte territoriale non ha dato per il Collegio corretta applicazione alle norme testé richiamate, non avendo in primo luogo essa proceduto a verificare a quale fattispecie astratta di reato sia nell’ordinamento interno riconducibile, “indipendentemente dagli elementi costitutivi o dalla denominazione” (art. 10, comma 1, lett. e, D.Lvo 161/2010) il fatto per il quale è intervenuta la sentenza di condanna oggetto di riconoscimento. Tale sentenza riguarda infatti il delitto di manslaughter, che nella nota di trasmissione in lingua italiana del certificato datata 5/1/2017 le Autorità del Regno Unito traducono come “omicidio preterintenzionale“. Si tratta peraltro di una mera traduzione, che non rappresenta una qualificazione giuridica vincolante per l’Autorità giudiziaria italiana, la quale deve al riguardo procedere in modo autonomo con riferimento alle specifiche e concrete connotazioni del fatto accertato ed in relazione alle pertinenti norme penali interne. Il termine manslaughter comprende in vero diverse fattispecie, che vanno dall’omicidio volontario a imputabilità ridotta per vizio parziale di mente, all’omicidio volontario con dolo d’impeto e/o attenuante della provocazione, al vero e proprio omicidio preterintenzionale, nel quale la morte della vittima consegue ad atti diretti a commettere delitti di percosse o lesioni personali (art. 584 cod. pen.). Nel caso di specie, il provvedimento oggetto di riconoscimento procede ad una minuziosa descrizione della condotta omicidiaria là dove, tra l’altro, afferma che “senza dubbio si è trattato di un attacco sostenuto e furioso attuato con un’arma mortale” e che, anche se il soggetto agente era in stato maniacale, egli aveva l’intenzione di uccidere la vittima. Ciò determina con chiarezza la qualificazione giuridica del fatto in diritto italiano nell’ambito della fattispecie di omicidio volontario di cui all’art. 575 cod. pen. Per tale fatto-reato, non sono state contestate al soggetto agente, o ritenute nella sentenza oggetto di riconoscimento, aggravanti di sorta, risultando al contrario l’attuale ricorrente essere al momento del fatto affetto da schizofrenia, manifestatasi in maniera repentina e inaspettata, senza alcun contributo dello stesso ricorrente all’insorgenza di tale stato psicotico acuto, sicché solo la malattia mentale da cui è affetto ha determinato la condotta per la quale ha riportato condanna (si richiama la sentenza della Sez. 1, n. 33268 del 13/06/2013, Arba). Ciò – prosegue la Corte – ha determinato il giudice inglese a riconoscere al soggetto agente una capacità di intendere e volere grandemente scemata nel momento in cui ha commesso il fatto in ragione della malattia mentale da cui era affetto (corrispondente al vizio parziale di mente di cui all’art. 89 cod. pen.), nonché le ulteriori attenuanti correlate al corretto comportamento post factum dell’imputato, che si è tra l’altro da subito sottoposto regolarmente e attivamente alle necessarie cure farmacologiche e psicologiche, e alla relativa scelta di dichiararsi colpevole, riconducibili nell’ordinamento interno agli artt. 62 bis cod. pen. e 444 cod. proc. pen.. È del tutto evidente, dunque, che in Italia per il richiamato reato di cui all’art. 575 cod. pen., non aggravato e anzi connotato da imputabilità ridotta e dalle indicate attenuanti, nonché dalla riduzione di pena riconosciuta dall’Autorità giudiziaria inglese in ragione della scelta del rito (viene richiamata la sentenza della Sez. 4, n. 10885 del 09/02/2012, Marsalone e altro,), è prevista unicamente la pena della reclusione (art. 23 cod. pen.) e non già quella dell’ergastolo (art. 22 cod. pen.). La sentenza impugnata deve pertanto per la Corte essere annullata, con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Milano, che dovrà verificare la possibilità e le eventuali modalità di adattamento nell’ordinamento interno della dicretionary life sentence con termine minimo di sei anni di reclusione applicata al ricorrente dal Giudice Farrer della Crown Court di Birmingham. A tal fine, la Corte di rinvio dovrà considerare che la durata e la natura della pena o della misura di sicurezza adattate non possono essere inferiori alla pena o alla misura di sicurezza previste dalla legge italiana per reati simili, né più gravi di quelle applicate dallo Stato di emissione con la sentenza di condanna (art. 10, comma 5, D.Lvo n. 161 del 2010). Per il Collegio, nella determinazione del primo parametro, la Corte di rinvio dovrà in particolare tenere conto, a partire dal limite edittale pari a 21 anni di reclusione previsto dall’art. 575 cod. pen., delle successive riduzioni di pena conseguenti all’avvenuto riconoscimento da parte del giudice inglese del vizio parziale di mente e delle attenuanti generiche, nonché quelle conseguenti alla scelta del rito e dovrà inoltre accertare, anche se del caso mediante apposita richiesta di chiarimenti all’Autorità richiedente il riconoscimento, il periodo nel quale il soggetto agente è stato eventualmente sottoposto nel Regno Unito, in relazione al fatto per il quale ha riportato condanna, alla misura della custodia cautelare in carcere ovvero ad altra assimilabile agli arresti domiciliari presso un luogo pubblico di cura o di assistenza (art. 284 cod. proc. pen.), con la conseguenza che il relativo periodo di privazione della libertà va integralmente detratto, secondo le regole dell’ordinamento interno, dalla durata della pena detentiva da scontare, posto che costituisce principio fondamentale dell’ordinamento giuridico dello Stato quello secondo cui la custodia cautelare deve essere sempre computata nella pena da espiare relativa allo stesso fatto (vengono richiamate le sentenze della Sez. 6, n. 46451 del 17/09/2004, Iute,e n. 1279 del 28/11/2013, Jakovljevic).
Il 17 luglio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.33127, che si occupa di un caso di stalking aggravato dai futili motivi che ha come protagonista una donna che si invaghisce, senza essere corrisposta, di un collega di lavoro fidanzato costringendolo (assieme alla compagna) a cambiare stile di vita e financo a temere per l’incolumità. Nel caso di specie, l’imputata rifiuta non solo l’imputazione di stalking, ma anche di vedere qualificata come “futile” la gelosia che la attanaglia; per la Corte, nondimeno, il movente della gelosia può essere considerato non futile, facendo così cadere la pertinente aggravante, solo allorché si atteggi a risultato di una spinta davvero consistente dell’animo umano, tale da indurre a gesti del tutto inaspettati e illogici da parte di chi, nell’ambito di un rapporto sentimentale, consideri la vittima di propria appartenenza. Al contrario, prosegue la Corte, non può essere considerato – ai fini dell’esclusione dell’aggravante dei futili motivi – lo stato d’animo passionale della gelosia quando il corrispondente “sentimento” è frutto di una unilaterale presa di posizione del persecutore nei confronti di una vittima addirittura ignara dei relativi sentimenti. La Corte nel caso di specie nega le attenuanti generiche in un caso che viene definito inquietante laddove l’imputata, sull’onda di un “insano capriccio“, ha coinvolto più persone nella vicenda, compresa un’altra donna, il cui nome essa ha utilizzato per inviare lettere infamanti e minacciose alla vittima maschile, che la ignorava, alla relativa fidanzata e al datore di lavoro di entrambi, con stato d’ansia ingenerato in tutti i soggetti passivi coinvolti. La persona che senza saperlo è stata resa autrice delle lettere alla vittima maschile ha peraltro cambiato lavoro, ed anche nei relativi confronti l’imputata, secondo la Corte, risponde del reato di stalking aggravato.
Il 3 agosto esce l’ordinanza della VII sezione della Cassazione n.37757, che giudica manifestamente infondata la censura spiegata dalla difesa e relativa al mancato accertamento della capacità di intendere e di volere dell’imputato, atteso che per la Corte lo stato di ansia, di natura transitoria e non indicativo di uno stato morboso, inteso come ragionevole alterazione della capacità di intendere e di volere, non rientra tra le patologie o infermità mentali che possano giustificare almeno il dubbio sull’imputabilità dell’imputato.
Il 22 agosto esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 38795 che si occupa del caso di un uomo che ha molestato una donna su un autobus palpeggiandola, con condotta qualificata come violenza sessuale. Nel caso di specie, la Corte conferma la irrilevanza, già dichiarata dai giudici di merito, del richiamo della difesa al disturbo bipolare che affetta il reo (in termini di grandemente scemare ovvero di escludere la relativa capacità di intendere e di volere). La Corte rammenta in particolare come già in primo grado i Giudici abbiano sentito il medico curante dell’imputato ed abbiano esaminato documenti di natura sanitaria – accessi al pronto soccorso per crisi d’ansia ed attacchi di panico, visite mediche – e fiscale – esposizione debitoria, fatture d’acquisti per attività commerciali, operazioni speculative in borsa – per accertarne il disturbo bipolare con crisi maniacali. Il medico curante, sentito in dibattimento, ha confermato di avergli diagnosticato nel 2009 un disturbo bipolare con attacchi di panico ed ha evidenziato le oscillazioni della fase ipomaniacale, la prescrizione di farmaci stabilizzatori dell’umore e di ansiolitici, precisando al contempo l’incostanza del paziente nell’assunzione della terapia. Lo psichiatra nominato dal Giudice per le indagini preliminari – rammenta la Corte – ha sostenuto, a seguito di un approfondito esame obbiettivo e della pertinente documentazione, che non v’erano sufficienti elementi per affermare l’incapacità d’intendere e di volere al momento del fatto, evidenziando in specie che l’uomo, fermato dagli agenti, nell’immediatezza, aveva accettato di rilasciare spontanee dichiarazioni e raccontato i fatti con chiarezza ed in modo apparentemente congruo e controllato dal punto di vista delle proprie emozioni, aggiungendo considerazioni che, da un lato, facevano pensare a comportamenti ripetuti (“osservo le ragazze e quando vedo qualcuna che mi piace mi avvicino e cerco il contatto fisico“), dall’altro, ad una consapevolezza piena di questa compulsione (“ho dei problemi psichici e sento questo bisogno che non riesco a frenare nonostante capisco sia sbagliato e non vorrei farlo“). Lo psichiatra, chiosa ancora la Corte, aveva concluso che la documentazione presentata e l’anamnesi permettevano di evidenziare una sofferenza psichica ma non di sostenere l’incapacità d’intendere e volere.
