Cass. pen., II, ud. 15.11.2023, n. 46097
Principi di diritto:
– in caso di concorso del terzo nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, l’interesse proprio del terzo che vale a determinare la più grave qualificazione giuridica ai sensi dell’art. 629 c.p. deve essere individuato in un ingiusto profitto con danno altrui senza che rilievo assuma il movente dell’azione criminosa;
– ai sensi della disciplina dettata dagli artt. 47 e 48 c.p. ove il terzo esecutore materiale abbia posto in essere l’azione incriminata sulla base della falsa rappresentazione della realtà determinata dall’inganno perpetrato dal creditore o dal titolare del diritto, del reato più grave, l’estorsione, risponde l’istigatore autore dell’inganno (ex art. 48 c.p.) e del fatto meno grave, l’esercizio arbitrario, risponde l’esecutore materiale ai sensi dell’art. 47 c.p., comma 2.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- 1. I ricorsi sono fondati e devono pertanto essere accolti.
Ed invero come correttamente richiamato sia dalla sentenza impugnata che da entrambe le impugnazioni, secondo il recente orientamento delle Sezioni Unite il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione si differenziano tra loro in relazione all’elemento psicologico, da accertarsi secondo le ordinarie regole probatorie (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Rv. 280027 – 02).
nel primo, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione non meramente astratta ed arbitraria, ma ragionevole, anche se in concreto infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nel secondo, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella piena consapevolezza della sua ingiustizia”.
… le Sezioni Unite hanno quindi sottolineato come per aversi esercizio arbitrario è necessario che l’agente ponga in essere una condotta a tutela di un diritto azionabile in sede giudiziaria altrimenti vertendosi nella più grave fattispecie di cui all’art. 629 c.p.. Principio questo affermato da quell’inciso secondo cui:” Pur non richiedendosi che si tratti di pretesa fondata, ovvero che il diritto oggetto dell’illegittima tutela privata sia realmente esistente, deve, peraltro, trattarsi di una pretesa non del tutto arbitraria, ovvero del tutto sfornita di una possibile base legale (Sez. 5, n. 23923 del 16/05/2014, Demattè, Rv. 260584; Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268362), poiché il soggetto attivo deve agire nella ragionevole opinione della legittimità della sua pretesa, ovvero ad autotutela di un suo diritto in ipotesi suscettibile di costituire oggetto di una contestazione giudiziale avente, in astratto, apprezzabili possibilità di successo (Sez. 2, n. 24478 del 08/05/2017, Salute, Rv. 269967)”.
- … che il concorso del terzo nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone è configurabile nei soli casi in cui questi si limiti ad offrire un contributo alla pretesa del creditore, senza perseguire alcuna diversa ed ulteriore finalità (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Rv. 280027 03).
.., per configurare il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in luogo di quello di estorsione, nel caso in cui la condotta tipica sia posta in essere da un terzo a tutela di un diritto altrui, occorre che il terzo abbia commesso il fatto al solo fine di esercitare il preteso diritto per conto del suo effettivo titolare, dal quale abbia ricevuto incarico di attivarsi, e non perché spinto anche da un fine di profitto proprio, ravvisabile ad esempio nella promessa o nel conseguimento di un compenso per sé, anche se di natura non patrimoniale (Sez. 2, n. 11282 del 2/10/1985, Conforti, Rv. 171209);
… risulta, al contrario, determinante il fatto che i terzi eventualmente concorrenti ad adiuvandum del preteso creditore abbiano, o meno, perseguito (anche o soltanto) un interesse proprio. Ove ciò sia accaduto, i terzi (ed il creditore) risponderanno di concorso in estorsione; in caso contrario, ove cioè i concorrenti nel reato abbiano perseguito proprio e soltanto l’interesse del creditore, nei limiti in cui esso sarebbe stato in astratto giudizialmente tutelabile, tutti risponderanno di concorso in esercizio arbitrario delle proprie ragioni”. È pertanto l’interesse proprio del terzo che vale quale elemento distintivo decisivo ai fini della qualificazione ex art. 393 o 629 c.p..
