Massima
Il micro-cosmo normativo in materia di fonti si atteggia in modo tutt’affatto peculiare nella materia penale, laddove campeggiano i principi della riserva di legge, della necessaria tassatività della fattispecie e della sufficiente determinatezza della condotta che costituisce inadempimento-reato e che è fatta oggetto, per conseguenza, di sanzione punitiva; e se – con riguardo agli atti aventi connotazione sostanziale di “legge” (segnatamente, decreti legislativi e decreti legge) determinate questioni possono porsi nel bacino della dialettica che connota i rapporti tra Parlamento e Governo, più problematico è il ruolo ascrivibile alla consuetudine, da un lato, e agli intereventi della Corte costituzionale, dall’altro, con distinzione tra effetti in bonam partem ovvero in malam partem e, in quest’ultimo caso, con la necessità di verificare la pedissequa osservanza di tutti i princìpi in tema di successione di leggi penali nel tempo.
Crono-articolo
Nel diritto romano, il problema delle fonti del diritto penale è in realtà un problema di fonti del diritto in generale, non essendo il diritto penale – almeno in una fase più antica – distinto da quello civile; la divaricazione avviene infatti per gradi progressivi che possono dirsi in qualche modo compiuti solo sul finire della parabola storico-giuridica romana. Cronologicamente, la prima fonte di produzione del diritto romano arcaico – anche in ambito penalistico – è senz’altro, singolarmente, la consuetudine, sotto forma di c.d. “mores maiorum” o costumi degli antenati tramandati oralmente e fondantisi sulla volontà divina (fas); i mores vengono via via fatti oggetto di interpretazione dapprima dai Pontefici e, a partire dal III secolo a.C., dalla giurisprudenza laica: quella interpretatio prudentium che, in epoca imperiale, si traduce nei c.d. responsa prudentium, ormai accolti come vere e proprie fonti di produzione del diritto. Un ruolo privilegiato assume via via la Lex, formalmente sempre assunta con funzione di accertamento dei “mores”, e tuttavia progressivamente sempre più accettata, nella sostanza, quale fonte di produzione del diritto, sia nella veste di “Lex data” (concessa dal patriziato: è il caso delle XII Tavole, che contengono anche norme di ascendenza tipicamente penalistica), sia nella veste di Lex votata dalle assemblee miste di patrizi e plebei o di sola plebe (i c.d. plebis scita, equiparati alle leges con la Lex Hortensia del 287 a.C.). In epoca successiva la funzione di produzione delle norme viene assunta dal Senato (giusta c.d. Senatus consulta) e dall’Imperatore (attraverso le c.d. constitutiones imperiali, sempre più preponderanti via via che si scende verso il Basso Impero). Un discorso a parte va fatto per il c.d. diritto onorario, quello “ius honorarium” scaturente dagli editti del Pretore urbano e del Pretore “peregrinus” o straniero (ius gentium) che contribuiscono ad adattare il ius civile puro (“adiuvandi, supplendi vel corrigendi iuris civilis gratia”), quello cioè rigidamente compendiato dai mores maiorum e dalle leges comiziali (ed applicabile ai soli cives Romani) alle mutate esigenze scaturenti dall’ampliamento del dominio di Roma e dall’espandersi dei traffici che, massime a cavallo delle Guerre Puniche, portano i cittadini romani a contatto (anche giuridicamente rilevante) con diversi popoli del bacino mediterraneo. Importante notare, dal punto di vista strettamente penale, l’importanza già presso i Romani della Lex come fonte del diritto, come dimostrano – esemplificativamente – la lex Numae del periodo arcaico (ricondotta al Re Numa Pompilio ed avente ad oggetto la disciplina del crimen homicidii) e la Lex Calpurnia de repetundis, risalente al 149 a.C., in tema di corruzione e che in realtà configura un plebis scitum, essendo stata rogata dal Tribuno della Plebe L. Calpurnio Pisone.
1889
Il 30 giugno viene varato il R.D. n.6133, codice Zanardelli, di impianto liberale, secondo il cui art.1 nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite.
1930
Il 19 ottobre viene varato il R.D. n.1398, nuovo codice penale, secondo il cui art.1 nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite. Del pari, alla stregua del successivo art.199 nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa preveduti. Importante anche l’art.2 in tema di successione di leggi penali nel tempo, alla cui nota stregua nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato (comma 1); nessuno può poi essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali (comma 2) . Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile (comma 3); se poi si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti (onde vige, nella sostanza, il principio tempus regit actum: comma 4); infine le disposizioni dell’articolo 2 si applicano nei casi di decadenza e di mancata ratifica di un decreto-legge e nel caso di un decreto-legge convertito in legge con emendamenti (comma 5). Importanti, su versanti diversi, l’art.40, comma 2, in tema di obbligo di impedire l’evento, nonché gli articoli 51 e 52 in tema di scriminanti dell’esercizio del diritto, dell’adempimento del dovere e del diritto che garantisce l’operatività, se minacciato, della legittima difesa, in relazione alle possibili “fonti” di tali obblighi e diritti, massime in rapporto alla consuetudine.
1931
Il 18 giugno viene varato il R.D. n.773, recante approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, secondo il cui art.214 nel caso di pericolo di disordini il Ministro dell’interno, con l’assenso del Capo del Governo, o i prefetti, per delegazione, possono dichiarare, con decreto, lo stato di pericolo pubblico; ai sensi del successivo art.215 durante lo stato di pericolo pubblico il Prefetto può ordinare l’arresto o la detenzione di qualsiasi persona, qualora ciò ritenga necessario per ristabilire o per conservare l’ordine pubblico. Infine, stando all’art.216 – oltre quanto e’ disposto dall’art. 2 (facoltà del Prefetto di adottare i provvedimenti indispensabili per la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica) – qualora la dichiarazione di pericolo pubblico si estenda all’intero territorio del Regno, il Ministro dell’interno può emanare ordinanze, anche in deroga alle leggi vigenti, sulle materie che abbiano comunque attinenza all’ordine pubblico o alla sicurezza pubblica; i contravventori alle ordinanze predette, e dunque coloro che fanno luogo a contegni che con esse si pongono in frizione, sono puniti (si tratta dunque di reati) con l’arresto non inferiore a un anno, salvo le maggiori pene stabilite dalle leggi; tale disposizione si applica anche a coloro che contravvengono alle ordinanze del Prefetto emesse durante lo stato di dichiarato pericolo pubblico, in forza dei poteri che gli sono conferiti dall’art. 2.
1938
L’8 luglio viene varato il R.D. n.1415, recante approvazione dei testi della legge di guerra e della legge di neutralita’, secondo il cui art.17 il comandante supremo delle Forze armate ha facoltà di emanare bandi, facoltà che può essere delegata dal comandante supremo medesimo ai comandanti di grandi unità terrestri, navali, aeronautiche o di piazze forti. La facoltà di emanare bandi spetta poi di diritto a tali comandanti, quando essi non abbiano la possibilita’ di comunicare con il comandante supremo; in questo caso, se più forze armate cooperano alle operazioni, la facoltà di emanare bandi spetta all’autorità che ha l’alta direzione delle operazioni stesse. I bandi in parola hanno valore di legge nella zona delle operazioni e nei limiti del comando dell’ufficiale che li ha emanati, restando fermi i maggiori poteri attribuiti al comandante supremo, relativamente alla emanazione dei bandi, dalla legge penale militare di guerra.
1942
Il 16 marzo viene varato il R.D. n.267, nuovo codice civile (entrato in vigore il 21 aprile), le cui disposizioni preliminari disciplinano le fonti del diritto agli articoli 1 e seguenti. In particolare, all’art.1 vi sono annoverati anche gli usi che – ai sensi dell’art.8 – nelle materie regolate da leggi o regolamenti, hanno efficacia solo in quanto da essi richiamati. Importante anche il successivo art.15, alla cui stregua le leggi non possono essere abrogate che da altre leggi posteriori, per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra la nuova disposizione e le precedenti, ovvero ancora perché la nuova legge regola la materia già regolata da legge anteriore.
1948
Viene varata la Costituzione che – sul crinale delle fonti – stabilisce all’art.25 da un lato che nessuno puo` essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso (comma 2) e, dall’altro, che nessuno puo` essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge (comma 3). Rilevanti inoltre – oltre agli articoli 70 e seguenti in tema di poteri del Parlamento nella formazione delle leggi – anche, più in specie, gli articoli 76 e 77 in tema, rispettivamente, di delega legislativa conferita dal Parlamento al Governo e di decreti legge emanati dal Governo in casi straordinari di necessità ed urgenza, nonché l’art.78 onde le Camere, quando ne ravvisino i presupposti, deliberano lo stato di guerra che viene poi dichiarato dal Presidente della Repubblica ex art.87, comma 9, conferendo contestualmente al Governo i poteri necessari.
1953
L’11 marzo viene varata la legge n.87, recante norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale, secondo il cui fondamentale art.28 il controllo di legittimità della Corte su una legge o un atto avente forza di legge esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento; la Corte non può dunque invadere il campo della discrezionalità del legislatore, neppure (e massime) in ambito penale.
1966
Il 23 marzo esce la importante sentenza della Corte costituzionale n.26 in tema di legalità del precetto e della sanzione penale, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 11 del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3267, recante “riordinamento e riforma della legislazione in materia di boschi e di terreni montani“ e dichiara, contestualmente, non fondata la questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 10 dello stesso R D. 30 dicembre 1923, n. 3267, in riferimento agli artt. 3, 25 e 70 della Costituzione. Per la Corte non occorre, nel caso di specie, un lungo discorso per dimostrare l’infondatezza dell’assunto relativo alla violazione, a opera delle disposizioni denunciate, dell’art. 70 e delle altre norme della sezione della Costituzione intitolata alla formazione delle leggi. A parte la considerazione che il testo legislativo di cui si discute é anteriore alla Costituzione, ed é stato perciò emanato sotto il vigore di un diverso regime delle fonti dell’ordinamento, basterà osservare in proposito per la Corte che, se l’art. 70 configura come organo della funzione legislativa il Parlamento, e se altri articoli della ricordata sezione della Costituzione indicano tassativamente i casi in cui é consentito ad organi dello Stato diversi dal Parlamento di porre in essere provvedimenti dotati dello stesso valore giuridico delle leggi approvate da quest’ultimo, ciò non esclude la possibilità che la legge (o atti equiparati) attribuisca il carattere di fonte dell’ordinamento – quando ciò faccia, come nel caso in esame, senza conferire ad essi valore di legge – a provvedimenti diversi da quelli contemplati dalle ricordate disposizioni. La Corte rammenta di avere avuto già numerose occasioni di occuparsi di poteri normativi conferiti da leggi ad autorità amministrative centrali e locali fuori delle ipotesi considerate dalla sezione della Costituzione relativa alla “formazione delle leggi“, e di riconoscerne la legittimità (vedansi, tra le tante, le sentenze n. 16 e n. 30 del 1965; n. 40 del 1964; n. 134 del 1963; n. 31 del 1962; n. 11 del 1961; n. 20 del 1960; n. 35 del 1959; n. 52 del 1958; n. 103 del 1957). Neanche appare fondato – prosegue la Corte – l’assunto secondo cui contrasterebbe col principio di eguaglianza, – consacrato nell’art. 3 della Costituzione – il fatto che da località a località “comportamenti di fatto analoghi” siano regolati da norme diverse e sottoposti a una disciplina differenziata. Non si può escludere infatti, ed anzi per la Corte si deve espressamente ammettere, che la diversità delle situazioni locali ed ambientali (e quindi delle esigenze), consapevolmente ed adeguatamente valutate dalle autorità a ciò preposte, suggeriscano e legittimino, per fatti “analoghi“, normative diverse. Appunto su tale concetto si basano, del resto, le autonomie locali – che sono anche, e prima di tutto, autonomie normative -, espressamente riconosciute dalla Costituzione, la quale anzi prevede ed esige che esse vengano “promosse” (art. 5), ed essa stessa le promuove (artt. 116 e 117). Più delicati profili presenta invece – chiosa ancora la Corte – il problema della conformità delle disposizioni denunciate al principio di legalità della pena, formulato, nell’art. 25, secondo comma, della Costituzione, congiuntamente a quello della irretroattività delle norme punitive, avendo la Corte già affermato più volte e categoricamente il concetto che la fonte del potere punitivo non può risiedere che nella legislazione dello Stato: su tale presupposto essa ha escluso in varie occasioni che, pel solo fatto di avere autonoma potestà normativa in certe materie, le Regioni dispongano altresì della possibilità di comminare o rimuovere o variare con proprie leggi le pene nelle materie stesse (vedansi le sentenze n. 6 del 1956, nn. 1, 21, 23, 39 del 1957, n. 58 del 1959, nn. 13, 23 del 1961, n. 90 del 1962, nn. 68, 128 del 1963). Ed ha precisato che soltanto lo Stato può, attraverso la propria legislazione, fornire alla legislazione regionale il presidio della tutela penale (sentenza n. 90 del 1962). Nondimeno la Corte medesima ha avuto diverse occasioni di escludere l’illegittimità di disposizioni legislative, le quali, nel comminare una sanzione penale, si rimettevano, per la specificazione del contenuto di singoli, definiti elementi della fattispecie considerata nel precetto penalmente sanzionato, ad atti non dotati di valore di legge: le più importanti espressioni di tale indirizzo sono rappresentate dalle sentenze n. 36 e n. 96 del 1964, riguardanti, rispettivamente, norme per la repressione dell’uso degli stupefacenti e per la difesa della genuinità degli alimenti. Il caso che ora si presenta all’esame é però – precisa la Corte – alquanto diverso da quelli allora trattati. Nell’art. 10 della legge forestale la potestà normativa attribuita alle Camere di commercio (sottentrate ai Comitati forestali provinciali) non é limitata alla specificazione di singoli, definiti elementi di una fattispecie contemplata in un precetto sanzionato penalmente e contenuto in un atto avente valore di legge. L’anzidetto articolo conferisce infatti all’autorità amministrativa la stessa potestà di dettare “norme di polizia forestale“. Per la repressione delle trasgressioni di queste l’art. 11 la autorizza poi a comminare, nella medesima sede, sanzioni penali. Tralasciando per il momento l’art. 11, il quale ha riguardo alla potestà normativa di determinare la sanzione, é da fermare dapprima l’attenzione sull’art. 10. Questo é la fonte legislativa per il tramite della quale la sanzione penale comminata ai sensi dell’art. 11 viene collegata alla trasgressione delle disposizioni dettate dall’autorità amministrativa. Ma non ritiene la Corte che la formulazione di esso importi violazione del principio di legalità della pena, quale risulta dall’art. 25, secondo comma, della Costituzione. Ai fini della risoluzione della questione in esame non importa prender posizione sul controverso problema se, allorquando una sanzione penale venga collegata da una legge alla trasgressione di una norma emanata da un’autorità amministrativa (o comunque contenuta in un atto non proveniente dal potere legislativo dello Stato), e non destinata semplicemente (come nei casi decisi con le sentenze nn. 36 e 96 del 1964) a specificare il contenuto di singoli definiti elementi della fattispecie penale, il precetto sanzionato penalmente sia da identificare in questa norma o in quella legge. É ferma convinzione della Corte infatti che, qualsiasi possa essere la risposta da dare a tale problema, il principio di legalità della pena non può considerarsi soddisfatto quando non sia una legge (o un atto equiparato) dello Stato – non importa se proprio la medesima legge che prevede la sanzione penale o un’altra legge – a indicare con sufficiente specificazione i presupposti, i caratteri, il contenuto e i limiti dei provvedimenti dell’autorità non legislativa, alla trasgressione dei quali deve seguire la pena. Tanto premesso, si può osservare per la Corte che le “norme di polizia forestale“, che le Camere di commercio sono tenute ad emanare ai sensi dell’art. 10 della legge forestale, trovano delimitato con precisione il proprio, precipuo ambito dall’essere ordinate a garantire l’osservanza delle “prescrizioni di massima” contemplate negli artt. 8 e 9 della legge forestale. E difatti l’art. 19 del regolamento di esecuzione di questa, approvato con R.D. 16 maggio 1926, n. 1126, precisa – senza con ciò aggiungere in proposito qualcosa di sostanzialmente nuovo – che i precetti di quelle norme devono appunto essere diretti a “prevenire il danno” che possa derivare dall’inosservanza delle anzidette “prescrizioni di massima“. Il problema dunque per il Collegio si sposta: occorre vedere se gli artt. 8 e 9 della legge contengono disposizioni specifiche a un punto tale da far considerare sufficientemente delineato e delimitato l’ambito, entro il quale le “prescrizioni di massima” – dalle quali le “norme di polizia” devono prendere le mosse per garantirne l’osservanza – sono ammesse a spaziare. A tal riguardo, per la Corte, il giudizio non può essere che positivo. Occorre innanzi tutto considerare che la funzione del vincolo per scopi idrogeologici é rigorosamente indicata, nell’art. 1 della legge forestale, nella prevenzione del pericolo che i terreni possano, “con danno pubblico, subire denudazioni, perdere la stabilità o turbare il regime delle acque“. Appunto ed espressamente in vista di tale risultato l’art. 8 dispone poi che le “prescrizioni di massima” le quali – all’evidente scopo di assicurarne l’aderenza alle differenti situazioni climatiche, geologiche, culturali, ambientali, sociali – debbono essere emanate dalle Camere di commercio provincia per provincia, impongano “le modalità del governo e dell’utilizzazione dei boschi e del pascolo nei boschi e terreni pascolativi, le modalità della soppressione e utilizzazione dei cespugli aventi funzioni protettive, nonché quelle dei lavori di dissodamento di terreni saldi e della lavorazione del suolo nei terreni a coltura agraria“. A sua volta l’art. 9 aggiunge, in modo addirittura tassativo, che nei terreni vincolati l’esercizio del pascolo deve, “in ogni caso“, essere assoggettato, nelle “prescrizioni di massima“, a talune restrizioni espressamente indicate nell’articolo stesso, il quale consente solo in via di eccezione qualche deroga, “su conforme parere dell’autorità forestale“. É evidente quanto sia circoscritto e specificato, nelle finalità e nel contenuto, l’ambito della potestà normativa rimessa alle “prescrizioni di massima” (potestà fatta poi oggetto – ma ciò non ha molta importanza ai fini delle presenti considerazioni – di ulteriori dettagliate specificazioni nell’art. 19 del ricordato regolamento di esecuzione della legge). Come sono esigenze esclusivamente, o quasi esclusivamente, tecniche a consigliare che la normazione della materia sia decentrata ad autorità locali (il citato art. 19 precisa che le “prescrizioni di massima” possono “essere determinate anche per singole parti di provincia“), del pari sono criteri esclusivamente, o quasi esclusivamente, tecnici quelli che debbono ispirare le Camere di commercio nella emanazione delle “prescrizioni di massima“. La possibilità istituzionale (ex art. 113 della Costituzione) del sindacato giurisdizionale di legittimità su ogni deviazione nell’esercizio della normazione amministrativa – possibilità tanto più estesa, quanto meno elastici sono i limiti stabiliti dalla legge – rende poi ancora più contenuto l’ambito entro cui le “prescrizioni di massima“, e le “norme di polizia forestale” poste al loro servizio, sono ammesse a spaziare. É da escludere pertanto – chiosa ancora la Corte – che possa considerarsi violato, per ciò che attiene al profilo del precetto sanzionato penalmente, il principio, enunciato nell’art. 25 della Costituzione, per cui nessuno può esser punito se non “in forza di una legge”. Nel caso in esame le esigenze di un decentramento, a fini di differenziazione della normazione, sono più che evidenti; i poteri riconosciuti all’autorità amministrativa locale sono tutt’altro che arbitrari, apparendo puntualmente e adeguatamente finalizzati, specificati nel contenuto, e delimitati; l’esercizio di essi é aperto al sindacato giurisdizionale. In siffatte condizioni la Corte ritiene osservata la riserva di legge, nei limiti in cui essa deve considerarsi operante in ordine all’aspetto precettistico delle norme penali. In ordine all’aspetto della determinazione della sanzione penale, ritiene però la Corte medesima che il principio costituzionale della legalità della pena sia da interpretare più rigorosamente, nel senso che esso esige che sia soltanto la legge (o un atto equiparato) dello Stato a stabilire con quale misura debba esser repressa la trasgressione dei precetti che vuole sanzionati penalmente. La dignità e la libertà personali sono, nell’ordinamento costituzionale democratico e unitario che regge il Paese, beni troppo preziosi perché, in mancanza di un in equivoco disposto costituzionale in tali sensi, si possa ammettere che un’autorità amministrativa, e comunque un’autorità non statale, disponga di un qualche potere di scelta in ordine ad essi. Anche l’eguaglianza dei cittadini impone che la possibilità di incidere su tali beni sommi, e le relative modalità, vengano ponderate – sia pure in vista delle differenziazioni eventualmente necessarie – in un’unica sede e in modo unitario. Le leggi dello Stato, se possono, anche con una certa ampiezza, rimettere al giudice la valutazione di situazioni e circostanze, lasciando a lui un adeguato campo di discrezionalità per l’applicazione delle pene nei singoli casi concreti, non possono dunque rimettere ad altre autorità di determinare in via normativa, a propria scelta, se sanzionare o no penalmente certe infrazioni e se sanzionarle in una misura e con certe modalità piuttosto che diversamente. La normazione sulle pene deve essere perciò per la Corte assunta propria ed esclusiva della legislazione statale, la quale non può mai abdicarvi, neppure per aspetti marginali. Alla stregua di tali concetti non può non esser considerato illegittimo l’art. 11 della legge forestale, pel fatto che demanda alle norme locali di polizia forestale emanate dalle Camere di commercio di stabilire a propria scelta (non importa se entro limiti tassativi, indicati con riferimento a un precetto generale altrimenti applicabile) le sanzioni penali da comminare ai trasgressori.
1978
Il 21 marzo viene varato il decreto legge n.59, recante norme penali e processuali per la prevenzione e la repressione di gravi reati, che legifera in materia penale e, più in specie, forgia la nuova figura delittuosa del sequestro di persona a scopo di estorsione, di terrorismo e di eversione; si tratta di una importante fattispecie di incriminazione introdotta per decreto legge, e non già con legge ordinaria.
Il 18 maggio viene varata la legge n.191 che, nel convertire in legge con modificazioni il decreto legge n.59, scinde la figura delittuosa del sequestro di persona a scopo di estorsione, di cui al nuovo art.630 c.p. da quella del sequestro di persona a scopo di terrorismo e di eversione, di cui al nuovo art.289 bis c.p.
1981
L’8 giugno esce la sentenza n.96 che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 603 del codice penale in tema di plagio, per frizione con l’art.25 della Costituzione. Si tratta di una classica sentenza demolitoria in bonam partem, dacché espunge dal sistema una figura criminosa.
1983
Il 3 giugno esce la sentenza della Corte costituzionale n.148 che dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge 3 gennaio 1981, n. 1 in tema di non punibilità dei componenti il CSM per le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni e concernenti l’oggetto della discussione, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 28 e 112 della Costituzione, sollevata dal giudice istruttore del Tribunale di Roma. La Corte rammenta come la propria giurisprudenza possa assumersi ormai consolidata, per ciò che riguarda il principio di legalità, inteso nei termini già fissati dall’art. 1 cod. pen., nel senso onde sono state ripetutamente dichiarate inammissibili (da ultimo, con la sentenza n. 71 del presente anno) le impugnazioni attraverso le quali si richiedeva, in sostanza, che la Corte configurasse nuove norme penali, così determinando conseguenze sfavorevoli per l’imputato. Ma – precisa la Corte – è evidente che il caso in esame non rientra in questo quadro, poiché il giudice istruttore del Tribunale di Roma con l’ordinanza di rimessione non ha ipotizzato alcuna decisione di accoglimento additivo; bensì ha prospettato l’esigenza che il regime penale dei componenti il Consiglio Superiore della Magistratura venga ricondotto nell’ambito delle norme di diritto comune, mediante una pura e semplice dichiarazione d’illegittimità costituzionale dell’intera disposizione impugnata. Si tratta di una pronuncia importante perché ventila dunque la possibile ammissibilità di pronunce in malam partem della Consulta stessa laddove esse si risolvano non già in pronunce di tipo additivo (inammissibili) quanto piuttosto in pronunce di tipo eliminativo orientate ad espungere dal sistema “privilegi” penali ed a ricondurre le pertinenti fattispecie sotto l’egida della norma punitiva generale (valevole per tutti i consociati).
1988
Il 22 marzo esce la sentenza della Cassazione n.3671 alla cui stregua, in tema di furto aggravato dalla esposizione delle cose sottratte alla pubblica fede ex art.625, n.7, c.p., non si è al cospetto di una vera e propria norma consuetudinaria integratrice, avendo inteso il legislatore penale riferirsi piuttosto ad una pratica – di fatto rientrante negli usi e nelle abitudini sociali di un determinato luogo (e, dunque, non generalizzata) – di lasciare certe cose, in determinate circostanze, incustodite.
1989
Il 16 gennaio viene varata la legge costituzionale n.1, recante modifiche degli articoli 96, 134 e 135 della Costituzione e della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, e norme in materia di procedimenti per i reati di cui all’articolo 96 della Costituzione, che – in tema di reati c.d. ministeriali – costituisce un importante esempio di legge costituzionale in materia penale.
1990
Il 14 settembre esce la sentenza della Cassazione n.12389 in tema di rivelazione di segreti di ufficio e consuetudine c.d. integratrice: per la Corte, le norme consuetudinarie sono fonti idonee ad integrare il precetto penale, dovendo assumersi il dovere del segreto cui è tenuto il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio ritraibile dalla legge, dai regolamenti, ma anche dalla consuetudine.
1992
L’8 giugno viene varato il decreto legge n.306, recante modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa, il cui art.11, comma 1, introduce nel codice penale la nuova figura criminosa di false informazioni al PM, di cui all’art.371 bis c.p.
Il 7 agosto viene varata la legge n.356 che converte in legge, con modificazioni, il decreto legge n.306.
1993
Il 2 dicembre esce la sentenza della Cassazione n.11081 alla cui stregua occorre non confondere la c.d. consuetudine abrogatrice (o desuetudine), inammissibile, con la abrogazione tacita, pienamente compatibile con il sistema e che si compendia, ai sensi dell’art.15 delle Preleggi, nella fattispecie di incompatibilità delle nuove disposizioni con le precedenti ovvero nella fattispecie di nuova disciplina di una intera materia ad opera delle nuove disposizioni sopravvenute, che presentino rispetto alle precedenti medesima oggettività giuridica e medesima ratio.
1995
*Il 13 marzo esce la sentenza della Sezione IV della Cassazione n.2477 alla cui stregua, in tema di furto aggravato dalla esposizione delle cose sottratte alla pubblica fede ex art.625, n.7, c.p., non si è al cospetto di una vera e propria norma consuetudinaria integratrice, avendo inteso il legislatore penale riferirsi piuttosto ad una pratica – di fatto rientrante negli usi e nelle abitudini sociali di un determinato luogo (e, dunque, non generalizzata) – di lasciare certe cose, in determinate circostanze, incustodite.
Il 14 aprile esce l’ordinanza della Corte costituzionale n.132 alla cui stregua – atteso il divieto per la Corte costituzionale di produrre in via additiva effetti in malam partem – va esclusa l’ammissibilità di un eventuale intervento della Corte che sia capace di aggravare la pena determinata dal legislatore per un determinato modello di reato, configgendo tale pronuncia con il principio di stretta legalità non solo dei reati, ma anche delle pene.
Il 24 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.362 che dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 30 del d.P.R. 27 marzo 1969, n. 130 (Stato giuridico dei dipendenti degli enti ospedalieri), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 76 della Costituzione, dalla Corte di cassazione. Importante il passaggio della pronuncia onde la delega legislativa di cui all’art. 76 della Costituzione non elimina ogni discrezionalità del legislatore delegato (e dunque del Governo), né esclude la relativa facoltà di valutare le specifiche situazioni da disciplinare, nella fisiologica attività di “riempimento” che lega i due livelli normativi (cfr. sentenze n. 237 e 355 del 1993; n. 4 del 1992; n. 21 del 1988). A maggior ragione – prosegue la Corte – quando la delega abbia una struttura “a maglie larghe“: come è, nella specie, per quella conferita con l’art. 42 numero 2 della legge n. 132 del 1968, che esprime una generica direttiva di allineamento della disciplina sullo stato giuridico dei dipendenti ospedalieri ai “principi del pubblico impiego“, senza ulteriori puntualizzazioni e criteri di dettaglio (cfr. anche sentenze n. 141 del 1993; nn. 250 e 259 del 1991). Viene dunque dalla Corte ammessa la legittimità di una delega capace di lasciare al Governo delegato un più o meno ampio margine di discrezionalità (specie in materie connotate da un certo tecnicismo), circostanza particolarmente pregnante in ambito penale stante la possibile frizione con il principio di riserva di legge.