Il 7 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 50382 che, sposando un orientamento maggiormente rigoroso, afferma che ai fini di escludere il requisito della capacità dell’imputato di partecipare scientemente al processo non è sufficiente la presenza di una patologia psichiatrica, essendo al contrario necessario che l’imputato risulti in condizioni tali da non comprendere quanto avviene in sua presenza da non potersi difendere.
2019
L’11 marzo esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 10638 che esclude la “cleptomania” dai vizi di mente idonei ad escludere l’imputabilità.
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Il 3 maggio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 18331 che ribadisce come ai fini della ricorrenza dell’aggravante di cui all’art. 186, comma 2-bis cod. strada non è richiesto l’accertamento del nesso eziologico tra l’incidente e la condotta dell’agente, ma il solo collegamento materiale tra il verificarsi del sinistro e lo stato di alterazione dell’agente, alla cui condizione di impoverita capacità di approntare manovre idonee a scongiurare l’incidente sia direttamente ricollegabile la situazione di pericolo.
Ricorda poi la Corte che “provocare” un incidente significa porre in essere una condotta inosservante di regole cautelari, siano esse quelle codificate dal Codice della strada (ossia le norme sulla circolazione stradale), siano esse quelle generali di prudenza, diligenza e perizia, tese in ogni caso a prevenire il verificarsi del sinistro. Sotto questo punto di vista, la volontaria assunzione della conduzione del veicolo in uno stato di alterazione rende evidente la riferibilità all’imputato della fattispecie violata, anche con riferimento alla contestata aggravante di cui all’art. 186, comma 2-bis cod. strada, che costituisce un eventuale sviluppo prevedibile della guida in stato di ebbrezza.
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Il 17 giugno esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 26644 che, dopo aver ribadito che l’accertamento della capacità di intendere e di volere dell’imputato costituisce questione di fatto la cui valutazione compete al giudice del merito, sottolinea come la grave e cronica dipendenza da alcol, non essendo riconducibile alla cronica intossicazione da alcol ex art. 95 cod. pen., non determina gli effetti irreversibili ovvero grandemente scemati di una condizione patologica; e ciò perché tale dipendenza sarebbe caratterizzata dal venire meno dei fenomeni tossici negli intervalli di astinenza, durante i quali vi sarebbe di nuovo l’acquisto della capacità di intendere e di volere.
La cronica dipendenza da alcol non può essere assimilata ad un vizio parziale di mente in considerazione della rilevante compromissione nella resistenza volitiva all’irrazionale potere dell’impulso, quale seconda opzione rispetto alla soluzione di perfetta capacità di intendere e di volere secondo l’impostazione codicistica, ma può essere valorizzata al fine della concessione delle circostanze attenuanti generiche.
2020
Il 7 gennaio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 188 che ribadisce il consolidato orientamento secondo cui, ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i “disturbi della personalità”, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di “infermità”, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale. Ne consegue che nessun rilievo, ai fini dell’imputabilità, deve essere dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di “infermità”
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Il 6 febbraio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 5091 che, in tema di capacità dell’imputato a stare ìn giudizio, si allinea all’orientamento secondo cui – alla luce di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’espressione “se occorre”, contenuta nella previsione dell’art. 70, comma 1, c.p.p. – il giudice può non procedere ad approfondimento specialistico se si convinca autonomamente dello stato di incapacità, mentre a fronte di un “fumus” di incapacità non può negare l’indagine peritale senza rendere idonea e convincente motivazione.
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Il 24 aprile esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 73 onde il principio di proporzionalità della pena rispetto alla gravità del reato esige che la pena sia adeguatamente calibrata, non solo al concreto contenuto di offensività del fatto di reato, ma anche al disvalore soggettivo espresso dal fatto medesimo, in relazione al quale rileva anche l’eventuale presenza di fattori che hanno influito sul processo motivazionale dell’autore, rendendolo più o meno rimproverabile.
La Corte dichiara quindi l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 89 cod. pen. sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.
La Consulta ha più volte affermato che deroghe al regime ordinario del bilanciamento tra circostanze, come disciplinato in via generale dall’art. 69 cod. pen., sono costituzionalmente ammissibili e rientrano nell’ambito delle scelte discrezionali del legislatore, risultando sindacabili soltanto ove «trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio», non potendo però giungere in alcun caso «a determinare un’alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti sulla strutturazione della responsabilità penale».
Sulla base di tali criteri, è stata già dichiarata in varie occasioni l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza di altrettante circostanze attenuanti particolarmente significative ai fini della determinazione della gravità concreta del reato. Nella maggior parte dei casi si è trattato di circostanze espressive di un minor disvalore del fatto dal punto di vista della sua dimensione offensiva: così la «lieve entità» nel delitto di produzione e traffico illecito di stupefacenti, i casi di «particolare tenuità» nel delitto di ricettazione, i casi di «minore gravità» nel delitto di violenza sessuale, il «danno patrimoniale di speciale tenuità» nei delitti di bancarotta e ricorso abusivo al credito. Nella sola sentenza n. 74 del 2016, la dichiarazione di illegittimità ha invece colpito il divieto di prevalenza di una circostanza – l’essersi il reo adoperato per evitare che il delitto di produzione e traffico di stupefacenti sia portato a conseguenze ulteriori – che mira invece a premiare l’imputato per la propria condotta post delictum; circostanza che è stata comunque ritenuta «significativa, anche perché comporta il distacco dell’autore del reato dall’ambiente criminale nel quale la sua attività in materia di stupefacenti era inserita e trovava alimento, e lo espone non di rado a pericolose ritorsioni, determinando così una situazione di fatto tale da indurre in molti casi un cambiamento di vita».
Questa volta, la questione oggetto di scrutinio concerne una circostanza attenuante espressiva non già – sul piano oggettivo – di una minore offensività del fatto rispetto agli interessi protetti dalla norma penale, né di una finalità premiale rispetto a condotte post delictum, quanto piuttosto della ridotta rimproverabilità soggettiva dell’autore; ridotta rimproverabilità che deriva, qui, dal suo minore grado di discernimento circa il disvalore della propria condotta e dalla sua minore capacità di controllo dei propri impulsi, in ragione delle patologie o disturbi che lo affliggono (e che devono essere tali, per espressa indicazione legislativa, da «scemare grandemente» la sua capacità di intendere e di volere: art. 89 cod. pen.).
Ora, il principio di proporzionalità della pena rispetto alla gravità del reato, esige in via generale che la pena sia adeguatamente calibrata non solo al concreto contenuto di offensività del fatto di reato per gli interessi protetti, ma anche al disvalore soggettivo espresso dal fatto medesimo. E il quantum di disvalore soggettivo dipende in maniera determinante non solo dal contenuto della volontà criminosa (dolosa o colposa) e dal grado del dolo o della colpa, ma anche dalla eventuale presenza di fattori che hanno influito sul processo motivazionale dell’autore, rendendolo più o meno rimproverabile.
Tra tali fattori si colloca, in posizione eminente, proprio la presenza di patologie o disturbi significativi della personalità, come quelli che la scienza medico-forense stima idonei a diminuire, pur senza escluderla totalmente, la capacità di intendere e di volere dell’autore del reato. In tali ipotesi, l’autore può sì essere punito per aver commesso un reato che avrebbe pur sempre potuto – secondo la valutazione dell’ordinamento – evitare, attraverso un maggiore sforzo della volontà; ma al tempo stesso merita una punizione meno severa rispetto a quella applicabile nei confronti di chi si sia determinato a compiere una condotta identica, in condizioni di normalità psichica.
Il principio di proporzionalità della pena desumibile dagli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. esige insomma, in via generale, che al minor grado di rimproverabilità soggettiva corrisponda una pena inferiore rispetto a quella che sarebbe applicabile a parità di disvalore oggettivo del fatto, «in modo da assicurare altresì che la pena appaia una risposta – oltre che non sproporzionata – il più possibile “individualizzata”, e dunque calibrata sulla situazione del singolo condannato, in attuazione del mandato costituzionale di “personalità” della responsabilità penale di cui all’art. 27, primo comma, Cost.».
La disciplina oggetto dell’esame della Corte vieta in modo assoluto al giudice di ritenere prevalente la circostanza attenuante del vizio parziale di mente in presenza dello specifico indicatore di maggiore colpevolezza (e maggiore pericolosità) del reo rappresentato dalla recidiva reiterata; laddove tale maggiore colpevolezza si fonda, a sua volta, sull’assunto secondo cui normalmente merita un maggiore rimprovero chi non rinuncia alla commissione di nuovi reati, pur essendo già stato destinatario di un ammonimento individualizzato sul proprio dovere di rispettare la legge penale, indirizzatogli con le precedenti condanne.
Nonostante il carattere facoltativo dell’aggravante, un tale inderogabile divieto di prevalenza non può essere ritenuto compatibile con l’esigenza, di rango costituzionale, di determinazione di una pena proporzionata e calibrata sull’effettiva personalità del reo, esigenza che deve essere considerata espressiva di precisi «equilibri costituzionalmente imposti sulla strutturazione della responsabilità penale». Tale divieto, infatti, non consente al giudice di stabilire, nei confronti del semi-infermo di mente, una pena inferiore a quella che dovrebbe essere inflitta per un reato di pari gravità oggettiva, ma commesso da una persona che abbia agito in condizioni di normalità psichica, e pertanto pienamente capace – al momento del fatto – di rispondere all’ammonimento lanciato dall’ordinamento, rinunciando alla commissione del reato. E ciò anche laddove il giudice – come nel caso del giudizio a quo – ritenga che le patologie o i disturbi riscontrati nel reo abbiano inciso a tal punto sulla sua personalità, da rendergli assai più difficile la decisione di astenersi dalla commissione di nuovi reati, nonostante l’ammonimento lanciatogli con le precedenti condanne.
Il divieto in esame, d’altra parte, comporta una indebita parificazione sotto il profilo sanzionatorio di fatti di disvalore essenzialmente diverso, in ragione del diverso grado di rimproverabilità soggettiva che li connota: con un risultato che la giurisprudenza di questa Corte ha da tempi ormai risalenti considerato di per sé contrario all’art. 3 Cost., prima ancora che alla finalità rieducativa e all’esigenza di “personalizzazione” della pena.
