<strong>Massima</strong> <em> </em> <em>Da sempre “</em>giudicato<em>” è sinonimo di certezza, di immutabilità, di stabilità; quando tuttavia si tratta di giudicato </em>in malam partem<em> e dunque, nella sostanza di condanna penale, si profila in guisa sempre più consistente la possibilità di scalfirne i ridetti predicati (certezza, immutabilità, stabilità) attraverso una congerie di “</em>sopravvenienze<em>” (una norma, una sentenza della Corte costituzionale, della CEDU o della Corte di Giustizia UE) che, sia pure con registrata alternanza di accelerazioni e frenate, operando </em>ex post<em> e “</em>in mitius<em>” consentono al condannato – massime giusta autorizzato intervento all’uopo e </em>in executivis<em> – di beneficiare di un trattamento più favorevole, quand’anche la sentenza che lo fa reo sia ormai, e per l’appunto, “</em>in giudicato<em>”.</em> <strong> </strong> <strong>Crono-articolo</strong> Risalgono alle <em>legis actiones</em>, e dunque alla più arcaica forma di processo romano, le prime attestazioni incentrate sul limite preclusivo del c.d. giudicato, siccome insito nel principio “<em>bis de eadem re ne sit actio</em>” (non vi sia una azione due volte sulla medesima controversia); il canone – funzionale alla certezza del diritto - viene poi meglio elaborato in seno al processo privato formulare di epoca classica, con pertinente meccanismo operativo principe incentrato sulla c.d. “<em>exceptio rei iudicatae</em>”, eccezione capace di offrire al convenuto in giudizio lo strumento per paralizzare l’iniziativa, laddove indebitamente reiterata, dell’attore. Il principio del giudicato nasce in ambito civilistico, come tutto il diritto globalmente considerato, con progressiva estensione <em>ex post</em> ad altri settori ordinamentali e, tra questi, al settore penale. Tanto premesso, nel diritto romano non è tuttavia possibile isolare fenomeni ben definiti di c.d. retroattività <em>in mitius</em> tale da incidere su di un giudicato sfavorevole; il <em>iudicatum</em> compare piuttosto (accanto a <em>natura</em>, <em>lex</em> e <em>pactum</em>) quale vera e propria fonte del diritto, come risulta dal c.d. <em>Auctor ad Herennium</em> (2.19), attribuito per lungo tempo a Cicerone. Secondo quanto vi si afferma testualmente, “… <em>poichè è possibile produrre in giudizio giudicati diversi su uno stesso fatto, potremo comparare giudice con giudice, tempo con tempo, numero con numero di giudicati, quando tutti questi dati entreranno a far parte di un uso giudiziario</em>”. La dottrina di commento parla di “<em>tormentata spiegazione del giudicato</em>”, laddove l’autore del passo sembra avvertire il peso derivante dalla frequente difformità delle sentenze, facendosene peraltro carico giusta citazione di esempi clamorosi e cercando alfine di ritrarre un criterio di utilizzazione del <em>iudicatum</em> ragionevole ed accettabile: afferma così che si devono comparare giudice con giudice (con ogni probabilità, assegnando la preferenza a quello più autorevole); i tempi in cui le sentenze furono emanate (con probabile preferenza a quelle emesse in tempi più recenti; il numero dei giudicati (preferendo quelli più numerosi ed omogenei). Non mancano dunque, almeno potenzialmente, rapporti tra fonti contrastanti concernenti un medesimo fatto siccome riguardato in guisa diversa nell’ordine di tempo; e dunque, in teoria, dapprima (anche in via definitiva) sfavorevolmente e, di seguito, favorevolmente. <strong>1889</strong> Il 30 giugno viene varato il R.D. n.6133, codice Zanardelli, di impianto liberale, secondo il cui art.2, comma 2, nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisca reato; e, se vi sia stata condanna (anche se ormai in giudicato), ne cessa – retroattivamente - l'esecuzione e gli effetti penali. <strong>1930</strong> Il 19 ottobre viene varato il R.D. n.1398, nuovo codice penale, alla stregua del cui art.2, comma 2, nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali, riproponendosi in tema di abrogazione il regime del 1889. * * * Quello stesso 19 ottobre viene varato il R.D. n.1399, nuovo codice di procedura penale (che