Il 27 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.411 onde va dichiarata inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 727 del codice penale in tema di maltrattamento di animali, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 10 della Costituzione, dal Pretore di Grosseto. Quest’ultimo, per la Corte, si propone, nel sottoporre alla Corte il dubbio di costituzionalità di pertinenza, di introdurre nell’ordinamento penale una nuova norma diretta ad assoggettare a sanzione penale l’uccisione immotivata dell’animale da parte del proprietario dello stesso animale (che non si limita dunque ad abbandonarlo, ovvero a maltrattarlo, come testualmente prescrive la norma). Tuttavia, chiarisce la Corte, una pronuncia additiva, dalla quale consegua l’inserimento nell’impugnato art. 727 cod. pen. di una norma incriminatrice della condotta posta in essere da colui che provoca la morte di un animale di relativa proprietà, non rientra fra i poteri costituzionalmente spettanti alla Corte medesima, secondo la cui costante giurisprudenza “al giudice costituzionale non è dato di pronunciare una decisione dalla quale possa derivare la creazione – esclusivamente riservata al legislatore – di una nuova fattispecie penale: e ciò in forza del principio di legalità sancito dall’art. 25, secondo comma, della Costituzione” (v., ad esempio, ordinanze n. 25 del 1995 e n. 146 del 1993; sentenze n. 108 del 1981 e n. 42 del 1977). Per tali ragioni, va dichiarata l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 727 cod. pen., nella parte in cui non assoggetta a sanzione penale la condotta di chi uccide l’animale di sua proprietà, la eventuale pronuncia di accoglimento – operativa in malam partem – configgendo con il principio della riserva di legge.
Il 18 ottobre esce la sentenza della Corte costituzionale n.440 che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 724 (bestemmia contro i Simboli o le Persone venerati nella religione dello Stato), primo comma, del codice penale, limitatamente alle parole: (r)o i Simboli o le Persone venerati nella religione dello Stato. Per la Corte la dichiarazione d’incostituzionalità dell’art. 724, primo comma, del codice penale deve essere circoscritta alla sola parte nella quale esso comporta effettivamente una lesione del principio di uguaglianza, siccome denunciata nell’ordinanza di rimessione: la fattispecie dell’art. 724, primo comma, del codice penale – precisa la Corte – è infatti scindibile in 2 parti: una prima, riguardante la bestemmia contro la Divinità, indicata quest’ultima senza ulteriori specificazioni e con un termine astratto ricomprendente sia le espressioni verbali sia i segni rappresentativi della Divinità stessa, il cui contenuto si presta a essere individuato in relazione alle concezioni delle diverse religioni; una seconda, riguardante la bestemmia contro i (soli) Simboli o le (sole) Persone venerati nella religione dello Stato. La bestemmia contro la Divinità, come anche la dottrina e la giurisprudenza hanno talora riconosciuto, a differenza della bestemmia contro i Simboli e le Persone, si può considerare punita indipendentemente dalla riconducibilità della Divinità stessa a questa o a quella religione, sottraendosi così alla censura d’incostituzionalità. Del resto, dal punto di vista puramente testuale, ancorché la formula dell’art. 724 possa indurre alla riconduzione unitaria delle nozioni di Divinità, Simboli e Persone nella tutela penalistica accordata alla sola “religione dello Stato“, è da notarsi che, in senso stretto, il termine “venerati“, impiegato nell’art. 724, è propriamente riferibile ai soli Simboli e Persone. Cosicché, dovendosi ritenere che il legislatore abbia fatto uso preciso e consapevole delle espressioni impiegate, il riferimento alla “religione dello Stato” può valere soltanto per i Simboli e le Persone. La norma impugnata si presta così ad essere divisa in due parti. Una parte – esclusa restando ogni valenza additiva della pronuncia della Corte, di per sé preclusa dalla particolare riserva di legge in materia di reati e di pene – si sottrae alla censura di incostituzionalità, riguardando la bestemmia contro la Divinità in genere e così proteggendo già ora dalle invettive e dalle espressioni oltraggiose tutti i credenti e tutte le fedi religiose, senza distinzioni o discriminazioni, nell’ambito – beninteso – del concetto costituzionale di buon costume (artt. 19 e 21, sesto comma, della Costituzione). L’altra parte della norma dell’art. 724 considera invece la bestemmia contro i Simboli e le Persone con riferimento esclusivo alla religione cattolica, con conseguente violazione del principio di uguaglianza. Per questa parte, delle due possibilità di superamento del vizio rilevato: l’annullamento della norma incostituzionale per difetto di generalità e l’estensione della stessa alle fedi religiose escluse, alla Corte costituzionale è data soltanto la prima, a causa del predetto divieto di decisioni additive in materia penale. La scelta attuale del legislatore di punire la bestemmia, una volta depurata del relativo riferimento ad una sola fede religiosa, non è dunque di per sé in contrasto con i principi costituzionali, tutelando in modo non discriminatorio un bene che è comune a tutte le religioni che caratterizzano oggi la nostra comunità nazionale, nella quale hanno da convivere fedi, culture e tradizioni diverse.
1996
Il 27 febbraio esce la importante sentenza della Corte costituzionale n.52, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 15, comma 17, della legge 10 dicembre 1993, n. 515 (Disciplina delle campagne elettorali per l’elezione alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica) nella parte in cui punisce il fatto previsto dall’art. 7 della legge 24 aprile 1975, n. 130 (Modifiche alla disciplina della propaganda elettorale ed alle norme per la presentazione delle candidature e delle liste dei candidati nonché dei contrassegni nelle elezioni politiche, regionali, provinciali e comunali), ovvero l’uso di altoparlante collocato su automobile per propaganda elettorale, nei 30 giorni antecedenti le elezioni, con la pena dell’arresto fino a sei mesi e dell’ammenda da lire 100.000 a lire 1.000.000 anziché con la sanzione amministrativa pecuniaria da lire 200.000 a lire 2.000.000., atteso che – sottolinea la Corte – la condotta ridetta, penalmente sanzionata, è analoga per rilievo sociale, identità del bene protetto e sanzioni penali a quelle, ormai depenalizzate, affiorandone un palmare contrasto con il principio di ragionevolezza. La Corte per la prima volta procede a sostituire la sanzione penale con una sanzione amministrativa, statuendo dunque in bonam partem. Per la Corte i reati elettorali vengono raggruppati dalla dottrina in tre categorie, nelle quali si fanno rientrare i reati inerenti alle operazioni elettorali, quelli concernenti l’esercizio del diritto di voto e quelli in materia di propaganda elettorale. Non v’è dubbio – chiosa la Corte dopo questa premessa sistematica – che l’ampio (e recente) intervento del legislatore sul versante della decriminalizzazione abbia riguardato – con riferimento alla preesistente materia penale – esclusivamente figure di reati in materia di propaganda elettorale, con un carattere di sistematicità quale si evince anche dai lavori preparatori della legge n. 515 del 1993: in questa legge sono state cancellate tutte le ipotesi di reato, di cui alla legge n. 212 del 1956 (novellata dalla legge n. 130 del 1975); e dall’ambito delle previsioni penali sono state eliminate sia le ipotesi contravvenzionali (artt. 6 e 8, quarto comma) sia quelle delittuose (art. 9 e art. 8, primo comma). La figura contravvenzionale contemplata nell’art. 7 della legge n. 130 del 1975, denunciata nell’ordinanza di rimessione nel caso di specie, è un tassello di un’unica disciplina sanzionatoria di tipo penale, che è omogenea, quanto al bene giuridico protetto, alla previsione delle condotte e delle sanzioni penali ivi stabilite. In particolare, l’art. 7 della citata legge n. 130 sanziona il comportamento di colui che fa uso non consentito degli altoparlanti su mezzi mobili con l’arresto fino a sei mesi e con l’ammenda da 100.000 a 1.000.000 di lire, così aumentate le originarie previsioni di lire 50.000 e lire 500.000, in ragione dell’art. 13, quarto comma, della legge n. 689 del 1981. La previsione penale di cui all’art. 7 rimarrebbe integra in base all’art. 15, comma 17, della legge n. 515 del 1993, mentre per tutti gli altri casi di uso non consentito di propaganda elettorale (stampati, giornali murali, manifesti, mezzi luminosi, striscioni, drappi, volantini) vi è ora, in luogo della reclusione fino a un anno e della multa da lire 100.000 a lire 1.000.000, l’unica sanzione pecuniaria, di natura amministrativa, oscillante da lire 200.000 a lire 2.000.000. In tale contesto di complessiva decriminalizzazione, è rimasta in vigore – per una probabile dimenticanza del legislatore – la previsione della sanzione penale, onde per la Corte non si può intraprendere una iniziativa di decriminalizzazione – che presenta carattere omogeneo nelle previsioni, nel bene tutelato e nelle sanzioni irrogabili – senza completarne in modo coerente le statuizioni, pena l’arbitrarietà di quelle non uniformi. La disposizione denunciata va quindi dichiarata illegittima per contrasto con i principi di ragionevolezza, e di razionalità della legislazione, desumibili dall’art. 3 della Costituzione, con conseguente sostituzione della sanzione penale in sanzione amministrativa.
*Il 29 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.330 che ribadisce – atteso il divieto per la Corte costituzionale di produrre in via additiva effetti in malam partem – la inammissibilità di un eventuale intervento della Corte medesima che sia capace di aggravare la pena determinata dal legislatore per un dato modello di reato, configgendo tale pronuncia con il principio di stretta legalità non solo dei reati, ma anche delle pene.
Il 24 ottobre esce la fondamentale sentenza della Corte costituzionale n.360, in tema di incostituzionalità della reiterazione di decreti legge, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 4, del decreto-legge 6 settembre 1996, n. 462, recante “Disciplina delle attività di recupero dei rifiuti“. Pronunciandosi proprio in un caso in cui i decreti legge via via reiterati hanno previsto sanzioni penali, la Consulta assume la pertinente questione, relativa alla violazione dell’art.77 della Costituzione, come pienamente fondata; essa premette come la norma nel caso di specie impugnata – così come riprodotta nell’art.6, comma 4, del decreto-legge n. 462 del 1996 – abbia formato oggetto di una lunga serie di reiterazioni operate mediante decreti-legge, che trovano il loro punto di partenza nel decreto-legge 7 gennaio 1994, n.12, e che si sono prolungate, attraverso una catena ininterrotta, fino alla data della pronuncia della Corte medesima. L’art. 77, commi 2 e 3, della Costituzione prevede la possibilità per il Governo di adottare, sotto la propria responsabilità, atti con forza di legge (nella forma del decreto-legge) come ipotesi eccezionale, subordinata al rispetto di condizioni precise. Tali atti, qualificati dalla stessa Costituzione come “provvisori“, devono risultare fondati sulla presenza di presupposti “straordinari” di necessità ed urgenza e devono essere presentati, il giorno stesso della loro adozione, alle Camere, ai fini della conversione in legge, conversione che va operata nel termine di sessanta giorni dalla loro pubblicazione. Ove la conversione non avvenga entro tale termine, rammenta la Corte, i decreti-legge perdono la loro efficacia fin dall’inizio, salva la possibilità per le Camere di regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti-legge non convertiti. Si tratta di una disciplina che, nella relativa, limpida formulazione, non offre alternative al carattere necessariamente provvisorio della decretazione d’urgenza: o le Camere convertono il decreto in legge entro 60 giorni o esso perde retroattivamente la propria efficacia, senza che il Governo abbia la possibilità di invocare proroghe o il Parlamento di provvedere ad una conversione tardiva. La disciplina costituzionale – chiosa ancora la Corte – viene pertanto a qualificare il termine dei sessanta giorni fissato per la vigenza della decretazione d’urgenza come un limite insuperabile, che – proprio ai fini del rispetto del criterio di attribuzione della competenza legislativa ordinaria alle Camere – non può essere ne’ violato ne’ indirettamente aggirato. Ora, il decreto-legge iterato o reiterato – per il fatto di riprodurre (nel relativo complesso o in singole disposizioni) il contenuto di un decreto-legge non convertito, senza introdurre variazioni sostanziali – lede la previsione costituzionale sotto più profili: perché altera la natura provvisoria della decretazione d’urgenza procrastinando, di fatto, il termine invalicabile previsto dalla Costituzione per la conversione in legge; perché toglie valore al carattere “straordinario” dei requisiti della necessità e dell’urgenza, dal momento che la reiterazione viene a stabilizzare e a prolungare nel tempo il richiamo ai motivi già posti a fondamento del primo decreto; perché attenua la sanzione della perdita retroattiva di efficacia del decreto non convertito, venendo il ricorso ripetuto alla reiterazione a suscitare nell’ordinamento un’aspettativa circa la possibilità di consolidare gli effetti determinati dalla decretazione d’urgenza mediante la sanatoria finale della disciplina reiterata. Su di un piano più generale, osserva ancora la Corte, la prassi della reiterazione, tanto più se diffusa e prolungata nel tempo – come e’ accaduto nella esperienza più recente – viene, di conseguenza, a incidere negli equilibri istituzionali (v. sentenza n. 302 del 1988), alterando i caratteri della stessa forma di governo e l’attribuzione della funzione legislativa ordinaria al Parlamento (art. 70 della Costituzione). Non solo: questa prassi, osserva la Corte, se diffusa e prolungata, finisce per intaccare anche la certezza del diritto nei rapporti tra i diversi soggetti, per l’impossibilità di prevedere sia la durata nel tempo delle norme reiterate che l’esito finale del processo di conversione: con conseguenze ancora più gravi quando il decreto reiterato venga a incidere nella sfera dei diritti fondamentali o – come nella specie – nella materia penale o sia, comunque, tale da produrre effetti non più reversibili nel caso di una mancata conversione finale (v. sentenza n. 161 del 1995;ordinanza n. 197 del 1996). Il divieto di iterazione e di reiterazione, implicito nel disegno costituzionale, esclude quindi per la Corte che il Governo, in caso di mancata conversione di un decreto- legge, possa riprodurre, con un nuovo decreto, il contenuto normativo dell’intero testo o di singole disposizioni del decreto non convertito, ove il nuovo decreto non risulti fondato su autonomi (e, pur sempre, straordinari) motivi di necessità ed urgenza, motivi che, in ogni caso, non potranno essere ricondotti al solo fatto del ritardo conseguente dalla mancata conversione del precedente decreto. Se e’ vero, infatti, che, in caso di mancata conversione, il Governo non risulta spogliato del potere di intervenire nella stessa materia con lo strumento della decretazione d’urgenza, e’ anche vero che, in questo caso, l’intervento governativo – per poter rispettare i limiti della straordinarietà e della provvisorietà segnati dall’art. 77 – non potrà porsi in un rapporto di continuità sostanziale con il decreto non convertito (come accade con l’iterazione e con la reiterazione), ma dovrà, in ogni caso, risultare caratterizzato da contenuti normativi sostanzialmente diversi ovvero da presupposti giustificativi nuovi di natura “straordinaria“. I principi richiamati conducono allora la Corte ad affermare l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 77 della Costituzione, dei decreti-legge iterati o reiterati, quando tali decreti, considerati nel loro complesso o in singole disposizioni, abbiano sostanzialmente riprodotto, in assenza di nuovi (e sopravvenuti) presupposti straordinari di necessità ed urgenza, il contenuto normativo di un decreto-legge che abbia perso efficacia a seguito della mancata conversione, restando peraltro salvi gli effetti dei decreti- legge iterati o reiterati già convertiti in legge o la cui conversione risulti attualmente in corso, ove la stessa intervenga nel termine fissato dalla Costituzione, a tal proposito andando infatti considerato che il vizio di costituzionalità derivante dall’iterazione o dalla reiterazione attiene, in senso lato, al procedimento di formazione del decreto-legge in quanto provvedimento provvisorio fondato su presupposti straordinari di necessità ed urgenza: la conseguenza e’ che tale vizio può ritenersi sanato quando le Camere, attraverso la legge di conversione (o di sanatoria), abbiano assunto come propri i contenuti o gli effetti della disciplina adottata dal Governo in sede di decretazione d’urgenza. Da quanto precede la Corte fa discendere l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 4, del decreto-legge 6 settembre 1996, n. 462, che ha reiterato, con contenuto immutato ed in assenza di nuovi presupposti di necessità ed urgenza, la disposizione espressa nell’art. 12, comma 4, dei decreti-legge impugnati, restando assorbita la censura relativa alla violazione dell’art. 24 della Costituzione. La Corte medesima, nell’adottare la pronuncia de qua, si dichiara peraltro consapevole delle difficoltà di ordine pratico che dalla stessa, nei tempi brevi, potranno derivare sul piano dell’assetto delle fonti normative, stante l’ampiezza assunta dal fenomeno della reiterazione nel corso delle ultime legislature; difficoltà, ancorché ben presenti, che non sono, peraltro, tali da poter giustificare il protrarsi di una prassi che e’ andata sempre più degenerando e che ha condotto ad oscurare principi costituzionali di rilevanza primaria quali quelli enunciati nell’art. 77 della Costituzione, principi la cui violazione o elusione e’ suscettibile di incidere non soltanto sul corretto svolgimento dei processi di produzione normativa, ma anche sugli equilibri fondamentali della forma di governo, su questo piano la Corte non potendo fare altro che segnalare al Parlamento ed al Governo l’opportunità di intervenire sulle cause che hanno condotto, negli ultimi anni, a dilatare il ricorso alla reiterazione, cause che – anche al di fuori della prospettiva di una riforma dell’art. 77 della Costituzione – potrebbero, sin da ora, essere contenute e rimosse, mediante il più rigoroso rispetto da parte del Governo dei requisiti della necessità e dell’urgenza e attraverso le opportune iniziative che il Parlamento, nell’ambito delle proprie competenze, potrà, a propria volta, adottare.
Il 2 novembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.370, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art.708 del codice penale (e dichiara, altresì non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 707 del codice penale, sollevate, in relazione agli artt. 3, 25 e 27 della Costituzione, dal Tribunale per i minorenni dell’Aquila, e agli artt. 3, primo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Pretore di Milano). Si tratta di una pronuncia che costituisce il prototipo delle sentenze della Consulta demolitorie in bonam partem, in quanto espunge dall’ordinamento una figura criminosa, vale a dire quella che punisce il possesso ingiustificato di valori, per contrasto con i principi di uguaglianza e di necessaria offensività del reato.
Il 27 dicembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.416, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 384, comma 2, del codice penale, nella parte in cui non prevede l’esclusione della punibilità per false o reticenti informazioni assunte dalla polizia giudiziaria, fornite da chi avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi dal renderle, a norma dell’art. 199 del codice di procedura penale (non punibilità, nei casi analoghi, prevista invece per l’ipotesi di false informazioni al PM ex art.371 bis c.p. o di falsa testimonianza al Giudice ex art.372 c.p.). La sentenza produce effetti in bonam partem laddove estende l’ambito di operatività di una causa di esclusione della punibilità, ed è dunque un caso (normalmente raro) di pronuncia con effetti in bonam partem quantunque interventa su disposizione penale (già) di favore.
1998
Il 28 dicembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.447 che dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 323 del codice penale (abuso d’ufficio), come sostituito dall’art. 1 della legge 16 luglio 1997, n. 234 (Modifica dell’art. 323 del codice penale, in materia di abuso d’ufficio, e degli artt. 289, 416, 555 del codice di procedura penale), sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 97 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Bolzano e dal Tribunale di Firenze; dichiara altresì la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 323 del codice penale (Abuso d’ufficio), come sostituito dall’art. 1 della predetta legge n. 234 del 1997, sollevata, in riferimento all’art. 79 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Bolzano. La Corte rammenta come sia principio essenziale in campo penale, e garanzia fondamentale per la persona, che non si possa addebitare a titolo di reato alcuna condotta diversa ed ulteriore rispetto a quelle in tal senso esplicitamente qualificate da una legge in vigore al momento della commissione del fatto (art. 25, secondo comma, della Costituzione). Solo il legislatore dunque, in virtù del principio della riserva di legge, può, nel rispetto dei principi della Costituzione, individuare i beni da tutelare mediante la sanzione penale, e le condotte, lesive di tali beni, da assoggettare a pena, nonchè stabilire qualità e quantità delle relative pene edittali. E’ il principio nullum crimen, nulla poena sine lege, a cui si riconducono sia la riserva di legge vigente in materia penale, sia il principio di determinatezza delle fattispecie penali (non potendosi lasciare che la individuazione della condotta incriminata dipenda da valutazioni discrezionali del giudice, e quindi non sia prevedibile da parte del destinatario della legge penale: cfr. sentenza n. 364 del 1988), sia il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici. Al di fuori dei confini delle fattispecie di reato, come definiti dalla legge, riprende vigore il generale divieto di incriminazione, anche là dove siano configurabili altre ipotesi di illecito e di responsabilità non sanzionate penalmente. Discende da ciò – secondo quanto costantemente affermato nella giurisprudenza della Corte (cfr., tra le molte, sentenze n. 226 del 1983, n. 49 del 1985, n. 411 del 1995; ordinanze n. 288 del 1996, n. 355 del 1997) – che l’eventuale addebito al legislatore di avere omesso di sanzionare penalmente determinate condotte, in ipotesi socialmente riprovevoli o dannose, o anche illecite sotto altro profilo, ovvero di avere troppo restrittivamente definito le fattispecie incriminatrici, lasciandone fuori condotte siffatte, non può, in linea di principio, tradursi in una censura di legittimità costituzionale della legge, e tanto meno in una richiesta di “addizione” alla medesima mediante una pronuncia della Corte. Nè vale per la Consulta invocare, in contrario, l’ipotetico pregiudizio che potrebbe discendere a beni costituzionalmente tutelati, quali, nella specie, l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione (peraltro evocati dall’art. 97 della Costituzione in relazione alla organizzazione dei pubblici uffici): le esigenze costituzionali di tutela non si esauriscono infatti nella (eventuale) tutela penale, ben potendo invece essere soddisfatte con diverse forme di precetti e di sanzioni (cfr. sentenza n. 317 del 1996); chè anzi l’incriminazione costituisce una extrema ratio (cfr. sentenze n. 487 del 1989, n. 282 del 1990, n. 317 del 1996), cui il legislatore ricorre quando, nel relativo, discrezionale apprezzamento, lo ritenga necessario per l’assenza o la insufficienza o la inadeguatezza di altri mezzi di tutela. Per gli stessi motivi, non può, in linea di principio, tradursi in una questione di legittimità costituzionale della norma incriminatrice il rilievo che altre condotte, diverse da quelle individuate come fatti di reato dal legislatore, avrebbero dovuto essere a loro volta incriminate per ragioni di parità di trattamento di situazioni omogenee, o in nome di esigenze di ragionevolezza o di armonia dell’ordinamento. La mancanza o comunque il difetto della base legale – costituzionalmente necessaria – dell’incriminazione, cioé della scelta legislativa di considerare certe condotte come penalmente perseguibili, preclude per la Corte in via radicale la possibilità di prospettare una estensione ad esse delle fattispecie incriminatrici attraverso una pronuncia di illegittimità costituzionale, giacché il tutto si risolverebbe in una sentenza di tipo additivo capace di incidere in modo manipolativo sul testo siccome scolpito dal legislatore, del quale verrebbe invaso il campo a lui costituzionalmente riservato.
1999
Il 19 febbraio esce la sentenza della Sezione … della Cassazione n.2176 che si pronuncia in tema di esercizio abusivo della professione. Per la Corte, la fattispecie prevista dall’art.348 c.p. ha rappresentato una innovazione rispetto al codice previgente, facendo luogo ad una disciplina dell’intera materia già disciplinata anteriormente e, dunque, ad una abrogazione tacita della medesima.
Il 30 marzo esce la sentenza della Corte costituzionale n.101, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 376, primo comma, del codice penale nella parte in cui non prevede la ritrattazione come causa di non punibilità per chi, richiesto dalla polizia giudiziaria, delegata dal pubblico ministero a norma dell’art. 370 del codice di procedura penale, di fornire informazioni ai fini delle indagini, abbia reso dichiarazioni false ovvero in tutto o in parte reticenti. Per la Corte – che interviene con sentenza in bonam partem giusta ampliamento di una ipotesi di non punibilità, la c.d. ritrattazione – è illegittimo non prevedere la ridetta ritrattazione (già prevista per i reati di cui agli articoli 371 bis, 372 e 373 c.p.) anche per il favoreggiamento personale realizzato giusta false o reticenti dichiarazioni rese in sede di informazioni di P.G. su delega del P.M.ex art.370 c.p.p.
Il 25 giugno viene varata la legge n.205, che delega il Governo a depenalizzare taluni reati minori e ad apportare modifiche al sistema penale e tributario; rilevante in particolare l’art.9, che delega il Governo ad emanare, entro 8 mesi dalla relativa data di entrata in vigore, un decreto legislativo recante la nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, procedendo all’abrogazione del titolo I del decreto-legge 10 luglio 1982, n. 429, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1982, n. 516 (c.d. “manette agli evasori”), e delle altre norme vigenti incompatibili con la nuova disciplina.
2000
Il 3 marzo esce la sentenza della Cassazione n.2692, alla cui stregua, con riguardo alla legittima difesa di cui all’art.52 c.p., occorre che l’altrui offesa ingiusta esponga a pericolo o leda un “diritto” vero e proprio, non già semplici situazioni di fatto dalle quali ciascun cittadino può trarre determinati vantaggi o utilità soggettive nella estrinsecazione della propria attività economico-sociale. La Corte, nella sostanza, tende ad escludere la valenza integratrice della consuetudine quale possibile fonte del diritto minacciato nella legittima difesa.
Il 10 marzo viene varato il decreto legislativo n.74, recante nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205. Di rilievo in particolare l’art.6, onde i delitti previsti dai precedenti articoli 2 (dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti), 3 (dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici) e 4 (dichiarazione infedele) non sono comunque punibili a titolo di tentativo.
Il 5 settembre esce la sentenza della Cassazione n.9443 che ammette la operatività della consuetudine integratrice (peraltro, con funzione incriminatrice) in tema di peculato. Nella fattispecie, la Corte si trova a giudicare un aiutante ufficiale giudiziario che si è appropriato di somme di denaro delle quali ha avuto il possesso in ragione dello svolgimento, per prassi abituale, di mansioni dell’ufficiale giudiziario; per il Collegio la “ragione dell’ufficio” che giustifica il possesso va intesa in senso lato e dunque può derivare anche da prassi o consuetudini.
Il 29 settembre viene varata la legge n.300, recante tra l’altro delega al Governo per la disciplina della responsabilita’ amministrativa delle persone giuridiche e degli enti privi di personalità giuridica, secondo il cui art.11 il Governo della Repubblica e’ delegato ad emanare, entro 8 mesi dalla data di entrata in vigore della legge stessa, un decreto legislativo avente ad oggetto la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e delle società, associazioni od enti privi di personalità giuridica che non svolgono funzioni di rilievo costituzionale.
Il 20 novembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.508, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 402 del codice penale (vilipendio della religione dello Stato) e ribadisce come sebbene, in generale, il ripristino dell’uguaglianza violata possa avvenire non solo eliminando del tutto la norma che determina quella violazione ma anche estendendone la portata per ricomprendervi i casi discriminati, e sebbene il principio di laicità non implichi indifferenza e astensione dello Stato dinanzi alle religioni ma legittimi interventi legislativi a protezione della libertà di religione (sentenza n. 203 del 1989), in sede di controllo di costituzionalità di norme penali si dà solo la prima possibilità (ablativa). Alla seconda (additiva) osta infatti comunque la particolare riserva di legge stabilita dalla Costituzione in materia di reati e pene (art. 25, secondo comma) a cui consegue l’esclusione delle sentenze d’incostituzionalità aventi valenze additive, secondo l’orientamento della Corte (v., in analoga materia, la sentenza n. 440 del 1995). La dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 402 del codice penale si impone dunque nella forma semplice, esclusivamente ablativa (“nessuno viene punito”), palesandosi illegittima quella additiva (“viene punito anche”)..
2001
L’8 giugno viene varato il decreto legislativo n.231, recante disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300.