3… va precisato cosa debba essere inteso per interesse proprio del terzo idoneo a determinare la qualificazione giuridica del fatto ai sensi dell’art. 629 c.p. piuttosto che dell’art. 393 c.p., rimanendo tale nozione non esplicitata dalla pronuncia delle Sezioni Unite cui si intende certamente sempre aderire ed apparendo il tema rilevante per la definizione del caso di specie.
Per la soluzione di tale questione occorre precisare che nella ricostruzione della citata pronuncia del massimo consesso di legittimità l’interesse proprio del terzo è quell’elemento che vale proprio a modificare la qualificazione giuridica da esercizio arbitrario ad estorsione e che pertanto, essendo tale, va individuato alla luce degli elementi costitutivi del delitto di cui all’art. 629 c.p.; posto infatti che detto elemento diviene essenziale per il mutamento in un titolo più grave di reato per identificarne il contenuto non può che farsi riferimento agli elementi differenziali, costitutivi il delitto più grave e cioè l’estorsione rispetto alla ipotesi di cui all’art. 393 c.p.. Si deve, pertanto, affermare che, necessariamente, avuto proprio riguardo agli elementi costitutivi delle diverse fattispecie di cui agli artt. 393 e 629 c.p., l’interesse proprio del terzo consiste sempre in un ingiusto profitto con altrui danno con la precisazione che tale danno deve essere procurato mediante l’azione alla persona offesa o ad altri soggetti alla stessa legati.
.. ogni qual volta che il terzo sia stato incaricato dal creditore di recuperare un credito di un determinato importo, abbia poi agito richiedendo alla p.o. un importo superiore a quanto dovuto, trattandosi di importo estraneo al diritto originariamente agito, avendo arrecato un ingiusto profitto con altrui danno, sarà chiamato a rispondere sempre di estorsione in concorso con l’esercizio arbitrario, proprio perché ha realizzato oltre il diritto originario anche un interesse proprio.
Tuttavia, nel caso in cui il terzo abbia richiesto alla persona offesa, esattamente lo stesso oggetto del diritto agito, l’eventuale motivo che possa averlo mosso ad agire, mai oggetto di diretta richiesta alla vittima, la quale – si ripete – viene costretta a versare l’importo esattamente dovuto, può non determinare la differente e più grave qualificazione giuridica.
… così che l’eventuale guadagno sotteso può costituire il prezzo del reato di cui all’art. 393 c.p. o il movente del reato, ma non costituisce un interesse proprio diretto, tale da determinare la più grave qualificazione giuridica non arrecando alcun danno altrui
Con plurime pronunce questa Corte di cassazione ha ripetutamente escluso la rilevanza del movente ai fini della sussistenza del reato; si è in particolare affermato come il movente è la causa psichica della condotta umana e costituisce lo stimolo che ha indotto l’individuo ad agire; esso va distinto dal dolo, che è l’elemento costitutivo del reato e riguarda la sfera della rappresentazione e volizione dell’evento (Sez. 1, n. 466 del 11/11/1993 (dep. 19/01/1994) Rv. 196106 – 01). Il tema è stato anche affrontato con particolare riguardo al delitto di cui all’art. 610 c.p. che si differenzia dall’estorsione soltanto per l’elemento del danno patrimoniale e dell’ingiusto profitto; si è difatti affermato come ai fini della configurabilità del delitto di violenza privata, è sufficiente il dolo generico, ossia la coscienza e la volontà di costringere taluno, con violenza o minaccia, a fare, tollerare od omettere qualcosa, senza che sia necessario il concorso di un fine particolare, che costituisce l’antecedente psichico della condotta, cioè il movente del comportamento tipico descritto dalla norma penale (Sez. 5, n. 