sostituisce quello precedente del 1865), secondo il cui art.576, comma 2, sono “<em>irrevocabili</em>” le sentenze contro le quali non è ammessa impugnazione diversa dalla revisione. Il coordinamento con l’art.2, comma 2, del nuovo codice penale in tema di <em>abolitio criminis</em> consente di affermare che, laddove sia intervenuta una sentenza di condanna irrevocabile e ad essa segua per l’appunto l’<em>abolitio criminis</em> del reato per il quale il soggetto è stato in precedenza condannato, non si ha “<em>revoca</em>” della sentenza di condanna ridetta, la quale piuttosto cessa di spiegare effetti penali (diviene, nella sostanza, inefficace pur senza essere revocata). Sul precipuo crinale del giudicato, si segnala su un piano più generale anche l’art.90, che vieta un secondo giudizio (quand’anche, teoricamente, più favorevole) per il “<em>medesimo fatto</em>” in presenza di una sentenza di condanna o di proscioglimento divenuta ormai irrevocabile. <strong>1942</strong> Il 16 marzo viene varato il R.D. n.262, nuovo codice civile, le cui disposizioni preliminari recano una norma, l’art.15, onde le <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4258.html">leggi</a> non sono <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4278.html">abrogate</a> che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore. Si tratta della norma che, sul crinale tecnico, presidia anche la c.d. <em>abolitio criminis</em> ed i relativi effetti retroattivi favorevoli anche in relazione a fatti per quali sia intervenuta una sentenza di condanna ormai in giudicato. <strong>1948</strong> Viene varata la Costituzione che prevede la natura personale della responsabilità penale, cui è connessa la funzione tendenzialmente rieducativa della pena (art.27): il condannato deve percepire la pena come tendenzialmente rieducativa per la commissione di un fatto penalmente rilevante che gli viene rimproverato, circostanza da escludersi allorché egli venga punito sulla base di una norma che configurava il proprio contegno quale inadempimento penalmente rilevante quando esso è stato posto in essere, ma che non viene più considerato tale. Secondo l’art.25 poi nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso: si tratta del principio di irretroattività della legge penale sfavorevole, esplicitamente previsto dalla Carta a differenza del principio di retroattività della legge penale favorevole, che non ha esplicita copertura costituzionale (massime laddove si sia in presenza di una sentenza ormai passata in giudicato). <strong>1953</strong> L’11 marzo viene varata la legge n.87, recante norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale, il cui art.30, comma 4, stabilisce che, quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale sia stata in precedenza pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali. <strong>1988</strong> Il 22 settembre viene varato il D.p.R. n.447, nuovo codice di procedura penale, il cui art.673 disciplina la revoca della sentenza per abolizione del reato, alla cui stregua in caso di <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4278.html">abrogazione</a> – <em>abolitio criminis</em> - (o di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice), il giudice dell'esecuzione revoca la sentenza di condanna o il decreto penale dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti. L’<em>abolitio criminis</em> consente dunque di incidere, superandolo, sul giudicato più sfavorevole al reo, circostanza che non si verifica nella diversa ipotesi di modifica della norma penale con continuità dell’illecito (c.d. <em>abrogatio sine abolitione</em>). Importante anche l’art.671, in tema di applicazione <em>in executivis</em> della disciplina del concorso formale e del reato continuato, alla stregua del cui comma 1 nel caso di più sentenze o decreti penali irrevocabili pronunciati in procedimenti distinti contro la stessa persona, il condannato o il PM possono chiedere al giudice dell'esecuzione l'applicazione della disciplina del concorso formale o del reato continuato, sempre che la stessa non sia stata esclusa dal giudice della