Il 25 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.287, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 29, comma 5, della legge 25 marzo 1993, n. 81 (elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale) nella parte in cui punisce il fatto previsto dal comma 3 con la multa da lire un milione a lire cinquanta milioni, anzicé con la sanzione amministrativa pecuniaria da lire un milione a lire cinquanta milioni. Si tratta di un classico esempio di pronuncia della Corte in bonam partem “sostitutiva”, il cui effetto è quello di sostituire la sanzione penale con una sanzione di tipo amministrativo prevista dal legislatore per casi omogenei. Più in specie, con riguardo alle campagne elettorali per le elezioni amministrative, la mancata indicazione del committente responsabile sulle pubblicazioni di propaganda elettorale viene punita con una sanzione penale molto più severa rispetto a quella inflitta in occasione della campagna elettorale per le elezioni politiche, circostanza che appare tanto più irrazionale ed ingiustificata al cospetto di una disciplina sostanzialmente unitaria della materia, oltre che in un quadro complessivo di intervenuta depenalizzazione degli illeciti in materia di propaganda elettorale, siccome disposta per ogni tipo di competizione elettorale dalla legge 515 del 1993.
Il 3 ottobre viene varata la legge n.366, recante delega al Governo per la riforma del diritto societario.
Il 18 ottobre viene varata la legge costituzionale n.3 che, col dare la stura alla riforma del titolo V della Carta, novella l’art.117 Cost., il cui nuovo comma 2, alla lettera l), affida alla legislazione esclusiva dello Stato, tra gli altri, l’ordinamento penale.
2002
L’11 aprile viene varato il decreto legislativo n.61, recante disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali, a norma dell’articolo 11 della legge 3 ottobre 2001, n. 366. Particolarmente importante la riformulazione, operata con decreto legislativo, dei delitti in materia societaria previsti dal codice civile, con precipuo riguardo al c.d. falso in bilancio di cui all’art.2621 c.c.
Il 9 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.327, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 405 del codice penale, nella parte in cui, per i fatti di turbamento di funzioni religiose del culto cattolico, prevede pene più gravi, anziché le pene diminuite stabilite dall’articolo 406 del codice penale per gli stessi fatti commessi contro gli altri culti. Si tratta di una pronuncia della Corte che è esemplare in termini di operatività in bonam partem sul crinale della mitigazione del trattamento sanzionatorio originariamente previsto dal legislatore (nel caso di specie, in frizione con il principio di laicità dello Stato di cui agli articoli 3 e 8 della Costituzione). Per la Corte sebbene, in generale, il ripristino dell’uguaglianza violata possa avvenire non solo eliminando del tutto la norma che determina quella violazione ma anche estendendone la portata per ricomprendervi i casi discriminati, e sebbene il principio di laicità non implichi indifferenza e astensione dello Stato dinanzi alle religioni ma legittimi interventi legislativi a protezione della libertà di religione (sentenza n. 203 del 1989), in sede di controllo di costituzionalità di norme penali si dà solo la prima possibilità (eliminazione della norma incostituzionale). Alla seconda (estensione della norma per ricomprendervi i casi discriminati) osta infatti comunque – precisa la Corte – la particolare riserva di legge stabilita dalla Costituzione in materia di reati e pene (art. 25, secondo comma) a cui consegue l’esclusione delle sentenze d’incostituzionalità aventi valenze additive, secondo l’orientamento di questa Corte (v., in analoga materia, la sentenza n. 440 del 1995).
Il 17 luglio esce la sentenza n.354, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 688, secondo comma, del codice penale, in tema di ubriachezza aggravata se il colpevole ha già riportato una condanna per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale, che è sentenza demolitoria in bonam partem laddove espunge dall’ordinamento una fattispecie connotata da un determinato trattamento sanzionatorio.
2003
Il 24 aprile esce l’ordinanza della Corte costituzionale n.134, che dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera c, della legge 24 aprile 1998, n. 128 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dalla appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – Legge comunitaria 1995-1997) (recte: dell’art. 3, comma 1, lettera c, della legge 6 febbraio 1996, n. 52, recante “Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – Legge comunitaria 1994“), e dell’art. 13 del d.lgs. 16 luglio 1998, n. 285 (Attuazione di direttive comunitarie in materia di classificazione, imballaggio ed etichettatura dei preparati pericolosi, a norma dell’articolo 38 della legge 24 aprile 1998, n. 128), sollevata, in riferimento agli articoli 25, secondo comma, e 76 della Costituzione, dal Tribunale di Venezia. Stando a quanto afferma il Collegio per quanto qui di interesse, non vanno confusi i requisiti di determinatezza che deve possedere la norma incriminatrice, allorquando delinea la fattispecie di reato, per essere conforme all’art. 25 della Costituzione, al fine di garantire ai destinatari la preventiva conoscenza di quali siano le condotte punite, con la sufficiente determinazione dei principi e dei criteri direttivi che deve rinvenirsi nelle leggi di delegazione per poterle ritenere conformi all’art. 76 della Costituzione. Nel caso di specie, in concreto la norma incriminatrice contenuta nell’art. 13 del d.lgs. n. 285 del 1998 determina in modo preciso le condotte sanzionate penalmente, e dunque non contrasta con le esigenze che discendono dal principio costituzionale di legalità in materia di reati e di pene; una volta ammesso, come la giurisprudenza della Corte ha sempre ammesso (cfr. sentenze n. 26 del 1966; n. 113 del 1972; n. 282 del 1990), il ricorso alla delegazione legislativa per l’introduzione di nuove norme penali, sulla base della equiparazione fra legge ed atti aventi forza di legge ai fini del rispetto della riserva di legge di cui all’art. 25 della Costituzione – dall’art. 76 della Costituzione discendono, da una parte, il vincolo della legge delegata ai criteri direttivi della delega nonché, dall’altra parte, l’obbligo, a carico del legislatore delegante, di definire l’oggetto della delega e di indicarne i principi e criteri direttivi, senza lasciare il Governo delegato libero di effettuare qualsiasi scelta, ma anche senza doverne vincolare tutte le scelte concrete, restando invece affidate queste ultime, nei limiti dei criteri direttivi, proprio al delegato. Il livello di specificazione dei principi e criteri direttivi – chiosa la Corte – può in concreto essere diverso da caso a caso, anche in relazione alle caratteristiche della materia e della disciplina su cui la legge delegata incide, ma, in ogni modo, esso non ha a che vedere con le esigenze di determinatezza della norma incriminatrice, nella specie soddisfatte dalla formulazione del decreto legislativo. Il criterio di delega rilevante nel caso di specie, espresso con formule più volte adottate dal legislatore nel delegare il Governo a dettare norme di attuazione delle direttive comunitarie, non può dirsi tale da non rispondere ai requisiti minimi dell’art. 76 della Costituzione, ancorché, per la grande varietà degli oggetti della delega, concernente l’attuazione di direttive afferenti alle più diverse materie, tali formule rischino di risultare di non facile interpretazione: donde l’invito, rivolto dalla medesima Corte al legislatore (cfr. sentenze n. 53 del 1997 e n. 49 del 1999), in relazione a disposizioni di delega di siffatto tenore, affinché impieghi formule più precise. In ogni caso, la legge di delega considerata delimitava per la Corte sufficientemente l’ambito delle scelte del Governo nell’impiego dello strumento penale, sia definendo la specie e l’entità massima delle pene, sia dettando il criterio, in sé restrittivo, del ricorso alla sanzione penale solo per la tutela di interessi particolarmente rilevanti, analoghi a quelli che avevano indotto il legislatore, con gli articoli 34 e 35 della legge n. 689 del 1981, ad escludere determinate fattispecie dalla depenalizzazione (fattispecie che il legislatore del 1981 aveva individuato bensì avendo riguardo ad una pluralità di testi legislativi, fra cui il codice penale, ma pur sempre con riferimento circoscritto alle ipotesi – astrattamente riconducibili all’oggetto della disposta depenalizzazione – per le quali nella legislazione preesistente erano previste solo pene pecuniarie). Si tratta di una pronuncia della Consulta che non manca di far sollevare critiche alla dottrina più garantista, secondo la quale la Corte liquiderebbe in modo troppo sbrigativo la legittimazione del Governo delegato a legiferare in materia penale sulla scorta della formale parificazione tra legge ed atto avente forza di legge; peraltro tale atteggiamento appare alla richiamata dottrina particolarmente rischioso laddove non pone un qualche freno alla prassi del Parlamento delegante di forgiare deleghe ampie e talvolta generiche al Governo delegato, trincerandosi dietro la sufficiente determinatezza (talvolta più teorica che pratica) dei dettati principi e criteri direttivi, con ripercussioni vieppiù gravi in materia penale laddove il legislatore delegato (Governo) è tenuto, in sede di esercizio della delega, a forgiare fattispecie incriminatrici che devono esse stesse presentarsi come sufficientemente determinate e “tassative”, in attuazione tuttavia di una delega “genericamente” conferita dal Parlamento, che è il detentore sovrano del potere legiferante massime, appunto, in ambito penale.
2006
Il 24 febbraio viene varata la legge n.85, il cui art.14 aggiunge nel codice penale, dopo il secondo, un nuovo comma alla cui stregua se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’articolo 135.
Il 23 novembre esce la importante sentenza della Corte costituzionale n.394, che – in materia elettorale – dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 100, terzo comma, del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione della Camera dei deputati), come sostituito dall’art. 1, comma 1, lettera a), della legge 2 marzo 2004, n. 61 (Norme in materia di reati elettorali); dichiara altresì l’illegittimità costituzionale dell’art. 90, terzo comma, del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570 (Testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali), come sostituito dall’art. 1, comma 2, lettera a), numero 1), della citata legge n. 61 del 2004; dichiara, infine la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 90 del citato d.P.R. n. 570 del 1960 e dell’art. 1, comma 2, lettera a), numero 1), secondo capoverso, della medesima legge n. 61 del 2004, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Pescara e dal Tribunale di Roma. La pronuncia è importante perché – riprendendo un precedente del lontano 1983 – afferma che non sempre le decisioni della Corte costituzionale in malam partem (e dunque con effetti sfavorevoli per il reo) possono assumersi confliggenti con il principio della riserva di legge. Per la Corte, gli effetti in malam partem divengono, in concreto, ammissibili laddove la Corte non si sostituisca al Parlamento nelle scelte di politica criminale, ma si limiti a colmare lacune ordinamentali che siano il precipitato di una determinata verifica di incostituzionalità. Può accadere infatti che la declaratoria di incostituzionalità, lungi dall’essere di tipo additivo, coinvolga nondimeno norme penali di favore per il reo, massime quando si tratta di disposizioni che – per determinati soggetti o per determinate fattispecie – fissino un trattamento di favore rispetto a quanto accade alla generalità dei consociati: in questi casi infatti l’effetto in malam partem che ne è scaturigine non è conseguenza della introduzione di nuove norme o della manipolazione di norme esistenti, la Corte limitandosi piuttosto a rimuovere una disposizione giudicata lesiva dei parametri costituzionali, facendo operare (giusta eliminazione della pertinente eccezione o privilegio) una riespansione dei principi fissati dallo stesso legislatore attraverso la norma generale, che riprende operatività anche con riguardo a fattispecie ad essa prima sottratte. In sostanza, per la Corte si tratta di scongiurare la creazione nell’ordinamento di “zone franche” sottratte al controllo di costituzionalità, nel cui ambito il legislatore si trovi – col configurare dei sostanziali privilegi sul piano penale – del tutto svincolato dalla cornice costituzionale di cui alla materia che procede a normare. Per la Corte, qualora alla preclusione dello scrutinio di costituzionalità in malam partem fosse attribuito carattere assoluto, si determinerebbe, in effetti, una situazione palesemente incongrua: venendosi a riconoscere, in sostanza, che il legislatore è tenuto a rispettare i precetti costituzionali se effettua scelte di aggravamento del trattamento penale, mentre può violarli senza conseguenze, quando dalle sue opzioni derivi un trattamento più favorevole. In accordo con l’esigenza evidenziata, prosegue la Corte, va osservato che il principio di legalità impedisce certamente alla Corte di configurare nuove norme penali; ma non le preclude decisioni ablative di norme che sottraggano determinati gruppi di soggetti o di condotte alla sfera applicativa di una norma comune o comunque più generale, accordando loro un trattamento più benevolo (sentenza n. 148 del 1983): e ciò a prescindere dall’istituto o dal mezzo tecnico tramite il quale tale trattamento di favore si realizza (previsione di una scriminante, di una causa di non punibilità, di una causa di estinzione del reato o della pena, di una circostanza attenuante o di una figura autonoma di reato punita in modo più mite). In simili frangenti, difatti, la riserva al legislatore sulle scelte di criminalizzazione resta salva: l’effetto in malam partem non discende dall’introduzione di nuove norme o dalla manipolazione di norme esistenti da parte della Corte, la quale si limita a rimuovere la disposizione giudicata lesiva dei parametri costituzionali; esso rappresenta, piuttosto, una conseguenza dell’automatica riespansione della norma generale o comune, dettata dallo stesso legislatore, al caso già oggetto di una incostituzionale disciplina derogatoria, riespansione che costituisce una reazione naturale dell’ordinamento – conseguente alla relativa unitarietà – alla scomparsa della norma incostituzionale: reazione che si verificherebbe in ugual modo anche qualora la fattispecie derogatoria rimossa fosse più grave; nel qual caso a riespandersi sarebbe la norma penale generale meno grave, senza che in siffatto fenomeno possa ravvisarsi alcun intervento creativo o additivo della Corte in materia punitiva. Nasce tuttavia in queste ipotesi un problema diverso, riannodabile ai principi in tema di successione di leggi penali nel tempo: chi ha commesso il fatto nel vigore della disciplina di favore poi dichiarata incostituzionale rischia infatti di vedersi applicata, in via retroattiva, la disciplina comune più sfavorevole medio tempore tornata operativa proprio in forza dell’intervento demolitorio della Consulta. Per la Corte peraltro – ferma restando l’assoluta intangibilità del principio in forza del quale nessun soggetto potrebbe essere condannato, o condannato a pena più severa, per un fatto che, nel momento in cui è stato commesso, non costituiva per legge reato, o costituiva un reato meno grave (sentenza n. 161 del 2004) – va osservato che anche le pronunce concernenti la legittimità delle norme penali di favore potrebbero comunque influire sull’esercizio della funzione giurisdizionale, sotto un triplice profilo: in primo luogo, incidendo sulle formule di proscioglimento o, quanto meno, sui dispositivi delle sentenze penali, i quali dovrebbero (in questi casi) imperniarsi sul primo comma dell’art. 2 cod. pen., anziché sulla disposizione annullata; in secondo luogo, perché anche le norme penali di favore fanno parte del sistema, e lo stabilire in qual modo il sistema potrebbe reagire al loro annullamento è problema che i singoli giudici di merito debbono affrontare caso per caso; in terzo luogo e da ultimo, perché non può escludersi che il giudizio della Corte sulla norma penale di favore si concluda con una sentenza interpretativa di rigetto (nei sensi di cui in motivazione) o con una pronuncia correttiva delle premesse esegetiche su cui si fonda l’ordinanza di rimessione: donde una serie di decisioni suscettibili di influire sugli esiti del giudizio penale pendente (sentenze n. 25 del 1994; n. 167 e n. 194 del 1993; n. 124 del 1990; 148 del 1983). In sostanza, per la Corte viene rimesso in questi casi al giudice del merito decidere come procedere nei confronti del soggetto sottoposto a processo che abbia commesso il fatto nel tempo in cui esso non era penalmente sanzionabile e lo è divenuto solo a seguito della successiva sentenza demolitoria della Corte costituzionale. Problema opposto si pone per chi abbia commesso il fatto ancora sotto l’usbergo della legge generale più sfavevole, giacché in tal caso l’intervento demolitorio della Corte costituzionale finisce con l’impedire la retroattività della norma (ormai espunta) di privilegio più favorevole. Su questo diverso crinale, la Consulta chiarisce in primis che il principio di retroattività della lex mitior ha una valenza ben diversa rispetto al principio di irretroattività della norma penale sfavorevole: quest’ultimo si pone infatti come essenziale strumento di garanzia del cittadino contro gli arbitri del legislatore, espressivo dell’esigenza della “calcolabilità” delle conseguenze giuridico-penali della propria condotta, quale condizione necessaria per la libera autodeterminazione individuale; ciò avuto riguardo anche al fondamentale principio di colpevolezza ed alla funzione preventiva della pena, desumibili dall’art. 27 Cost., ognuno dei consociati dovendo essere posto in grado di adeguarsi liberamente o meno alla legge penale, conoscendo in anticipo – sulla base dell’affidamento nell’ordinamento legale in vigore al momento del fatto – quali conseguenze afflittive potranno scaturire dalla propria decisione (al riguardo, v. sentenza n. 364 del 1988): aspettativa che sarebbe, per contro, manifestamente frustrata qualora il legislatore potesse sottoporre a sanzione criminale un fatto che all’epoca della relativa commissione non costituiva reato, o era punito meno severamente. In questa prospettiva è dunque incontroverso – prosegue la Corte – che il principio de quo trovi diretto riconoscimento nell’art. 25, secondo comma, Cost. in tutte le relative espressioni: e, cioè, non soltanto con riferimento all’ipotesi della nuova incriminazione, sulla quale pure la formula costituzionale risulta all’apparenza calibrata; ma anche con riferimento a quella della modifica peggiorativa del trattamento sanzionatorio di un fatto già in precedenza penalmente represso. In questi termini, il principio in parola si connota, altresì, come valore assoluto, non suscettibile di bilanciamento con altri valori costituzionali: la circostanza che una determinata norma, di rilievo penalistico, sia contraria a Costituzione, non può comunque comportare – come conseguenza della relativa rimozione da parte della Corte – l’assoggettamento a pena, o a pena più severa, di un fatto che all’epoca della commissione risultava, in base alla norma rimossa, penalmente lecito o soggetto a pena più mite: derivandone, per tale aspetto, un limite al principio della privazione di efficacia della norma dichiarata costituzionalmente illegittima, enunciato dall’art. 136, primo comma, Cost. e dall’art. 30, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale) (sentenza n. 148 del 1983). Diverso invece il discorso con riguardo al principio di retroattività della norma più favorevole, che non ha alcun collegamento con la libertà di autodeterminazione individuale, per l’ovvia ragione che, nel caso considerato, la lex mitior sopravviene alla commissione del fatto, al quale l’autore si era liberamente autodeterminato sulla base del pregresso (e per lui meno favorevole) panorama normativo. In quest’ottica, la Corte ha quindi costantemente escluso che il principio di retroattività in mitius trovi copertura nell’art. 25, secondo comma, Cost. (ex plurimis, sentenze n. 80 del 1995, n. 6 del 1978 e n. 164 del 1974; ordinanza n. 330 del 1995). Ciò non significa, tuttavia, chiosa ancora la Corte, che esso sia privo di un fondamento costituzionale: tale fondamento va individuato, invece, nel principio di eguaglianza, che impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’abolitio criminis o la modifica mitigatrice. Va, tuttavia, precisato che i fatti commessi prima e dopo l’entrata in vigore della norma penale favorevole sono identici nella loro materialità, ma non sul piano della “rimproverabilità”: altro, infatti, è il porre in essere una condotta che in quel momento è penalmente lecita o punita in modo mite; altro è porre in essere la stessa condotta in contrasto con la norma che in quel momento la vieta o la punisce in modo più severo. Il principio della retroattività in mitius è legato, dunque, ad una concezione oggettivistica del diritto penale, che emerge dal complessivo tessuto dei precetti costituzionali: a fronte di essa, la sanzione criminale rappresenta non già la risposta alla mera disobbedienza o infedeltà alla legge, in quanto sintomatica di inclinazioni antisociali del soggetto; quanto piuttosto la reazione alla commissione di fatti offensivi di interessi che il legislatore, interprete della coscienza sociale, reputa oggettivamente meritevoli di essere salvaguardati da determinate forme di aggressione col presidio della pena. Se la valutazione del legislatore in ordine al disvalore del fatto muta – nel senso di ritenere che quel presidio non sia più necessario od opportuno; o che sia sufficiente un presidio meno energico – tale mutamento deve quindi riverberarsi a vantaggio anche di coloro che abbiano posto in essere il fatto in un momento anteriore. Il collegamento del principio della retroattività in mitius al principio di eguaglianza ne segna, peraltro, anche il limite: nel senso che, a differenza del principio della irretroattività della norma penale sfavorevole − assolutamente inderogabile – detto principio deve per la Corte assumersi suscettibile di deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli (sentenze n. 74 del 1980 e n. 6 del 1978; ordinanza n. 330 del 1995). Ma soprattutto, per quanto interessa nella specie, è giocoforza ritenere che il principio di retroattività della norma penale più favorevole in tanto è destinato a trovare applicazione, in quanto la norma sopravvenuta sia, di per sé, costituzionalmente legittima. Il nuovo apprezzamento del disvalore del fatto, successivamente operato dal legislatore, può giustificare − in chiave di tutela del principio di eguaglianza – l’estensione a ritroso del trattamento più favorevole, a chi ha commesso il fatto violando scientemente la norma penale più severa, solo a condizione che quella nuova valutazione non contrasti essa stessa con i precetti della Costituzione, la lex mitior dovendo risultare dunque validamente emanata: non soltanto sul piano formale della regolarità del procedimento dell’atto legislativo che l’ha introdotta e, in generale, della disciplina delle fonti (v., con riferimento alla mancata conversione di un decreto-legge, sentenza n. 51 del 1985); ma anche sul piano sostanziale del rispetto dei valori espressi dalle norme costituzionali. Altrimenti, non v’è ragione per derogare alla regola sancita dagli art. 136, primo comma, Cost. e 30, terzo comma, della legge n. 87 del 1953, non potendosi ammettere che una norma costituzionalmente illegittima – rimasta in vigore, in ipotesi, anche per un solo giorno – determini, paradossalmente, l’impunità o l’abbattimento della risposta punitiva, non soltanto per i fatti commessi quel giorno, ma con riferimento a tutti i fatti pregressi, posti in essere nel vigore dell’incriminazione o dell’incriminazione più severa.
2010
Il 28 gennaio esce la sentenza della Corte costituzionale n.28, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 183, comma 1, lettera n), del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), nel testo antecedente alle modiche introdotte dall’art. 2, comma 20, del decreto legislativo 16 gennaio 2008, n. 4 (Ulteriori disposizioni correttive ed integrative del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia ambientale), nella parte in cui prevede: «rientrano altresì tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni di cui alla parte quarta del presente decreto le ceneri di pirite, polveri di ossido di ferro, provenienti dal processo di arrostimento del minerale noto come pirite o solfuro di ferro per la produzione di acido solforico e ossido di ferro, depositate presso stabilimenti di produzione dismessi, aree industriali e non, anche se sottoposte a procedimento di bonifica o di ripristino ambientale». La Corte ribadisce in proposito quanto già affermato nel 2006 onde, se il principio di legalità le impedisce pronunce di tipo additivo orientate ad estendere l’area di incriminazione con invasione di campo rispetto alla competenza del Legislatore, esso non è al contempo di ostacolo alla giurisdizione della Corte quando si tratti di scongiurare zone franche dallo scrutinio di costituzionalità attraverso la riconduzione, quantunque in malam partem, di regimi penalmente privilegiati alla disciplina penale ordinaria valevole per tutti i consociati.
2012
Il 28 settembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.37638 che si occupa del caso di un uomo che ha costretto una minore a chiedere l’elemosina. Per i difensori, in considerazione delle millenarie tradizioni culturali dei popoli di etnia rom, l’accattonaggio assume il valore di un vero e proprio sistema di vita, onde non potrebbe parlarsi nel caso di specie di riduzione in schiavitù ma al limite di maltrattamenti ex art.572 c.p. La Corte risponde come la propria giurisprudenza abbia da tempo escluso ogni rilevanza scriminante alle tradizioni culturali favorevoli all’accattonaggio, essendosi affermato che commette il reato di riduzione in schiavitù colui che mantiene lo stato di soggezione continuativa del soggetto ridotto in schiavitù (o in condizione analoga), senza che la relativa mozione culturale o di costume ne escluda l’elemento psicologico del reato; sotto altro profilo, precisa la Corte, in tema di riduzione e mantenimento in schiavitù posta in essere dai genitori nei confronti dei figli e di altri bimbi in rapporto di parentela, ridotti in stato di soggezione continuativa e costretti all’accattonaggio, non è invocabile da parte degli autori delle condotte in parola la scriminante dell’esercizio del diritto giusta richiamo alle consuetudini delle tradizioni zingare di usare i bambini nell’accattonaggio, atteso come la consuetudine possa avere efficacia scriminante solo in quanto sia stata richiamata da una legge, secondo il principio di gerarchia delle fonti di cui all’art.8 delle Preleggi.