2220 del 24/10/2022 (dep. 19/01/2023) Rv. 284115 – 01). E la irrilevanza del movente ai fini della sussistenza del reato è stata anche affermata in tema di reati contro il patrimonio essendosi stabilito che in tema di danneggiamento, il reato (art. 635 c.p.) sussiste – con riferimento all’elemento materiale – qualora sia stata cagionata la distruzione di un bene ovvero un deterioramento di una certa consistenza, dovendosi escludere solo nel caso di mancanza di danno strutturale o funzionale della cosa. In ordine all’esistenza del dolo non occorre il fine specifico di nuocere, essendo sufficiente la coscienza e la volontà di distruggere, deteriorare o rendere inservibile (in tutto o in parte) la cosa altrui, senza alcuna rilevanza di movente o finalità (Sez. 5, Sentenza n. 5134 del 05/04/2000 Rv. 216063 – 01). Il tema dell’oggetto del dolo nel delitto di estorsione viene affrontato analogamente anche in dottrina; secondo autorevole parere: “è controversa in dottrina la qualificazione giuridica del dolo necessario per l’integrazione del reato. L’opinione tradizionale considera l’estorsione delitto a dolo specifico sul presupposto che la fattispecie incriminatrice richiede la coscienza e la volontà di coartare un terzo a fare od omettere qualcosa (dolo generico) e lo scopo di conseguire un profitto ingiusto con danno altrui (dolo specifico). Ora indipendentemente dalla qualificazione del delitto, se a titolo di dolo generico o specifico, rimane però chiaro che la volizione dell’agente deve avere ad oggetto la coartazione del soggetto passivo per conseguire un ingiusto profitto con altrui danno, senza che alcun rilievo assuma invece il motivo dell’azione criminosa e cioè la spinta a delinquere che ha mosso il reo a porre in essere la condotta delittuosa.
.. deve certamente essere escluso che l’interesse proprio del terzo concorrente nel fatto di cui all’art. 393 c.p. che vale a trasformare l’azione nella più grave condotta di estorsione possa essere individuato nel solo movente della condotta; viceversa deve affermarsi che l’interesse del terzo deve corrispondere ad un ingiusto profitto con altrui danno e cioè agli elementi costitutivi del delitto di estorsione altrimenti mancanti nella fattispecie di esercizio arbitrario.
- Tali conclusioni impongono poi ulteriori considerazioni circa l’ambito esplorativo del futuro giudizio di rinvio. Ed invero, può essere affermato che le Sezioni Unite Filardo, nella citata sentenza, hanno stabilito che ove il terzo abbia agito per la realizzazione di un interesse legittimo del creditore risponde del delitto di esercizio arbitrario, viceversa il fatto va qualificato come estorsione; tuttavia, differente è il caso in cui il creditore abbia raffigurato al terzo la tutelabilità di un proprio diritto ed il terzo abbia agito nella esatta convinzione di tutelare detta posizione giuridica in realtà non esistente. Tale particolare condizione non risulta essere stata presa in considerazione dalle Sezioni Unite che hanno sempre presupposto, nella ricostruzione completa della fattispecie, l’esatta coincidenza della rappresentazione della realtà sottesa al creditore ed al terzo incaricato dell’azione materiale. A fronte di tale situazione, che certamente costituisce la regola, può invece avvenire che la pretesa giuridica del titolare non sia fondata e, tuttavia, la stessa sia stata rappresentata come tale al terzo esecutore materiale. In detti casi non può escludersi la possibile qualificazione giuridica dei fatti in capo al terzo quale esercizio arbitrario proprio perché lo stesso ha agito nella convinzione dell’esercizio di un diritto in capo al titolare-mandante e cioè con il dolo tipico dell’art. 393 c.p..