cognizione: il codice autorizza dunque le parti a chiedere di incidere su un giudicato <em>in bonam partem</em> ai fini dell’applicazione della disciplina sul concorso formale e sul reato continuato. Rilevante altresì l’art.630, onde la revisione di una sentenza può essere richiesta: a) se i fatti stabiliti a fondamento della sentenza o del decreto penale di condanna non possono conciliarsi con quelli stabiliti in un'altra sentenza penale irrevocabile del giudice ordinario o di un <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/3657.html">giudice speciale</a>; b) se la sentenza o il decreto penale di condanna hanno ritenuto la sussistenza del reato a carico del condannato in conseguenza di una sentenza del giudice civile o amministrativo, successivamente revocata, che abbia deciso una delle <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/3653.html">questioni pregiudiziali</a> previste dall'articolo 3 ovvero una delle questioni previste dall'articolo <a href="https://www.brocardi.it/codice-di-procedura-penale/libro-settimo/titolo-ii/capo-i/art479.html">479</a>; c) se dopo la condanna sono sopravvenute o si scoprono nuove <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/5665.html">prove</a> che, sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto a norma dell'articolo <a href="https://www.brocardi.it/codice-di-procedura-penale/libro-nono/titolo-iv/art631.html">631</a>; d) se è dimostrato che la condanna venne pronunciata in conseguenza di <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/5970.html">falsità</a> in atti o in giudizio o di un altro fatto previsto dalla legge come reato. <strong>1989</strong> Il 28 luglio viene varato il decreto legislativo n.289, recante disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, secondo il cui art.188 – rubricato “<em>concorso formale e reato continuato nel caso di più sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti</em>” - fermo quanto previsto dall'articolo <a href="https://www.brocardi.it/disposizioni-per-attuazione-codice-procedura-penale/titolo-i/capo-ix/art137.html">137</a>, nel caso di più sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti pronunciate in procedimenti distinti contro la stessa persona, questa e il PM possono chiedere al giudice dell'esecuzione l'applicazione della disciplina del concorso formale o del reato continuato, quando concordano sulla entità della sanzione sostitutiva o della pena detentiva, sempre che quest'ultima non superi complessivamente 5 anni, soli o congiunti a pena pecuniaria, ovvero 2 anni, soli o congiunti a pena pecuniaria, nei casi previsti nel comma 1-bis dell'articolo <a href="https://www.brocardi.it/codice-di-procedura-penale/libro-sesto/titolo-ii/art444.html">444</a> del codice. Nel caso di disaccordo del PM, il giudice, se lo ritiene ingiustificato, accoglie ugualmente la richiesta. Si tratta di una disposizione che si rivelerà importante in tema di rimodulazione di “<em>pena illegale</em>” perché fondata – in sede di patteggiamento ex art.444 c.p.p. - su norma poi dichiarata incostituzionale. <strong>2000</strong> Il 24 novembre viene varato il decreto legge n.341, recante disposizioni urgenti per l'efficacia e l'efficienza dell'Amministrazione della giustizia. Con il relativo art.7 viene introdotta nel codice di procedura penale una disciplina <em>in malam partem</em> per chi si avvalga del giudizio abbreviato (art.442 c.p.p.) con riguardo a reati per i quali è prevista la pena dell’ergastolo. <strong>2001</strong> Il 19 gennaio viene varata la legge n.4 che converte in legge, con modificazioni, il decreto legge 341.00. * * * Il 26 marzo viene varata la legge n.128, recante interventi legislativi in materia di tutela della sicurezza dei cittadini, il cui art.6, comma 6, introduce nel codice di procedura penale l’art.625 bis, rubricato “<em>ricorso straordinario per errore materiale o di fatto</em>”, alla cui stregua è ammessa, a favore del condannato, la richiesta per la correzione dell'errore materiale o di fatto contenuto nei provvedimenti pronunciati dalla corte di cassazione (comma 1); la pertinente