2014
Il 23 gennaio esce la sentenza della Corte costituzionale n.5 che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2268 del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare), nella parte in cui, al numero 297) del comma 1, abroga il decreto legislativo 14 febbraio 1948, n. 43 (Divieto delle associazioni di carattere militare); e dichiara altresì l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto legislativo 13 dicembre 2010, n. 213 (Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 1° dicembre 2009, n. 179, recante disposizioni legislative statali anteriori al 1° gennaio 1970, di cui si ritiene indispensabile la permanenza in vigore), nella parte in cui modifica il decreto legislativo 1° dicembre 2009, n. 179 (Disposizioni legislative statali anteriori al 1° gennaio 1970, di cui si ritiene indispensabile la permanenza in vigore, a norma dell’articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246), espungendo dalle norme mantenute in vigore il decreto legislativo 14 febbraio 1948, n. 43 (Divieto delle associazioni di carattere militare). Si tratta, nella sostanza, di una pronuncia della Consulta che impatta, censurandolo per eccesso di delega, sul potere del Governo di abrogare determinate disposizioni di natura penale in tema di associazioni politiche a carattere militare, lambendo sia la questione della legittimazione del Governo “delegato” a legiferare in materia penale e dei relativi limiti, sia la questione dei c.d. effetti in malam partem di una sentenza della Corte costituzionale che, col dichiarare incostituzionale una norma che ha abrogato una fattispecie incriminatrice, finisce nella sostanza col farla rivivere con potenziali effetti retroattivi, per l’appunto, in malam partem. La Corte assume opportuno in primis ricostruire le vicende da cui traggono origine le ordinanze di rimessione nel caso di specie. Il legislatore, con l’art. 14, comma 14, della legge n. 246 del 2005, aveva delegato il Governo ad adottare, con le modalità di cui all’art. 20 della legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa), e successive modificazioni, «decreti legislativi che individuano le disposizioni legislative statali, pubblicate anteriormente al 1° gennaio 1970, anche se modificate con provvedimenti successivi, delle quali si ritiene indispensabile la permanenza in vigore», stabilendo, al successivo comma 14-ter, che, «decorso un anno dalla scadenza del termine di cui al comma 14, ovvero del maggior termine previsto dall’ultimo periodo del comma 22, tutte le disposizioni legislative statali non comprese nei decreti legislativi di cui al comma 14, anche se modificate con provvedimenti successivi, sono abrogate». L’esercizio della delega per l’individuazione delle norme da mantenere in vigore sarebbe, quindi, dovuto avvenire entro il 16 dicembre 2009. Con il d.lgs. n. 179 del 2009 il Governo aveva esercitato la delega, individuando le disposizioni legislative da mantenere in vigore, tra le quali era compreso il d.lgs. n.43 del 1948, sul divieto delle associazioni di carattere militare che perseguono, anche indirettamente, scopi politici, ma di questo decreto legislativo, successivamente, con l’art. 2268 del d.lgs. n. 66 del 2010 (Codice dell’ordinamento militare), era stata disposta l’abrogazione. Per contestare tale abrogazione, il Tribunale di Verona che, in riferimento all’azione dell’associazione denominata “Camicie verdi”, stava giudicando varie persone imputate del reato previsto dall’art. 1 del d.lgs. n. 43 del 1948, aveva sollevato una questione di legittimità costituzionale. Dopo tre giorni dalla relativa proposizione, però, il Governo, con il d.lgs. n. 213 del 2010, aveva replicato l’abrogazione del d.lgs. n. 43 del 1948, espungendolo dalle disposizioni che, con il d.lgs. n. 179 del 2009, aveva in precedenza stabilito di mantenere in vigore. La Corte costituzionale, considerato lo ius superveniens che aveva reiterato l’effetto abrogativo, aveva disposto la restituzione degli atti al giudice a quo, ritenendo che spettasse a questo la valutazione circa la perdurante rilevanza e non manifesta infondatezza delle questioni sollevate. A sua volta, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Treviso, che stava giudicando varie persone per la «formazione del corpo paramilitare denominato “Polisia Veneta”», aveva sollevato, in riferimento agli artt. 76, 18 e 25, secondo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2268 del d.lgs. n. 66 del 2010, nella parte in cui, al numero 297) del comma 1, abroga il d.lgs. n. 43 del 1948, e, in via subordinata, in riferimento all’art. 76 Cost., dell’art. 14, commi 14 e 14-ter, della legge n. 246 del 2005. Di tali questioni la Corte, con l’ordinanza n. 341 del 2011, aveva dichiarato la manifesta inammissibilità, perché il giudice a quo non aveva valutato gli effetti dell’art. 1 del d.lgs. n. 213 del 2010, intervenuto prima dell’ordinanza di rimessione. Le ordinanze del Tribunale di Verona e del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Treviso – prosegue la Corte – concernono le stesse norme e propongono questioni analoghe, perciò i relativi procedimenti vanno riuniti, per essere definiti con un’unica decisione. Infatti, entrambi i giudici hanno sollevato, oltre alle questioni che avevano già proposto, relative all’art. 2268 del d.lgs. n. 66 del 2010, anche questioni di legittimità costituzionale relative all’art. 1 del d.lgs. n. 213 del 2010, nella parte in cui ha modificato il d.lgs. n. 179 del 2009, espungendo dalle disposizioni mantenute in vigore il d.lgs. n. 43 del 1948. Il giorno precedente a quello della pronuncia dell’ordinanza del Tribunale di Verona, avvenuta il 25 febbraio 2012, è intervenuto il decreto legislativo 24 febbraio 2012, n. 20 (Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66, recante codice dell’ordinamento militare, a norma dell’articolo 14, comma 18, della legge 28 novembre 2005, n. 246), pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 60 del 12 marzo 2012 ed entrato in vigore il 27 marzo 2012, con cui il legislatore, in attuazione dell’art. 14, commi 14, 15 e 18 della legge n. 246 del 2005, ha reintrodotto il reato di cui al d.lgs. n. 43 del 1948; l’art. 9, comma 1, lettera q), infatti, ha stabilito che «all’articolo 2268, comma 1, il numero 297) è soppresso e, per l’effetto, il decreto legislativo 14 febbraio 1948, n. 43, riprende vigore ed è sottratto agli effetti di cui all’articolo 1, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 13 dicembre 2010, n. 213». Il Tribunale di Verona non ha potuto prendere in considerazione questa disposizione, perché l’ordinanza di rimessione è precedente alla relativa pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, mentre il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Treviso ne ha tenuto conto, affermando che il ripristino della fattispecie abrogata non è sufficiente a rendere irrilevanti le questioni di legittimità costituzionale delle leggi abrogatrici «in quanto l’assetto punitivo estenderebbe retroattivamente i suoi effetti favorevoli di abolitio criminis in forza della regola della lex intermedia favorevole di cui all’art. 2, comma 4, cod. pen.». L’affermazione del giudice rimettente è per la Corte plausibile, perché può ben ritenersi che il citato ius superveniens, ripristinando una fattispecie incriminatrice precedentemente abrogata, non possa determinare la reviviscenza di un reato raggiunto dall’effetto abrogativo. In questo senso è anche la giurisprudenza della Corte di cassazione, che, nel caso di successione di leggi penali, ritiene debba applicarsi quella che prevede il trattamento più favorevole per il reo, anche se la legge più recente ha ripristinato una legge anteriore che quella più favorevole aveva modificato (sentenze 7 luglio 2009, n. 35079 e 21 settembre 2007, n. 38548). La nuova normativa, pertanto, non incide per la Corte sull’ammissibilità delle questioni sollevate dal Tribunale di Verona, né impone la restituzione degli atti al Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Treviso. La Corte, in numerose occasioni, rammenta di aver assunto inammissibili questioni di legittimità costituzionale di norme penali la cui caducazione avrebbe determinato un trattamento deteriore per l’imputato. I giudici rimettenti non ignorano le ragioni di tali decisioni ma ritengono che nel caso in esame quelle ragioni non sussistano; essi infatti ricordano che secondo la giurisprudenza costituzionale il principio della riserva di legge in materia penale, posto dall’art. 25, secondo comma, Cost., impedisce alla Corte interventi in malam partem, rimessi esclusivamente al potere legislativo, ma sostengono che nel caso in esame sia proprio quel principio a giustificare una pronuncia di illegittimità costituzionale, perché le norme impugnate sarebbero state adottate dal Governo in mancanza della necessaria delega e quindi sarebbero state introdotte nell’ordinamento in violazione della riserva di legge. La tesi dei giudici rimettenti sull’ammissibilità delle questioni proposte è per la Corte condivisibile, ma occorrono in proposito alcuni chiarimenti, perché la giurisprudenza della Corte medesima in materia si è andata nel tempo evolvendo e precisando, ed è alla luce di questa evoluzione che tali questioni vanno ora, per il Collegio, considerate. L’inammissibilità del sindacato sulle norme penali più favorevoli – rammenta la Corte – era stata originariamente argomentata considerando che una questione finalizzata a una pronuncia in malam partem sarebbe stata priva di rilevanza, dato il principio di irretroattività delle norme penali sfavorevoli. Infatti, si era affermato, «i principi generali vigenti in tema di non retroattività delle sanzioni penali più sfavorevoli al reo, desumibili dagli artt. 25, secondo comma, della Costituzione, e 2 del codice penale, impedirebbero in ogni caso che una eventuale sentenza, anche se di accoglimento, possa produrre un effetto pregiudizievole per l’imputato nel processo penale pendente innanzi al giudice a quo» (sentenza n. 85 del 1976). Successivamente però la Corte ha riconosciuto «che la retroattività della legge più favorevole non esclude l’assoggettamento di tutte le norme giuridiche di rango primario allo scrutinio di legittimità costituzionale: “Altro […] è la garanzia che i principi del diritto penale-costituzionale possono offrire agli imputati, circoscrivendo l’efficacia spettante alle dichiarazioni d’illegittimità delle norme penali di favore; altro è il sindacato cui le norme stesse devono pur sempre sottostare, a pena di istituire zone franche del tutto impreviste dalla Costituzione, all’interno delle quali la legislazione ordinaria diverrebbe incontrollabile” (sentenza n. 148 del 1983 e sul punto, sostanzialmente nello stesso senso, sentenza n. 394 del 2006)» (sentenza n. 28 del 2010). Il mutato orientamento sulla rilevanza non ha comportato automaticamente l’ammissibilità delle questioni relative alle norme penali più favorevoli, perché si è ritenuto che a una pronuncia della Corte in malam partem fosse comunque di ostacolo il principio sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., il quale «demanda in via esclusiva al legislatore la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni loro applicabili, impedendo alla Corte di creare nuove fattispecie criminose o estendere quelle esistenti a casi non previsti, ovvero anche di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti comunque inerenti alla punibilità (ex plurimis, sentenza n. 394 del 2006; ordinanze n. 204, n. 66 e n. 5 del 2009)» (ordinanza n. 285 del 2012). Non sono però mancati casi in cui la Corte ha ritenuto che l’ammissibilità di questioni di legittimità costituzionale in malam partem non trovasse ostacolo nel principio dell’art. 25, secondo comma, Cost. Particolarmente significativa in questo senso – rammenta ancora il Collegio – è la sentenza n. 394 del 2006, che ha riconosciuto la sindacabilità delle «c.d. norme penali di favore: ossia delle norme che stabiliscano, per determinati soggetti o ipotesi, un trattamento penalistico più favorevole di quello che risulterebbe dall’applicazione di norme generali o comuni». Alla nozione di “norma penale di favore” ha fatto successivamente, in più occasioni, riferimento la giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 273 del 2010, n. 57 del 2009 e n. 324 del 2008; ordinanze n. 103 e n. 3 del 2009), ma è la ridetta sentenza n. 394 del 2006 che ne ha precisato le caratteristiche e le relative implicazioni ai fini del sindacato di legittimità costituzionale; secondo questa pronuncia «il principio di legalità impedisce certamente alla Corte di configurare nuove norme penali; ma non le preclude decisioni ablative di norme che sottraggono determinati gruppi di soggetti o di condotte alla sfera applicativa di una norma comune o comunque più generale, accordando loro un trattamento più benevolo (sentenza n. 148 del 1983): e ciò a prescindere dall’istituto o dal mezzo tecnico tramite il quale tale trattamento si realizza […]. In simili frangenti, difatti, la riserva al legislatore sulle scelte di criminalizzazione resta salva: l’effetto in malam partem non discende dall’introduzione di nuove norme o dalla manipolazione di norme esistenti da parte della Corte, la quale si limita a rimuovere la disposizione giudicata lesiva dei parametri costituzionali; esso rappresenta, invece, una conseguenza dell’automatica riespansione della norma generale o comune, dettata dallo stesso legislatore, al caso già oggetto di una incostituzionale disciplina derogatoria». Un’altra decisione significativa – ricorda il Collegio – è la n. 28 del 2010, con la quale la Corte, in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una legge intermedia (e più esattamente di un decreto legislativo intermedio) che, in contrasto con una direttiva comunitaria, aveva escluso la punibilità di un fatto precedentemente e successivamente previsto come reato. Secondo questa decisione, infatti, «se si stabilisse che il possibile effetto in malam partem della sentenza di questa Corte inibisce la verifica di conformità delle norme legislative interne rispetto alle norme comunitarie – che sono cogenti e sovraordinate alle leggi ordinarie nell’ordinamento italiano per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. – non si arriverebbe soltanto alla conclusione del carattere non autoapplicativo delle direttive comunitarie […], ma si toglierebbe a queste ultime ogni efficacia vincolante per il legislatore italiano». Questa decisione – prosegue la Corte – può costituire un utile punto di riferimento perché, come nel presente giudizio, anche se per una ragione diversa, il vizio del decreto legislativo traeva origine dalla carenza di potere del Governo che aveva adottato la normativa impugnata. Il difetto di delega denunciato dai giudici rimettenti, se esistente, comporterebbe per la Corte un esercizio illegittimo da parte del Governo della funzione legislativa. L’abrogazione della fattispecie criminosa mediante un decreto legislativo, adottato in carenza o in eccesso di delega, si porrebbe, infatti, in contrasto con l’art. 25, secondo comma, Cost., che demanda in via esclusiva al Parlamento, in quanto rappresentativo dell’intera collettività nazionale, la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni loro applicabili, precludendo al Governo scelte di politica criminale autonome o contrastanti con quelle del legislatore delegante. Se si escludesse il sindacato costituzionale sugli atti legislativi adottati dal Governo anche nel caso di violazione dell’art. 76 Cost., si consentirebbe allo stesso di incidere, modificandole, sulle valutazioni del Parlamento relative al trattamento penale di alcuni fatti. Deve quindi concludersi per il Collegio che, quando, deducendo la violazione dell’art. 76 Cost., si propone una questione di legittimità costituzionale di una norma di rango legislativo adottata dal Governo su delega del Parlamento, il sindacato della Corte costituzionale non può essere precluso invocando il principio della riserva di legge in materia penale, principio che rimette al legislatore, nella figura appunto del soggetto-Parlamento, la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni da applicare, ed è violato qualora quella scelta sia invece effettuata dal Governo in assenza o fuori dai limiti di una valida delega legislativa. La verifica sull’esercizio da parte del Governo della funzione legislativa delegata diviene allora per la Corte strumento di garanzia del rispetto del principio della riserva di legge in materia penale, sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., e non può essere limitata in considerazione degli eventuali effetti che una sentenza di accoglimento potrebbe produrre nel giudizio a quo, rischiandosi altrimenti, come già rilevato in altre occasioni dalla Corte medesima, di creare zone franche dell’ordinamento, sottratte al controllo di costituzionalità, entro le quali sarebbe di fatto consentito al Governo di effettuare scelte politico-criminali, che la Costituzione riserva al Parlamento, svincolate dal rispetto dei principi e criteri direttivi fissati dal legislatore delegante, eludendo così il disposto dell’art. 25, secondo comma, della stessa Costituzione. Per superare il paradosso ed evitare al tempo stesso eventuali effetti impropri di una pronuncia in malam partem, «occorre quindi distinguere tra controllo di legittimità costituzionale, che non può soffrire limitazioni, se ritualmente attivato secondo le norme vigenti, ed effetti delle sentenze di accoglimento nel processo principale, che devono essere valutati dal giudice rimettente secondo i principi generali che reggono la successione nel tempo delle leggi penali» (sentenza n. 28 del 2010). È da aggiungere per la Corte che, secondo il relativo, consolidato orientamento, «le questioni incidentali di legittimità sono ammissibili “quando la norma impugnata è applicabile nel processo d’origine e, quindi, la decisione della Corte è idonea a determinare effetti nel processo stesso; mentre è totalmente ininfluente sull’ammissibilità della questione il “senso” degli ipotetici effetti che potrebbero derivare per le parti in causa da una pronuncia sulla costituzionalità della legge” (sentenza n. 98 del 1997)» (sentenza n. 294 del 2011). Compete, dunque, “a valle” ai giudici rimettenti valutare le conseguenze applicative che potranno derivare da una eventuale pronuncia di accoglimento, mentre deve escludersi che vi siano “a monte” ostacoli all’ammissibilità delle proposte questioni di legittimità costituzionale. Una volta riconosciutane l’ammissibilità, deve essere per la Corte esaminata, in primo luogo, la questione relativa all’art. 2268, comma 1, numero 297), del d.lgs. n. 66 del 2010, perché se la norma censurata risultasse immune da vizi di costituzionalità, essendosi prodotto l’effetto abrogativo del d.lgs. n. 43 del 1948 da essa stabilito, diventerebbero prive di rilevanza le ulteriori questioni e in particolare quella relativa all’art. 1 del d.lgs. n. 213 del 2010, che avrebbe ad oggetto l’ulteriore abrogazione di una norma non più in vigore. La questione di legittimità costituzionale dell’art. 2268 del d.lgs. n. 66 del 2010, nella parte in cui, al numero 297) del comma 1, abroga il d.lgs. n. 43 del 1948, viene a questo punto dichiarata dalla Corte fondata. Il d.lgs. n. 66 del 2010 è stato adottato, secondo quanto espressamente indicato nel relativo preambolo, sulla base dell’art. 14, commi 14 e 15, della legge n. 246 del 2005, e ad avviso dei giudici rimettenti queste norme non davano al Governo il potere di abrogare il d.lgs. n. 43 del 1948, sul divieto delle associazioni di carattere militare, del quale, con il d.lgs. n. 179 del 2009, era stata in precedenza stabilita la permanenza in vigore. In effetti, prosegue la Corte, il comma 14 non prevede alcun diretto potere abrogativo, ma conferisce al Governo solo la delega ad individuare gli atti normativi da sottrarre alla clausola “ghigliottina” contenuta nell’art. 14, comma 14-ter, della legge n. 246 del 2005, potere che era stato già esercitato con il d.lgs. n. 179 del 2009. È quindi fondata la tesi dei giudici a quibus, secondo cui il Governo, al momento dell’adozione del d.lgs. n. 66 del 2010, aveva già esercitato, rispetto al d.lgs. n. 43 del 1948, il potere normativo attribuitogli con il comma 14, né poteva ritenersi consentito, in base al comma citato, il nuovo e contrario esercizio della delega, il quale, anziché in un effetto di salvaguardia dell’efficacia, era sfociato in un’espressa abrogazione. Anche se fosse stato riconosciuto al Governo dal comma 14 un potere direttamente abrogativo, poi, dovrebbe ritenersi per la Corte che mancavano le condizioni per esercitarlo nei confronti del d.lgs. n. 43 del 1948, dato che, in base ai criteri indicati in tale comma, si trattava di un testo normativo del quale era indispensabile la permanenza in vigore. Con il citato comma 14 il Governo era stato delegato ad individuare le disposizioni da mantenere in vigore, che non avessero subito un’abrogazione tacita o implicita (lettera a) e non avessero esaurito la loro funzione, o fossero prive di effettivo contenuto normativo, o fossero comunque obsolete (lettera b), e nessuna di queste condizioni poteva riferirsi al d.lgs. n. 43 del 1948. In particolare è certo che il decreto non aveva esaurito la relativa funzione, dato che aveva originato i procedimenti penali nel cui ambito erano state sollevate le odierne questioni di costituzionalità. Ugualmente, non può ritenersi che si trattasse di disposizione priva di un effettivo contenuto normativo od obsoleta: il d.lgs. n. 43 del 1948, infatti, è coevo alla Costituzione e costituisce l’immediata attuazione dell’art. 18, secondo comma, Cost. L’atto normativo in questione, in coerenza con la previsione della Carta costituzionale, si prefigge di impedire attività idonee a influenzare e pregiudicare la formazione democratica delle convinzioni politiche dei cittadini, anche se non riconducibili a violazioni delle comuni norme penali, il che implica la sussistenza di un effettivo contenuto normativo di rilevanza costituzionale e fa escludere l’obsolescenza della disciplina. Del resto la perdurante attualità del decreto legislativo n. 43 del 1948 è per il Collegio confermata, se ce ne fosse bisogno, dalla relativa reintroduzione ad opera del d.lgs. n. 20 del 2012. È da aggiungere che se, come si ritiene, la ratio dell’incriminazione delle associazioni di carattere militare per scopi politici, come anche quella dell’art. 18, secondo comma, Cost., risiede nell’esigenza di salvaguardare la libertà del processo di decisione politica, la norma impugnata risulta chiaramente in contrasto con il criterio della lettera c) del citato comma 14, volto ad assicurare la permanenza in vigore «delle disposizioni la cui abrogazione comporterebbe lesione dei diritti costituzionali». Il preambolo del d.lgs. n. 66 del 2010, prosegue ancora la Corte, indica, tra le fonti della delega, oltre al comma 14, anche il comma 15 della legge n. 246 del 2005, il quale stabilisce che «I decreti legislativi di cui al comma 14 provvedono altresì alla semplificazione o al riassetto della materia che ne è oggetto, nel rispetto dei principi e criteri direttivi di cui all’articolo 20 della legge 15 marzo 1997, n. 59, e successive modificazioni, anche al fine di armonizzare le disposizioni mantenute in vigore con quelle pubblicate successivamente alla data del 1° gennaio 1970». Neppure questa disposizione, però, avrebbe potuto per il Collegio giustificare l’abrogazione del d.lgs. n. 43 del 1948. La delega del comma 15, infatti, era diretta alla semplificazione e al riassetto normativo delle disposizioni legislative anteriori al 1° gennaio 1970 mantenute in vigore all’esito delle operazioni “salva-leggi”, da armonizzare, eventualmente, con la legislazione successiva, e in questo contesto la norma abrogatrice posta dall’art. 2268, comma 1, numero 297), del d.lgs. n. 66 del 2010 non può trovare alcuna legittimazione, anche perché il d.lgs. n. 43 del 1948 non rientra nella materia dell’ordinamento militare regolata dallo stesso decreto legislativo n. 66 del 2010. Dal tenore letterale dell’art. 1 di questo decreto risulta, infatti, chiaramente che le associazioni di carattere militare per scopi politici non rientrano nella materia oggetto del riassetto normativo, e, quindi, anche nell’ipotesi in cui si ritenesse consentita dal comma 15 l’espressa abrogazione di testi legislativi, ivi compresi quelli di cui era stata già disposta la permanenza in vigore, dovrebbe concludersi che non sarebbe stata possibile l’abrogazione del d.lgs. n. 43 del 1948, per l’estraneità della materia regolata da questo rispetto all’ordinamento militare che aveva formato oggetto del riassetto. In proposito è importante ricordare – chiosa ancora la Corte – che, in un comunicato del 22 ottobre 2010 del Ministero della difesa, il Ministro aveva reso noto che l’inserimento del d.lgs. n. 43 del 1948 tra le norme da abrogare elencate nell’art. 2268 del d.lgs. n. 66 del 2010 era erroneo. Conseguentemente l’Ufficio legislativo del Ministero della difesa ne aveva «proposto la correzione con procedura di rettifica di errore materiale da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale», ma questa soluzione non era stata «condivisa dall’Ufficio legislativo del Dipartimento per la Semplificazione Normativa, co-proponente del Codice». La norma censurata, quindi, eccede anche l’ambito della delega conferita dal comma 15, giacché «la finalità fondamentale di semplificazione, che costituiva la ratio propria della legge n. 246 del 2005, era quella di creare insiemi normativi coerenti, a partire da una risistemazione delle norme vigenti, sparse e non coordinate, apportando quelle modifiche rese necessarie dalla composizione unitaria delle stesse» (sentenza n. 80 del 2012), mentre l’abrogazione di norme penali incriminatrici solo apparentemente connesse con la materia oggetto del riassetto normativo si colloca evidentemente su un altro piano e richiede scelte di politica legislativa, che, seppur per grandi linee, devono provenire dal Parlamento. Chiarito perciò che la norma in questione non potrebbe rientrare nell’ambito di un’operazione di semplificazione o di riassetto dell’ordinamento militare, deve anche considerarsi che il comma 15 dell’art. 14 della legge n. 246 del 2005, riguardando i «decreti legislativi di cui al comma 14» dello stesso articolo, in nessun caso potrebbe giustificare l’abrogazione di una legge della quale, a norma del comma 14, dovrebbe essere invece assicurata la permanenza in vigore. Una terza delega, precisa ancora la Corte, pè oi contenuta nell’art. 14, comma 14-quater, della legge n. 246 del 2005, il quale stabilisce che «Il Governo è altresì delegato ad adottare, entro il termine di cui al comma 14-ter, uno o più decreti legislativi recanti l’abrogazione espressa, con la medesima decorrenza prevista dal comma 14-ter, di disposizioni legislative statali ricadenti tra quelle di cui alle lettere a) e b) del comma 14, anche se pubblicate successivamente al 1° gennaio 1970». Il preambolo del d.lgs. n. 66 del 2010 non richiama il comma 14-quater; tuttavia, dai lavori preparatori, emerge che il legislatore delegato ha inteso attuare anche la delega prevista da questo comma, individuando e abrogando espressamente le disposizioni legislative ormai inutili, e nel parere reso sullo schema del decreto legislativo in esame il Consiglio di Stato, per indicarne la base normativa, ha fatto espresso riferimento anche al comma 14-quater, oltre che ai commi 14 e 15. Neppure questa disposizione di delega però, pur prevedendo espressamente un potere abrogativo, può giustificare l’abrogazione del d.lgs. n. 43 del 1948, perché il comma 14-quater dà mandato al Governo di abrogare «le disposizioni legislative statali ricadenti fra quelle di cui alle lettere a) e b) del comma 14», vale a dire quelle «oggetto di abrogazione tacita o implicita» e quelle che «abbiano esaurito la loro funzione o siano prive di effettivo contenuto normativo o siano comunque obsolete», e in queste categorie, come si è già visto, non può in alcun modo rientrare il decreto legislativo che vieta le associazioni di carattere militare per scopi politici. Alla luce delle considerazioni svolte nei paragrafi precedenti, si deve concludere che, per la carenza della necessaria delega legislativa, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2268 del d.lgs. n. 66 del 2010, nella parte in cui, al numero 297) del comma 1, abroga il d.lgs. n. 43 del 1948, è fondata. Resta da esaminare per la Corte la questione relativa all’art. 1 del d.lgs. n. 213 del 2010, nella parte in cui modifica il d.lgs. n. 179 del 2009, espungendo, con l’Allegato B, dalle norme mantenute in vigore dall’Allegato 1 del citato d.lgs. n. 179 del 2009, il d.lgs. n. 43 del 1948. Anche in questo caso le censure dei giudici rimettenti si appuntano, innanzitutto, sulla violazione dell’art. 76 Cost., sul presupposto che la reiterata abrogazione del d.lgs. n. 43 del 1948 sarebbe avvenuta in carenza di delega. L’art. 1 del d.lgs n. 213 del 2010 dispone che, «Ai fini e per gli effetti dell’articolo 14, commi 14, 14-ter e 18, della legge 28 novembre 2005, n. 246, e successive modificazioni, al decreto legislativo 1° dicembre 2009, n. 179, sono apportate le seguenti modificazioni: a) l’Allegato 1 è integrato dalle disposizioni legislative statali, pubblicate anteriormente al 1° gennaio 1970, inserite nell’Allegato A al presente decreto; b) dall’Allegato 1 sono espunte le disposizioni legislative statali indicate nell’Allegato B al presente decreto; c) le voci di cui all’Allegato C al presente decreto sostituiscono le corrispondenti voci dell’Allegato 1». Insomma questa disposizione, svolgendo un’opera integrativa da un lato e riduttiva dall’altro, con l’Allegato A ha aggiunto alcune disposizioni legislative a quelle mantenute in vigore dal d.lgs. n. 179 del 2009, mentre con l’allegato B ne ha espunte altre. Il d.lgs. n. 213 – osserva la Corte – reca la data del 13 dicembre 2010, e, poiché il 16 dicembre 2009 il termine della delega prevista dal comma 14 dell’art.14 della legge n. 246 del 2005 era ormai decorso, è al comma 18 dello stesso articolo che occorre fare riferimento per individuare la fonte del potere esercitato nell’occasione dal Governo. Questo comma stabilisce che «Entro due anni dall’entrata in vigore dei decreti legislativi di cui al comma 14, possono essere emanate, con uno o più decreti legislativi, disposizioni integrative, di riassetto o correttive, esclusivamente nel rispetto dei principi e criteri direttivi di cui al comma 15 e previo parere della Commissione di cui al comma 19». Riconducendo a questa disposizione l’art. 1 del d.lgs. n. 213 del 2010, gli si deve riconoscere un carattere “integrativo”, relativamente alla lettera a), e “correttivo”, relativamente alla lettera b), con l’avvertenza che l’integrazione e la correzione non sarebbero potute avvenire senza osservare i criteri di delega del comma 14. Infatti il comma 18, che si collega ai «decreti legislativi di cui al comma 14» e fa riferimento ai «principi e criteri direttivi di cui al comma 15», costituisce il prolungamento nel tempo, con alcune specificità, delle deleghe contenute nei due commi anzidetti. In particolare è il comma 14 che segna il discrimine tra le disposizioni legislative da mantenere in vigore e quelle da abrogare, sicché neppure dal comma 18 potrebbe derivare al Governo il potere di disporre l’abrogazione di disposizioni che, come quella del d.lgs. n. 43 del 1948, sarebbero invece, per il comma 14, dovute rimanere in vigore. Perciò deve concludersi per la Corte che il Governo non poteva espungere dal d.lgs. n. 179 del 2009 la disposizione del d.lgs. n. 43 del 1948, sul divieto delle associazioni di carattere militare per scopi politici, di cui aveva legittimamente disposto il mantenimento in vigore, onde anche la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 del d.lgs. n. 213 del 2010, nella parte in cui modifica il d.lgs. n. 179 del 2009, espungendo, con l’Allegato B, dalle norme mantenute in vigore dall’Allegato 1 del citato d.lgs. n. 179 del 2009, il d.lgs. n. 43 del 1948, è fondata per carenza di delega legislativa.