Non osta a tale conclusione la natura di circostanza a effetto comune dell’attenuante di cui all’art. 89 cod. pen., che determina – ai sensi dell’art. 65 cod. pen. – la diminuzione fino a un terzo della pena che dovrebbe essere altrimenti inflitta. A prescindere dalla considerazione che l’entità concreta della diminuzione di pena dipende ovviamente dall’entità della pena base – ben potendo tale diminuzione tradursi, rispetto ai delitti più gravi, in vari anni di reclusione in meno –, va infatti ribadito che la circostanza attenuante in parola mira ad adeguare il quantum del trattamento sanzionatorio alla significativa riduzione della rimproverabilità soggettiva dell’agente, ed è pertanto riconducibile a un connotato di sistema di un diritto penale “costituzionalmente orientato”, così come ricostruito dalla giurisprudenza di questa Corte: giurisprudenza che – dalla sentenza n. 364 del 1988 in poi – individua nella rimproverabilità soggettiva un presupposto essenziale dell’an dell’imputazione del fatto al suo autore, e conseguentemente dell’applicazione della pena nei suoi confronti.
Peraltro, evidenzia la Corte, la conclusione appena raggiunta non comporta il sacrificio delle esigenze di tutela della collettività contro l’accentuata pericolosità sociale espressa dal recidivo reiterato.
Se infatti è indubbio che il quantum della pena debba adeguatamente riflettere il grado di rimproverabilità soggettiva dell’agente, cionondimeno il diritto vigente consente, nei confronti di chi sia stato condannato a una pena diminuita in ragione della sua infermità psichica, l’applicazione di una misura di sicurezza, da individuarsi secondo i criteri oggi indicati dall’art. 3-ter, comma 4, del decreto-legge 22 dicembre 2011, n. 211 (Interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri), convertito, con modificazioni, nella legge 17 febbraio 2012, n. 9. La misura di sicurezza, non avendo alcun connotato “punitivo”, non è subordinata alla rimproverabilità soggettiva del suo destinatario, bensì alla sua persistente pericolosità sociale, che deve peraltro, ai sensi dell’art. 679 del codice di procedura penale, essere oggetto di vaglio caso per caso da parte del magistrato di sorveglianza una volta che la pena sia stata scontata (sentenze n. 1102 del 1988 e n. 249 del 1983). D’altra parte, la misura di sicurezza dovrebbe auspicabilmente essere conformata in modo da assicurare, assieme, un efficace contenimento della pericolosità sociale del condannato e adeguati trattamenti delle patologie o disturbi di cui è affetto (secondo il medesimo principio espresso dalla sentenza n. 253 del 2003, in relazione al soggetto totalmente infermo di mente), nonché fattivo sostegno rispetto alla finalità del suo «riadattamento alla vita sociale» – obiettivo quest’ultimo che, come recentemente rammentato dalla sentenza n. 24 del 2020, il legislatore espressamente ascrive alla libertà vigilata (art. 228, quarto comma, cod. pen.), ma che riflette un principio certamente estensibile, nell’attuale quadro costituzionale, alla generalità delle misure di sicurezza.
Una razionale sinergia tra pene e misure di sicurezza – purtroppo solo in minima parte realizzata nella prassi – potrebbe così consentire un’adeguata prevenzione del rischio di commissione di nuovi reati da parte del condannato affetto da vizio parziale di mente, senza indebite forzature della fisionomia costituzionale della pena, intesa come reazione proporzionata dell’ordinamento a un fatto di reato (oggettivamente) offensivo e (soggettivamente) rimproverabile al suo autore.
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Il 3 maggio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione penale n. 14795 in tema di rapporto tra imputabilità e dolo.
Ad avviso del Collegio, l’indagine sulla imputabilità deve essere tenuta nettamente distinta da quella sul dolo, poiché quest’ultimo, quale elemento costitutivo del delitto, deve sussistere anche nei confronti di soggetto che risulti non imputabile o parzialmente imputabile e deve essere verificato ed accertato alla stregua delle regole di comune esperienza secondo i normali criteri di valutazione, in modo non dissimile da come avviene con riferimento all’ipotesi di un soggetto agente dotato di normale capacità di intendere e di volere.
Ciò significa che anche nei confronti di soggetto non imputabile, o parzialmente imputabile, dovrà comunque essere stabilito, alla stregua delle regole di comune esperienza, se l’evento prodotto sia stato “secondo l’intenzione”, “contro l’intenzione” o “oltre l’intenzione” (giusta le varie ipotesi previste dall’art. 43 c.p.), per poi passare a verificare se e come il soggetto debba penalmente rispondere di tale evento, in ragione del suo stato di mente.
La Corte di appello, nel caso di specie, ha disatteso questo principio, avendo ritenuto che, una volta accertata l’assenza totale di imputabilità, sarebbe ultroneo ogni ulteriore accertamento in ordine alla sussistenza dell’elemento psicologico, introducendo anche una non condivisibile distinzione tra vizio totale e vizio parziale di mente. Al contrario deve ribadirsi che, ove, all’esito dell’indagine sulla integrazione degli elementi costitutivi del reato sia esclusa la sussistenza del dolo, anche il soggetto non imputabile deve essere assolto con la formula più favorevole del fatto non costituisce reato e non con quella del difetto di imputabilità, che presuppone l’accertata consumazione del reato. Infatti, solo ove sia stata accertata la commissione del reato si impone, nel caso di difetto di imputabilità, la ulteriore valutazione delle conseguenze penali che devono discenderne a carico del soggetto ritenuto non imputabile, nella specie dell’applicazione o meno di una misura di sicurezza.
Non vi è dubbio, chiosa ancora la Corte, che lo stato di imputabilità costituisce il necessario presupposto dell’affermazione di responsabilità, ma il suo doveroso accertamento non incide in alcun modo sulla indagine relativa all’accertamento del reato, essendo quest’ultima a sua volta necessaria per l’applicazione delle misure di sicurezza, secondo quanto previsto dall’art. 202 c.p., comma 1, che stabilisce come principio generale che le misure di sicurezza possono essere applicate soltanto alle persone socialmente pericolose che abbiano commesso un fatto preveduto dalla legge come reato, esclusi i casi di cui al comma 2 che si riferiscono ad ipotesi particolari previste da altre disposizioni di legge (ex artt. 49 e 115 c.p.).
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Il 9 luglio esce la sentenza della I sezione della Cassazione penale n. 20487, in tema di incompatibilità tra il vizio parziale di mente e l’aggravante della premeditazione.
Secondo la giurisprudenza consolidata della Suprema Corte, nell’ipotesi di accertato grave disturbo della personalità, funzionalmente collegato all’agire e tale da incidere, facendola scemare grandemente, sulla capacità di volere, l’accertamento della circostanza aggravante della premeditazione richiede un approfondito esame delle emergenze processuali che porti ad escludere, con assoluta certezza, che la persistenza del proposito criminoso sia stata concretamente influenzata da uno degli aspetti patologici correlati alla formazione od alla persistenza della volontà criminosa (Cass. Sez. 1, n. 17606 del 08/03/2016; conformi, tra le tante, Cass. Sez. 1, n. 25608 del 21/05/2013, secondo cui “la premeditazione può risultare incompatibile con il vizio parziale di mente nella sola ipotesi in cui consista in una manifestazione dell’infermità psichica da cui è affetto l’imputato, nel senso che il proposito coincida con un’idea fissa ossessiva facente parte del quadro sintomatologico di quella determinata infermità”; Cass. Sez. 1, n. 9015 del 04/02/2009).
2021
Il 5 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione penale n. 153, in materia di cleptomania e, in particolare, riguardo il rapporto tra le conclusioni del perito e la delibazione rimessa al giudice, oltre alla contestualizzazione temporale degli accertamenti tecnici svolti al fine dell’accertamento della capacità di intendere e di volere.
Ad avviso del Collegio, ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i “disturbi della personalità”, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di “infermità”, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale.
Di qui, precisa la Corte, l’esigenza di una verifica di tipo causale, specificamente ancorata al rapporto di derivazione tra le abnormità psichiche e disturbi della personalità e la concreta fattispecie, ferma restando l’irrilevanza, ai fini dell’imputabilità, di altre anomalie caratteriali, o alterazioni e disarmonie della personalità, che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di “infermità”.
Siffatta verifica, svolta rebus sic stantibus, involge, necessariamente, il fattore temporale nella verifica di contesto, trattandosi di disaminare se il fatto tipico, hic et nunc, rappresenti necessaria conseguenza di un disturbo psichico, manifestatosi in un impulso irrefrenabile che espliciti una frattura rappresentativa e volitiva.
Nelle categorie richiamate si inscrive la cleptomania, tradizionalmente definita quale tendenza impulsiva al furto, riscontrabile in molteplici malattie mentali (Sez. 2, n. 2945 del 05/10/1982 – 1983, Valente, Rv. 158311), con la conseguenza per cui il soggetto affetto da una malattia che provochi tale tendenza impulsiva potrà essere ritenuto infermo di mente ai sensi degli artt. 88 o 89 cod. pen. se la sua capacità di intendere e di volere ne risulti totalmente o parzialmente esclusa, all’esito della verifica causale strettamente correlata alle concrete circostanze del caso concreto.
In linea di continuità con gli enunciati principi, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto come, ai fini dell’accertamento della capacità di intendere e di volere dell’imputato, rilevano anche gli accertamenti peritali compiuti in procedimenti diversi, purché riferibili ad epoca corrispondente ed a fatti eziologicamente omogenei (Sez. 6, n. 27747 del 15/09/2020, A., in fattispecie in cui la Corte ha annullato con rinvio la sentenza di condanna, in cui era stata riconosciuta la seminfermità dell’imputato, per avere la corte di appello omesso di considerare le conclusioni espresse dai consulenti in altri procedimenti, definiti con sentenza irrevocabile di proscioglimento per difetto di imputabilità, relativamente alla compromessa competenza dell’imputato a cogliere il disvalore delle proprie condotte e alla compromissione del volere nel momento di passaggio all’atto); ed è proprio valorizzando la specificità del caso concreto che Sez. 2, n. 13778 del 08/03/2019, Mosta, ha affermato come l’accertamento dell’infermità di mente dell’imputato vada compiuto in relazione al fatto addebitatogli ed al tempo in cui è stato commesso, in tal senso opinando come la perizia psichiatrica espletata in altro procedimento, relativo a diverso fatto, non sia mai vincolante nel giudizio successivo, nel quale la valutazione della capacità di intendere e di volere dell’imputato è correttamente compiuta alla stregua di un accertamento peritale del tutto indipendente da quello eseguito in precedenza; precisazione, quest’ultima, che – non a caso – valorizza (evidentemente in riferimento alla concreta fattispecie disaminata) il dato temporale.