richiesta e' proposta dal PG o dal condannato, con ricorso presentato alla corte di cassazione entro 180 giorni dal deposito del provvedimento; la presentazione del ricorso non sospende gli effetti del provvedimento, ma, nei casi di eccezionale gravità, la corte provvede, con ordinanza, alla sospensione (comma 2); ancora, l'errore materiale di cui al comma 1 può essere rilevato dalla corte di cassazione, d'ufficio, in ogni momento (comma 3); quando la richiesta è proposta fuori dell'ipotesi prevista al comma 1 o, quando essa riguardi la correzione di un errore di fatto, fuori del termine previsto al comma 2, ovvero risulta manifestamente infondata, la corte, anche d'ufficio, ne dichiara con ordinanza l'inammissibilità; altrimenti procede in camera di consiglio, a norma dell'articolo 127 e, se accoglie la richiesta, adotta i provvedimenti necessari per correggere l'errore (comma 4). <strong>2005</strong> Il 5 dicembre viene varata la legge n.251, recante modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione. Il provvedimento, tra le altre cose, prevede (art.3) il divieto (generalizzato) di prevalenza di talune circostanze attenuanti speciali c.d. indipendenti sulla c.d, recidiva reiterata ax art. 99, co. 4, c.p., con intervento dunque <em>in malam partem</em>. * * * Il 30 dicembre viene varato il decreto legge n.272, il cui art.4 vicies incide sull’art.671 c.p.p, onde – ai fini dell’operatività <em>in executivis</em> della disciplina del concorso formale e del reato continuato, con conseguente possibile incisione <em>pro reo</em> su un precedente giudicato – si chiarisce che fra gli elementi che condizionano l'applicazione della disciplina del reato continuato vi è la consumazione di più reati in relazione allo stato di tossicodipendenza. <strong>2006</strong> Il 21 febbraio viene varata la legge n.49 che converte in legge, con modificazioni, il decreto legge n.272.05. * * * Il 24 febbraio viene varata la legge n.85, recante modifiche al codice penale in materia di reati di opinione, onde (art.14) all'articolo 2 del codice penale, dopo il secondo comma, viene inserito il seguente: «<em>Se vi e' stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell'articolo 135</em>». La norma, dal punto di vista codicistico e “<em>topografico</em>”, implica una “<em>cesura</em>” tra la fattispecie di cui all’art.2, comma 2, c.p., la c.d. <em>abolitio criminis</em>, e quella di cui all’originario comma 3 (modifica della norma penale), che diviene ormai comma 4. Se dunque in caso di <em>abolitio sine abrogazione</em> in genere (mera modifica della norma penale) resta – ai fini della applicabilità della c.d. <em>lex mitior</em> sopravvenuta ai fatti commessi prima della modifica normativa – la necessità che non sia <em>medio tempore</em> intervenuta sentenza irrevocabile di condanna (ex comma 3, ormai comma 4 dell’art.2: ciò anche al fine di non pregiudicare il principio di certezza immanente ai c.d. rapporti esauriti, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale), quando tale fenomeno sia “<em>specifico dal punto di vista sanzionatorio</em>”, onde ad un fatto in precedenza punito con pena detentiva (o alternativa) si applica ora solo la pena pecuniaria (nuovo comma 3 dell’art.2 c.p., applicabile in particolare ai reati di opinione), quest’ultima si sostituisce alla pena detentiva a suo tempo irrogata – in forza del meccanismo di conversione scolpito all’art.135 c.p. - anche al cospetto di una pronuncia di condanna ormai irrevocabile e, dunque, in giudicato. <strong>2007</strong> Il 28 giugno esce la sentenza della Corte EDU, <em>Perez Arias c. Spagna</em>, sul c.d. <em>overruling</em> pretorio, onde, in termini generali, nel caso di avvenuta composizione di un contrasto di giurisprudenza da parte di un tribunale supremo nazionale, l’esigenza di assicurare la parità di trattamento non può essere utilmente invocata al fine di travolgere il principio di intangibilità della <em>res iudicata</em>: infatti, «<em>intendere il principio di eguaglianza nell’applicazione della legge nel senso che ciò che risulta dalle decisioni posteriori implica la revisione