Il 25 febbraio esce la sentenza della Corte costituzionale n.32, in tema di decreto legge quale fonte di diritto penale, che dichiara – in riferimento all’art.77 Cost. – l’illegittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter, del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2006, n. 49. La Corte inizia con il richiamare la propria giurisprudenza con particolare riguardo alla sentenza n. 22 del 2012 e alla successiva ordinanza n. 34 del 2013, nella quale essa ha chiarito che la legge di conversione deve avere un contenuto omogeneo a quello del decreto-legge. Ciò in ossequio, prima ancora che a regole di buona tecnica normativa, allo stesso art. 77, secondo comma, Cost., il quale presuppone «un nesso di interrelazione funzionale tra decreto-legge, formato dal Governo ed emanato dal Presidente della Repubblica, e legge di conversione, caratterizzata da un procedimento di approvazione peculiare rispetto a quello ordinario» (sentenza n. 22 del 2012). La legge di conversione – per l’approvazione della quale le Camere, anche se sciolte, si riuniscono entro cinque giorni dalla presentazione del relativo disegno di legge (art. 77, secondo comma, Cost.) – segue un iter parlamentare semplificato e caratterizzato dal rispetto di tempi particolarmente rapidi, che si giustificano alla luce della relativa natura di legge funzionalizzata alla stabilizzazione di un provvedimento avente forza di legge, emanato provvisoriamente dal Governo e valido per un lasso temporale breve e circoscritto. Dalla relativa connotazione di legge a competenza tipica derivano i limiti alla emendabilità del decreto-legge. La legge di conversione non può, quindi, aprirsi a qualsiasi contenuto ulteriore, come del resto prescrivono anche i regolamenti parlamentari (art. 96-bis del Regolamento della Camera dei Deputati e art. 97 del Regolamento del Senato della Repubblica, come interpretato dalla Giunta per il regolamento con il parere dell’8 novembre 1984). Diversamente, l’iter semplificato potrebbe essere sfruttato per scopi estranei a quelli che giustificano l’atto con forza di legge, a detrimento delle ordinarie dinamiche di confronto parlamentare. Pertanto, prosegue la Corte, l’inclusione di emendamenti e articoli aggiuntivi che non siano attinenti alla materia oggetto del decreto-legge, o alle finalità di quest’ultimo, determina un vizio della legge di conversione in parte qua. È bene sottolineare – chiosa ancora la Corte – che la richiesta coerenza tra il decreto-legge e la legge di conversione non esclude, in linea generale, che le Camere possano apportare emendamenti al testo del decreto-legge, per modificare la normativa in esso contenuta, in base alle valutazioni emerse nel dibattito parlamentare; essa vale soltanto a scongiurare l’uso improprio di tale potere, che si verifica ogniqualvolta sotto la veste formale di un emendamento si introduca un disegno di legge che tenda a immettere nell’ordinamento una disciplina estranea, interrompendo il legame essenziale tra decreto-legge e legge di conversione, presupposto dalla sequenza delineata dall’art. 77, secondo comma, Cost. Ciò vale per la Corte anche nel caso di provvedimenti governativi ab origine a contenuto plurimo, come quello di specie. In relazione a questa tipologia di atti – che di per sé non sono esenti da problemi rispetto al requisito dell’omogeneità (sentenza n. 22 del 2012) – ogni ulteriore disposizione introdotta in sede di conversione deve essere strettamente collegata ad uno dei contenuti già disciplinati dal decreto-legge ovvero alla ratio dominante del provvedimento originario considerato nel relativo complesso. Nell’ipotesi in cui la legge di conversione spezzi la suddetta connessione, si determina per la Corte un vizio di procedura, mentre resta ovviamente salva la possibilità che la materia regolata dagli emendamenti estranei al decreto-legge formi oggetto di un separato disegno di legge, da discutersi secondo le ordinarie modalità previste dall’art. 72 Cost. L’eterogeneità delle disposizioni aggiunte in sede di conversione determina, dunque, un vizio procedurale delle stesse, che come ogni altro vizio della legge spetta solo alla Corte costituzionale accertare. Si tratta di un vizio procedurale peculiare, che per sua stessa natura può essere evidenziato solamente attraverso un esame del contenuto sostanziale delle singole disposizioni aggiunte in sede parlamentare, posto a raffronto con l’originario decreto-legge. All’esito di tale esame, le eventuali disposizioni intruse risulteranno affette da vizio di formazione, per violazione dell’art. 77 Cost., mentre saranno fatte salve tutte le componenti dell’atto che si pongano in linea di continuità sostanziale, per materia o per finalità, con l’originario decreto-legge. Nel caso di specie la Corte si assume chiamata a verificare se il contenuto delle disposizioni impugnate, introdotte in fase di conversione, sia funzionalmente correlato al decreto-legge n. 272 del 2005, al fine di giudicare il corretto uso del potere di conversione ex art. 77, secondo comma, Cost. da parte delle Camere. A tal fine va per la Corte osservato che le norme originarie contenute nel decreto-legge riguardano l’assunzione di personale della Polizia di Stato (art. 1), misure per assicurare la funzionalità all’Amministrazione civile dell’interno (art. 2), finanziamenti per le olimpiadi invernali (art. 3), il recupero dei tossicodipendenti detenuti (art. 4) e il diritto di voto degli italiani residenti all’estero (art. 5). Come può facilmente rilevarsi, l’unica previsione alla quale, in ipotesi, potrebbero riferirsi le disposizioni impugnate introdotte dalla legge di conversione, è l’art. 4, la cui connotazione finalistica era ed è quella di impedire l’interruzione del programma di recupero di determinate categorie di tossicodipendenti recidivi. Nei confronti di questi ultimi era, infatti, intervenuta l’allora recentissima legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), cosiddetta “legge ex Cirielli”, che con il relativo art. 8 aveva aggiunto l’art. 94-bis al d.P.R. n. 309 del 1990, riducendo così da quattro a tre anni la pena massima che, per i recidivi, consentiva l’affidamento in prova per l’attuazione di un programma terapeutico di recupero dalla tossicodipendenza; inoltre, l’art. 9 della medesima legge aveva aggiunto la lettera c) al comma 9 dell’art. 656 del codice di procedura penale, escludendo la sospensione della esecuzione della pena per i recidivi, anche se tossicodipendenti inseriti in un programma terapeutico di recupero. Il Governo, ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di garantire l’efficacia dei citati programmi di recupero anche in caso di recidivi, con l’art. 4 del d.l. n. 272 del 2005 aveva perciò abrogato il predetto art. 94-bis e aveva modificato l’art. 656, comma 9, lettera c), cod. proc. pen., ripristinando la sospensione dell’esecuzione della pena nei confronti dei tossicodipendenti con un programma terapeutico in atto alle condizioni precedentemente previste. L’art. 4 contiene, pertanto, norme di natura processuale, attinenti alle modalità di esecuzione della pena, il cui fine è quello di impedire l’interruzione dei programmi di recupero dalla tossicodipendenza. Esse riguardano, cioè, la persona del tossicodipendente e perseguono una finalità specifica e ben determinata: il relativo recupero dall’uso di droghe, qualunque reato egli abbia commesso, sia esso in materia di stupefacenti o non. Non così le impugnate disposizioni di cui agli artt. 4-bis e 4-vicies ter, introdotte dalla legge di conversione, le quali invece riguardano gli stupefacenti e non la persona del tossicodipendente. Inoltre, esse sono norme a connotazione sostanziale, e non processuale, perché dettano – e questo è il passaggio fondamentale – la disciplina dei reati in materia di stupefacenti. Si tratta, dunque, di fattispecie diverse per materia e per finalità, che denotano la evidente estraneità delle disposizioni censurate, aggiunte in sede di conversione, rispetto ai contenuti e alle finalità del decreto-legge in cui sono state inserite. Tra gli elementi sintomatici che confermano tale conclusione, si può richiamare per la Corte la circostanza che lo stesso Parlamento ha dovuto modificare, in sede di conversione, il titolo originario del decreto-legge, ampliandolo con l’aggiunta delle parole «e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309», per includervi la materia disciplinata dalle disposizioni introdotte solo con la legge di conversione. Ciò è indice del fatto che lo stesso legislatore ha ritenuto che le innovazioni introdotte con la legge di conversione non potevano essere ricomprese nelle materie già disciplinate dal decreto-legge medesimo e risultanti dal titolo originario di quest’ultimo. D’altra parte, non meno significativo per la Corte è il parere espresso dal Comitato per la legislazione della Camera dei deputati (nella seduta del 1° febbraio 2006) sul disegno di legge C. 6297 di conversione in legge del decreto-legge n. 272 del 2005. In tale parere si rileva che il disegno di legge «reca un contenuto i cui elementi di eterogeneità – peraltro già originariamente presenti nella originaria formulazione di 5 articoli […] – sono stati notevolmente accentuati a seguito dell’inserimento, durante il procedimento di conversione presso il Senato, di una vasta mole di ulteriori disposizioni (recate in 25 nuovi articoli) riguardanti principalmente, ma non esclusivamente, misure di contrasto alla diffusione degli stupefacenti, mutuate da un disegno di legge da tempo all’esame del Senato (S. 2953)». Del resto, chiosa ancora la Corte, la disomogeneità delle disposizioni impugnate rispetto al decreto-legge da convertire assume caratteri di assoluta evidenza, anche alla luce della portata della riforma recata dagli impugnati artt. 4-bis e 4-vicies ter e della delicatezza e complessità della materia incisa dagli stessi. Infatti, benché contenute in due soli articoli, le modifiche introdotte nell’ordinamento apportano una innovazione sistematica alla disciplina dei reati in materia di stupefacenti, sia sotto il profilo delle incriminazioni sia sotto quello sanzionatorio, il fulcro della quale è costituito dalla parificazione dei delitti riguardanti le droghe cosiddette “pesanti” e di quelli aventi ad oggetto le droghe cosiddette “leggere”, fattispecie differenziate invece dalla precedente disciplina. Una tale penetrante e incisiva riforma, coinvolgente delicate scelte di natura politica, giuridica e scientifica, avrebbe richiesto un adeguato dibattito parlamentare, possibile ove si fossero seguite le ordinarie procedure di formazione della legge, ex art. 72 Cost. Si aggiunga che un intervento normativo di simile rilievo – che, non a caso, faceva parte di un autonomo disegno di legge S. 2953 giacente da tre anni in Senato in attesa dell’approvazione – ha finito, invece, per essere frettolosamente inserito in un “maxi-emendamento” del Governo, interamente sostitutivo del testo del disegno di legge di conversione, presentato direttamente nell’Assemblea del Senato e su cui il Governo medesimo ha posto la questione di fiducia (nella seduta del 25 gennaio 2006), così precludendo una discussione specifica e una congrua deliberazione sui singoli aspetti della disciplina in tal modo introdotta. Inoltre, per effetto del “voto bloccato” che la questione di fiducia determina ai sensi delle vigenti procedure parlamentari, è stato anche impedito ogni possibile intervento sul testo presentato dal Governo, dal momento che all’oggetto della questione di fiducia, non possono essere riferiti emendamenti, sub-emendamenti o articoli aggiuntivi e che su tale oggetto è altresì vietata la votazione per parti separate. Né – prosegue ancora la Corte – la seconda e definitiva lettura presso l’altro ramo del Parlamento ha consentito successivamente di rimediare a questa mancanza, visto che anche in quel caso il Governo ha posto, nella seduta del 6 febbraio 2006, la questione di fiducia sul testo approvato dal Senato, obbligando così l’Assemblea della Camera a votarlo “in blocco”. Va inoltre osservato che la presentazione in aula da parte del Governo di un maxi-emendamento al disegno di legge di conversione non ha consentito alle Commissioni di svolgere in Senato l’esame referente richiesto dal primo comma dell’art. 72 Cost. Per di più, l’imminente fine della legislatura (intervenuta con il d.P.R. 11 febbraio 2006, n. 32, recante «Scioglimento del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati») e l’assoluta urgenza di convertire alcune delle disposizioni contenute nel decreto-legge originario, tra cui quelle riguardanti la sicurezza e il finanziamento delle Olimpiadi invernali di Torino 2006, impedivano di fatto allo stesso Presidente della Repubblica di fare uso della facoltà di rinvio delle leggi ex art. 74 Cost., non disponendo, tra l’altro, di un potere di rinvio parziale. In questo senso sono, infatti, i rilievi contenuti nei ripetuti interventi da parte del Presidente della Repubblica – lettera inviata il 27 dicembre 2013 ai Presidenti del Senato e della Camera, sulle modalità di svolgimento dell’iter parlamentare di conversione in legge del decreto-legge c.d. “salva Roma” (decreto-legge 31 ottobre 2013, n. 126); lettera inviata il 23 febbraio 2012 ai Presidenti del Senato e della Camera; lettera inviata il 22 febbraio 2011 ai Presidenti del Senato e della Camera; messaggio inviato alle Camere il 29 marzo 2002) – e, recentemente, anche da parte del Presidente del Senato (comunicato del Presidente del Senato inviato il 28 dicembre 2013), interventi tutti volti a segnalare l’abuso dell’istituto del decreto-legge e, in particolare, l’uso improprio dello strumento della legge di conversione, in violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost. Ben si comprende pertanto per la Corte, proprio alla luce di quanto accaduto nel caso di specie, come il rispetto del requisito dell’omogeneità e della interrelazione funzionale tra disposizioni del decreto-legge e quelle della legge di conversione ex art. 77, secondo comma, Cost. sia di fondamentale importanza per mantenere entro la cornice costituzionale i rapporti istituzionali tra Governo, Parlamento e Presidente della Repubblica nello svolgimento della funzione legislativa. Conclusivamente sul punto, deve osservarsi per la Corte che, nel caso sottoposto al relativo esame, risultano contestualmente presenti plurimi indici che rendono manifesta l’assenza di ogni nesso di interrelazione funzionale tra le disposizioni impugnate e le originarie disposizioni del decreto-legge. In difetto del necessario legame logico-giuridico, richiesto dall’art. 77, secondo comma, Cost., i censurati artt. 4-bis e 4-vicies ter devono pertanto ritenersi adottati in carenza dei presupposti per il legittimo esercizio del potere legislativo di conversione e perciò costituzionalmente illegittimi. Trattandosi di un vizio di natura procedurale, che peraltro si evidenzia solo ad un’analisi dei contenuti normativi aggiunti in sede di conversione, la declaratoria di illegittimità costituzionale colpisce per intero le due disposizioni impugnate e soltanto esse, restando impregiudicata la valutazione della Corte in relazione ad eventuali ulteriori impugnative aventi ad oggetto altre disposizioni della medesima legge. In considerazione del particolare vizio procedurale accertato, per carenza dei presupposti ex art. 77, secondo comma, Cost., deve ritenersi per il Collegio che, a seguito della caducazione delle disposizioni impugnate, tornino a ricevere applicazione l’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 e le relative tabelle, in quanto mai validamente abrogati, nella formulazione precedente le modifiche apportate con le disposizioni impugnate. Il potere di conversione non può, infatti, considerarsi una mera manifestazione dell’ordinaria potestà legislativa delle Camere, in quanto la legge di conversione ha natura «funzionalizzata e specializzata» (sentenza n. 22 del 2012 e ordinanza n. 34 del 2013). Essa presuppone un decreto da convertire, al cui contenuto precettivo deve attenersi, e per questo non è votata articolo per articolo, ma in genere è composta da un articolo unico, sul quale ha luogo la votazione – salva la eventuale proposizione di emendamenti, nei limiti sopra ricordati – nell’ambito di un procedimento ad hoc (art. 96-bis del Regolamento della Camera; art. 78 del Regolamento del Senato), che deve necessariamente concludersi entro sessanta giorni, pena la decadenza ex tunc del provvedimento governativo. Nella misura in cui le Camere non rispettano la funzione tipica della legge di conversione, facendo uso della speciale procedura per essa prevista al fine di perseguire scopi ulteriori rispetto alla conversione del provvedimento del Governo, esse agiscono in una situazione di carenza di potere. In tali casi, in base alla giurisprudenza della Corte, l’atto affetto da vizio radicale nella relativa formazione è inidoneo ad innovare l’ordinamento e, quindi, anche ad abrogare la precedente normativa (sentenze n. 123 del 2011 e n. 361 del 2010). Sotto questo profilo, la situazione risulta assimilabile a quella della caducazione di norme legislative emanate in difetto di delega, per le quali la Corte ha già riconosciuto, come conseguenza della declaratoria di illegittimità costituzionale, l’applicazione della normativa precedente (sentenze n. 5 del 2014 e n. 162 del 2012), in conseguenza dell’inidoneità dell’atto, per il radicale vizio procedurale che lo inficia, a produrre effetti abrogativi anche per modifica o sostituzione. Deve, dunque, ritenersi per il Collegio che la disciplina dei reati sugli stupefacenti contenuta nel d.P.R. n. 309 del 1990, nella versione precedente alla novella del 2006, torni ad applicarsi, non essendosi validamente verificato l’effetto abrogativo. Ed è per la Corte appena il caso di aggiungere che la materia del traffico illecito degli stupefacenti è oggetto di obblighi di penalizzazione, in virtù di normative dell’Unione europea. Più precisamente la decisione quadro n. 2004/757/GAI del 2004 fissa norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti, richiedendo che in tutti gli Stati membri siano punite alcune condotte intenzionali, allorché non autorizzate, fatto salvo il consumo personale, quale definito dalle rispettive legislazioni nazionali. Pertanto, se non si determinasse la ripresa dell’applicazione delle norme sanzionatorie contenute nel d.P.R. n. 309 del 1990, resterebbero non punite alcune tipologie di condotte per le quali sussiste un obbligo sovranazionale di penalizzazione. Il che determinerebbe una violazione del diritto dell’Unione europea, che l’Italia è tenuta a rispettare in virtù degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. Stabilito, quindi, che una volta dichiarata l’illegittimità costituzionale delle disposizioni impugnate riprende applicazione l’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 nel testo anteriore alle modifiche con queste apportate, resta da osservare per la Corte che, mentre esso prevede un trattamento sanzionatorio più mite, rispetto a quello caducato, per gli illeciti concernenti le cosiddette “droghe leggere” (puniti con la pena della reclusione da due a sei anni e della multa, anziché con la pena della reclusione da sei a venti anni e della multa), viceversa stabilisce sanzioni più severe per i reati concernenti le cosiddette “droghe pesanti” (puniti con la pena della reclusione da otto a venti anni, anziché con quella da sei a venti anni). È bene ribadire per la Corte che, secondo la propria giurisprudenza, sin dalla sentenza n. 148 del 1983, si è ritenuto che gli eventuali effetti in malam partem di una decisione della Corte non precludono l’esame nel merito della normativa impugnata, fermo restando il divieto per la Corte (in virtù della riserva di legge vigente in materia penale, di cui all’art. 25 Cost.) di «configurare nuove norme penali» (sentenza n. 394 del 2006), siano esse incriminatrici o sanzionatorie, eventualità questa che non rileva nel presente giudizio, dal momento che la decisione della Corte non fa altro che rimuovere gli ostacoli all’applicazione di una disciplina stabilita dal legislatore. Quanto agli effetti sui singoli imputati, è compito del giudice comune, quale interprete delle leggi, impedire che la dichiarazione di illegittimità costituzionale vada a detrimento della loro posizione giuridica, tenendo conto dei principi in materia di successione di leggi penali nel tempo ex art. 2 cod. pen., che implica l’applicazione della norma penale più favorevole al reo. Analogamente, rientra nei compiti del giudice comune individuare quali norme, successive a quelle impugnate, non siano più applicabili perché divenute prive del loro oggetto (in quanto rinviano a disposizioni caducate) e quali, invece, devono continuare ad avere applicazione in quanto non presuppongono la vigenza degli artt. 4-bis e 4-vicies ter, oggetto della presente decisione.
Il 28 aprile viene varata la legge n.67, recante deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio (nonché disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili), il cui art.2, comma 2, ispira il Governo, tra l’altro, a principi e criteri direttivi nell’ottica (lettera c) di trasformare in illecito amministrativo il reato di cui all’articolo 2, comma 1-bis, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 1983, n. 638, e dunque l’omesso versamento di contributi previdenziali, purché tale omesso versamento non ecceda il limite complessivo di 10.000 euro annui e preservando comunque il principio per cui il datore di lavoro non risponde a titolo di illecito amministrativo, se provvede al versamento entro il termine di tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’avvenuto accertamento della violazione.
Il 16 giugno esce la sentenza di merito del Tribunale di Bari che provvede ad assolvere una parte datoriale imputata di omissione contributiva perché “il fatto non è più previsto dalla legge come reato”, sulla scorta dunque della sola legge 67 di delegazione al Governo, e senza che quest’ultimo abbia ancora esercitato la delega ivi prevista all’art.2. Per il Tribunale, pur non essendo stato ancora varato il pertinente decreto legislativo, dalla legge delega affiora di già lo “spirito abrogativo” abbracciato dal legislatore penale onde, anche sulla scorta del principio del favor rei, va mandato assolto chi sia imputato di una fattispecie ormai destinata ad essere depenalizzata.
Il 15 dicembre esce l’ordinanza del Tribunale di Bari che rimette alla Corte costituzionale la questione se possa ascriversi efficacia favorevole alla delega legislativa non ancora attuata dal Governo, ma orientata in bonam partem con riguardo al reo. In particolare, per il Tribunale sarebbe incostituzionale l’ultimo comma dell’art.2 c.p. in tema di decreti legge non convertiti (per potenziale frizione con gli articoli 3 e 25, comma 2, Cost.), nella parte in cui esso non prevede che le disposizioni in tema di successione di leggi penali nel tempo siano applicate anche laddove intervenga una legge delega del Parlamento in materia penale che preveda in via espressa l’abrogazione o la depenalizzazione di fattispecie di reato, con applicazione sin dal momento della promulgazione della legge delega ridetta ed in modo indipendente dalla successiva (anche mancante) emanazione del decreto delegato da parte del Governo.
2015
Il 14 aprile esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.20547, alla cui stregua (raccogliendo anche le sollecitazioni della dottrina), in difetto di concreto esercizio da parte del Governo della delega legislativa che il Parlamento gli ha conferito, l’ordinamento vigente non può intendersi da subito modificato dai soli principi e criteri direttivi contenuti nella legge di delega, dovendosi piuttosto attendere l’effettiva depenalizzazione siccome disposta dal Governo giusta concreto esercizio della delega in parola, e dunque con i decreti legislativi delegati, in difetto dei quali il reato deve ancora intendersi tale e capace di impegnare la responsabilità penale di chi lo ha commesso.
Il 9 ottobre esce la sentenza della Corte costituzionale n.198, che dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 186, comma 9-bis, quarto periodo, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Rovereto. La Corte rappresenta che, per costante giurisprudenza costituzionale, occorre muovere dalla considerazione onde le determinazioni concernenti il complessivo trattamento sanzionatorio di qualunque reato, compreso quello qui in considerazione (guida in stato di ebbrezza), sono il frutto di apprezzamenti tipicamente politici, che si collocano, pertanto, su un terreno caratterizzato da ampia discrezionalità legislativa, «il cui esercizio è censurabile, sul piano della legittimità costituzionale, solo ove trasmodi nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio, come avviene quando si sia di fronte a sperequazioni sanzionatorie tra fattispecie omogenee non sorrette da alcuna ragionevole giustificazione» (sentenza n. 81 del 2014 e in precedenza, ex multis, sentenze n. 68 del 2012, n. 273 e n. 47 del 2010). La sentenza conferma dunque la piena ammissibilità di decisioni della Corte, seppure in malam partem, che eliminino tali sperequazioni e le connesse “zone franche” rispetto allo scrutinio di costituzionalità, elidendo i privilegi e riconducendo il trattamento penale differenziato (e privilegiato) a quello comune.
Il 5 novembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.223 che dichiara la inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 649, primo comma, del codice penale (in tema di non punibilità di reati contro il patrimonio commessi da congiunti), sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, e 24, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Parma, in composizione monocratica. L’art. 649, primo comma, cod. pen. sancisce – rammenta la Corte – una causa di non punibilità, e introduce una deroga riguardo all’applicazione generalizzata delle previsioni incriminatrici comprese nel Titolo XIII del Libro II del codice penale. Per tale relativa funzione, la norma rientra senza dubbio nell’ambito delle cosiddette «norme penali di favore», cioè delle disposizioni che sottraggono determinati gruppi di soggetti o di condotte alla sfera applicativa di norme comuni, accordando loro un trattamento più benevolo. Nel caso di specie, si tratta di una disposizione che sottrae l’autore del reato, commesso in danno di congiunti, all’applicazione delle diverse fattispecie criminose, già sopra richiamate. Fermo restando che la riserva di legge scolpita nell’art. 25, secondo comma, Cost. impedisce alla Corte di configurare nuove previsioni punitive, la giurisprudenza costituzionale, allo scopo di escludere l’esistenza di «zone franche» dal controllo di legittimità costituzionale, ha da tempo chiarito premesse, modalità e conseguenze del sindacato sulle cosiddette norme di favore (in generale, e da ultimo, sentenze n. 46 e n. 5 del 2014, n. 273 e n. 28 del 2010, n. 57 del 2009, n. 325 del 2008 e n. 394 del 2006). In particolare, riguardo alle questioni concernenti tali norme, e mirate alla relativa eliminazione, è possibile riscontrare positivamente il requisito della rilevanza, poiché l’eventuale accoglimento delle questioni medesime inciderebbe, comunque, sulle formule di proscioglimento o sui dispositivi delle sentenze penali (imperniati sul primo comma dell’art. 2 cod. pen., sorretto dall’art. 25 Cost., e non più sulla disposizione di favore in ipotesi dichiarata incostituzionale: sentenza n. 148 del 1983). D’altro canto, prosegue la Corte, la riserva al legislatore delle scelte di criminalizzazione non viene incisa, perché l’effetto in malam partem derivante dall’eventuale accoglimento della questione non dipende dall’introduzione di nuove norme o dalla manipolazione di norme esistenti ad opera della Corte costituzionale, la quale si limita a rimuovere la disposizione giudicata lesiva dei parametri costituzionali: tale effetto dipende, piuttosto, dall’automatica espansione delle norme comuni, dettate dallo stesso legislatore, al caso già oggetto di una (in tesi) incostituzionale disciplina derogatoria. Nella fattispecie in esame, prosegue la Corte, l’eventuale accoglimento della questione determinerebbe l’applicazione, a carico del soggetto che agisca in danno di prossimi congiunti, delle comuni norme che puniscono i delitti contro il patrimonio; proprio da questo punto di vista, può apprezzarsi la differenza tra la fattispecie qui considerata e quella definita con l’ordinanza n. 285 del 2012 e dichiarativa della manifesta inammissibilità d’una questione concernente l’art. 649 cod. pen. Era stato censurato, nell’occasione, il terzo comma della norma, al fine di ottenere l’inserimento d’una ulteriore figura di reato – cioè quella dell’usura (art. 644 cod. pen.) – nell’elenco delle fattispecie escluse dall’applicazione della causa di non punibilità (o di procedibilità a querela). L’obiettivo del rimettente consisteva quindi nell’ampliamento di una previsione eccezionale di deroga ad un regime di favore, e non nella rimozione d’un trattamento favorevole derogatorio ad una previsione generale. Ciò che si rendeva evidente, tra l’altro, in base al contenuto additivo dell’intervento richiesto alla Corte, diverso da quello ablatorio che sarebbe implicato, invece, dall’accoglimento dell’odierna questione.
2016
Il 15 gennaio viene varato il decreto legislativo n.7, recante disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67, ed il decreto legislativo n.8, recante disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67. Viene dunque esercitata dal Governo la delega di cui alla ridetta legge 67.14.
Il 7 luglio esce l’ordinanza della Corte costituzionale n.163, che si pronuncia nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 6, del codice penale e dell’art. 2 della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili), promosso dal Tribunale ordinario di Bari nell’anno 2016. Per la Corte, gli atti vanno restituiti al giudice a quo, stante il varo – medio tempore – dei decreti legislativi n.7 e 8 del 2016 con i quali il Governo ha esercitato la delega prevista nella legge 67.14 mutando dunque il quadro giuridico al cui interno il Tribunale pugliese ebbe a sollevare la pertinente questione di costituzionalità. In sostanza, la Corte per ora non si pronuncia sui possibile effetti in bonam partem da ricondursi ad una delega legislativa ex art.76 Cost. già conferita dal Parlamento, e tuttavia ancora non esercitata dal Governo.