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Il 3 febbraio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione penale n. 4059 onde lo stato di tossicodipendenza dell’imputato, ancorché dimostrato o altrimenti risultante dagli atti, non comporta l’automatica concessione delle circostanze attenuanti generiche, specialmente se ricorrono anche specifici fattori negativi, potendo, se mai, concorrere a determinare quel complesso di elementi – oggettivi e soggettivi – non tipicamente previsti dalla legge, che il giudice prende in considerazione per adeguare maggiormente la sanzione al caso concreto.
Questioni intriganti
Cosa si intende per imputabilità?
- è la capacità di intendere e di volere;
- essa si presume iuris tantum presente nel soggetto attivo allorché raggiunga la maggiore età, ovvero i 18 anni, cui fa normalmente seguito, dal punto di vista convenzionale, il raggiungimento di una certa maturità fisio-psichica;
- si fa riferimento a condizioni psico-fisiche normali;
- come tali, esse consentono che all’autore di un comportamento sia attribuita una responsabilità penale;
- ciò allorché il fatto commesso sia corrispondente ad una previsione di legge, che lo qualifichi come reato;
- essere responsabile significa allora, nella sostanza, essere meritevole di pena;
- ciò in quanto il soggetto comprende perfettamente il valore del proprio comportamento e realizza quale valore sociale sia attribuibile alla propria condotta;
- egli è imputabile perché dotato di capacità di intendere e di volere, e dunque penalmente responsabile;
- chi è capace di intendere e di volere è capace di controllare i propri stimoli ed i propri impulsi ad agire o non agire;
- il motivo che di volta in volta si palesa il più ragionevole spinge il soggetto capace di intendere e di volere ad attivare, a seconda dei casi, meccanismi psicologici di impulso o di inibizione, che gli consentono di fare o non fare quello che di volta in volta è ragionevole fare o non fare;
- la presunzione di imputabilità al raggiungimento dei 18 anni media tra esigenze di prevenzione generale (non può sempre imporsi, al fine di punire, la concreta dimostrazione dell’imputabilità del soggetto attivo) ed esigenze di accertamento della colpevolezza o comunque della meritevolezza di pena (al di sotto di una certa età non può dirsi presumibile il raggiungimento della piena capacità di intendere e di volere);
- è irrilevante che il soggetto non sia imputabile al momento (successivo) dell’evento, se lo è al momento della condotta; in altri termini, la inimputabilità sopravvenuta in sede di evento non rileva laddove la condotta sia stata posta in essere da soggetto imputabile.
Cosa distingue l’imputabilità dalla coscienza e volontà ex art.42, comma 1, c.p.?
- la coscienza e volontà dell’azione od omissione ex 42, comma 1, c.p. concerne lo specifico rapporto che avvince un soggetto ed un determinato atto (attivo od omissivo), compendiandosi nel coefficiente minimo imprescindibile per poter predicare il secondo (l’atto) come proprio del primo (il soggetto); se un paranoico affetto da mania di persecuzione uccide volontariamente un terzo, egli non è imputabile, e tuttavia ha coscientemente voluto l’azione omicida;
- l’imputabilità riguarda una condizione personale, uno status del soggetto agente, che prescinde dal rapporto con un determinato atto attivo od omissivo; se un soggetto imputabile, a seguito della spinta di un terzo, urta un’altra persona finendo per gettarla sotto un autoveicolo che sta sopraggiungendo, egli è imputabile, e tuttavia non ha coscientemente voluto l’azione omicida.
Quale rapporto avvince l’imputabilità alla colpevolezza?
- per la giurisprudenza e la dottrina tradizionali si tratta di due elementi che operano su piani distinti, dovendosi assumere l’imputabilità come capacità di pena, ovvero quale foggia della “capacità giuridica penale”; in sostanza, il reato esiste ed è colpevole, ma chi lo ha commesso non è soggetto a punizione perché soggettivamente non punibile; anche nel minore o nell’infermo di mente è riscontrabile un nesso psicologico con il fatto da essi realizzato, e dunque il fatto inadempimento reato va assunto colpevole, pur negandosi la punibilità appunto di chi lo ha commesso a cagione del relativo status soggettivo; una conferma di questa tesi viene rinvenuta: a.1) nel fatto che l’imputabilità viene disciplinata in modo autonomo e successivo rispetto al reato, nel titolo IV del libro I del codice penale che viene dedicato non già al reato, quanto piuttosto al “reo”, dovendosi allora scorgere in essa un qualcosa che attiene appunto alla persona del reo, ad un relativo status soggettivo che prescinde dalla fattispecie di reato, condizionandone piuttosto la sola punibilità dal punto di vista della qualificazione soggettiva di chi lo commette; a.2) nel fatto che al soggetto non imputabile possono essere applicate delle misure di sicurezza, dovendosi tenere conto che l’art.203 c.p. laddove definisce la pericolosità sociale (che è alla base appunto delle misure di sicurezza) rinvia ai criteri di cui all’art.133p. tra i quali figurano tra gli altri l’intensità del dolo e il grado della colpa, onde il soggetto non imputabile può comunque aver commesso un inadempimento-reato colpevole; a.3) nel fatto che – in tema di c.d. autore mediato, ai sensi degli articoli 86 e 111 c.p. – il fatto commesso da un soggetto incapace di intendere e di volere viene qualificato come “reato”, onde il soggetto non imputabile ha commesso un fatto doloso o colposo, del quale tuttavia non subisce la punizione; a.4) nel fatto che, in tema di ricettazione ex art.648 c.p., si punisce il ricettatore anche nel caso in cui il “reato” presupposto abbia un autore (l’autore del delitto da cui il denaro o le cose provengono) che non sia imputabile (ovvero non sia punibile, ovvero manchi una condizione di procedibilità), circostanza che fa assumere il fatto commesso dall’incapace come reato colpevole, seppure non punibile; a.5) sul crinale processuale, nel fatto che l’art.530, comma 1, c.p.p. distingue tra le varie formule di assoluzione quella “perché il fatto non costituisce reato” da quella per incapacità di intendere e di volere, con ciò palesando che l’incapace di intendere e di volere non viene assolto perché non ha commesso colpevolmente il reato, ma piuttosto (ed appunto) perché non è imputabile; muovendo da questa visuale, tanto il soggetto imputabile quanto quello non imputabile possono considerarsi “colpevoli”, potendosi dunque configurare reato anche quando il soggetto non è imputabile, con la sola conseguenza che quegli non sarà punibile (appunto perché non imputabile), e con l’ulteriore precipitato onde al soggetto non imputabile, in quanto “colpevole” del reato, possono applicarsi le circostanze di tipo soggettivo legate alla colpevolezza come ad esempio la premeditazione (con lo scopo di quantificare la misura di sicurezza eventualmente applicabile sulla base della pericolosità sociale del reo); sul versante opposto, pro reo, proprio il fatto che il soggetto agente non imputabile può assumersi in dolo implica la rilevanza scusante dell’errore ex art.47 (che esclude appunto il dolo), sia che si tratti di errore “condizionato” dalla peculiare infermità mentale del soggetto agente medesimo, sia nel caso di errore che ne risulti incondizionato, in entrambi le fattispecie la predicata rilevanza dell’errore incidendo sull’applicazione della misura di sicurezza (che viene esclusa);
- per la giurisprudenza e la dottrina più recenti, l’imputabilità è da assumersi quale componente del reato e, più precisamente, quale presupposto della colpevolezza, onde non può neppure parlarsi di fatto inadempimento reato colpevole (e dunque assistito dal dolo o dalla colpa) se chi lo ha commesso non è neppure capace di intendere e di volere; secondo questa tesi dunque l’imputabilità “entra” nel reato, e senza imputabilità non è configurabile alcun reato “colpevole” proprio perché chi lo commette, non avendo capacità di intendere e volere, non è capace di dolo o di colpa; perché possa rimproverarsi un fatto ad un soggetto, si sostiene, occorre che questi sia nelle condizioni di poter scegliere di fare diversamente, cosa che non è predicabile nei confronti di chi è incapace di intendere e di volere, tanto che abbia commesso il fatto con presunto dolo, quanto che lo abbia commesso con presunta colpa, dovendo di quest’ultima tenere presente la dimensione normativa, onde appunto rimprovero o disapprovazione sono predicabili solo nei confronti di chi poteva in effetti agire (o non agire) diversamente; invocare allora l’art.203p. in tema di misure di sicurezza e, attraverso esso, l’art.133 c.p. in tema di dosimetria della pena appare un fuor d’opera a questa opzione ermeneutica, dovendosi assumere l’art.133 un contenitore di criteri non tutti sempre utilizzabili, come è appunto il caso dell’intensità del dolo o del grado della colpa laddove si tratti di applicare una misura di sicurezza ad un soggetto non imputabile e, come tale, incapace di dolo o di colpa (analogo discorso può essere fatto per quanto riguarda il criterio della gravità del danno o del pericolo, che può essere applicato marginalmente al cospetto di un reato di mero scopo); muovendo da quest’altro prisma ermeneutico, poiché l’imputabilità fa parte integrante del reato ed è il presupposto della colpevolezza, nel caso di soggetto non imputabile si è al cospetto di un fatto tipico ed antigiuridico, ma non colpevole; la dottrina sottolinea tuttavia come resti dubbio se, in questi casi, il reato possa dirsi escluso ovvero debba dirsi in ogni caso configurabile, come parrebbe evincersi da talune disposizioni del codice penale – segnatamente, gli articoli 86 e 111 in tema di autore mediato e 648 in tema di ricettazione – che qualificano espressamente il fatto commesso dal soggetto non imputabile come reato e la cui interpretazione potrebbe sospingere nel senso onde si ha reato anche senza colpevolezza (come accade appunto quando il soggetto agente non è imputabile), essendo piuttosto sufficiente per configurare un “reato” il mero nesso psichico tra fatto commesso e relativo autore; sul crinale dell’errore, poiché questa tesi assume l’imputabilità come presupposto della colpevolezza, viene distinto tra: b.1) errore patologico o “condizionato” dall’infermità mentale del soggetto agente: in sostanza, l’errore discende in queste fattispecie dalla stessa causa dalla quale scaturisce già l’infermità mentale del soggetto agente non imputabile, come nel caso di scuola dello psicopatico che uccide il proprio persecutore nella convinzione che quegli voglia a propria volta ucciderlo; trattasi di errore che non ha rilievo in quanto, a diversamente opinare, si finirebbe col non applicare la misura di sicurezza proprio al soggetto agente che, a cagione della riscontrata malattia mentale, risulta socialmente pericoloso; in sostanza, in questi casi (errore patologico o condizionato) si proscioglie il soggetto non per difetto di dolo, ma perché non imputabile, rimanendo appunto applicabile la misura di sicurezza laddove alla non imputabilità si accompagni la pericolosità sociale del soggetto agente; si tratta di una fattispecie sovente scandagliata dalla giurisprudenza specie in tema di ubriachezza, l’errore discendente dalla quale viene considerato non scusante; b.2) errore non condizionato dall’infermità mentale del soggetto agente: qui l’errore non è legato alla causa dalla quale discende la non imputabilità, ma ne è autonomo e potrebbe coinvolgere anche un soggetto del tutto imputabile (l’esempio di scuola che viene normalmente fatto è quello di chi, non imputabile perché infermo di mente, si impossessi di una valigia altrui simile alla propria, giusta errore predicabile anche in capo a chi sia pienamente imputabile), onde in queste fattispecie il proscioglimento avviene per difetto di dolo e non per non imputabilità, con l’ulteriore conseguenza onde la misura di sicurezza non è applicabile.