di tutte le decisioni definitive anteriori che risultino contraddittorie con quelle più recenti sarebbe contrario al principio di sicurezza giuridica</em>». <strong>2008</strong> Il 16 dicembre viene varata dall’Unione Europea la c.d. Direttiva “<em>rimpatri</em>” (Direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio), la cui disciplina si profila da subito contrastante con talune norme incriminatrici interne in materia di immigrazione, ponendo (teoricamente) la questione della sorte dei giudicati di condanna che con essa si palesino in frizione. <strong>2009</strong> Il 17 settembre esce la nota pronuncia della Grande Camera della Corte EDU, Scoppola c. Italia, che accerta una violazione degli articoli artt. 6 e 7 della CEDU ai danni del ricorrente, già condannato in Italia per gravi delitti contro la persona (due omicidi volontari e connessa violazione della normativa sulle armi). Egli aveva presentato richiesta di rito abbreviato vigente l’art. 442 c.p.p. in una versione che prevedeva la sostituzione dell’ergastolo con la reclusione pari a 30 anni, ma ha subito la pena dell’ergastolo per essere <em>medio tempore</em> intervenuto – nel corso del processo - l’art.7 del decreto legge 341.00, norma che ha modificato <em>in malam partem</em> il trattamento sanzionatorio avvinto alla scelta, per l’appunto, del rito abbreviato. Ciò per la Corte implica, per l’appunto, una violazione degli articoli 6 e 7 della CEDU. Più nel dettaglio, per la Corte l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. costituisce <em>«una disposizione di diritto penale materiale riguardante la severità della pena da infliggere in caso di condanna secondo il rito abbreviato» </em>ed il sopravvenuto art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000, nonostante la formulazione, non può in realtà considerarsi una norma interpretativa (come tale, retroattiva), perché<em> «l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. non presentava alcuna ambiguità particolare; esso indicava chiaramente che la pena dell’ergastolo era sostituita da quella della reclusione di anni trenta, e non faceva distinzioni tra la condanna all’ergastolo con o senza isolamento diurno». </em>Inoltre, aggiunge la <a href="http://hudoc.echr.coe.int/sites/eng/pages/search.aspx?i=001-94073">sentenza Scoppola</a>,<em> «il Governo non ha prodotto esempi di conflitti giurisprudenziali ai quali l’art. 442 sopra citato avrebbe presumibilmente dato luogo».</em> Su altro crinale la Corte, mutando il proprio precedente e consolidato orientamento, assume poi significativamente che <em>«l’art. 7, paragrafo 1, della Convenzione non sancisce solo il principio della irretroattività delle leggi penali più severe, ma anche, e implicitamente, il principio della retroattività della legge penale meno severa</em>», che si traduce «<em>nella norma secondo cui, se la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato</em>». Si tratta, nell’ambito dell’art. 7, paragrafo 1, della CEDU, di un principio analogo a quello contenuto nel quarto comma dell’art. 2 cod. pen., che dalla Corte di Strasburgo viene dunque elevato al rango di principio della Convenzione. Posto questo principio la Corte assume allora che «<em>l’articolo 30 della legge n. 479 del 1999 si traduce in una disposizione penale posteriore che prevede una pena meno severa</em>» e che «<em>l’articolo 7 della Convenzione</em> […] <em>imponeva dunque di farne beneficiare il ricorrente</em>», che aveva commesso il fatto nel vigore di una precedente, più rigorosa disciplina. Di conseguenza, secondo la Corte, «<em>nella fattispecie vi è stata violazione dell’articolo 7, paragrafo 1, della Convenzione</em>». La Corte sembra tuttavia porre espressamente un limite alla retroattività <em>in mitius</em>, escludendo che il principio in questione possa travolgere il giudicato; nella sentenza si fa infatti esclusivo riferimento a «<em>leggi penali posteriori adottate </em>[comunque] <em>prima della pronuncia di una sentenza definitiva</em>». <strong>2010</strong> L’8 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.249 che – in tema di circostanza