2017
Il 12 gennaio esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n.1418 che, in tema di droghe pesanti, droghe leggere e minimo edittale di pena, solleva dubbi sulla legittimità costituzionale della sentenza demolitoria della Consulta n.32 del 2014. Per la Corte, il risultante disposto di cui all’art.73, comma 1, del D.p.R. n.309 del 1990 in tema di stupefacenti è in contrasto con l’art.25, comma 2, Cost,, dacché l’innalzamento del limite edittale di pena da 6 ad 8 anni di reclusione è conseguenza proprio della dichiarazione di incostituzionalità ad opera della Corte, in parte qua, della legge Fini-Giovanardi (per violazione dell’art.77 Cost., stante la disomogeneità rispetto all’originario decreto legge presentato per la conversione alle Camere). Per la Corte di Cassazione, è da assumersi assoggettabile a sindacato di costituzionalità solo quella norma che sia speciale in via “sincronica” rispetto ad altra norma che coesista nell’ordinamento penale, e non quella norma che – all’opposto – si collochi in rapporto “diacronico” rispetto ad altra che ad essa preesista, dacché in tal caso si è al cospetto di una successione di leggi penali nel tempo che si atteggia ad intervento di carattere generale frutto di una valutazione discrezionale riservata appunto al legislatore penale, e non già teso a creare una situazione di privilegio per particolari categorie di soggetti o di comportamenti. Secondo la Corte, più nel dettaglio, la Corte costituzionale non potrebbe pronunciarsi in malam partem su di una norma con la quale il legislatore sia intervenuto a modificare la risposta sanzionatoria – con riguardo a fattispecie specifiche rispetto alla disciplina generale – i virtù di una valutazione di politica sanzionatoria penale ad esso riservata (come appunto nel caso della legge Fini – Giovanardi, che ebbe a ridurre, in bonam partem, il limite edittale di pena per i fatti di cui al comma 1 dell’art.73 ridetto, segnatamente da 8 a 6 anni di reclusione). Per la Corte di Cassazione rimettente, ancora più nel dettaglio, vanno distinte ipotesi del tipo di quella decisa dalla Corte costituzionale con la (censurata) sentenza n.32 del 2014 dai casi del tipo di quello di cui alla precedente sentenza n.28 del 2010 (dove peraltro le norme interne non erano conformi alle norme europee, con violazione degli articoli 11 e 117 Cost.) e di cui alla precedente sentenza n.5 del 2014 (dove peraltro affiorava un eccesso di delega, con violazione degli articoli 76 e 25, comma 2, Cost.): in tutte e 3 le questioni rammentate il problema di costituzionalità ha investito il procedimento di formazione della “legge” oggetto del sindacato della Corte, e tuttavia – a differenza che negli altri casi – nella decisione n.32 del 2014 la Corte costituzionale non ha preservato la competenza penale del Parlamento (sovrano) da illegittime invasioni governative, intervenendo piuttosto su un provvedimento adottato dal Parlamento medesimo in sede di conversione del decreto legge pertinente, così incidendo essa stessa sulla sovranità del Parlamento, ledendone la discrezionalità in materia penale e conculcando lo stesso principio della separazione dei poteri, quanto meno in tema di determinazione della sanzione penale applicabile. La Corte di Cassazione, nella sostanza, chiede alla Corte costituzionale di ripristinare la situazione anteriore alla sentenza n.32 del 2014, giusta la quale assume la Consulta aver peraltro violato il principio della riserva di legge in materia penale con effetti in malam partem (il minimo edittale di pena con riguardo alle droghe leggere è infatti tornato ad 8 anni).
2018
Il 1° marzo viene varato il decreto legislativo n. 21 che introduce nel codice penale il nuovo art. 3 bis ai sensi del quale “nuove disposizioni che prevedono reati possono essere introdotte nell’ordinamento solo se modificano il codice penale ovvero sono inserite in leggi che disciplinano in modo organico la materia”. Questa nuova disposizione introduce nell’ordinamento la c.d. “riserva di codice” volta a porre un argine all’affastellarsi di norme incriminatrici sparse in diversi testi normativi e, quindi, a facilitare la conoscibilità delle norme incriminatrici. Peraltro, la dottrina non ha mancato di evidenziare come il principio sancito sia in effetti privo di efficacia vincolante dal momento che è stato introdotto al livello di legge ordinaria e quindi si palesa derogabile da una fonte successiva di pari efficacia, che preveda una nuova fattispecie penale “estemporanea” dal punto di vista della relativa presenza fuori dal codice penale o comunque da leggi organiche di cui alla materia pertinente.
Il 13 luglio esce l’ordinanza della Corte costituzionale n.184, che – nel rispondere alla questione di costituzionalità sollevata dalla Corte di Cassazione nel gennaio 2017 con riguardo alla precedente sentenza n.32 del 2014 in tema di droghe pesanti, droghe leggere, legge Fini – Giovanardi e trattamento sanzionatorio minimo edittale – ne dichiara la manifesta inammissibilità. Per la Corte, la questione di legittimità costituzionale investente una propria, precedente sentenza e sollevata in rapporto all’art.25, comma 2, Cost., si risolve in un inammissibile tentativo di impugnare appunto una propria precedente pronuncia, in chiara frizione con l’art.137, comma 3, Cost. alla cui stregua contro le decisioni della Corte costituzionale non è ammessa alcuna impugnazione (ivi comprese, ovviamente, quelle demolitorie).
2019
Il 6 marzo esce la sentenza della Corte costituzionale n.37 in tema di diritto fondamentale all’onore, di abrogazione del delitto di ingiuria ed ammissibilità del sindacato di costituzionalità delle norme penali di favore (con potenziali effetti in malam partem) nel solo caso di uso distorto o irragionevole del potere legislativo. La Corte, più in specie, dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, lettera a), numero 2), della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili) e dell’art. 1, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7 (Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67), sollevate, in riferimento agli artt. 10 e 117, primo comma, della Costituzione, dal Giudice di pace di Venezia; dichiara altresì inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, lettera a), numero 2), della legge n. 67 del 2014 e dell’art. 1, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 7 del 2016, sollevate, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., dal Giudice di pace di Venezia. Per la Corte, in linea di principio, devono assumersi inammissibili le questioni di legittimità costituzionale che concernano disposizioni abrogative di una previgente incriminazione, e che mirino al ripristino nell’ordinamento della norma incriminatrice abrogata (così, ex plurimis, sentenze n. 330 del 1996 e n. 71 del 1983; ordinanze n. 413 del 2008, n. 175 del 2001 e n. 355 del 1997), dal momento che a tale ripristino osta, di regola, il principio consacrato nell’art. 25, secondo comma, Cost., che riserva al solo legislatore la definizione dell’area di ciò che è penalmente rilevante. Principio, quest’ultimo, che determina in via generale l’inammissibilità di questioni volte a creare nuove norme penali, a estenderne l’ambito applicativo a casi non previsti (o non più previsti) dal legislatore (ex multis, sentenze n. 161 del 2004 e n. 49 del 2002; ordinanze n. 65 del 2008 e n. 164 del 2007), ovvero ad aggravare le conseguenze sanzionatorie o la complessiva disciplina del reato (ex multis, ordinanze n. 285 del 2012, n. 204 del 2009, n. 66 del 2009 e n. 5 del 2009). Come ribadito anche di recente dalla medesima Corte (sentenze n. 236 del 2018 e n. 143 del 2018), peraltro, tali principi non sono tuttavia senza eccezioni, potendo anzitutto venire in considerazione la necessità di evitare la creazione di “zone franche” immuni dal controllo di legittimità costituzionale, laddove il legislatore introduca, in violazione del principio di eguaglianza, norme penali di favore, che sottraggano irragionevolmente un determinato sottoinsieme di condotte alla regola della generale rilevanza penale di una più ampia classe di condotte, stabilita da una disposizione incriminatrice vigente, ovvero prevedano per detto sottoinsieme – altrettanto irragionevolmente – un trattamento sanzionatorio più favorevole (sentenza n. 394 del 2006); un controllo di legittimità con potenziali effetti in malam partem deve altresì ritenersi ammissibile quando a essere censurato è lo scorretto esercizio del potere legislativo: da parte dei Consigli regionali, ai quali non spetta neutralizzare le scelte di criminalizzazione compiute dal legislatore nazionale (sentenza n. 46 del 2014, e ulteriori precedenti ivi citati); da parte del Governo, che abbia abrogato mediante decreto legislativo una disposizione penale, senza a ciò essere autorizzato dalla legge delega (sentenza n. 5 del 2014); ovvero anche da parte dello stesso Parlamento, che non abbia rispettato i principi stabiliti dalla Costituzione in materia di conversione dei decreti-legge (sentenza n. 32 del 2014). In tali ipotesi, qualora la disposizione dichiarata incostituzionale sia una disposizione che semplicemente abrogava una norma incriminatrice preesistente (come nel caso deciso dalla sentenza n. 5 del 2014), la dichiarazione di illegittimità costituzionale della prima non potrà che comportare il ripristino della seconda, in effetti mai (validamente) abrogata. Un effetto peggiorativo della disciplina sanzionatoria in materia penale conseguente alla pronuncia di illegittimità costituzionale è stato, altresì, ritenuto ammissibile allorché esso si configuri come «mera conseguenza indiretta della reductio ad legitimitatem di una norma processuale», derivante «dall’eliminazione di una previsione a carattere derogatorio di una disciplina generale» (sentenza n. 236 del 2018). Un controllo di legittimità costituzionale con potenziali effetti in malam partem può, infine, risultare ammissibile ove si assuma la contrarietà della disposizione censurata a obblighi sovranazionali rilevanti ai sensi dell’art. 11 o dell’art. 117, primo comma, Cost. (sentenza n. 28 del 2010; nonché sentenza n. 32 del 2014, ove l’effetto di ripristino della vigenza delle disposizioni penali illegittimamente sostituite in sede di conversione di un decreto-legge, con effetti in parte peggiorativi rispetto alla disciplina dichiarata illegittima, fu motivato anche con riferimento alla necessità di non lasciare impunite «alcune tipologie di condotte per le quali sussiste un obbligo sovranazionale di penalizzazione. Il che determinerebbe una violazione del diritto dell’Unione europea, che l’Italia è tenuta a rispettare in virtù degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.»). Con riguardo alle questioni di legittimità costituzionale sottoposte all’esame della Corte, essa precisa come la disciplina abrogata (delitto di ingiuria) non si sia atteggiata a “norma penale di favore” rispetto ad altra disciplina penale di carattere generale coesistente, sottraendo a quest’ultima un sottoinsieme di ipotesi che altrimenti sarebbero ricadute nella normativa generale, come era accaduto nel caso deciso dalla sentenza n. 394 del 2006 (nonché in quello deciso dalla sentenza n. 28 del 2010). L’abrogata disposizione che criminalizzava l’ingiuria aveva invece a oggetto condotte diverse da quelle costitutive del delitto di diffamazione, le quali presuppongono tutte che la manifestazione offensiva dell’onore altrui sia diretta non alla vittima, ma a terze persone. Né viene in considerazione, nel caso in esame, uno scorretto esercizio del potere legislativo, avendo il Governo depenalizzato il delitto di ingiuria, con il decreto legislativo n. 7 del 2016, in puntuale adempimento della delega conferitagli con la legge n. 67 del 2014. Né, ancora, oggetto delle presenti questioni di legittimità costituzionale è una disciplina processuale, la cui reductio ad legitimitatem potrebbe determinare, in via collaterale e indiretta, effetti in malam partem, come nel caso deciso dalla sentenza n. 236 del 2018. Né infine, come poc’anzi sottolineato, il giudice a quo ha dimostrato che l’abrogazione del delitto di ingiuria si ponga di per sé in contrasto con gli obblighi sovranazionali che gravano sul nostro Paese. Il rimettente ha, nel caso di specie, giustamente sottolineato il carattere fondamentale del diritto all’onore, come tale ascrivibile non solo al novero del «diritti inviolabili» riconosciuti dall’art. 2 Cost. (sentenze n. 379 del 1996, n. 86 del 1974 e n. 38 del 1973), ma anche all’art. 17 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo in Italia con la legge 25 ottobre 1977, n. 881, che espressamente tutela i diritti all’onore e alla reputazione, nonché all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 4 agosto 1955, n. 848, e, nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea, all’art. 7 CDFUE, i quali ultimi tutelano il più ampio diritto al rispetto della vita privata, al cui perimetro i diritti all’onore e alla reputazione vengono tradizionalmente ricondotti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU, sezione terza, sentenza 6 novembre 2018, Vicent del Campo contro Spagna; sezione terza, sentenza 20 giugno 2017, Bogomolova contro Russia; sezione prima, sentenza 9 aprile 2009, A. contro Norvegia; sezione prima, sentenza 15 novembre 2007, Pfeifer contro Austria; sezione prima, sentenza 4 ottobre 2007, Sanchez Cardenas contro Norvegia). E tuttavia, dal riconoscimento di un diritto come “fondamentale” non discende, necessariamente e automaticamente, l’obbligo per l’ordinamento di assicurarne la tutela mediante sanzioni penali: tanto la Costituzione quanto il diritto internazionale dei diritti umani lasciano, di regola, il legislatore (e più in particolare il Parlamento, naturale depositario delle scelte in materia penale in una società democratica) libero di valutare se sia necessario apprestare tutela penale a un determinato diritto fondamentale, o se – invece – il doveroso obiettivo di proteggere il diritto stesso dalle aggressioni provenienti dai terzi possa essere efficacemente assicurato mediante strumenti alternativi, e a loro volta meno incidenti sui diritti fondamentali del trasgressore, nella logica di ultima ratio della tutela penale che ispira gli ordinamenti contemporanei. Ciò accade, segnatamente, in relazione al diritto all’onore: diritto fondamentale rispetto al quale non sono ravvisabili obblighi di incriminazione, di origine costituzionale o sovranazionale, che limitino la discrezionalità del legislatore nella determinazione delle modalità della relativa tutela. Quest’ultima, pertanto, ben potrà restare affidata – oltre che ai tradizionali rimedi aquiliani – a sanzioni pecuniarie di carattere civile, come quelle apprestate dal decreto legislativo n. 7 del 2016, sulla base di scelte non censurabili da parte di questa Corte.
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L’8 marzo esce la sentenza della Corte costituzionale n.40 che – in tema di c.d. droghe “leggere”, fatto di lieve entità e pena minima edittale assunta sproporzionata rispetto al minimo edittale per le droghe “pesanti” – dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nella parte in cui prevede la pena minima edittale della reclusione nella misura di otto anni anziché di sei anni. Per la Corte, che si pronuncia in termini “sostitutivi” del minimo edittale con effetti in bonam partem, non può essere ulteriormente differito nella materia oggetto di scandaglio il proprio intervento, essendo la Corte medesima chiamata a porre rimedio alla violazione dei principi costituzionali evocati, con conseguente accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990 nei termini in cui sono prospettate dal giudice rimettente, il quale chiede che sia dichiarata l’illegittimità costituzionale di tale disposizione, nella parte in cui prevede appunto un minimo edittale di 8 anni, anziché di 6 anni di reclusione (siccome proposto dal rimettente stesso). La misura della pena individuata dal rimettente (6 anni piuttosto che 8), benché non costituzionalmente obbligata, non è tuttavia per la Corte arbitraria: essa si ricava da previsioni già rinvenibili nell’ordinamento, specificamente nel settore della disciplina sanzionatoria dei reati in materia di stupefacenti, e si colloca in tale ambito in modo coerente alla logica perseguita dal legislatore. Il giudice rimettente, infatti, trae l’indicazione della misura della pena minima per i fatti non lievi anzitutto dalla previsione introdotta con l’art. 4-bis del d.l. n. 272 del 2005 per i medesimi fatti, che ancora conserva viva traccia applicativa nell’ordinamento in considerazione degli effetti non retroattivi della sentenza n. 32 del 2014. Inoltre, sei anni è altresì la pena massima – a cui pure fa riferimento l’ordinanza di rimessione – prevista dal vigente comma 4 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 per i fatti di non lieve entità aventi ad oggetto le sostanze di cui alle tabelle II e IV previste dal richiamato art. 14 del d.P.R. n. 309 del 1990. Sempre in sei anni il legislatore aveva altresì individuato la pena massima per i fatti di lieve entità concernenti le droghe “pesanti”, vigente il testo originario del d.P.R. n. 309 del 1990, misura mantenuta come limite massimo della pena per i fatti lievi anche dal successivo d.l. n. 272 del 2005 che pure ha eliminato dal comma 5 la distinzione tra droghe “pesanti” e droghe “leggere“. In una parola, la pena di sei anni è stata ripetutamente indicata dal legislatore come misura adeguata ai fatti “di confine“, che nell’articolato e complesso sistema punitivo dei reati connessi al traffico di stupefacenti si pongono al margine inferiore delle categorie di reati più gravi o a quello superiore della categoria dei reati meno gravi. In tale contesto, è appropriata la richiesta di ridurre a sei anni di reclusione la pena minima per i fatti di non lieve entità di cui al comma 1 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, al fine di porre rimedio ai vizi di illegittimità costituzionale denunciati, il giudice rimettente avendo difatti individuato – secondo i criteri elaborati dalla giurisprudenza costituzionale più recente – una previsione sanzionatoria già rinvenibile nell’ordinamento che, trasposta all’interno della norma censurata, si situa coerentemente lungo la dorsale sanzionatoria prevista dai vari commi dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 e rispetta la logica della disciplina voluta dal legislatore (sentenza n. 233 del 2018). È appena il caso di osservare – chiosa infine la Corte – che la misura sanzionatoria indicata, non costituendo una opzione costituzionalmente obbligata, resta soggetta a un diverso apprezzamento da parte del legislatore sempre nel rispetto del principio di proporzionalità (sentenza n. 222 del 2018).
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Il 17 aprile esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 16790 in tema di applicazione di una pena diventata illegittima a seguito di una sentenza della Consulta. L’accordo concluso tra le parti e ratificato dal giudice, in epoca precedente alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 73 comma 1 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, nella misura del minimo edittale ora prevista in anni sei di reclusione, comporta l’applicazione di una pena illegale, di talché va annullata senza rinvio la relativa sentenza di patteggiamento.
In proposito, il Collegio condivide il principio secondo cui all’applicazione della nuova normativa nei processi in corso, in quanto più favorevole, non è di ostacolo l’inammissibilità del ricorso trattandosi di questione che deve essere rilevata di ufficio ex art. 609 cod.proc.pen..
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Il 21 giugno esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 155 sulla legittimità della diversità del tasso di conversione della pena detentiva in pena pecuniaria in caso di decreto penale di condanna o in tutti gli altri riti previsti dal sistema processualpenalistico.
Premessa generale da cui parte la Corte è l’ampia discrezionalità riservata al legislatore in sede di determinazione del trattamento sanzionatorio.
L’innalzamento del tasso di conversione tra pena detentiva e pena pecuniaria – da 38 euro a 250 euro al giorno – ad opera della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) aveva determinato un disincentivo al ricorso, da parte della pubblica accusa, al procedimento per decreto penale di condanna in conseguenza dell’aumento esponenziale delle opposizioni ai decreti emessi, a loro volta legato all’eccessivo ammontare delle sanzioni pecuniarie irrogate sulla base di tale nuovo tasso di conversione. Numerose erano state, pertanto, le richieste di un intervento del legislatore, al fine di incentivare nuovamente il ricorso al rito in parola e alle conseguenti definizioni anticipate dei procedimenti penali, essenzialmente in chiave deflattiva del contenzioso penale.
Il nuovo comma 1-bis dell’art. 459 cod. proc. pen. oggetto di scrutinio – che consente di determinare entro una forbice piuttosto ampia (da 75 a 225 euro) il tasso di conversione giornaliero della pena detentiva in sede di decreto penale di condanna – costituisce per l’appunto la risposta del legislatore alle esigenze emerse nella prassi, calibrate sulle specificità del procedimento per decreto: un procedimento che scommette sulla possibilità che l’imputato accetti la pena irrogatagli al di fuori del contraddittorio, con conseguente prezioso risparmio di energie per la giurisdizione penale, in cambio – in genere – di un consistente sconto rispetto allo stesso minimo edittale della pena e – in ogni caso – a fronte della rinuncia alla pena detentiva da parte della pubblica accusa.
Tali considerazioni consentono pianamente di escludere la manifesta irragionevolezza della disciplina censurata, anche in rapporto alle diverse discipline dettate per la conversione delle pene detentive nell’ambito del rito ordinario o di altri riti speciali.
Privo di fondamento viene giudicato anche l’ulteriore dubbio di conformità della disciplina censurata rispetto all’art. 3 Cost., sul presupposto che il comma 1-bis dell’art. 459 cod. proc. pen., nell’imporre al giudice di determinare la pena pecuniaria da irrogare in sostituzione della pena detentiva tenendo conto della condizione economica complessiva dell’imputato e del suo nucleo familiare, determinerebbe una irragionevole disparità di trattamento «fra i soggetti meno abbienti (giudicati più favorevolmente) ed i soggetti più abbienti (giudicati meno favorevolmente)».
La graduazione della sanzione pecuniaria a seconda delle condizioni economiche dell’imputato e del suo nucleo familiare, lungi dal risultare lesiva dell’art. 3 Cost., ne realizza precipuamente il fine di evitare un’impropria parificazione di situazioni e condizioni tra loro diverse. La considerazione delle condizioni economiche del reo nella determinazione della pena pecuniaria costituisce, a ben guardare, un naturale riflesso dello stesso principio costituzionale di eguaglianza, dal momento che l’impatto “esistenziale” di sanzioni pecuniarie di identico importo può essere in concreto assai diverso, secondo le differenti condizioni dell’autore; di talché proprio tali differenti condizioni economiche giustificano la commisurazione di sanzioni di diversa entità, pur a fronte di illeciti di pari gravità.
Nemmeno risultano fondate le questioni sollevate in relazione all’art. 27 Cost.
Non coglie nel segno la censura secondo cui contrasterebbe con il principio di personalità della responsabilità penale (art. 27, primo comma, Cost.) la necessità di considerare le condizioni economiche non solo dell’imputato, ma anche del suo nucleo familiare nella determinazione del tasso di conversione tra pene all’interno della forbice tra 75 e 225 euro. La prescrizione in parola risulta, infatti, funzionale a garantire proprio un maggior grado di individualizzazione della pena – principio, quest’ultimo, sotteso allo stesso imperativo costituzionale della “personalità” della responsabilità penale (sentenza n. 222 del 2018) –, essendo evidente, ad esempio, come l’impatto della sanzione pecuniaria sia diverso a seconda della sussistenza o meno di oneri di mantenimento di altri componenti del nucleo familiare privi di proprie risorse.
Tale esigenza di individualizzazione della pena sottesa alla disposizione censurata è, del resto, ulteriormente valorizzata dalla recente giurisprudenza di legittimità, secondo la quale il giudice è bensì vincolato alla misura della pena detentiva richiesta dal pubblico ministero, ma può discostarsi da tale richiesta quanto al tasso giornaliero utilizzato per la sua conversione in pena pecuniaria, ovviamente all’interno della forbice tra 75 e 225 euro individuata dal legislatore.
Né può essere accolta la censura secondo cui l’eccessiva tenuità del trattamento sanzionatorio risultante dall’applicazione del criterio di ragguaglio tra pena detentiva e pena pecuniaria introdotto dall’art. 459, comma 1-bis, cod. proc. pen. pregiudicherebbe la finalità rieducativa della pena, prescritta dall’art. 27, terzo comma, Cost. Tale finalità risulta infatti costantemente evocata, nella giurisprudenza costituzionale, in relazione alla necessità che la pena non sia sproporzionata per eccesso rispetto alla gravità del fatto di reato (ex multis, sentenze n. 40 del 2019, n. 233 e n. 222 del 2018), e non certo a sostegno di pronunce il cui effetto sia quello di inasprire il trattamento sanzionatorio previsto discrezionalmente dal legislatore.
Infondato è, infine, il dubbio di costituzionalità della disciplina censurata sollevato, con riferimento all’art. 111 Cost.
In relazione a tale principio, la giurisprudenza costituzionale ha ripetutamente affermato che – «alla luce dello stesso richiamo al connotato di “ragionevolezza”, che compare nella formula costituzionale – possono arrecare un vulnus a quel principio solamente le norme “che comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorrette da alcuna logica esigenza” (ex plurimis, sentenze n. 23 del 2015, n. 63 e n. 56 del 2009, n. 148 del 2005)» (sentenza n. 12 del 2016; nello stesso senso, sentenza n. 91 del 2018).
Non è questo, all’evidenza, il caso della disposizione censurata. Il – contenuto – dispendio di attività istruttorie supplementari da parte del pubblico ministero relativamente alle condizioni economiche dell’imputato e del suo nucleo familiare (su cui si vedano Cass., n. 22458 e n. 41596 del 2018) risulta congruamente giustificato dall’evidente beneficio in termini di “personalizzazione” della risposta sanzionatoria assicurato dalla disposizione in esame: ciò che appare altresì funzionale a ridurre il rischio di opposizioni imperniate soltanto sull’incongruità della pena inflitta in relazione alle condizioni economiche del reo e del suo nucleo familiare.
* * *
Il 22 novembre esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 242 che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione –, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
La Corte riprende il filo del discorso già imbastito con l’ordinanza n.207 del 2018, prendendo atto che l’invito fatto al legislatore di intervenire in una materia molto delicata come quella dell’aiuto al suicidio – almeno in parte già dichiarata non conforme a Costituzione nella ridetta ordinanza n.207 del 2018 – non è stata tempestivamente raccolta dal Parlamento nel termine ad esso assegnato in forza del potere di gestione del processo costituzionale che alla Consulta fa capo.
Per la Corte, massime nei casi in cui la materia coinvolga diritti fondamentali, laddove la discrezionalità del Legislatore tardi ad attivarsi giusta disciplina di tale delicata materia, spetta alla Corte “riempire” il contenitore disciplinare rimasto vuoto con un quid che, ancorché non costituzionalmente vincolato (e dunque in futuro modificabile dallo stesso Legislatore), possa in qualche misura (e di necessità) sopperire al vuoto di tutela, a carattere incostituzionale, siccome riscontrato dalla Corte stessa.
Tale “riempimento” può intervenire facendo riferimento a norme già presenti nel sistema ordinamentale, come nel caso della legge 219.07 in tema di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento (c.d. DAT) e della precedente legge 38.10 in tema di garanzia di accesso del paziente a cure palliative ed alla terapia del dolore.
Occorre ad un tempo, in simili fattispecie, garantire un controllo pubblico che controbilanci la vulnerabilità dei soggetti coinvolti nella singola vicenda di “aiuto al suicidio”, che non è punito proprio e solo laddove scatti tale controllo pubblico, per la Corte da affidarsi ai Comitati etici territorialmente competenti.
Operativo un simile controllo pubblico, sono fattispecie nelle quali può essere agevolata l’esecuzione del proposito di suicidio senza incorrere nella sanzione penale di cui all’art.580 c.p. quelle in cui tale proposito si sia formato in modo autonomo e libero in capo ad una persona che sia tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e che sia affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella trova intollerabili; deve trattarsi di una persona pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, che sia stata inoltre adeguatamente informata in ordine alle possibili soluzioni alternative, segnatamente con riguardo all’accesso alle cure palliative ed, eventualmente, alla sedazione profonda continua.
La Corte termina auspicando nuovamente l’intervento (sommamente opportuno) del Legislatore e precisando, sul crinale diacronico, che quanto da essa disposto si applica solo ai fatti commessi successivamente alla pubblicazione della pertinente decisione, mentre riguardo ai fatti anteriori la non punibilità dell’aiuto al suicidio ex art.580 c.p. resta subordinata alla circostanza onde l’agevolazione sia stata in concreto prestata con modalità che, seppure diverse da quelle indicate, si siano rivelate comunque idonee ad offrire garanzie sostanzialmente equivalenti.
Più in specie, per i fatti pregressi occorre che le condizioni del richiedente che valgono a rendere lecita la prestazione dell’aiuto – patologia irreversibile, grave sofferenza fisica o psicologica, dipendenza da trattamenti di sostegno vitale e capacità di prendere decisioni libere e consapevoli – abbiano formato oggetto di verifica in ambito medico; che la volontà dell’interessato sia stata manifestata in modo chiaro e univoco, compatibilmente con quanto è consentito dalle relative condizioni; che il paziente sia stato adeguatamente informato in ordine alle possibili soluzioni alternative, segnatamente con riguardo all’accesso alle cure palliative ed, eventualmente, alla sedazione profonda continua: requisiti tutti la cui sussistenza – soggiunge la Corte – deve essere verificata dal giudice nel caso concreto.
2020
Il 20 ottobre esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 219, secondo cui sono manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale, sollevate con riferimento agli artt. 3, 30 e 34 Cost., dell’art. 731 c.p., nella parte in cui sanziona l’inosservanza dell’obbligo di impartire o far impartire la “istruzione elementare” e non anche l’analogo inadempimento riguardo alla “scuola media inferiore di primo grado” ed ai “primi due anni dell’istruzione secondaria superiore”.
2021
Il 16 aprile esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 68, alla stregua della quale va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), in quanto interpretato nel senso che la disposizione non si applica in relazione alla sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida, disposta con sentenza irrevocabile ai sensi dell’art. 222, comma 2, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada).
I quesiti sottoposti allo scandaglio della Corte evocano la tematica dei limiti alla cosiddetta retroattività delle sentenze di accoglimento di questioni di legittimità costituzionale. Nella loro analisi, è indispensabile muovere da una preliminare ricognizione del panorama normativo e giurisprudenziale di riferimento.