Cosa occorre rammentare della minore età?
- chi non ha compiuto i 14 anni non è imputabile, ex 97 c.p.; è presunzione assoluta e insuperabile: impossibile provare che chi non ha compiuto 14 anni è imputabile; il momento in cui valutare l’età è quello di commissione del fatto e, dunque, il momento della condotta: è irrilevante il raggiungimento dei 14 anni al momento dell’evento; se ricorrono i presupposti, al minore infraquattordicenne può applicarsi una misura di sicurezza: a.1) in caso di infermità psichica o di intossicazione cronica da alcool o da stupefacenti, ovvero di sordomutismo, può applicarsi il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario; a.2) in caso di commissione di delitto e di giudizio di pericolosità, può applicarsi il riformatorio giudiziario e della libertà vigilata, tenuto specialmente conto della gravità del fatto e delle condizioni morali della famiglia;
- chi ha compiuto 14 anni e non ancora 18 può essere imputabile ex art.98p., se si accerta in concreto, nel singolo caso (e dunque con riguardo allo specifico fatto commesso), la capacità di intendere e di volere del soggetto agente; si tratta più in specie di acclarare se il soggetto (che è ancora minore) è concretamente in grado di rendersi conto del disvalore sociale del fatto commesso, potendosene all’uopo predicare la sufficiente maturità fisio-psichica; secondo parte della dottrina rilevano poi in questa fattispecie gli stati emotivi e passionali (normalmente irrilevanti ex art.90 c.p.), dacché essi possono compendiare indizi rilevanti in ordine alle effettive condizioni psichiche del soggetto agente, sol che si consideri come un soggetto maturo e consapevole di quel che fa è normalmente in grado di fronteggiare i motivi esterni che ne condizionano la condotta, senza cedere all’impulso dettato dall’emozione o dalla passione; accertata l’imputabilità del soggetto agente infradiciottenne ma ultraquattordicenne, il giudice gli irroga una pena, potendo tuttavia applicare una attenuante relativa all’età e taluni benefici afferenti alle pene accessorie; in assenza di imputabilità, la pena non viene invece irrogata; sia nel caso di assunta imputabilità, sia in quello di assunta non imputabilità, al soggetto agente che abbia commesso un delitto e sia ritenuto socialmente pericoloso viene applicata (in caso di ritenuta imputabilità, dopo l’esecuzione della pena) una misura di sicurezza detentiva come il riformatorio o la libertà vigilata, ovvero più spesso di tipo rieducativo, come nei casi di affidamento al servizio sociale minorile o di collocamento in una casa di rieducazione o in un istituto medico-psico-pedagogico). Un soggetto ritenuto sufficientemente maturo da essere astrattamente imputabile può tuttavia rivelarsi, sul altro crinale, infermo di mente, non potendo essere ontologicamente sovrapposti i concetti di immaturità e di infermità mentale, onde potrebbe darsi la fattispecie di soggetto agente infradiciottenne maturo, ma infermo di mente in modo totale o parziale, venendo ritenuta compatibile in particolare la imputabilità in termini di maturità con il vizio parziale di mente; peraltro è ben possibile: b.1) che l’immaturità derivi dalla infermità, che non ha consentito al minore un normale sviluppo fisio-psichico, circostanza nella quale appunto l’infermità è causa di immaturità, ed il minore va assunto non imputabile perché immaturo ex art.98 c.p.; b.2) che il soggetto sia maturo e dunque imputabile, ma seminfermo di mente, onde si irroga in questi casi la pena, ma si applica congiuntamente l’attenuante della minore età ex art.98 c.p. e quella della seminfermità mentale ex art.89 c.p.;
- chi ha compiuto 18 anni è presunto imputabile, ma la presunzione può essere vinta provando il vizio di mente o altre cause cui la legge annette l’inimputabilità;
Cosa occorre rammentare degli stati emotivi e passionali?
- sono previsti dall’art.90 c.p.;
- la norma li considera espressamente non rilevanti ai fini del giudizio di imputabilità;
- il codice Rocco muove da un concetto di infermità come malattia mentale vera e propria e null’altro, in un prisma di rigorosa esclusione di tutto ciò che appunto non è malattia mentale in senso clinico;
- il medesimo codice Rocco è ispirato da una volontà di instillare nei consociati il senso di autoresponsabilità, condannando chi non è capace di governare le proprie emozioni e le proprie passioni, facendosi piuttosto condurre da esse verso la commissione di un reato;
- la dottrina più avvertita critica la norma laddove, nel negare recisamente ogni rilevanza agli stati emotivi e passionali, ne esclude in generale ogni significanza sul versante della colpevolezza intesa come concreta rimproverabilità del fatto al relativo autore per poi, senza troppa coerenza, lo stesso codice attribuire ai medesimi stati (emotivi e passionali) valore di circostanza attenuante (come nel caso della provocazione ex art.62, n.2, o della suggestione della folla in tumulto ex art.62, n.3), ovvero financo di causa di non punibilità (come ancora una volta nel caso della provocazione in tema di diffamazione, ex 599, n.2);
- per superare la rigidità della norma, si è proposto da taluno di interpretarla in combinato e sistematico disposto con gli articoli 88 e 89p., potendo configurarsi stati emotivi e passionali che, pur non denotando una infermità vera e propria, lambiscono il patologico o addirittura, in qualche caso, provocano (o sono precipitato di) una autentica infermità capace di escludere o ridurre l’imputabilità del soggetto attivo;
- tra le fattispecie in cui più frequentemente rileva la norma: g.1) quella del reato commesso per gelosia, che laddove sia momentanea non esclude la imputabilità, mentre laddove si riveli ossessiva e delirante, tale da essere da tempo sfociata in una situazione psicopatologica grave assistita da conclamata compromissione delle facoltà di comprensione, di critica e di autocontrollo, implica inimputabilità o semi-imputabilità ai sensi degli articoli 88 e 89p.; g.2) quella del reato commesso per paura, che ancora una volta non rileva laddove scaturigine di uno stato di panico generato da un episodio improvviso, ma che può degenerare in grave forma di psicopatologia fobica la quale, con concreto riferimento alla condotta di cui al singolo episodio criminoso, può avere logorato in modo consistente la capacità di autodeterminazione ed autodominio del soggetto agente, escludendone o riducendone la imputabilità;
- l’esito di questo processo è la sostanziale superfluità e pleonasticità dell’art.90, giacché gli stati emotivi e passionali o non rilevano, o rilevano quale forma di “infermità mentale” totale o parziale.
Cosa occorre rammentare della infermità di mente?