aggravante della c.d. clandestinità degli stranieri - dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 61, numero 11-bis, del codice penale e, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nonché l’illegittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, limitatamente alle parole «<em>e per i delitti in cui ricorre l’aggravante di cui all’art. 61, primo comma, numero 11-bis), del medesimo codice</em>,»; dichiarando al contempo inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 61, numero 11-bis, cod. pen., sollevata dal Tribunale di Livorno. La pronuncia pone il problema della sorte delle sentenze di condanna, ormai in giudicato, che abbiano in passato condannato il reo applicando l’aggravamento sanzionatorio previsto dalla circostanza di cui all’art.61, n.11 bis c.p. <strong>2011</strong> Il 24 febbraio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.16453 che – nel risolvere il pertinente contrasto di giurisprudenza e facendo luogo ad un vero e proprio “<em>overruling in mitius</em>” – abbraccia l’opzione ermeneutica onde il delitto di omessa esibizione di documenti di identità e del permesso di soggiorno di cui all’art. 6, co. 3, d.lgs. n. 286/1998, va assunto non applicabile allo straniero la cui presenza nel territorio nazionale sia “<em>irregolare</em>”. Si apre la questione se è possibile, sulla base di tale nuovo ed autorevole orientamento delle SSUU, chiedere la revoca di giudicati ex art.673 c.p.p. allorché la condanna dello straniero irregolare sia intervenuta (e, per l’appunto, passata in giudicato) prima del ridetto “<em>overruling in mitius</em>”, attribuendo ad esso effetto retroattivo analogo alla c.d. <em>abolitio criminis</em> ex art.2, comma 2, c.p. * * * Il 7 aprile esce la sentenza della Corte costituzionale n.113, che introduce la c.d. revisione europea dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede un diverso caso, per l’appunto, di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo. Per la Corte L’art. 46 della CEDU – evocato dal giudice a quo quale «<em>norma interposta</em>» – impegna, al paragrafo 1, gli Stati contraenti «<em>a conformarsi alle sentenze definitive della Corte</em> [europea dei diritti dell’uomo] <em>sulle controversie di cui sono parti</em>»; soggiungendo, al paragrafo 2, che «<em>la sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei ministri che ne controlla l’esecuzione</em>». Si tratta di previsione di centrale rilievo nel sistema europeo di tutela dei diritti fondamentali, che fa perno sulla Corte di Strasburgo: è evidente, infatti, come la consistenza dell’obbligo primario nascente dalla CEDU a carico degli Stati contraenti – riconoscere a ogni persona i diritti e le libertà garantiti dalla Convenzione (art. 1) – venga a dipendere, in larga misura, dalle modalità di “<em>composizione</em>” delle singole violazioni accertate. Al riguardo, il Collegio fa rilevare come, successivamente all’ordinanza di rimessione, l’art. 46 della CEDU sia stato modificato per effetto dell’entrata in vigore (il 1° giugno 2010) del Protocollo n. 14 alla Convenzione (ratificato e reso esecutivo in Italia con legge 15 dicembre 2005, n. 280). La modifica non elide peraltro, per la Corte, le esigenze poste a fondamento della questione di costituzionalità, ma semmai le rafforza. Tramite l’aggiunta di tre ulteriori paragrafi, si prevede, infatti, che il Comitato dei ministri possa chiedere alla Corte di Strasburgo una decisione interpretativa, quando vi siano dubbi circa il contenuto di una sentenza definitiva in precedenza adottata, tali da ostacolare il controllo sulla relativa esecuzione (paragrafo 3 dell’art. 46); nonché, soprattutto, che possa chiedere alla Corte una ulteriore pronuncia, la quale accerti l’avvenuta violazione dell’obbligo per una Parte contraente di conformarsi alle proprie sentenze (paragrafi 4 e 5). Viene introdotto, così, uno specifico procedimento di infrazione, atto a costituire un più incisivo mezzo di pressione nei confronti dello Stato convenuto. Quanto, poi, ai contenuti dell’obbligo, l’art. 46 va letto per la Corte in combinazione sistematica con