L’art. 30 della legge n. 87 del 1953 enuncia, come è noto, due regole in tema di effetti nel tempo delle pronunce di accoglimento. La prima, di ordine generale, è quella posta dal terzo comma, per cui, dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione, «[l]e norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione».
Come la Corte ha da tempo posto in luce, tale disposizione costituisce fedele traduzione del principio ricavabile dall’art. 136, primo comma, Cost., letto in combinazione con l’art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 (Norme sui giudizi di legittimità costituzionale e sulle garanzie d’indipendenza della Corte costituzionale): principio in base al quale le sentenze di accoglimento producono i loro effetti anche sui rapporti sorti precedentemente, purché, però, non definitivamente “chiusi” sul piano giuridico; dunque, con esclusione dei rapporti «esauriti» (sentenze n. 10 del 2015, n. 1 del 2014, n. 3 del 1996, n. 139 del 1984 e n. 127 del 1966; ordinanza n. 135 del 2010), quali, anzitutto, quelli coperti sul piano processuale dal giudicato (sentenze n. 235 del 1989, n. 139 del 1984 e n. 127 del 1966).
Soluzione, questa, coerente con l’esigenza di tutela della certezza delle situazioni giuridiche (sentenze n. 10 del 2015 e n. 26 del 1969).
Il quarto comma dell’art. 30 della legge n. 87 del 1953, oggi censurato, pone, tuttavia, una regola specifica e distinta con riguardo alla materia penale, stabilendo che «[q]uando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali».
Come emerge anche dai relativi lavori parlamentari, si tratta di regola suggerita dalle peculiarità della materia considerata e dalla gravità con cui le sanzioni penali incidono sulla libertà personale o su altri interessi fondamentali dell’individuo. In omaggio al favor libertatis e al favor rei, il legislatore ha inteso conferire alla dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice effetti analoghi a quelli derivanti dal fenomeno dell’abolitio criminis, di cui all’art. 2, secondo comma, del codice penale, ossia la retroattività favorevole illimitata, che implica il travolgimento del giudicato.
La disposizione ha trovato eco e ulteriore sviluppo, sul versante processuale, nell’art. 673 del codice di procedura penale del 1988, ove si prevede che, nel caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice – così come in quello della sua abrogazione –, il giudice dell’esecuzione revoca la sentenza di condanna, dichiarando che il fatto non è previsto della legge come reato, e adotta i provvedimenti conseguenti.
Per effetto di una terna di pronunce delle sezioni unite penali della Corte di cassazione (sentenze 24 ottobre 2013-7 maggio 2014, n. 18821; 29 maggio-14 ottobre 2014, n. 42858; 26 febbraio-15 settembre 2015, n. 37107), è venuta, peraltro, a consolidarsi, nella giurisprudenza di legittimità, una interpretazione ampia (in precedenza controversa) dell’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953, quanto al tipo di declaratoria di illegittimità costituzionale che infrange il giudicato.
Tale attitudine viene, cioè, riconosciuta non solo alla pronuncia che rimuova, in tutto o in parte, la norma incriminatrice, producendo un’abolitio criminis, ma anche a quella che si limiti ad incidere (in senso mitigativo) sul trattamento sanzionatorio (ad esempio, eliminando una circostanza aggravante o rimodulando la cornice edittale): ipotesi nella quale il condannato in via definitiva può ottenere la sostituzione della pena inflittagli con quella conforme a Costituzione tramite lo strumento dell’incidente di esecuzione, sempre che la pena stessa non sia già stata interamente eseguita.
Tale soluzione ermeneutica poggia sull’affermazione di principio per cui l’istanza di legalità della pena «è un tema che, in fase esecutiva, deve ritenersi costantemente sub iudice […] non potendosi tollerare che uno Stato democratico di diritto assista inerte all’esecuzione di pene non conformi alla […] Carta fondamentale».
Nel bilanciamento, tale esigenza prevale sul valore, pure di rilievo costituzionale, espresso dal giudicato a presidio di esigenze di certezza e stabilità dei rapporti giuridici (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza n. 18821 del 2014).
Nell’ipotesi considerata non può quindi invocarsi l’avvenuto esaurimento del rapporto: il limite di impermeabilità del giudicato alla sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale della norma applicata è qui costituito piuttosto dalla irreversibilità degli effetti del giudicato stesso, in quanto ormai “consumati”, come nel caso di condannato che abbia già scontato integralmente la pena.
Per contro, fin quando l’esecuzione della pena è in atto, «gli effetti della norma dichiarata costituzionalmente illegittima sono ancora perduranti e, dunque, possono e devono essere rimossi» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza n. 42858 del 2014). Garante della legalità della pena in fase esecutiva è il giudice dell’esecuzione, cui compete, se richiesto ai sensi dell’art. 666 cod. proc. pen., di ricondurre la pena inflitta nei binari della legittimità costituzionale.
La base normativa di tale intervento è offerta appunto – secondo le sezioni unite – dall’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953: disposizione alla quale deve riconoscersi un perimetro operativo più esteso rispetto a quello dell’art. 673 cod. proc. pen. (che, nel prevedere la revoca della sentenza di condanna, evoca la sola declaratoria di illegittimità costituzionale che rimuova il reato).
Il riferimento generico alla «norma dichiarata incostituzionale», contenuto nella disposizione del 1953, si presterebbe, infatti, a richiamare qualsiasi tipologia di norma penale, comprese, quindi, quelle che incidono sull’entità del trattamento sanzionatorio (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenze n. 37107 del 2015, n. 42858 del 2014 e n. 18821 del 2014).
Si tratta di interpretazione che questa Corte ha avuto modo di qualificare, in più occasioni, come «non implausibile» (sentenze n. 43 del 2017, n. 57 del 2016 e n. 210 del 2013) e che appare, in ogni caso, senz’altro configurabile, allo stato attuale, in termini di diritto vivente.
Viene però oggi in rilievo un ulteriore e distinto problema: l’estensione, cioè, del campo applicativo della norma censurata – in nome dello stesso principio – con riguardo al tipo di sanzione attinta dalla declaratoria di illegittimità costituzionale (non solo la sanzione penale, ma anche la sanzione amministrativa qualificabile come penale ai sensi della CEDU).
Sul presupposto che tale ulteriore risultato non fosse viceversa conseguibile in via di interpretazione, questa Corte è già stata chiamata in precedenza a verificare se la connessa limitazione della sfera di operatività dell’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 rechi un vulnus agli artt. 3, 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost. (quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU).
Ciò, a seguito di un incidente di costituzionalità sollevato nell’ambito di un giudizio di opposizione all’esecuzione di cartelle esattoriali per il pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, applicata con sentenza irrevocabile sulla base di una norma dichiarata poi costituzionalmente illegittima per eccesso di delega (con conseguente reviviscenza delle più miti sanzioni amministrative previste dalla normativa anteriore).
Con la sentenza n. 43 del 2017 le questioni sono state dichiarate, peraltro, non fondate. Questa Corte ha osservato che l’attrazione di una sanzione amministrativa nella materia penale in virtù dei “criteri Engel” trascina con sé tutte e soltanto le garanzie previste dalla CEDU, come elaborate dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo: giurisprudenza nella quale non si rinviene l’affermazione di un principio analogo a quello affermato dalla norma censurata (che impedisca, cioè, l’esecuzione di una sanzione sostanzialmente penale inflitta con sentenza irrevocabile sulla base di una norma poi dichiarata incostituzionale).
Il legislatore nazionale, dal canto suo, può bene apprestare garanzie ulteriori rispetto a quelle previste dalla Convenzione, riservandole alle sole sanzioni qualificate come penali dall’ordinamento interno. È vero – si osserva nella citata sentenza – che questa Corte ha «occasionalmente» riferito l’art. 25, secondo comma, Cost. anche a misure diverse dalle pene in senso stretto: ma lo ha fatto limitatamente al «contenuto essenziale» del precetto costituzionale (il principio di irretroattività della norma sfavorevole) e «in riferimento a misure amministrative incidenti su libertà fondamentali che coinvolgono anche i diritti politici del cittadino».
Si è rilevato, infine, che per le sanzioni penali è prevista una fase esecutiva, che – nella ricostruzione operata dalla giurisprudenza di legittimità – vede attribuito al giudice dell’esecuzione il ruolo di garante della legalità della pena: il che non accadeva, invece, per le sanzioni amministrative di cui allora si discuteva, la cui esecuzione obbediva a principi affatto differenti, essendo il relativo giudice investito della sola cognizione del titolo esecutivo.
Il problema della sorte delle sanzioni amministrative applicate con sentenza irrevocabile sulla base di disposizioni dichiarate successivamente incostituzionali è stato riportato, tuttavia, all’attenzione degli interpreti dalla vicenda che è alla radice dell’odierno incidente di legittimità costituzionale: vale a dire dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale del meccanismo di applicazione automatica della sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida, nei casi di condanna o di patteggiamento della pena per i reati di omicidio stradale e di lesioni personali stradali gravi o gravissime, previsto dall’art. 222, comma 2, quarto periodo, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), come modificato dall’art. 1, comma 6, lettera b), numero 1), della legge 23 marzo 2016, n. 41 (Introduzione del reato di omicidio stradale e del reato di lesioni personali stradali, nonché disposizioni di coordinamento al decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e al decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274).
Con la sentenza n. 88 del 2019, questa Corte ha ritenuto che tale automatismo sanzionatorio – esteso in modo indiscriminato a tutte le fattispecie di omicidio e lesioni personali stradali (gravi o gravissime), ricorressero o meno le circostanze aggravanti previste dagli artt. 589-bis e 590-bis cod. pen., che qualificano negativamente i fatti sul piano della colpevolezza e in rapporto alle quali sono previste pene distinte e graduate – vulnerasse i principi di uguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità.
L’automatica applicazione della revoca della patente poteva giustificarsi, in effetti, solo per le ipotesi più gravi e più severamente punite di cui al secondo e al terzo comma, sia dell’art. 589-bis, sia dell’art. 590-bis cod. pen. (essersi posti alla guida in stato di ebbrezza alcolica o sotto l’effetto di stupefacenti): sotto tale livello, doveva essere lasciata invece al giudice la possibilità di effettuare una «valutazione individualizzante», sulla base delle circostanze del caso concreto; in particolare, nel senso di consentirgli, «secondo la gravità della condotta del condannato», sia di disporre la sanzione amministrativa della revoca, sia di applicare quella, «meno afflittiva», della sospensione della patente per la durata massima prevista dal secondo e dal terzo periodo del medesimo comma 2 dell’art. 222 cod. strada.
Il citato art. 222, comma 2, quarto periodo, cod. strada è stato dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che, in caso di condanna o patteggiamento della pena per i reati dianzi indicati, «il giudice possa disporre, in alternativa alla revoca della patente di guida, la sospensione della stessa ai sensi del secondo e terzo periodo dello stesso comma 2 dell’art. 222 cod. strada allorché non ricorra alcuna delle circostanze aggravanti previste dai rispettivi commi secondo e terzo degli artt. 589-bis e 590-bis cod. pen.».
Di seguito a ciò, numerose persone, la cui patente di guida era stata revocata con sentenza passata in giudicato sulla base della norma dichiarata incostituzionale – e, tra esse, anche il ricorrente nel giudizio a quo – si sono rivolte al giudice dell’esecuzione, chiedendogli di “rimodulare” tale sanzione alla luce della pronuncia di questa Corte: ossia, in pratica, di sostituire la revoca della patente con la semplice sospensione.
Ad avviso dell’odierno rimettente, ove si facesse applicazione della sentenza n. 88 del 2019, il ricorrente sarebbe effettivamente meritevole della sostituzione, essendo stato giudicato per un fatto di omicidio stradale semplice, con addebiti di colpa di lieve entità. Tuttavia, l’istanza non potrebbe essere accolta, stante la riferibilità dell’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 alle sole sanzioni penali, in ragione del suo tenore letterale.
Il giudice a quo torna, di conseguenza, ad interrogare questa Corte sulla legittimità costituzionale, in parte qua, di tale disposizione con riguardo ad una più ampia platea di parametri, invitandola a rivedere le conclusioni cui era pervenuta nella sentenza n. 43 del 2017, alla luce, sia della particolare natura della sanzione di cui si discute nella specie, sia dei mutamenti della giurisprudenza costituzionale intervenuti dopo la precedente pronuncia.
Ciò posto, e salvo quanto si osserverà più avanti in ordine alla esatta delimitazione del thema decidendum, le questioni sollevate appaiono in grado di superare il vaglio preliminare di ammissibilità.
Risultano superabili, in particolare, i dubbi legati ad un eventuale difetto di competenza del giudice a quo a provvedere, quale giudice dell’esecuzione, anche sulla richiesta di sostituzione della sanzione amministrativa accessoria. Per costante giurisprudenza di questa Corte, alla luce del principio di autonomia del giudizio incidentale di legittimità costituzionale rispetto al processo principale, il difetto di competenza del giudice a quo – al pari del difetto di giurisdizione – costituisce causa di inammissibilità della questione solo se manifesto, ossia rilevabile ictu oculi (tra le altre, sentenza n. 136 del 2008; ordinanze n. 144 del 2011 e n. 134 del 2000).
Nella specie, il rimettente motiva in ordine alla propria competenza, rilevando che, se pure la revoca della patente disposta dal giudice penale necessita, per la sua esecuzione, di un provvedimento del prefetto (art. 224, comma 2, cod. strada), tale provvedimento rappresenta – come rilevato anche da questa Corte nella sentenza n. 88 del 2019 – mero recepimento della statuizione giudiziale. Di conseguenza, il compito di vigilare sulla perdurante rispondenza della sanzione amministrativa al principio di legalità, per tutto il corso della sua esecuzione, non potrebbe spettare se non allo stesso giudice penale: lo stretto nesso di dipendenza del provvedimento amministrativo dal giudicato penale non consentirebbe la revoca del primo senza la parziale caducazione del secondo.
Si tratta di tesi che, di là dai possibili margini di valutazione degli argomenti che la sostengono, appare, comunque sia, non manifestamente implausibile. Essa risulta, peraltro, implicitamente avvalorata dalle sentenze, di cui presto si darà conto, con le quali la Corte di cassazione – pronunciando su ricorsi proposti avverso provvedimenti di giudici dell’esecuzione – ha escluso la possibilità di modificare il giudicato in applicazione della sentenza n. 88 del 2019, ma solo in ragione della ritenuta estraneità della sanzione della revoca della patente al cono applicativo dell’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953, senza porre affatto in discussione la competenza del giudice dell’esecuzione a pronunciare sulla relativa istanza.
L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni sotto un distinto profilo, connesso al fatto che la sanzione, su cui si controverte nella specie, non potrebbe essere ritenuta – contrariamente a quanto assume il rimettente – ancora in corso di esecuzione: condizione, questa, indispensabile – come si è visto – affinché l’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 possa trovare applicazione, nella lettura più lata patrocinata dalla giurisprudenza di legittimità.
Secondo la difesa dell’interveniente, l’esecuzione della sanzione della revoca della patente si risolverebbe e si esaurirebbe nel provvedimento prefettizio di rimozione del titolo abilitativo alla guida: provvedimento che, nella specie, è già stato adottato. Sarebbe, dunque, impensabile che il giudice dell’esecuzione possa sostituire la revoca della patente con la misura della sospensione – la quale presuppone che l’interessato sia munito di valido titolo di abilitazione alla guida – facendo “rivivere” un titolo che è già stato ormai definitivamente rimosso.
L’eccezione non è fondata. Come correttamente osserva il giudice a quo, al provvedimento di revoca della patente, adottato a seguito della condanna penale, si accompagna un ulteriore effetto: quello, cioè, di precludere il conseguimento di una nuova patente di guida prima del decorso di un determinato periodo di tempo, pari, nei casi ordinari, a cinque anni dalla revoca (art. 222, comma 3-ter, primo periodo, cod. strada); termine che, nella specie, non è ancora spirato.
Sul punto, non coglie nel segno l’obiezione dell’Avvocatura dello Stato, secondo la quale le disposizioni, contenute nei commi 3-bis e 3-ter del citato art. 222 cod. strada, che stabiliscono i termini per il conseguimento di una nuova patente dopo la revoca, riguardano la disciplina amministrativa di settore e restano estranee alla sfera della giurisdizione penale. La revoca della patente è, infatti, nella sostanza, una sanzione interdittiva della circolazione alla guida dei veicoli a motore. Essa è la risultante di due componenti: la perdita del titolo abilitativo già posseduto (con conseguente necessità di ripetere l’esame di abilitazione alla guida, diversamente che nel caso della sospensione) e l’inibizione al conseguimento di un nuovo titolo prima di un certo tempo.
Tanto è vero che l’art. 222, comma 2, ultimo periodo, cod. strada stabilisce espressamente che – di seguito alla comunicazione della sentenza di condanna o di patteggiamento – il prefetto deve emettere, nei confronti dell’interessato, «provvedimento [non soltanto] di revoca della patente [ma anche] di inibizione alla guida sul territorio nazionale, per un periodo corrispondente a quello per il quale si applica la revoca della patente».
Questa componente inibitoria fa pienamente parte del contenuto della sanzione, rappresentandone un aspetto qualificante. Avrebbe poco senso, infatti, revocare la patente al condannato, se questi potesse conseguirne una nuova subito dopo: col risultato che la revoca diverrebbe, di fatto, una sanzione più lieve della sospensione (la quale inibisce la guida per tutta la sua durata, pur lasciando il condannato nella titolarità della patente). Al contrario, la sospensione è la sanzione più mite, anche (e soprattutto) perché la sua durata è inferiore a quella dell’inibizione al conseguimento di una nuova patente dopo la revoca.
L’art. 222, comma 2, secondo e terzo periodo, cod. strada prevede, infatti, solo limiti temporali massimi (quattro anni nel caso di omicidio stradale, due anni nel caso di lesioni personali stradali gravi o gravissime), sotto i quali il giudice può discrezionalmente sospendere la patente anche per periodi di tempo nettamente più contenuti.
È giocoforza, di conseguenza, concludere che, fin quando è pendente il termine per il conseguimento di un nuovo titolo abilitativo, l’esecuzione della sanzione perdura.
Occorre, però, a questo punto, portare l’attenzione sulle premesse ermeneutiche che fondano i quesiti.
Come già accennato, il rimettente esclude in modo motivato che la norma censurata si presti a una interpretazione adeguatrice, la quale attragga nel suo ambito applicativo sanzioni amministrative “sostanzialmente penali”, quale, in assunto, la revoca della patente. Il tenore letterale della norma, nella parte in cui fa riferimento alla «sentenza irrevocabile di condanna» e ai suoi «effetti penali», lascerebbe, infatti, intendere come essa attenga alle sole «sanzioni formalmente penali e alle statuizioni tipicamente penali».
Il giudice a quo ricorda pure come l’estensibilità della norma censurata alle sanzioni amministrative aventi natura penale agli effetti della CEDU fosse stata affermata incidentalmente dalla quinta sezione penale della Corte di cassazione nell’ordinanza 10 novembre 2014-15 gennaio 2015, n. 1782, senza, tuttavia, che tale soluzione venisse recepita da questa Corte nella sentenza n. 43 del 2017.
Ciò è avvenuto, peraltro, in un panorama nel quale la citata pronuncia del giudice di legittimità appariva isolata e in contrasto con una – sia pur remota e altrettanto isolata – decisione della Corte di cassazione civile (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 20 gennaio 1994, n. 458).
La situazione appare però ora mutata, per effetto della giurisprudenza formatasi proprio sullo specifico problema oggetto del giudizio a quo: quello, cioè, della legittimazione del giudice dell’esecuzione a modificare la statuizione della sentenza irrevocabile di condanna relativa alla revoca della patente, per adeguarla alla sentenza n. 88 del 2019.
La Corte di cassazione si è, infatti, già ripetutamente espressa al riguardo, rilevando come il problema si risolva nello stabilire se la revoca della patente – di là dalla qualificazione nominalistica di «sanzione amministrativa accessoria» – possa essere fatta rientrare, o no, nel novero degli «effetti penali» della condanna, di cui la norma censurata impone la cessazione. A tal fine, la Corte di cassazione ha ritenuto «utilizzabili i noti parametri Engel, tratti dalla sedimentata giurisprudenza di Strasburgo, per cui la sanzione può essere definita penale – al di là del nomen attribuito dal legislatore interno – in rapporto all’analisi concreta delle finalità perseguite e del grado di afflittività, nel senso che lì dove risulti prevalente la finalità punitiva (rispetto a quella preventiva) o lì dove risulti particolarmente elevato il grado di afflittività, la misura in questione va attratta nel cono delle garanzie penalistiche».
Tale affermazione, contenuta in una pronuncia di poco anteriore all’ordinanza di rimessione (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 14 novembre 2019-17 gennaio 2020, n. 1804), e ripresa, testualmente o nella sostanza, in plurime decisioni successive (Corte di cassazione, sezione feriale penale, sentenza 20-24 agosto 2020, n. 24023; sezione prima penale, sentenza 3 marzo-10 giugno 2020, n. 17834; sezione prima penale, sentenza 20 febbraio-9 giugno 2020, n. 17508; sezione prima penale, sentenza 20 febbraio-9 giugno 2020, n. 17506; sezione prima penale, 26 febbraio-30 aprile 2020, n. 13451), equivale al riconoscimento che la norma censurata – già interpretata in modo estensivo dalla giurisprudenza di legittimità, sulla base della ratio legis, quanto al tipo di declaratoria di incostituzionalità che incide sul giudicato – si presta a una lettura di analoga fatta anche quanto al novero delle sanzioni attinte dalla declaratoria di incostituzionalità, tale da ricomprendere, in particolare, le sanzioni amministrative con caratteristiche punitive al metro dei “criteri europei”.
Senonché, con specifico riguardo alla revoca della patente, la Corte di cassazione ha poi risposto in senso negativo alla domanda che essa stessa si era posta: ha negato, cioè, che – contrariamente a quanto sostiene l’odierno rimettente – la revoca della patente possa ritenersi sanzione di natura sostanzialmente penale sulla base di quei criteri, traendo da ciò la conseguenza che il giudice dell’esecuzione non sarebbe abilitato a sostituirla con la sospensione a modifica del giudicato.
La revoca della patente avrebbe, infatti, una finalità preventiva, e non già repressiva: costituirebbe una misura a tutela della sicurezza della circolazione stradale, inibendo la guida di veicoli a motore a soggetti che, con la loro condotta, si sono dimostrati pericolosi, «con estraneità funzionale agli aspetti meramente afflittivi della pena» (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza n. 1804 del 2020, sulla cui scia tutte le altre sentenze dianzi citate).
L’inibizione è, d’altra parte, circoscritta ad un ambito temporale limitato, decorso il quale è possibile ottenere un nuovo titolo abilitativo alla guida: onde neppure il «grado di afflittività» della sanzione sarebbe tale da giustificare il superamento del dato nominalistico (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza n. 1804 del 2020; in senso analogo, sezione prima penale, sentenza 25 settembre-22 dicembre 2020, n. 37034; sezione feriale penale, n. 24023 del 2020; sezione prima penale, sentenza n. 13451 del 2020).
In sostanza, dunque, la giurisprudenza di legittimità – rovesciando entrambe le premesse interpretative da cui muove il giudice a quo – da un lato riconosce, ormai con plurime pronunce, che la norma censurata si presta ad essere applicata anche alle sanzioni amministrative “sostanzialmente penali”; ma dall’altro nega, in modo altrettanto costante, che la revoca della patente abbia una simile natura, e conseguentemente esclude che il giudice dell’esecuzione sia abilitato ad effettuare l’operazione cui il rimettente intenderebbe procedere nel caso di specie.
In questo quadro, i quesiti di costituzionalità vengono a concentrarsi sul trattamento riservato alla specifica sanzione amministrativa accessoria che viene in rilievo nel giudizio a quo: sanzione alla quale – di là dal riferimento del dispositivo dell’ordinanza di rimessione all’indistinta platea delle sanzioni amministrative “convenzionalmente penali” – appaiono, in effetti, nella sostanza riferite le censure del rimettente.
Nella motivazione dell’ordinanza, egli afferma, infatti, in modo assai più puntuale, di dubitare della legittimità costituzionale della norma denunciata «nella parte in cui non consente al giudice dell’esecuzione di rideterminare una sanzione amministrativa accessoria – la cui applicazione è demandata al giudice penale, unitamente alle sanzioni penali – oggetto di una declaratoria di illegittimità costituzionale che ne abbia mutato di fatto la disciplina».
Locuzione, questa, che richiama dappresso la sanzione prevista dall’art. 222 cod. strada. Alcune delle censure, d’altra parte, appaiono calibrate avendo specificamente di mira la revoca della patente. Ciò è palese con riguardo alla denunciata violazione degli artt. 35 e 41 Cost., posto che la compressione del diritto al lavoro e della libertà di iniziativa economica non rappresenta certamente un connotato generale delle sanzioni amministrative.
Ma altrettanto può dirsi per i riferimenti – operati nel formulare le censure di violazione degli artt. 3 e 136 Cost. – all’attitudine della sanzione amministrativa a colpire diritti fondamentali della persona di rango più elevato rispetto ai beni incisi da talune sanzioni penali (quale il patrimonio).
È significativo, infine, il fatto che tra gli elementi di novità che dovrebbero indurre questa Corte a rivedere la soluzione adottata con la sentenza n. 43 del 2017 il rimettente indichi, anzitutto, la particolare natura della sanzione di cui si discute nel caso di specie.
Così delimitato il thema decidendum, questa Corte è dell’avviso che non sia, in realtà, possibile negare che la revoca della patente, disposta dal giudice penale con la sentenza di condanna o di patteggiamento della pena per i reati di cui agli artt. 589-bis e 590-bis cod. pen., abbia connotazioni sostanzialmente punitive (sia pur non disgiunte da finalità di tutela degli interessi coinvolti dalla circolazione dei veicoli a motore, secondo uno schema tipico delle misure sanzionatorie consistenti nell’interdizione di una determinata attività).
Viene in particolare rilievo, al riguardo, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo relativa allo specifico tema. La Corte EDU ha preso più volte posizione, infatti, sulla natura penale, agli effetti della Convenzione, di misure quali il ritiro e la sospensione della patente, o il divieto di condurre veicoli a motore, disposte a seguito dell’accertamento di infrazioni connesse alla circolazione stradale. Da tali pronunce emerge un orientamento sostanzialmente univoco, alla luce del quale – ancorché le misure in discorso siano configurate nel diritto interno come misure amministrative finalizzate a preservare la sicurezza stradale – esse si connotano come di natura convenzionalmente penale quando l’inibizione alla guida si protragga per un lasso di tempo significativo, tanto più, poi, ove la loro applicazione consegua a una condanna penale (Corte EDU, sentenza 4 gennaio 2017, Rivard contro Svizzera; sentenza 17 febbraio 2015, Boman contro Finlandia; decisione 13 dicembre 2005, Nilsson contro Svezia): venendo, in tal caso, le misure stesse ad assumere, per il loro grado di severità, un carattere punitivo e dissuasivo (Corte EDU, sentenza 21 settembre 2006, Maszni contro Romania).
In quest’ottica, si è ritenuto rientrare nella «materia penale» il ritiro della patente per la durata di diciotto mesi (Corte EDU, decisione 13 dicembre 2005, Nilsson contro Svezia): lasso di tempo ben più breve dei cinque anni per i quali si protrae – nella più favorevole delle ipotesi – la revoca della patente disposta ai sensi dell’art. 222 cod. strada.
La Corte di Strasburgo ha ripetutamente qualificato come di natura penale, agli effetti della Convenzione, persino la misura della decurtazione dei punti della patente, in quanto idonea a determinare, alla fine, la perdita del titolo abilitativo alla guida. Al riguardo, i giudici europei hanno posto in evidenza come sia «incontestabile che il diritto di condurre un veicolo a motore si rivela di grande utilità per la vita corrente e l’esercizio di una attività professionale»: di modo che, «anche se la misura è considerata dal diritto interno comune come una misura amministrativa preventiva non appartenente alla materia penale, è giocoforza constatare il suo carattere punitivo e dissuasivo» (Corte EDU, sentenza 5 ottobre 2017, Varadinov contro Bulgaria; sentenza 23 settembre 1998, Malige contro Francia; analogamente, sentenza 6 ottobre 2011, Wagner contro Lussemburgo).
Anche guardando il fenomeno in una prospettiva meramente “interna”, non può, peraltro, disconoscersi che ci si trovi al cospetto di una sanzione dalla carica afflittiva particolarmente elevata e dalla spiccata capacità dissuasiva.