- si ha riguardo al momento in cui è stato commesso il fatto, ai sensi dell’88 c.p., e dunque al momento della condotta, essendo irrilevante lo stato di infermità al momento dell’evento; laddove il soggetto attivo sia affetto da psicosi acclarata, non occorrono peculiari accertamenti in ordine alla condotta da lui in concreto tenuta, trattandosi di una situazione patologica che accompagna l’intera esistenza del ridetto soggetto agente; quando invece i momenti di lucidità si alternano a momenti di malattia mentale (come accade nel classico caso dell’epilessia), occorre accertare se al momento del fatto (e dunque della condotta) il soggetto attivo sia stato o meno lucido; più nel dettaglio, occorre verificare se nei momenti di lucido intervallo il soggetto affetto da malattia psichica possa dirsi imputabile ovvero non imputabile proprio in forza della ridetta malattia psichica, a cagione fatto di trovarsi appunto in un momento di lucido intervallo: la dottrina, proprio con riguardo al soggetto epilettico, ha osservato che laddove questi delinqua fuori dai c.d. eccessi convulsivi, non per questo potrà essere assunto certamente imputabile, potendosene predicare l’imputabilità solo se il reato è stato compiuto in una fase intervallare libera da disturbi di natura patologica, dovendosi invece escludere l’imputabilità laddove, nonostante la fase intervallare di lucidità, il reato sia espressione di alterazioni di tipo psichiatrico;
- se dall’infermità deriva un tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere, la pena viene esclusa (e può eventualmente applicarsi una misura di sicurezza);
- si tratta dell’accoglimento da parte del legislatore penale del c.d. indirizzo bio-psicologico, onde l’infermità di mente o, più genericamente, la malattia mentale non rileva in sé, ma solo laddove abbia ridotto o totalmente escluso la capacità di intendere e di volere del soggetto agente;
- il vizio di mente deve promanare da una infermità, dovendosi per essa intendere: d.1) una malattia mentale vera e propria (tale perché corrispondente ad un quadro nosograficamente definito) secondo la riduttiva accezione già accolta dal codice penale; è infermità certamente capace di produrre uno stato di mente che incide sull’imputabilità una malattia psichica strettamente intesa, ed in particolare la psicosi – quale perdita del senso della realtà e dei nessi logici – distinguibile in psicosi esogena (disturbo psichico riconducibile ad un processo morboso che agisce dimostrabilmente a livello anatomico-organico-cerebrale, come nel caso delle psicosi traumatiche da lesioni cerebrali, delle psicosi infettive, delle psicosi tossiche, delle psicosi presenili e senili, delle oligofrenie) e psicosi endogena (disturbo psichico riconoscibile in termini funzionali, o psicosi funzionale e non organica, che la sperimentazione psichiatrica ancora non ha provato essere certamente dovuto ad alterazioni organiche, pur propendendosi per l’esistenza di una predisposizione o di un condizionamento biologico, come nel caso della schizofrenia); è certamente infermità ai sensi dell’art.88 c.p. l’idiozia, l’imbecillità, la gracilità mentale e ogni altra forma di deficienza psichica; d.2) anche altre situazioni morbose che siano ancora prive di una precisa definizione clinica; secondo la dottrina, il fatto che il codice Rocco parli di infermità producente uno “stato di mente”, e non più di “infermità di mente” come il precedente codice Zanardelli, fa assumere rilevante qualunque tipo di infermità, che potrebbe essere financo di tipo fisico e transitorio, purché comunque ridondante in vizio di mente (come nel caso dello stato febbrile e del conseguente delirio); ovvero appunto una situazione morbosa ancora priva di una precisa definizione clinica e sfuggente ad una puntuale classificazione nosografica, ma che è idonea ad influire sulla capacità di intendere e di volere del soggetto agente, come nel caso delle psicopatie (quali disturbi della personalità che afferiscono massime al profilo caratteriale del soggetto agente, o alla relativa vita affettiva), delle nevrosi (disturbi psichici nella elaborazione della realtà che sono privi di una base organica e che il soggetto agente acquisisce in rapporto a fattori tipicamente ambientali-relazionali) o dei disturbi degli impulsi (gli impulsi si manifestano in modo così intenso e lontano dalla norma da palesare una personalità abnorme del soggetto agente);
- non rientrano nel vizio di mente incidente sulla capacità di intendere o di volere i perturbamenti o disturbi della coscienza, quali situazioni tutt’affatto anormali in cui può imbattersi un soggetto che in realtà è sano (ne sono esempi le allucinazioni, gli stati ipnotici, lo sfinimento o forme di grave ebbrezza del sonno); del pari non è capace di escludere l’imputabilità del soggetto attivo la c.d. pazzia (o follia) morale, ovvero quella completa mancanza di senso morale che viene definita immoralità costituzionale, e ciò anche se non manca in dottrina chi ne predica la possibile rilevanza (magari assieme ad altri elementi) quale indice di un vizio di mente riconducibile all’art.88 c.p.;
- dal punto di vista quantitativo si distinguono: f.1) il vizio totale di mente: l’infermità è tale da escludere del tutto la capacità di intendere e di volere (art.88p.); si discute se tra infermità mentale e reato concretamente commesso debba esservi un nesso causale, come nel caso di scuola della mania di persecuzione in rapporto all’omicidio o alle lesioni inferte al presunto persecutore, ma l’opinione maggioritaria è negativa facendo perno sulla lettera dell’art.88 che richiede solo una infermità, dal punto di vista diacronico, presente nel momento in cui il fatto è commesso, e non anche correlatavi in altro e più stringente modo; in caso di vizio totale di mente, il soggetto attivo viene prosciolto e, laddove socialmente pericoloso, può essere fatto oggetto della misura di sicurezza dell’ospedale psichiatrico giudiziario ex art.222 c.p.; f.2) il vizio parziale di mente: l’infermità è tale da scemare grandemente, senza tuttavia escluderla, la capacità di intendere e di volere (art.89 c.p.); se in un tempo più remoto il vizio parziale di mente è stato considerato una finzione (dacché, anche dal punto di vista psichiatrico, non si sarebbe data alternativa “terza” tra l’essere sano o l’essere infermo), di recente si tende a riconoscere un fondamento scientifico a tale vizio parziale di mente, che corrisponde ad ipotesi in cui il soggetto attivo possiede una capacità di intendere e di volere che non attinge il livello della normalità a causa di malattie organiche, di nevrosi e così via; in questa fattispecie, l’infermità arreca un vulnus alla capacità di intendere e di volere che è quantitativamente minore rispetto all’ipotesi del vizio totale, ancorché occorra che tale capacità risulti notevolmente conculcata, dovendo essa “scemare grandemente”; quando l’infermità incide – seppure in guisa non “integrale” – non già su tutta la mente, ma solo su una parte circoscritta di essa, si ha non vizio parziale di mente, quanto piuttosto incapacità settoriale, la quale è derivazione di una anomalia che, per quanto grave, risulta a propria volta circoscritta, onde per determinati fatti essa può implicare anche la totale non imputabilità del soggetto (come nel caso della piromania in rapporto al reato di incendio), laddove invece una compromissione psichica non estrema, eppure diffusa, può implicare una capacità ridotta in rapporto alla generalità dei fatti commessi dal soggetto attivo; nel vizio parziale di mente, la valutazione quantitativa dell’infermità va fatta per la più accreditata dottrina in concreto e caso per caso, sottolineandosi talvolta come più che alla gravità dell’infermità occorra guardare all’ampiezza delle deviazioni psicologiche, potendo ad una infermità poco grave corrispondere appunto assai ampie deviazioni psicologiche, tali comunque da far scemare grandemente la capacità di intendere e di volere; chi è affetto da vizio solo parziale di mente viene assoggettato a pena, ma diminuita, facendosi applicazione di una circostanza attenuante assoggettata al giudizio di bilanciamento ex art.69 c.p.; secondo l’opinione più accreditata, pur essendo il vizio parziale di mente compatibile con l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche, non può detto vizio spingere il giudice ad applicare ad un tempo la diminuente specifica e quella generica in considerazione della sola seminfermità mentale; dal momento che il soggetto seminfermo di mente può avvertire l’ingiustizia dell’altrui comportamento ed essere protagonista di uno stato d’ira, il vizio parziale di mente viene assunto compatibile con la provocazione; sul crinale delle aggravanti, la seminfermità mentale viene assunta compatibile con i motivi abietti o futili, con la minorata difesa, con la crudeltà verso le persone e, in linea di massima, anche con la premeditazione.
Cosa occorre rammentare del sordomutismo?
- è disciplinato dall’art.96 p. con un regime che, per parte della dottrina, si riferisce solo ai sordomuti dalla nascita o dalla prima infanzia, e non anche i sordomuti c.d. “acquisiti”; non manca chi considera la disposizione inopportuna, stante la generalizzazione che essa opera con riferimento ad una categoria di soggetti che non è generalizzabile a cagione delle moderne capacità di recupero di taluni di loro;
- la norma non è applicabile a chi è solo muto o a chi è solo sordo, ma solo al sordomuto “infermo” (perché tale);
- concerne infatti il sordomuto che, a causa della infermità che lo affetta, non è capace di intendere e di volere quando commette il fatto criminoso (comma 1); ovvero è “meno” capace di intendere e di volere, essendo tale capacità, per la medesima causa, grandemente scemata (comma 2);
- il sordomuto è dunque presunto capace di intendere e di volere;
- il regime è il medesimo del minore con più di 14 anni e con meno di 18, dovendo il giudice accertare di volta in volta (ed il PM provare) se il sordomuto, causa infermità derivante dal sordomutismo, sia incapace (o meno capace) di intendere e di volere;
- a valle del processo e del connesso accertamento, le opzioni sono 2: f.1) il sordomuto è capace di intendere e di volere: in questo caso subisce normalmente la pena; f.2) il sordomuto è incapace o meno capace di intendere e di volere: in questa ipotesi il trattamento è quello dell’infermo di mente totale (proscioglimento ed eventuale ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, ove socialmente pericoloso, ex art.222 c.p) o parziale (applicazione della pena diminuita ed eventuale ricovero in casa di cura e custodia, laddove socialmente pericoloso, ex art.219 c.p.); proprio per questo l’art.96 c.p. viene da taluni assunto ormai del tutto pleonastico.
Cosa occorre rammentare dell’ubriachezza e della intossicazione da stupefacenti?