Del resto è la stessa disciplina positiva a prendere in considerazione il caso del delitto attuato a seguito di una falsa rappresentazione della realtà; ed invero gli artt. 47 e 48 c.p. stabiliscono la disciplina da applicare nel caso in cui l’agente ponga in essere la condotta sulla base di una falsa rappresentazione del reale; invero, l’errore sul fatto che costituisce reato esclude la punibilità ai sensi dell’art. 47 c.p., comma 1 e, tuttavia, non esclude la punibilità per un fatto diverso (art. 47 c.p., comma 2). Ai sensi del successivo art. 48 c.p. ove l’errore sul fatto è determinato dall’altrui inganno, del fatto più grave risponde il soggetto istigatore.
A tale proposito la giurisprudenza della Corte di cassazione ha affermato che non ricorre la fattispecie del così detto “concorso anomalo” di cui all’art. 116 c.p., bensì quella prevista all’art. 48 c.p. nel caso in cui si accerti che i concorrenti non abbiano avuto ab origine un accordo criminoso comune – inteso come convergenza delle volontà dei soggetti in concorso – ed il reato sia stato realizzato in conformità della reale intenzione di un concorrente dissimulata all’altro; nella specie, la Corte ha escluso la responsabilità a titolo di concorso ai sensi dell’art. 116 c.p. nel reato di traffico di stupefacenti, nel comportamento di un soggetto che, avendo offerto la propria collaborazione per l’importazione in Italia di merci in violazione di disposizioni doganali, quali diamanti e – pelli di rettile, aveva invece trasportato cocaina per errore determinato dall’inganno dell’altro concorrente (Sez. 6, n. 15481 del 20/01/2004, Rv. 229240 – 01). In motivazione si precisa che: “non ricorre la fattispecie di cui all’art. 116 c.p. là dove si accerti…. per un verso, che i due concorrenti non abbiano avuto ab origine un “accordo criminoso comune”.
Nel caso in cui non vi sia stato un comune accordo e il delitto non sia stato commesso da un concorrente in difformità ed oltre i limiti del programma criminoso concertato, bensì realizzato in conformità della sua reale intenzione dissimulata all’altro concorrente, per quest’ultimo è integrata la fattispecie di cui all’art. 48 c.p. dell'”errore determinato dall’altrui inganno”. Tale fattispecie, di carattere generale anch’essa, esclude la punibilità del soggetto per la commissione di un fatto diverso da quello in realtà voluto e commesso, lasciando permanere la responsabilità soltanto allorché la condotta realizzata integri un delitto colposo.
L’errore determinato dall’altrui inganno è tale da escludere in concreto la sussistenza di un rapporto di causalità psichica nel senso che il reato diverso e più grave commesso dal compartecipe possa rappresentarsi alla psiche dell’agente come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto”.
In tali casi, quindi, ove l’agente abbia posto in essere l’azione incriminata sulla base della falsa rappresentazione della realtà determinata da altrui inganno, del reato più grave risponde l’istigatore autore dell’inganno e del fatto meno grave risponde l’esecutore materiale ai sensi del citato art. 47 c.p., comma 2. Appare pertanto evidente che ove al terzo esecutore materiale dell’azione violenta o minacciosa sia stato rappresentato un diritto tutelabile in capo al creditore-istigatore dell’azione, lo stesso può rispondere del più lieve delitto di cui all’art. 393 c.p. ed il creditore, invece, risponderà di estorsione
E così nel caso in cui il proprietario locatore abbia incaricato un terzo di sfrattare con violenza e minaccia il conduttore, rappresentando al terzo medesimo l’inesistenza o comunque l’invalidità del titolo per il possesso dell’immobile, l’esecutore materiale dell’azione, che agisce nella convinzione di esercitare il diritto del proprietario, potrà rispondere ex art. 47 comma 2 c.p. del delitto di cui all’art. 393 c.p., mentre, il proprietario, ove attuatore dell’inganno, risponderà viceversa ex art. 48 c.p. del più grave delitto di estorsione, avendo il dolo tipico dell’art. 629 c.p., perché consapevole del danno altrui e del proprio ingiusto profitto.
