La pronuncia in questione affronta il tema della responsabilità dei prestatori intermediari di servizi della società dell’informazione (c.d. internet service provider) in caso di violazione del diritto d’autore, ribadendo alcuni principi già in precedenza affermati dalla stessa Corte in relazione alla figura dell’hosting provider attivo e all’individuazione dei criteri utilizzabili per determinare il pregiudizio risarcibile.
L’art. 16, comma 1, del D.Lgs. n. 70 del 2003 (recante attuazione della direttiva 2000/31/CE relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico) dispone che nella prestazione di un servizio della società dell’informazione, consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio (c.d. hosting), il prestatore non è responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio a condizione che detto prestatore: a) non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illiceità dell’attività o dell’informazione; b) appena venuto a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso.
Con la sentenza n. 7708 del 19.3.2019 la Corte di Cassazione aveva già recepito la nozione di hosting provider attivo, definito come quel prestatore dei servizi della società dell’informazione che svolge un’attività che esula da un servizio di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, e pone in essere una condotta attiva, concorrendo con altri nella commissione dell’illecito. In tal senso, egli resta sottratto al regime generale di esenzione di cui all’art. 16 citato e la sua responsabilità civile si atteggia secondo le regole comuni.
In piena armonia con la giurisprudenza eurounitaria, la Suprema Corte ha ritenuto che la figura in esame ricorre quando l’internet service provider (ISP) è in grado di conoscere e controllare le informazioni trasmesse o memorizzate dalle persone alle quali fornisce i suoi servizi, svolgendo rispetto ad esse un ruolo attivo e non semplicemente passivo.
Gli elementi idonei a delineare la figura (“indici di interferenza”), da accertare in concreto ad opera del giudice del merito, sono – a titolo esemplificativo – le attività di filtro, selezione, indicizzazione, organizzazione, catalogazione, aggregazione, valutazione, uso, modifica, estrazione o promozione dei contenuti, operate mediante una gestione imprenditoriale del servizio, come pure l’adozione di una tecnica di valutazione comportamentale degli utenti per aumentarne la fidelizzazione: in sostanza, tutte quelle condotte che abbiano l’effetto di completare e arricchire in modo non passivo la fruizione dei contenuti da parte di un numero di utenti indeterminato.
Su tali premesse la Suprema Corte ha ritenuto corretta la qualificazione della ricorrente come ISP attivo operata dalla Corte d’Appello sulla base dei seguenti indici di interferenza: (a) la cernita dei contenuti audio-video a fini pubblicitari; (b) lo sviluppo di un sistema operativo incompatibile con la figura dell’hosting provider passivo; (c) la creazione e la distribuzione di contenuti di intrattenimento digitali collegati alla selezione dei contenuti e collocati nella home page; (d) la presenza di una sorta di editorial team, ossia un gruppo di persone addetto proprio alla cernita dei contenuti a fini pubblicitari.
Quanto al regime di responsabilità dell’hosting provider, la Corte rammenta che, in base all’art. 16 del D.Lgs. n. 70 del 2003, il prestatore dei servizi è chiamato a rispondere dei danni ogni qualvolta non abbia provveduto alla immediata rimozione dei contenuti illeciti, oppure abbia continuato a pubblicarli, quando ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni: a) l’ISP abbia avuto conoscenza legale dell’illecito perpetrato dal destinatario del servizio, per averne avuto notizia dal titolare del diritto leso oppure aliunde; b) l’illiceità dell’altrui condotta sia ragionevolmente constatabile, onde l’hosting provider sia in colpa grave per non averla positivamente riscontrata, alla stregua del grado di diligenza che è ragionevole attendersi da un operatore professionale della rete in un determinato momento storico; c) l’ISP abbia la possibilità di attivarsi utilmente, in quanto reso edotto in modo sufficientemente specifico dei contenuti illecitamente immessi da rimuovere.
Con specifico riferimento alla prova del danno e alla sua liquidazione, la Suprema Corte afferma che in tema di diritto d’autore:
- la violazione del diritto d’esclusiva che spetta al suo titolare costituisce danno in re ipsa, senza che incomba al danneggiato altra prova del lucro cessante che quella della sua estensione, a meno che l’autore della violazione fornisca la dimostrazione dell’insussistenza, nel caso concreto, di danni risarcibili;
- tale pregiudizio è suscettibile di liquidazione in via forfettaria con il criterio del “prezzo del consenso” di cui alla L. 22 aprile 1941, n. 633, art. 158, comma 2, terzo periodo (secondo il quale “il giudice può altresì liquidare il danno in via forfettaria sulla base quanto meno dell’importo dei diritti che avrebbero dovuto essere riconosciuti, qualora l’autore della violazione avesse chiesto al titolare l’autorizzazione per l’utilizzazione del diritto”) che costituisce dunque la soglia minima di ristoro.
Sul punto, l’ordinanza in esame richiama la pronuncia n. 21833 del 29.7.2021 con cui la Suprema Corte ha ribadito che l’art. 158 l.d.a. prevede il duplice criterio della retroversione degli utili conseguiti e del prezzo del consenso, sempre nella cornice di una liquidazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c.; che la legge non esprime un precetto rigido di preferenza per i due criteri suggeriti, ma con l’espressione utilizzata (“quanto meno”) lascia intendere che quello del prezzo del consenso rappresenta la soglia minima della liquidazione; che quindi i due criteri si pongono come cerchi concentrici, avendo il legislatore indicato come il secondo sia quello che permette una liquidazione minimale, mentre il primo, dall’intrinseco significato anche sanzionatorio, permette di attribuire al danneggiato i vantaggi economici che l’autore del plagio abbia in concreto conseguito, certamente ricomprendenti anche l’eventuale costo riferibile all’acquisto dei diritti di sfruttamento economico dell’opera, ma ulteriormente maggiorati dai ricavi conseguiti dall’autore della violazione sul mercato; che l’art. 158 l.d.a. indica espressamente i parametri su cui fondare la liquidazione equitativa del danno, consistente negli utili conseguiti dal responsabile dell’illecito grazie all’utilizzo indebito dell’opera altrui; che anche il criterio del prezzo del consenso richiama la valutazione equitativa del danno (“in via forfettaria”), offrendo un’indicazione minimale sul quantum da liquidare (“quanto meno”) secondo il metro del prezzo per la cessione dei diritti di utilizzazione economica di quell’opera; che tale criterio va inteso come individuazione, pur sempre in via di prognosi postuma, del presumibile valore sul mercato del diritto d’autore in questione, nel tempo della operata violazione; che si tratta di una valutazione media ed ipotetica, tenuto conto dei prezzi nel settore specifico, dell’intrinseco pregio dell’opera, dei guadagni dalla medesima conseguiti nel periodo di legittima utilizzazione da parte dell’autore medesimo per il tempo in cui ciò sia avvenuto e di ogni altro elemento del caso concreto.
D’altro canto, secondo la giurisprudenza di legittimità in tema di tutela del diritto d’autore, la violazione di un diritto di esclusiva integra di per sé la prova dell’esistenza del danno, restando a carico del titolare del diritto medesimo solo l’onere di dimostrarne l’entità (Cass. n. 8730 del 15.4.2011; Cass. n. 14060 del 7.7.2015), a meno che l’autore della violazione fornisca la prova dell’insussistenza nel caso concreto di danni risarcibili, nei limiti di cui all’art. 1227 c.c. (Cass. n. 12954 del 22.6.2016).