- la disciplina è particolarmente rigorosa e, secondo più voci in dottrina, ai limiti della compatibilità con la Costituzione;
- si tratta di fenomeni che presentano un fattore comune, essendo sovente entrambi avvinti alla commissione di reati;
- solo se per caso fortuito (ad esempio, si confonde imprevedibilmente, e dunque scusabilmente, per innocua una bevanda che in realtà è molto alcolica) o forza maggiore (ad esempio, si lavora in distilleria e un guasto lascia sprigionare vapori alcolici ai quali non è possibile resistere), e dunque per cause accidentali, il soggetto attivo si ritrova intossicato (in modo transitorio e reversibile) da alcool e commette reato, egli viene assunto non imputabile o semi imputabile dall’art.91 c.p., finendo col trovarsi in una situazione identica a quella dell’infermo di mente o del semi-infermo di mente di cui agli articoli 88 e 89p.; in caso di vizio di mente e di contestuale ubriachezza accidentale, secondo accreditata dottrina occorre poi distinguere: c.1) se il vizio di mente è totale dovrebbe trovare applicazione il solo articolo 88 c.p., con proscioglimento ed eventuale applicazione della misura di sicurezza; c.2) se il vizio di mente è parziale e l’ubriachezza accidentale è piena, dovrebbe invece applicarsi l’art.91, comma 1, in tema di ubriachezza accidentale, con proscioglimento per non imputabilità; c.3) se il vizio di mente è parziale e l’ubriachezza accidentale è non piena, chi predica la piena compatibilità tra le 2 circostanze attenuanti, afferma applicabile tanto la riduzione di pena di cui all’art.89 c.p. quanto quella di cui all’art.91, comma 2, c.p., con eventuale applicazione della misura di sicurezza; chi invece nega la ridetta compatibilità, afferma applicabile la sola riduzione di pena di cui all’art.89 c.p. (seminfermità mentale) con possibile applicazione della misura di sicurezza (che sarebbe invece inapplicabile se trovasse operatività il solo art.91, comma 2, c.p.);
- se l’ubriachezza o la intossicazione da stupefacenti è dolosa (volontaria) o colposa, l’imputabilità non è né esclusa né diminuita (art.92, comma 1, e 93p.), e dunque un soggetto attivo che pone in essere una condotta in stato di incapacità di intendere e di volere viene assunto dal codice, in modo assai rigoroso, colpevole e responsabile; non è mancato chi ha voluto vedere in questa ipotesi una fattispecie di c.d. actio libera in causa, onde si sarebbe al cospetto di un reato doloso o colposo a seconda dell’elemento soggettivo (dolo o colpa) connotante il momento in cui il soggetto si è ubriacato o ha subito l’effetto della sostanza stupefacente; così facendo tuttavia si confonde lo stato soggettivo nel momento in cui appunto ci si ubriaca o si assumono stupefacenti da quello del successivo momento in cui si commette reato, onde il soggetto potrebbe a rigore ubriacarsi o intossicarsi colposamente e poi commettere un reato doloso ovvero, all’opposto, ubriacarsi o intossicarsi dolosamente e poi commettere un reato colposo; appare prevalere in dottrina e giurisprudenza la tesi che guarda, ai fini della corretta individuazione del titolo soggettivo di responsabilità (dolo o colpa), al momento del fatto di reato, procedendo caso per caso secondo i normali criteri di imputazione; anche guardare al momento del fatto (e non a quello della intervenuta ubriachezza) non esclude tuttavia, per parte della dottrina, come ci si trovi dinanzi ad una forma di responsabilità oggettiva mascherata, avvinta ad una vera e propria finzione di dolo o di colpa, in quanto il soggetto agente è in realtà non imputabile a cagione dell’ubriachezza (o della intossicazione da stupefacenti) della quale è vittima, con conseguente potenziale incostituzionalità dell’art.92 c.p., in conclamata frizione con il principio di colpevolezza di cui all’art.27 Cost.; per superare tale possibile incostituzionalità si propone una lettura costituzionalmente orientata delle norme pertinenti: in esse si dice che il soggetto ubriaco o intossicato per dolo o colpa è imputabile in relazione al reato commesso sotto l’effetto dell’alcol o degli stupefacenti, ma non anche, automaticamente, che ne è colpevole e dunque rimproverabile, dovendosi per tale ultima circostanza tornare a guardare al momento in cui il soggetto si è ubriacato (con dolo o colpa), e dovendosi distinguere: d.1) il caso in cui il soggetto agente si sia posto in stato di ubriachezza o intossicazione nonostante la previsione del successivo reato ed accettandone il rischio, così rispondendone per dolo eventuale; d.2) il caso in cui il soggetto si sia posto in stato di ebbrezza o intossicazione prevedendo il reato (che era prevedibile ed evitabile) ma non accettandolo, così rispondendone a titolo di colpa se il fatto è previsto come reato colposo; si obietta tuttavia che, una volta vittima dell’alcol o dello stupefacente, talune dinamiche del successivo fatto di reato possono del tutto sfuggire alla dominabilità preventiva del soggetto agente, che non può dirsi in grado di prevedere e di accettare tutto quello che accadrà una volta ebbro o intossicato, per il semplice fatto che si tratta talvolta di circostanze del tutto imprevedibili (e men che meno accettabili) ex ante;
- se l’ubriachezza è preordinata (art.92, comma 2, c.p.), il soggetto attivo perde la sobrietà allo scopo precipuo di commettere un reato (che da sobrio non commetterebbe o potrebbe avere difficoltà a commettere) ovvero di prepararsi una scusa, compendiando una fattispecie speciale e aggravata di actio libera in causa ex 87 c.p.; nella ubriachezza preordinata, a differenza di quanto accade nella ubriachezza dolosa o colposa (art.92, comma 1), il soggetto agente programma il reato e si ubriaca proprio allo scopo di commettere quel reato (e non già un reato quale che sia, commesso solo perché egli si è messo per trascuratezza, per volontà di divertimento o peraltro, in condizioni appunto di ubriachezza); l’ubriachezza preordinata comporta un aggravamento di pena, sia rispetto all’ubriachezza dolosa o colposa, sia rispetto ad altre fattispecie di actio libera in causa ex art.87 c.p.;
- se l’ubriachezza o l’intossicazione da sostanze stupefacenti sono abituali, l’imputabilità non è esclusa e, anzi, il trattamento sanzionatorio viene aggravato (art.94p.), con possibilità in caso di acclarata pericolosità sociale di applicare la misura di sicurezza della casa di cura o di custodia o della libertà vigilata (art.221 c.p.); la norma viene sospettata di incostituzionalità da parte della dottrina che vi scorge una fattispecie di colpevolezza per “condotta di vita”, avvinta appunto alla abitualità del comportamento tenuto; occorre poi distinguere: f.1) l’abituale ubriachezza, che richiede sia sul piano dinamico la dedizione del soggetto attivo al consumo di sostanze alcoliche, sia su quello statico il frequente stato di ubriachezza; f.2) l’abituale intossicazione da sostanze stupefacenti, che richiede solo la (dinamica) dedizione del soggetto attivo all’uso di stupefacenti, e non anche il frequente stato di intossicazione (una distinzione che è stata tuttavia criticata da quella parte della dottrina che assume ben possibile una dedizione all’alcool senza frequente stato di ubriachezza e, ad un tempo, del tutto impossibile una dedizione all’assunzione di sostanze stupefacenti senza un frequente stato di intossicazione); la abituale ubriachezza e l’abituale intossicazione da sostanze stupefacenti vanno distinte dall’ipotesi in cui sia l’ubriachezza che l’intossicazione ridette siano croniche (art.95 c.p.) fattispecie in cui invece l’imputabilità viene assunta dal legislatore del codice esclusa ovvero grandemente scemata, applicandosi gli articoli 88 e 89 c.p.; la distinzione sul crinale teorico è sufficientemente chiara, giacché la cronicità indica permanenza e, con essa, un vero e proprio stato patologico inteso quale alterazione e degenerazione fisio-psichica tali da sussistere anche se si elimina la sostanza alcolica o stupefacente, con conseguente assimilabilità dello status del soggetto agente ad una vera e propria malattia di mente e connessa applicabilità della disciplina sulla non imputabilità o semimputabilità prevista dagli articoli 88 e 89 c.p., mentre l’abitualità indica uno status pur sempre transeunte onde, pur compendiando assunzione di alcool o di stupefacenti una abitudine di vita del soggetto attivo, questi vive anche dei c.d. “intervalli di astinenza” che gli consentono di recuperare pienamente le proprie capacità di intendere e di volere; sul crinale pratico tuttavia la somiglianza delle epifanie sintomatologiche crea sovente enormi difficoltà che producono effetti di non poco momento, sol che si consideri come parlare di abitualità implichi un aggravamento di pena mentre, all’opposto, predicare la cronicità implica una diminuzione o financo una esclusione della pena medesima (fatta salva l’applicazione di eventuali misure di sicurezza) ai sensi degli articoli 88 e 89 c.p.; parte della dottrina ha proposto, al fine di ovviare agli inconvenienti pratici ridetti, di distinguere ciò che provoca una vera e propria elisione della libertà individuale del soggetto attivo, a cagione della subìta dipendenza tanto fisica che psichica, come accade nelle ipotesi di intossicazione cronica, da ciò che provoca invece una mera dipendenza psichica, compendiante solo abitualità; nell’ambito poi della stessa intossicazione cronica, non manca chi propone di distinguere (superando la semplicistica equiparazione di cui all’art.95 c.p.) quella derivante da alcol da quella riconducibile invece a sostanze stupefacenti, stante come quest’ultima si atteggi in modo tutt’affatto peculiare, a cominciare dalla considerazione onde essa non provoca (come invece fa quella da alcool) una alterazione patologica permanente, onde la intossicazione da sostanze stupefacenti potrebbe dirsi cronica solo in presenza di crisi di astinenza, di connessa alterazione “da dipendenza” fisio-psichica del soggetto attivo e di compromissione (più o meno ampia) della relativa capacità di intendere e di volere.
Cosa occorre rammentare della c.d. “actio libera in causa”?