- Va precisato infine che la possibilità di una differente qualificazione giuridica dei concorrenti nel medesimo fatto, frutto del presente giudizio di annullamento, non deve sorprendere essendo fattispecie già oggetto di approfondita analisi da parte della giurisprudenza e, soprattutto, della dottrina.
In relazione agli interventi giurisprudenziali si segnalano innanzi tutto i casi del concorso in autoriciclaggio, del concorso nel delitto di evasione, di più autori delle diverse fattispecie previste dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73; in relazione al primo dei suddetti casi si è affermato da parte di questo giudice di legittimità come in tema di autoriciclaggio, il soggetto che, non avendo concorso nel delitto-presupposto non colposo, ponga in essere la condotta tipica di autoriciclaggio o contribuisca alla realizzazione da parte dell’autore del reato – presupposto delle condotte indicate dall’art. 648-ter.1 c.p., risponde di riciclaggio e non di concorso nel delitto di autoriciclaggio essendo questo configurabile solo nei confronti dell’intraneus (Sez. 2, n. 17235 del 17/01/2018, Rv. 272652 – 01);
… ritiene il collegio che il soggetto il quale, non avendo concorso nel delitto-presupposto non colposo, ponga in essere la condotta tipica di autoriciclaggio, o comunque contribuisca alla realizzazione da parte dell’intraneus delle condotte tipizzate dall’art. 648-ter.1 c.p., continui a rispondere del reato di riciclaggio ex art. 648-bis c.p. (ovvero, ricorrendone i presupposti, di quello contemplato dall’art. 648-ter c.p.) e non di concorso (a seconda dei casi, ex artt. 110 o 117 c.p.) nel (meno grave) delitto di autoriciclaggio ex art. 648-ter.1. c.p.. Nel predetto caso, soltanto l’intraneus risponderà del delitto di autoriciclaggio”. Proprio prendendo in considerazione il tema in analisi si aggiungeva che: “La diversificazione dei titoli di reato in relazione a condotte lato sensu concorrenti non deve meravigliare, non costituendo una novità per il sistema penale vigente, che ricorre a questa soluzione in alcuni casi di realizzazione plurisoggettiva di fattispecie definite dalla dottrina “a soggettività ristretta”.
In tema di concorso in evasione e procurata evasione una risalente pronuncia ha affermato come l’art. 386 c.p., punendo al comma 1 colui che procura o agevola l’evasione di una persona legalmente arrestata o detenuta, prevede un delitto che può concretarsi in due distinte forme di attività, la prima diretta allo svolgimento di un ruolo determinante e di primo piano nella preparazione immediata o nell’esecuzione dell’evasione e la seconda intesa invece a favorire la fuga, predisponendo i mezzi opportuni o assicurando gli aiuti necessari allo scopo.
… Ne deriva affermare che il soggetto che concorre nel fatto di evasione altrui non risponde di concorso ex art. 110 c.p. nel reato di cui all’art. 385 c.p. bensì dell’autonomo e più grave reato di cui al successivo art. 386 c.p..