l’art. 41 della CEDU, a mente del quale, «<em>se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette che in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa</em>». A questo proposito, è peraltro consolidata, nella più recente giurisprudenza della Corte di Strasburgo, l’affermazione in forza della quale, «<em>quando la Corte constata una violazione, lo Stato convenuto ha l’obbligo giuridico, non solo di versare agli interessati le somme attribuite a titolo di equa soddisfazione, ma anche di adottare le misure generali e/o, se del caso, individuali necessarie</em>» (tra le molte, Grande Camera, sentenza 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, punto 147; Grande Camera, sentenza 1° marzo 2006, Sejdovic contro Italia, punto 119; Grande Camera, sentenza 8 aprile 2004, Assanidzé contro Georgia, punto 198). Ciò in quanto, alla luce dell’art. 41 della CEDU, le somme assegnate a titolo di equo indennizzo mirano unicamente ad «<em>accordare un risarcimento per i danni subiti dagli interessati nella misura in cui questi costituiscano una conseguenza della violazione che non può in ogni caso essere cancellata</em>» (sentenza 13 luglio 2000, Scozzari e Giunta contro Italia, punto 250). La finalità delle misure individuali che lo Stato convenuto è tenuto a porre in essere è, per altro verso, puntualmente individuata dalla Corte europea nella <em>restitutio in integrum</em> in favore dell’interessato. Dette misure devono porre, cioè, «<em>il ricorrente, per quanto possibile, in una situazione equivalente a quella in cui si troverebbe se non vi fosse stata una inosservanza</em> […] <em>della Convenzione</em>» (<em>ex plurimis</em>, Grande Camera, sentenza 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, punto 151; sentenza 10 novembre 2004, Sejdovic contro Italia, punto 55; sentenza 18 maggio 2004, Somogyi contro Italia, punto 86). In quest’ottica, lo Stato convenuto è chiamato anche a rimuovere gli impedimenti che, a livello di legislazione nazionale, si frappongano al conseguimento dell’obiettivo: «<em>ratificando la Convenzione</em>», difatti, «<em>gli Stati contraenti si impegnano a far sì che il loro diritto interno sia compatibile con quest’ultima</em>» e, dunque, anche ad «<em>eliminare, nel proprio ordinamento giuridico interno, ogni eventuale ostacolo a un adeguato ripristino della situazione del ricorrente</em>» (Grande Camera, sentenza 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, punto 152; Grande Camera, sentenza 8 aprile 2004, Assanidzé contro Georgia, punto 198). Con particolare riguardo alle infrazioni correlate allo svolgimento di un processo, e di un processo penale in specie, la Corte di Strasburgo, muovendo dalle ricordate premesse, ha identificato nella riapertura del processo il meccanismo più consono ai fini della <em>restitutio in integrum</em>, segnatamente nei casi di accertata violazione delle garanzie stabilite dall’art. 6 della Convenzione. Ciò, in conformità alle indicazioni già offerte dal Comitato dei ministri, in particolare nella Raccomandazione R(2000)2 del 19 gennaio 2000, con la quale le Parti contraenti sono state specificamente invitate «<em>ad esaminare i rispettivi ordinamenti giuridici nazionali allo scopo di assicurare che esistano adeguate possibilità di riesame di un caso, ivi compresa la riapertura di procedimenti, laddove la Corte abbia riscontrato una violazione della Convenzione</em>». I Giudici di Strasburgo – prosegue il Collegio - hanno affermato, in specie – con giurisprudenza ormai costante – che, quando un privato è stato condannato all’esito di un procedimento inficiato da inosservanze dell’art. 6 della Convenzione, il mezzo più appropriato per porre rimedio alla violazione constatata è rappresentato, in linea di principio, «<em>da un nuovo processo o dalla riapertura del procedimento, su domanda dell’interessato</em>», nel rispetto di tutte le condizioni di un processo equo (<em>ex plurimis</em>, sentenza 11 dicembre 2007, Cat Berro contro Italia, punto 46; sentenza 8 febbraio 2007, Kollcaku contro Italia, punto 81; sentenza 21 dicembre 2006, Zunic contro Italia, punto 