Non poter condurre veicoli a motore per cinque anni può rappresentare – specie per un soggetto che, come il ricorrente nel giudizio a quo, esercita l’attività di autotrasportatore – una sanzione, in concreto, più temibile della stessa pena principale di un anno e sei mesi di reclusione, condizionalmente sospesa, che gli è stata inflitta per il reato commesso.
È significativo, d’altronde, che – avendo riguardo alla misura di identico contenuto prevista dal precedente codice della strada (art. 91, settimo comma, del d.P.R. 15 giugno 1959, n. 393, recante «Testo unico delle norme sulla circolazione stradale»), il quale, però, si asteneva dal qualificarla come «amministrativa» – le sezioni unite della Corte di cassazione non avessero esitato a configurare la revoca (come pure la sospensione) della patente disposta dal giudice penale quale «pena accessoria», analoga all’interdizione o sospensione dall’esercizio di una professione o di un’arte (tipiche pene accessorie disciplinate dagli artt. 30, 31 e 35 cod. pen.), rilevando come essa, «comprimendo con inevitabile danno economico la libertà di circolazione – tanto sentita da questa società – e reprimendo nella maniera più acconcia lo scorretto esercizio di essa», costituisse «mezzo di prevenzione speciale idoneo ed efficace, più della stessa pena principale, cui aggiunge forza intimidatrice» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 19 dicembre 1990-12 febbraio 1991, n. 2246).
In quest’ottica, si deve ritenere che l’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 – in quanto interpretato, come vuole la consolidata giurisprudenza di legittimità, nel senso di escluderne l’applicabilità in relazione alla sanzione amministrativa considerata – venga a porsi in contrasto con l’art. 3 Cost.
Come già ricordato, nella sentenza n. 43 del 2017 questa Corte ha ritenuto che l’inapplicabilità della norma censurata alle sanzioni amministrative “convenzionalmente penali” non violasse nemmeno tale parametro, stante la facoltà del legislatore nazionale di apprestare garanzie ulteriori rispetto a quelle prefigurate dalla CEDU, riservandole alle sole sanzioni “formalmente penali” per l’ordinamento interno.
E sebbene – si era rilevato – la giurisprudenza costituzionale avesse «occasionalmente» esteso alle sanzioni amministrative l’art. 25, secondo comma, Cost., il fenomeno era rimasto però circoscritto al nucleo essenziale del precetto costituzionale (il divieto di retroattività in malam partem) e a misure incidenti su libertà fondamentali che coinvolgono anche i diritti politici del cittadino.
Per le sanzioni amministrative – diversamente che per quelle penali – non è, d’altra parte, prevista una fase esecutiva che attribuisca al giudice dell’esecuzione il ruolo di garante della legalità della misura.
Successivamente alla sentenza n. 43 del 2017, il processo di assimilazione delle sanzioni amministrative “punitive” alle sanzioni penali, quanto a garanzie costituzionali, ha però conosciuto nuovi e rilevanti sviluppi, tali da rendere non più attuali le affermazioni contenute in tale pronuncia.
Superando precedenti decisioni di segno contrario, questa Corte ha ormai esteso alle sanzioni amministrative a carattere punitivo – in quanto tali (indipendentemente, cioè, dalla caratura dei beni incisi) – larga parte dello “statuto costituzionale” sostanziale delle sanzioni penali: sia quello basato sull’art. 25 Cost. – irretroattività della norma sfavorevole (sentenze n. 96 del 2020, n. 223 del 2018 e n. 68 del 2017; nonché, a livello argomentativo, sentenze n. 112 del 2019 e n. 121 del 2018; ordinanza n. 117 del 2019), determinatezza dell’illecito e delle sanzioni (sentenze n. 134 del 2019 e n. 121 del 2018) – sia quello basato su altri parametri, e in particolare sull’art. 3 Cost. – retroattività della lex mitior (sentenza n. 63 del 2019), proporzionalità della sanzione alla gravità del fatto (sentenza n. 112 del 2019) −.
Di rilievo, agli odierni fini, appare soprattutto la sentenza n. 63 del 2019, con cui questa Corte ha esteso alle sanzioni amministrative “punitive” il principio di retroattività della lex mitior, ritenendo tale operazione «conforme alla logica sottesa alla giurisprudenza costituzionale sviluppatasi, sulla base dell’art. 3 Cost., in ordine alle sanzioni propriamente penali», la quale «“[…] impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’abolitio criminis o la modifica mitigatrice” (sentenza n. 394 del 2006)”».
Laddove, infatti, «la sanzione amministrativa abbia natura “punitiva”, di regola non vi sarà ragione per continuare ad applicar[la] […], qualora il fatto sia successivamente considerato non più illecito; né per continuare ad applicarla in una misura considerata ormai eccessiva (e per ciò stesso sproporzionata) rispetto al mutato apprezzamento della gravità dell’illecito da parte dell’ordinamento.
E ciò salvo che sussistano ragioni cogenti di tutela di controinteressi di rango costituzionale, tali da resistere al medesimo “vaglio positivo di ragionevolezza”, al cui metro debbono essere in linea generale valutate le deroghe al principio di retroattività in mitius nella materia penale» (sentenza n. 63 del 2019).
Ma, se così è, a maggior ragione va escluso – come per le sanzioni penali – che taluno debba continuare a scontare una sanzione amministrativa “punitiva” inflittagli in base a una norma dichiarata costituzionalmente illegittima: dunque, non già oggetto di semplice “ripensamento” da parte del legislatore, ma affetta addirittura da un vizio genetico, il cui accertamento impone, senza possibili eccezioni, di lasciare immune da sanzione, o di sanzionare in modo più lieve, chiunque dopo di esso commetta il medesimo fatto.
Al riguardo, non coglie nel segno l’obiezione dell’Avvocatura dello Stato, secondo cui la sentenza n. 63 del 2019 non sarebbe, in realtà, pertinente, non essendosi in alcun modo occupata del tema del giudicato.
Il principio di legalità costituzionale della pena, cui si riconnette la norma oggi censurata, è “più forte” di quello di retroattività in mitius, il quale, nel caso di successione di leggi modificative, incontra, di regola, in base alla normativa codicistica, il limite della definitività della pronuncia di condanna (art. 2, quarto comma, cod. pen.).
Alla luce del diritto vivente formatosi in sede di interpretazione dell’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 – come si è visto (supra, punto 2.2. del Considerato in diritto) – tale limite non opera invece nel caso di declaratoria di illegittimità costituzionale che rimoduli il trattamento sanzionatorio della fattispecie: l’esigenza che la pena risulti conforme a Costituzione lungo tutto il corso della sua esecuzione prevale sulle esigenze di certezza e stabilità dei rapporti giuridici, a cui presidio è posto l’istituto del giudicato.
L’esito del bilanciamento tra i contrapposti valori non può, peraltro, ribaltarsi per le sanzioni amministrative a connotazione punitiva, particolarmente quando si tratti di sanzione quale la revoca della patente di guida. A questo proposito, viene in risalto la più recente giurisprudenza di questa Corte sulla cosiddetta “successione impropria” tra norme penali e norme sanzionatorie amministrative punitive conseguente agli interventi di depenalizzazione.
Essa ha posto adeguatamente in evidenza, ai fini dell’operatività del divieto di retroattività sfavorevole, come un apparato sanzionatorio di natura formalmente amministrativa possa risultare, in concreto, più afflittivo rispetto all’apparato sanzionatorio previsto per i reati (sentenze n. 96 del 2020, n. 223 del 2018 e n. 68 del 2017).
Se è vero, infatti, che la sanzione penale «si caratterizza sempre per la sua incidenza, attuale o potenziale, sul bene della libertà personale (la stessa pena pecuniaria potendo essere convertita, in caso di mancata esecuzione, in sanzioni limitative della libertà personale stessa), incidenza che è, invece, sempre esclusa per la sanzione amministrativa»; e se è vero, altresì, «che la pena possiede un connotato speciale di stigmatizzazione, sul piano etico-sociale, del comportamento illecito, che difetta alla sanzione amministrativa», nondimeno, «l’impatto della sanzione amministrativa sui diritti fondamentali della persona non può essere sottovalutato: ed è, anzi, andato crescendo nella legislazione più recente».
A rendere maggiormente severo il regime sanzionatorio amministrativo può contribuire, d’altro canto, anche il fatto che la sanzione amministrativa, diversamente dalla pena, resta sottratta a istituti che ne evitano la concreta esecuzione, quale, in specie, la sospensione condizionale (sentenza n. 223 del 2018).
Con riguardo all’ipotesi che qui interessa, non appare, in effetti, costituzionalmente tollerabile che taluno debba rimanere soggetto per cinque anni, anziché per un periodo di tempo nettamente minore, ad una sanzione inibitoria della guida di veicoli a motore – con tutte le limitazioni che ciò comporta nella vita contemporanea, compresa, nel caso di specie, l’impossibilità di svolgere la propria attività lavorativa – inflittagli sulla base di una norma che, all’indomani del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, è stata riconosciuta contrastante con la Costituzione.
Ciò, quando invece il condannato a una, anche modesta, pena pecuniaria potrebbe giovarsi, finché non è eseguita, della sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale che ne mitighi l’importo.
Quanto, infine, all’argomento addotto dalla sentenza n. 43 del 2017, afferente all’assenza, per le sanzioni amministrative, di una fase esecutiva che veda il relativo giudice garante della legalità della pena, tale argomento non vale, comunque sia, nella fattispecie oggi in esame, una volta che si accrediti la competenza del giudice a quo.
L’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953, va dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo, in quanto interpretato nel senso che la disposizione non si applica in relazione alla sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida, disposta con sentenza irrevocabile ai sensi dell’art. 222, comma 2, cod. strada.
Le censure formulate in rapporto agli altri parametri costituzionali restano assorbite.
Questioni intriganti
Quale è il prisma ermeneutico che presidia il tema delle fonti del diritto penale in rapporto al Parlamento nazionale?
- occorre muovere dal principio della riserva di legge, come specifica declinazione del principio di legalità, con particolare riguardo, come afferma illuminata dottrina, al “se punire”, al “come punire” e al “quanto punire”;
- la domanda è, più in specie, se per riserva di “legge” ex art.25, comma 2, Cost. e 1 del c.p. si faccia riferimento solo alla legge in senso stretto o “formale”, prodotto della volontà popolare espressa attraverso il Parlamento (procedimento ex articoli 70-74 Cost, per la legge ordinaria; ex art.138 Cost. per la legge costituzionale) ovvero anche alla legge in senso ampio, inclusiva di altre fonti, ed in particolare alla legge in senso “sostanziale” o “materiale”, come nel caso dei decreti legge e dei decreti legislativi il cui procedimento di emanazione, pur coinvolgendo anche il Parlamento, vede in realtà protagonista il Governo;
- per quanto concerne i decreti legislativi, il controllo del Parlamento sull’attività delegata al Governo avviene “a monte”, attraverso la determinazione dei principi e criteri direttivi, dei limiti di tempo e della definizione dell’oggetto della successiva produzione normativa del Governo medesimo; il decreto legislativo trova sempre più spazio in materia penale massime con riguardo a materie caratterizzate da spiccato tecnicismo e da consistente specializzazione, ed in relazione al medesimo quale fonte del diritto penale si giustappongono due tesi: c.1) la tesi favorevole, che muove dalla considerazione onde, se è vero che a legiferare è sostanzialmente il Governo, quest’ultimo è comunque vincolato ai principi e ai criteri direttivi scolpiti dal Parlamento nella legge delega che, massime quando è connotata da analiticità, rigore e chiarezza, rende l’attività normativa del Governo sostanzialmente vincolata e dunque priva di discrezionalità; senza contare il fatto che sui decreti delegati e sulla previa legge di delegazione può sempre intervenire, ove sollecitata, la Corte costituzionale, tanto in termini di verifica proprio della analiticità e della precisione dei criteri dettati con la delega parlamentare, quanto con riferimento alla effettiva osservanza della legge delega da parte del Governo, anche in ottica di piena conformità del varato decreto legislativo alle norme e ai principi costituzionali che lo presidiano ex art.76 Cost.; c.2) la tesi contraria, che assume l’attività normativa penale delegata al Governo come sostanzialmente incompatibile con il principio della riserva di legge, sulla scorta della considerazione onde assai spesso i principi e criteri direttivi dettati dal Parlamento in sede di delegazione si atteggiano a vaghi e generici, lasciando un più o meno ampio margine di discrezionalità operativa al Governo in sede di concreta disciplina incriminatrice o comunque punitiva; né del resto può farsi troppo affidamento sul controllo di costituzionalità, potendo la Consulta intervenire sempre entro i limiti del non spendibile sindacato sulla discrezionalità del legislatore, quand’anche quest’ultimo sia il Governo delegato e quand’anche esso legiferi in materia penale. Una questione peculiare è quella che si pone quando, dinanzi ad un fatto inadempimento reato e dunque ad un fatto avente ancora rilevanza penale, interviene una delega del Parlamento orientata a sottrarre al ridetto fatto rilevanza penale tout court, ovvero a mitigarne il trattamento sanzionatorio, ed il Governo non sia tuttavia ancora intervenuto esercitando la ridetta delega in bonam partem;
- per quanto concerne i decreti legge (con controllo del Parlamento “a valle” dell’attività di produzione normativa del Governo), il relativo atteggiarsi a fonte incriminatrice viene ormai generalmente accettato dalla dottrina ed ammesso nella prassi applicativa, specie dopo i correttivi alla deplorevole prassi della reiterazione dei decreti legge non convertiti, siccome apportati dalla nota sentenza della Corte costituzionale n.360 del 1996; tanto premesso in termini generali, occorre tuttavia distinguere bene le due possibili ed alternative fattispecie che seguono, con i relativi, precipui effetti: d.1) il decreto legge viene convertito regolarmente in legge: in questo caso, delle norme varate d’urgenza con il decreto legge si appropria il Parlamento giusta legge formale di conversione; nondimeno non manca chi, ispirandosi alla ratio garantista del principio della riserva di legge, fa notare come la sottrazione della produzione normativa penale alla naturale dialettica tra maggioranza ed opposizione, attraverso il filtro della decretazione d’urgenza ad opera del potere esecutivo e dunque del Governo, finisca con l’entrare in sostanziale rotta di collisione, per l’appunto, con il canone della riserva di “legge” formale (anche in termini di procedimento costituzionalmente predisposto per emanarla), siccome scolpito agli articoli 25, comma 2, Cost. e 1 c.p., atteso anche come l””urgenza” tipica del decreto legge mal si concili con quella ponderazione che dovrebbe imprescindibilmente presiedere alla produzione normativa penale ad opera del Parlamento, giusta appunto il democratico e dialettico confronto tra maggioranza ed opposizione; d.2) il decreto legge non viene convertito tempestivamente in legge, perdendo ex tunc i propri effetti (potendo tuttavia sempre le Camere regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dello stesso); si tratta di una perdita di effetti giuridici che, nondimeno, non è idonea ad impedire la realizzazione di taluni effetti materiali a carattere irreversibile, massime in termini di eventuale limitazione della libertà personale, come quando il decreto legge poi non convertito – sono esempi ritratti dalla dottrina o dalla prassi – abbia introdotto una nuova incriminazione con riguardo alla quale sia stata disposta la custodia cautelare di taluno o l’arresto in flagranza di tal altro; da questo punto di vista, si sottolinea come l’uso del decreto legge possa porsi in palmare conflitto con il principio di legalità, consentendo al Governo di conculcare la libertà personale dei singoli attraverso l’uso (distorto) dello strumento penale, capace come tale di prestarsi ad abusi;
- per quanto concerne il deliberato stato di guerra ex art.78 Cost., con contestuale conferimento al Governo dei “poteri necessari”, la dottrina maggioritaria – che assume la riserva di legge in materia penale come assoluta – parla in questo caso di una vera e propria eccezione costituzionalmente autorizzata rispetto al principio di cui all’art.25, comma 2, Cost.: in simili ipotesi di straordinaria necessità ed urgenza riannodabili agli eventi bellici, il Governo può dunque eccezionalmente legiferare in materia penale, forgiando nuove fattispecie incriminatrici o inasprendo il trattamento sanzionatorio di quelle già previste, essendo a tale fine previamente autorizzato dal Parlamento, come dimostra il fatto stesso che le Camere medesime possono essere (del pari, eccezionalmente) prorogate durante lo stato di guerra (art.60, comma 2, Cost.) mentre contestualmente (ed ancora una volta eccezionalmente) si estende la giurisdizione dei Tribunali militari anche su soggetti che non appartengono alle forze armate (art.103, comma 3, Cost.). Un problema che, sempre a livello dottrinale, è stato isolato è quello di identificare la fonte giuridica del potere normativo attribuito al Governo, dacché il Parlamento delibera lo stato di guerra “conferendo” genericamente al Governo medesimo i poteri necessari: si assume che tale “conferimento” abbia alla base una delega che è tuttavia diversa da quella di cui al precedente art.76, tanto sul crinale temporale, per difetto di un termine ad quem, stante l’incertezza della durata della guerra in corso; quanto sul versante dell’oggetto, la situazione incerta determinata dal conflitto bellico impedendo la fissazione ex ante di principi e criteri direttivi dai contorni precisamente definiti.
Cosa occorre rammentare in particolare dei bandi militari e delle ordinanze di pubblica sicurezza?
- bandi militari; si tratta di atti posti in essere dal comandante supremo delle Forze armate nella zona di operazioni militari, ovvero in parti del territorio minacciate da un pericolo grave ed imminente, ovvero ancora nei territori oltre confine occupati militarmente; si discute in ordine alla natura di fonti del diritto dei bandi militari, fronteggiandosi nella sostanza due opzioni ermeneutiche: a.1) la tesi affermativa muove dal presupposto onde i bandi militari costituiscono una sorta di naturale estrinsecazione di quei poteri necessari che le Camere conferiscono al Governo con la deliberazione dello Stato di guerra ex art.78 Cost.; l’eccezionalità della situazione giustifica la possibilità di ricomprendere la materia penale tra quelle oggetto di normazione da parte dei ridetti “bandi-fonte”; a.2) la tesi negativa afferma, al contrario, che la delega prevista dall’art.78 Cost. ha come destinatario il Governo unitariamente inteso (Presidente del Consiglio dei Ministri e Ministri, ex art.92 Cost.), onde essa va esercitata collettivamente dal Governo stesso e non può all’opposto essere esercitata in modo individuale, né tampoco attraverso una delega della singola Autorità di Governo ad una autorità militare, men che meno in una materia così delicata e così “riservata” alla Legge quale è quella incriminatrice e più in generale penale;
- ordinanze di pubblica sicurezza; si tratta in particolare dei provvedimenti previsti dagli articoli 2, e 214-216 del R.D. n.773 del 1931, in relazione ai quali – potendo attraverso essi Ministero dell’Interno e Prefetti “derogare alle leggi vigenti” – si fronteggiano due diverse tesi: b.1) una tesi più radicale assume tali norme implicitamente abrogate dalla Costituzione, sopravvenuta nel 1948, stante la radicale incompatibilità tra le garanzie costituzionali in tema di riserva di legge penale ed il potere, ivi riconosciuto alle Autorità amministrative, di procedere alla deroga alle leggi vigenti ed alla sanzione penale degli eventuali contegni incompatibili senza nessun tipo di pertinente base legislativa, né ex ante, né ex post; b.2) una tesi meno radicale, intesa a predicare di queste norme la illegittimità costituzionale, proprio laddove – pur al cospetto di una riserva assoluta di legge in materia penale ex art.25, comma 2, c.p. – esse prevedono appunto che la violazione delle norme dettate dall’Autorità abbia conseguenze penali in relazione ad ordinanze dal contenuto, dalla portata e dai limiti non prefissati per via legislativa, come invece richiesto a più riprese dalla Corte costituzionale (massime con la nota sentenza n.26 del 1966, laddove la Corte ebbe a censurare l’aver demandato alle norme locali di polizia forestale emanate dalle Camere di commercio di stabilire a propria scelta le sanzioni penali da comminare ai trasgressori delle “prescrizioni di massima” dalle medesime Camere di commercio previamente disposte).
Cosa occorre rammentare in particolare della giurisprudenza della Corte costituzionale in rapporto alle fattispecie penali?
- precetti e sanzioni di natura penale possono essere lambiti o incisi dalle pronunce (massime se demolitorie) della Corte costituzionale, con potenziali effetti – riguardo al reo – in bonam partem o in malam partem;
- per quanto concerne gli effetti in bonam partem, non si presentano particolari problemi stante il favor liberatis che contraddistingue questo tipo di pronunce, prototipo delle quali è quella che dichiara incostituzionale una data fattispecie di reato; altro esempio tradizionale è quello delle sentenze che attenuano il trattamento sanzionatorio previsto dalla legge, ovvero lo sostituiscono con una sanzione di natura amministrativa prevista per fattispecie omogenee; può riscontrarsi un effetto in bonam partem anche quando l’intervento della Corte abbia ad oggetto norme penali di favore (scriminanti; cause di non punibilità e così via), allorché venga – per l’effetto – ampliato il novero delle pertinenti ipotesi di operatività dal punto di vista oggettivo o soggettivo;
- per quanto concerne gli effetti in malam partem, il problema sono i rapporti delle pronunce della Corte costituzionale da un lato con il principio della riserva di legge (può la Corte costituzionale intervenire – in senso additivo – dove dovrebbe e potrebbe farlo solo la Legge?) e dall’altro – ammessa la compatibilità con la ridetta riserva di legge (che va limitata alla eliminazione delle norme di favore costituenti un “privilegio penale”) – con i canoni che presidiano la successione di leggi penali nel tempo (irretroattività della norma penale sfavorevole e retroattività di quella favorevole); su questo ultimo crinale occorre distinguere: c.1) l’ipotesi in cui il fatto sia stato commesso sotto l’egida della norma di favore (privilegio) poi eliminata dalla Corte: qui il rischio è quello di una retroattività della norma penale più sfavorevole scaturente dalla riespansione della disciplina comune, per l’appunto più sfavorevole, a seguito della caducazione ad opera della Corte della disciplina “privilegiata” (problema della retroattività della norma sopravvenuta sfavorevole); c.2) il fatto è stato commesso sotto l’egida della norma comune più severa, riespansa a seguito dell’intervento della Corte che ha eliminato il trattamento penalmente privilegiato vigente medio tempore ed ormai incostituzionale (problema della, eccezionale, non retroattività della norma penale sopravvenuta più favorevole, perché appunto dichiarata incostituzionale).
Cosa occorre rammentare in particolare della consuetudine?
- si tratta di una fonte del diritto non scritta, e come tale non caratterizzata da consistente precisione di contorni;
- essa si compendia nei due elementi della diuturnitas – ripetizione costante, generale ed uniforme di un dato comportamento (detta anche prassi) – e della opinio iuris ac necessitatis, quale convinzione (del pari diffusa, generale ed uniforme) di adempiere ad un obbligo o di esercitare un potere qualificati dal punto di vista giuridico;
- il diritto penale, quale espressione di una extrema ratio giuridica, esige precisione e determinatezza, palesandosi dunque già dal punto di vista logico una oggettiva contraddizione con la consuetudine quale fonte del diritto “non scritta” in generale;
- si distingue generalmente: d.1) la consuetudine incriminatrice, che crea nuove figure criminose o aggrava il trattamento sanzionatorio di quelle già esistenti; essa opera in malam partem e se ne esclude la cittadinanza nel nostro sistema penale per frizione con il principio di legalità, tanto sul versante della riserva di legge quanto su quello della sufficiente determinatezza e tassatività della fattispecie; l’eventuale presenza di norme incriminatrici (o con funzione aggravatrice) forgiate dalla consuetudine sarebbe dunque incostituzionale, per il relativo operare praeter legem e contra reum; d.2) la consuetudine abrogatrice (o desuetudine), che opera in senso opposto eliminando dal sistema giuridico fattispecie incriminatrici attraverso la relativa, omessa e generalizzata non applicazione, assumendone piuttosto giuridicamente autorizzata la disapplicazione; anche in questo caso se ne esclude la operatività per il relativo collocarsi contra legem, per frizione con l’art.15 delle preleggi e, più in generale, con il principio di gerarchia delle fonti; l’eventuale disapplicazione di fatto di una norma penale produce meri effetti sociologici, ma non giuridici, potendo questi ultimi essere prodotti solo da un intervento abrogativo del legislatore, in tal senso stimolato appunto dalla “disapplicazione sociale” della norma pertinente; d.3) la consuetudine integratrice, che integra appunto norme penali vigenti, fornendo la norma extrapenale alla quale la fattispecie penale rinvia, come nel caso in cui la norma penale incriminatrice, al fine di identificare o comunque determinare alcuni elementi costitutivi propri della medesima, rinvia ad una norma non scritta che tuttavia, proprio perché tale, non sembra alla dottrina garantire quella sufficiente determinatezza della fattispecie che è invece un must in materia per l’appunto penale; non manca, nondimeno, chi assume la consuetudine integratrice atteggiarsi talvolta “secundum legem”, ritenendola operativa nell’ipotesi di cui all’art.40, comma 2, c.p. in tema di reato omissivo improprio, laddove l’obbligo di impedire l’evento (con funzione incriminatrice) ben potrebbe trovare la propria fonte anche in una norma consuetudinaria; parimenti, ma questa volta pro reo, si ammette che il diritto o il dovere scriminanti ex art.51 c.p., ovvero il diritto minacciato da offesa di cui all’art.52 c.p. in tema di legittima difesa possano trovare la propria fonte in una norma consuetudinaria, con funzione dunque integratrice di tali norme; d.4) la consuetudine scriminante, che elimina l’antigiuridicità di un fatto previsto come inadempimento reato non tanto integrando elementi costitutivi di cause di giustificazione già normate, quanto piuttosto introducendone di nuove (terreni di elezione sono normalmente l’attività sportiva e quella medico-chirurgica, oltre alle fattispecie che coinvolgono culture straniere, discorrendosi in tal caso di “scriminante culturale”); qui la consuetudine opera in bonam partem ed è normalmente assunta ammissibile sulla scorta della considerazione onde l’antigiuridicità di un fatto penalmente rilevante può essere esclusa non già soltanto da norme scritte, quanto piuttosto anche da principi non scritti ritraibili dal sistema ordinamentale vigente; la operatività della consuetudine in senso innovativo/scriminante viene anche posta quale possibile correttivo alla fossilizzazione ed alla eccessiva rigidità di un sistema penale in cui il principio di legalità deve sempre poter trovare “respiro” attraverso l’osmosi adeguatrice ai mutevoli orientamenti sociali e culturali capaci di condizionare l’ordinamento giuridico vigente; non mancano tuttavia anche in questo caso voci contrarie, fondate massime sul principio formale di gerarchia delle fonti, dacché se è la legge a dire cosa è inadempimento-reato, non può essere una fonte decisamente subordinata e peraltro non scritta come la consuetudine a poterne elidere la giuridicità, onde un uso potrebbe avere valore scriminante solo se, giusta rinvio, sia la legge stessa ad annoverarlo come possibile fonte di tale azione scriminante; per quanto poi concerne gli stranieri e la c.d. scriminante culturale, la giurisprudenza della Cassazione tende ad orientarsi in senso contrario al pertinente riconoscimento, preferendo procedere con una dosimetria personalizzata della pena ai sensi dell’art.133 c.p. (assumendo ad esempio di minor consistenza l’intensità del dolo in capo al soggetto agente, guidato da principi appannaggio della propria “cultura” di origine ed estranei alla “cultura” del Paese di residenza); d.5) la consuetudine interpretatrice o interpretativa, che entra in azione (o potrebbe entrare in azione, essendone la figura discussa) ancora una volta in presenza di fattispecie incriminatrici “culturalmente o socialmente orientate”, che come tali subiscono più di altre l’evolversi dei costumi ed i mutamenti (anche sociali e culturali) riconnessi al trascorrere del tempo, ed in relazione alle quali – a fini ermeneutici – potrebbe essere utile far riferimento ad usi interpretativi al fine di estrapolare il significato delle parole utilizzate da legislatore penale nel singolo caso di specie, come nei classici casi della reputazione, dell’onore o del decoro; la dottrina più illuminata fa peraltro notare come in questi casi il vero problema non sia tanto quello degli strumenti interpretativi utilizzabili e delle relative fonti (ivi compresa la consuetudine), quanto piuttosto quello concernente la necessaria tassatività e sufficiente determinatezza della fattispecie penale, siccome forgiata dal legislatore.