Analogamente si è affermato in tema di concorso di più soggetti nelle attività di cessione o spaccio di sostanze stupefacenti; secondo un indirizzo di questa Corte di cassazione invero in tema di concorso di persone nel reato di cessione di stupefacenti, il medesimo fatto storico può essere ascritto ad un imputato ai sensi del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 1, e ad un altro a norma dell’art. 73, comma 5, del medesimo D.P.R. qualora il contesto complessivo nel quale si collochi la condotta assuma caratteri differenti per ciascun correo (Sez. 3, n. 16598 del 20/02/2020, Rv. 278945 – 01); in motivazione la suddetta pronuncia approfondisce il tema della differenziazione delle qualificazioni giuridiche specificando che: “tale ricostruzione trova conferma nel tenore dell’art. 117 c.p. – disposizione diretta ad omogeneizzare, nel senso di un potenziale aggravamento, la posizione dei concorrenti nel reato – che non fissa una generale equiparazione fra le posizioni dei concorrenti in caso di mutamento del titolo del reato per taluno di loro, ma limita l’equiparazione al caso in cui il mutamento del reato sia determinato dalle condizioni o dalle qualità personali del colpevole, o dai rapporti fra il colpevole e l’offeso. Al di fuori di tali casi, dunque, deve ritenersi che l’equiparazione in questione non operi e che i concorrenti nello stesso fatto possano risponderne a diverso titolo. Analoga funzione aggravatrice è svolta dall’art. 116 c.p., che non a caso, in relazione al reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, pur prevedendo per tutti lo stesso trattamento, stabilisce una diminuzione di pena per chi abbia voluto il reato meno grave. Dunque, le due disposizioni appena citate risultano escludere, in linea generale, che l’istituto del concorso di persone nel reato possa dare luogo ad una “mitigazione” della responsabilità penale, e rendono ragionevole, in caso di loro inapplicabilità, correlare il titolo della stessa, per ciascun agente, al fatto al medesimo riferibile oggettivamente e soggettivamente”.
In dottrina il tema viene ampiamente sviluppato ed approfondito sotto il profilo del principio costituzionale della responsabilità personale che troverebbe deroghe non consentite nelle affermazioni del concorso nel medesimo reato da parte di tutti i soggetti concorrenti indipendentemente dalle posizioni soggettive di ciascuno di essi; ad essere fortemente criticato è l’assioma dell’equivalenza causale del contributo di tutti i concorrenti ritenuta espressione “letteralmente antitetica ai principi di tipicità e di responsabilità personale, atteso che essa, anziché attribuire rilievo alle loro peculiarità tipiche, tende appunto a livellare i contributi di tutti i correi, senza darsi pena di ritagliare in capo a ciascuno un rimprovero autenticamente appropriato e personale…..”;
Altri autori hanno così espressamente affermato:” che si concorre nel fatto e non nel reato e alla fine, come si vede, il dogma dell’unità del reato concorsuale si riduce al principio di medesimezza del fatto, inteso nella sua dimensione lesiva ovvero come accadimento materiale penalmente significativo. Non solo: tale identità del fatto non implica necessariamente l’identità del reato di cui sono chiamati a rispondere i concorrenti, dovendosi ammettere la pluralità dei titoli di reato in correlazione all’elemento psicologico di ciascun partecipe”.
Infine, altri esponenti della dottrina, in una prospettiva de iure condendo di commento ai progetti di modifica del codice penale hanno affermato che: “in una dogmatica corretta, nel concorso di persone dobbiamo riconoscere pluralità di reati…poiché non sembra giusto collegare il significato sociale e umano di un fatto alla sua sola dimensione materiale…. deve ritenersi possibile che in un concorso di persone di più soggetti che pongono la stessa realizzazione comune siano chiamati a rispondere per titoli diversi…. a maggior ragione la possibilità di chiamare i compartecipi rispondere per titoli diversi dovrà essere ammessa quando taluno dei soggetti non ha voluto il fatto realizzato dagli altri”.
L’analisi della interpretazione dottrinale e giurisprudenziale ha quindi permesso di evidenziare una molteplicità di argomenti che appaiono prospettare l’ipotesi ricostruita nel presente procedimento di diversità di titoli di reato in un caso di concorso nel medesimo fatto e ciò, in particolare, in virtù dell’applicazione della disciplina positiva dettata dall’art. 48 c.p.; la possibile differente qualificazione giuridica per effetto della condotta del terzo istigatore o mandante nei confronti dell’esecutore materiale dell’azione estorsiva, terzo rispetto al rapporto obbligatorio, rimane pertanto prospettiva possibile ed il cui ambito applicativo andrà valutato nel giudizio di rinvio, verificandosi la dimensione soggettiva degli odierni ricorrenti all’atto della condotta minacciosa e violenta di sfratto.