- è disciplinata dall’art.87p.;
- si tratta dell’ipotesi in cui il soggetto agente è capace di intendere e di volere, e dunque “libero”, quando decide di porsi in stato di incapacità (e dunque “in causa”) mentre è condizionato, incapace e dunque “non libero” quando commette il reato (e dunque “in effetto”); l’istituto trova il proprio ascendente storico nella c.d. teologia morale, onde è peccato anche quanto viene commesso senza libera volontà, quando riannodabile ad un precedente atto di libera e volontaria scelta da parte del medesimo soggetto agente, orientato a peccare;
- la fattispecie, sul crinale giuridico, è quella di chi si mette in stato di incapacità di intendere e di volere al fine di commettere il reato o di prepararsi una scusa, come nel caso di scuola di chi, con lo scopo di allentare i propri freni inibitori al fine di commettere un omicidio (che altrimenti non sarebbe capace di commettere) assume dell’alcool o delle sostanza stupefacenti;
- in effetti la c.d. actio libera in causa è fattispecie generica, applicazioni specifiche della quale sono l’ubriachezza preordinata ex art.92, comma 2, c.p., ovvero l’uso preordinato di sostanze stupefacenti, ex art.93p.;
- nelle ipotesi di actio libera in causa si guarda al momento in cui il soggetto agente volontariamente si pone in stato di incapacità e dunque di non imputabilità, facendo nella sostanza retroagire il giudizio di pertinente rimproverabilità a quel momento, non potendosi assumere rimproverabile la condotta cronologicamente collocabile nel successivo momento in cui il medesimo soggetto agente, ormai incapace e dunque non imputabile, commette reato: in queste fattispecie, secondo l’87 c.p. non si applica l’art.85 c.p. e dunque il soggetto viene, attraverso una sorta di fictio, assunto imputabile anche se non lo è al momento in cui delinque, per esserlo stato nel momento in cui si è volontariamente e pertinentemente posto in situazione di incapacità;
- l’actio libera in causa si atteggia, nelle intenzioni del legislatore, ad esclusivamente dolosa, il soggetto agente ponendosi in stato di incapacità con premeditazione dell’episodio criminoso del quale si renderà protagonista una volta divenuto incapace o comunque (almeno) prevedendolo e accettandone il rischio; parte della dottrina interpreta invece la norma, rigoristicamente, in senso più ampio, ricomprendendovi anche le fattispecie in cui il soggetto agente si pone in stato di incapacità sì da non poter prevedere od evitare l’evento dannoso o pericoloso, ancorché non accettandone il rischio (c.d. actio libera in causa colposa);
- non manca chi giunge financo ad assumere integrante una ipotesi disciplinata dall’87 c.p. la fattispecie in cui un soggetto si ponga non già in una situazione di incapacità di intendere o di volere, quanto piuttosto di incapacità di operare, come nel caso di scuola del soggetto che si fa legare al fine di commettere un reato omissivo, circostanza nella quale in realtà il soggetto agente, al momento del fatto, è perfettamente integro nella propria coscienza e volontà, senza dover ricorrere per giustificarne la punizione alla figura dell’actio libera in causa;
- quella testé descritta è fattispecie che richiama quella, tuttavia diversa, del soggetto agente che consapevolmente si fa porre da un terzo in stato di incapacità di intendere di volere per commettere il reato: qui non si verifica l’ipotesi, disciplinata dall’art.86, del terzo che determina in altri (contro la relativa volontà) lo stato di incapacità, quanto piuttosto del soggetto agente che consapevolmente si fa aiutare da terzi a raggiungere lo stato di incapacità che gli consente poi di commettere l’episodio criminoso, con applicabilità in simili ipotesi del combinato disposto degli articoli 87 e 110p. e irrogazione di pena tanto al soggetto agente quanto al terzo collaborante;
- sul perché si punisce, ai sensi dell’87 c.p., un soggetto non imputabile, e dunque sul fondamento sistematico della figura, si fronteggiano 3 opposte tesi: i.1) tesi ormai meno accreditata della c.d. “anticipazione della condotta esecutiva”: occorre guardare al momento in cui il soggetto si pone volontariamente in stato di incapacità, perché è in quel momento che prende le mosse la condotta esecutiva del reato poi commesso; l’art.87 costituisce applicazione dell’art.85 del codice, e non deroga al medesimo, giacché stante l’anticipazione dell’inizio di esecuzione del reato, quando detta esecuzione inizia il soggetto è pienamente capace; la critica è che la condotta esecutiva viene ampliata enormemente ed in modo che si pone fuori asse rispetto alle previsioni del legislatore penale, peraltro sganciando completamente dal punto di vista psichico l’ideazione del reato dalla relativa, concreta causazione, potendosi realizzare in concreto un reato che non è quello astrattamente programmato ex ante; poiché nel momento in cui il soggetto si pone in stato di incapacità è ravvisabile secondo questa tesi una anticipazione dell’inizio di esecuzione, già l’ipotesi di atti preparatori diretti a porsi in stato di incapacità configura tentativo punibile, che resta tale anche laddove il soggetto agente, una volta incapace, non ponga in essere atti idonei ed inequivoci finalizzati a completare l’esecuzione; i.2) tesi ormai meno accreditata: il fondamento della responsabilità è di tipo oggettivo, avvinto come esso si palesa al mero nesso di causalità secondo il noto motto onde la causa di una causa è anche causa del relativo effetto (causa causae est causa causati); si obietta che si tratta tuttavia di una interpretazione in palese contrasto con la Costituzione e con il principio di responsabilità penale personale e di colpevolezza in esso inscritto; i.3) tesi più accreditata: il fondamento della responsabilità del soggetto agente è proprio il principio di colpevolezza, palesandosi possibile rimproverargli di essersi messo in stato di incapacità di intendere e di volere allo scopo di commettere proprio “quel” reato o di prepararsi per esso una scusa; l’art.87 deroga dunque (come si ricava anche dal relativo dato letterale) all’art.85 del codice, giusta “anticipazione di colpevolezza”, sempre tuttavia che il reato programmato ex ante dal soggetto ancora capace sia pienamente corrispondente al reato commesso ex post dal soggetto ormai resosi incapace, e dovendosi invece parlare di non responsabilità, ovvero di aberratio ictus o aberratio delicti, nelle ipotesi in cui il reato concretamente realizzato in stato di incapacità diverga da quello programmato “da ancora capace”; la dottrina fa in proposito l’esempio di chi abbia in mente di porsi in stato di incapacità allo scopo, una volta incapace, di uccidere una persona e – prima che la sostanza eccitante abbia fatto effetto – provochi un incidente stradale per eccesso di velocità con effettiva uccisione della vittima, ipotesi in cui si predica una responsabilità a titolo di omicidio colposo, e non già di omicidio intenzionale; sul crinale del tentativo, perché si configuri tentativo punibile non è sufficiente che il soggetto agente ponga in essere atti orientati a porsi in stato di incapacità, e neppure il fatto di essersi posto in tale stato, se non vi facciano seguito atti idonei ed inequivoci diretti a produrre il reato programmato;
- quanto alla interrelazione tra l’actio libera in causa ed altri istituti di parte generale del diritto penale, occorre rammentare in particolare: j.1) le cause di giustificazione (scriminanti) e circostanze attenuanti: esse operano sul piano oggettivo, indipendentemente dalla consapevolezza che ne abbia l’agente, potendo rilevare sia se intervengono quando il soggetto è ancora capace, sia in un momento successivo in cui è già intervenuta l’incapacità; j.2) l’errore: rileva solo se interviene quando il soggetto è ancora capace, escludendone il dolo, e non anche allorché il soggetto è ormai incapace.
Cosa occorre rammentare della determinazione in altri dello stato di incapacità?
- è disciplinata dall’art.86 c.p.;
- si tratta di chi mette altri nello stato di incapacità di intendere e di volere;
- e ciò al precipuo scopo di fargli commettere un reato;
- in questi casi, del reato commesso dalla persona resa incapace risponde chi ne ha cagionato l’incapacità;
- mentre nell’actio libera in causa ex 87 c.p. il soggetto agente mette sé stesso, preordinatamente, in una situazione di incapacità di intendere e di volere allo scopo di commettere un reato, nella fattispecie di cui all’art.86 c.p. esso vi induce dei terzi, allo scopo di far commettere a questi ultimi reato; si tratta di una norma che, secondo un’altra interpretazione, in realtà concerne il concorso di persone nel reato, onde in dottrina si fronteggiano due tesi: e.1) chi commette materialmente il fatto è già non imputabile giusta art.85 c.p., mentre il trattamento di chi lo induce a commettere reato giusta preordinata incapacità concerne appunto il concorso di persone, che sarebbe stata la sedes materiae più opportuna di disciplina; e.2) è giusta la collocazione della norma nell’ambito delle disposizioni sulla imputabilità, dacché vi sono fattispecie come l’ipnosi al cospetto delle quali il soggetto non potrebbe dirsi incapace di intendere e di volere alla stregua degli articoli 88 e seguenti del codice se non vi fosse una espressa disposizione, come appunto l’art.86 c.p., che consente di dare rilievo all’opera del terzo, il quale viene alfine assunto il vero responsabile dell’episodio criminoso;
- a differenza di quanto accade nelle fattispecie di cui all’art.111, in tema di determinazione a commettere il reato di persona che è già non imputabile, qui la persona che concretamente commette il fatto sarebbe imputabile, e viene indotta in stato di incapacità allo scopo di commetterlo; ciò giustifica le critiche della dottrina in ordine alla stranezza onde mentre nel primo caso il determinatore subisce un aumento di pena, nel secondo (a rigore più grave), tale aggravamento non è previsto; una soluzione viene trovata da chi propone l’applicazione in concorso dell’art.86 – onde il determinatore è punito per il reato commesso dall’incapace indotto – e dell’613 c.p. che – col punire chiunque, mediante suggestione ipnotica o in veglia o mediante somministrazione di sostanze alcooliche o stupefacenti, o con qualsiasi altro mezzo, ponga una persona, senza il consenso di lei, in stato d’incapacità d’intendere o di volere – sanziona con fattispecie ad hoc chi compulsa con violenza l’altrui libera determinazione, ma si tratta di opzione ermeneutica criticata da chi assume sussistente un rapporto di specialità, ex art.15 c.p., tra l’art.86 e l’art.613 del codice, onde l’applicazione dell’una norma escluderebbe l’operatività dell’altra (concorso apparente di norme);
- il determinatore risponde, con gradualità discendente, a titolo di: g.1) dolo intenzionale; g.2) dolo diretto; g.3) dolo eventuale; h.4) colpa, laddove non abbia previsto il fatto di reato, pur prevedibile, poi commesso dal soggetto agente indotto incapace, e il reato sia punibile a titolo di colpa;
- il soggetto totalmente incapace che concretamente commette il fatto va normalmente esente da pena, ma la dottrina lo assume a propria volta responsabile quando abbia – nella condivisione del fine di commettere il reato – acconsentito alla propria induzione in stato di incapacità, rispondendo a seconda dei casi per dolo ovvero, se il reato commesso è punibile a titolo di colpa, per colpa;
- il soggetto parzialmente incapace che concretamente commette il fatto può invece rispondere, a titolo di concorso, per il reato commesso in stato di indotta, (solo) parziale incapacità di intendere e di volere;
- può accadere che il soggetto determinatore induca lo stato di incapacità per la commissione di un determinato reato, ed il soggetto indotto incapace ne commetta un altro; in questa fattispecie si fronteggiano in dottrina due opzioni ermeneutiche: j.1) per chi ritiene che l’art.86 configuri una peculiare ipotesi di concorso di persone nel reato, si applica la disciplina sul d. concorso anomalo di cui all’art.116 c.p.; j.2) per chi invece ritiene che si tratti di una peculiare fattispecie di c.d. actio libera in causa ex art.87, senza che si configuri un concorso di persone, si applica la disciplina del c.d. reato aberrante (aberratio delicti) ex art.83 c.p..