COMMENTO
Il pronunciamento in esame suscita numerosi spunti di riflessione sia in ordine al crinale dottrinario che sul versante del formante giurisprudenziale.
Ed infatti, preliminarmente, la Corte configura il discrimen fra i due reati all’esame della stessa nell’elemento soggettivo, individuandolo per ciò che concerne il reato fatto inadempimento relativo alla ragion fattasi nella convinzione da parte dell’agente della legittimità della sua pretesa che egli vuole, quindi, tutelare, invece, relativamente alla più grave fattispecie del reato di estorsione, nel perseguimento da parte dell’ agente del conseguimento di un profitto nella piena consapevolezza della sua ingiustizia.
Il pronunciamento si occupa anche della posizione del terzo in tali fattispecie di reato , il cui concorso può configurarsi, solo ed esclusivamente allorquando questi si limiti ad offrire un contributo alla pretesa legittima del creditore, senza anelare di raggiungere ulteriori finalità.
Nell’ ipotesi in cui, per converso, il terzo miri ad un proprio profitto,anche non patrimoniale, con consequenziale danno diretto alla persona offesa, si configurerà il reato di estorsione.
La Suprema Corte si sofferma ancora sulla qualificazione di tale interesse del terzo, precisando che esso non deve costituire il mero movente del reato , la cui rilevanza la Cassazione ha reiteratamente e recisamente escluso in plurime pronunce,anche in merito al reato di violenza privata e di danneggiamento.
Ed infatti il delitto di cui all’ art 610 c.p si differenzia dall’estorsione solo per l’elemento del danno patrimoniale e dell’ ingiusto profitto, poiché ai fini della configurabilità del delitto di violenza privata è bastevole il dolo generico senza la necessità di un fine particolare, mero movente del comportamento tipico di cui alla norma incriminatrice di riferimento.
Per ciò che concerne il delitto di danneggiamento, invece, non occorre il fine specifico di nuocere,essendo sufficiente la coscienza e volontà di distruggere e/o deteriorare la cosa altrui, senza la necessità del dolo specifico di nuocere e senza rilevanza del movente .
Relativamente poi alla posizione del terzo in relazione all’ interesse del creditore , in seno al pronunciamento in parola viene asserito che in ipotesi di simulazione della legittimità da parte del creditore del proprio interesse,della cui tutela si è occupato il terzo, costui risponderà esclusivamente in concorso di esercizio arbitrario delle proprie ragioni .
E ciò, poiché l’elemento soggettivo in capo a quest’ultimo è rappresentato dal dolo tipico di tale reato ex art 393 c.p.
Il Supremo Collegio rinviene il fondamento di quanto testè enunciato nella disciplina positiva e, segnatamente, negli artt 47e 48 c.p relativi all’errore sul fatto ed all’errore sul fatto scaturente da altrui inganno che, infatti, non escludono la punibilità dell’esecutore materiale per un fatto diverso e acclarano la punibilità dell’ istigatore per il reato più grave .
A tal proposito nel ripercorrere la applicabilità di quanto anzi detto ad altre ipotesi di concorso di reato, quali concorso nel delitto di evasione, nel reato di auto riciclaggio , o nel fatto inadempimento reato del traffico di stupefacenti, la Corte esclude l’applicabilità dell’art 116 c.p, ove si accerti la mancanza di un accordo criminoso comune, bensì affermando ,quella dell’ art 48 c.p.
Del resto, indugia la Corte, l’applicabilità di due fattispecie di reato differenti in capo a diversi concorrenti risponde ad un conclamato principio di limitazione della equiparazione delle posizioni dei correi, allorquando per ciascun agente il fatto reato è riferibile distintamente oggettivamente e soggettivamente e, quindi, a titolo diverso.