74; Grande Camera, sentenza 12 maggio 2005, Öcalan contro Turchia, punto 210). Ciò, pur dovendosi riconoscere allo Stato convenuto una discrezionalità nella scelta delle modalità di adempimento del proprio obbligo, sotto il controllo del Comitato dei ministri e nei limiti della compatibilità con le conclusioni contenute nella sentenza della Corte (tra le molte, Grande Camera, sentenza 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, punto 152; Grande Camera, sentenza 1° marzo 2006, Sejdovic contro Italia, punti 119 e 127; Grande camera, sentenza 12 maggio 2005, Öcalan contro Turchia, punto 210). Si comprende peraltro, soggiunge a questo punto significativamente la Corte, come al fine di assicurare la <em>restitutio in integrum</em> della vittima della violazione, nei sensi indicati dalla Corte europea, occorre poter rimettere in discussione il giudicato già formatosi sulla vicenda giudiziaria sanzionata. L’avvenuto esaurimento dei rimedi interni rappresenta, infatti, condizione imprescindibile di legittimazione per il ricorso alla Corte di Strasburgo (art. 35, paragrafo 1, della CEDU): con la conseguenza che quest’ultima si pronuncia, in via di principio, su vicende già definite a livello interno con decisione irrevocabile. In tale prospettiva, larga parte degli Stati membri del Consiglio d’Europa – soprattutto dopo la citata Raccomandazione R(2000)2 – si è dotata di una apposita disciplina, intesa a permettere la riapertura del processo penale riconosciuto “<em>non equo</em>” dalla Corte europea; mentre in altri Paesi, pure in assenza di uno specifico intervento normativo, la riapertura è stata comunque garantita da una applicazione estensiva del mezzo straordinario di impugnazione già previsto dalla legislazione nazionale. La situazione si presenta – chiosa a questo punto la Corte - significativamente diversa nell’ordinamento italiano. L’impossibilità di avvalersi, ai fini considerati, del mezzo straordinario di impugnazione storicamente radicato nel sistema processuale penale – cioè, la revisione – è, infatti, generalmente riconosciuta, non essendo l’ipotesi in questione riconducibile ad alcuno dei casi attualmente contemplati dall’art. 630 cod. proc. pen. Tale insieme di casi riflette, d’altronde, la tradizionale configurazione dell’istituto quale strumento volto a comporre il dissidio tra la “<em>verità processuale</em>”, consacrata dal giudicato, e la “<em>verità storica</em>”, risultante da elementi fattuali “<em>esterni</em>” al giudicato stesso. Si tratta, in altre parole, di un rimedio contro il difettoso apprezzamento da parte del giudice del fatto storico-naturalistico: difetto che può emergere per contrasto con i fatti stabiliti da decisioni distinte da quella oggetto di denuncia (lettere a e b dell’art. 630 cod. proc. pen.); per insufficiente conoscenza degli elementi probatori al momento della decisione (lettera c), o per effetto di dimostrata condotta criminosa (lettera d). Al tempo stesso, la revisione risulta strutturata in funzione del solo proscioglimento della persona già condannata: obbiettivo, che si trova immediatamente espresso come oggetto del giudizio prognostico circa l’idoneità dimostrativa degli elementi posti a base della domanda di revisione, che l’art. 631 cod. proc. pen. eleva a condizione di ammissibilità della domanda stessa. Nel caso di accertamento, da parte della Corte di Strasburgo, della violazione dell’art. 6 della CEDU la prospettiva è affatto diversa. Si tratta, in tal caso, di porre rimedio, oltre i limiti del giudicato (considerati tradizionalmente comunque insuperabili con riguardo agli <em>errores in procedendo</em>), a un “<em>vizio</em>” interno al processo, tramite una riapertura del medesimo che ponga l’interessato nelle condizioni in cui si sarebbe trovato in assenza della lesione. Rimediare al difetto di “<em>equità</em>” di un processo, d’altro canto, non significa giungere necessariamente a un giudizio assolutorio: chi è stato condannato, ad esempio, da un giudice non imparziale o non indipendente – secondo la valutazione della Corte europea – deve vedersi assicurato un nuovo processo davanti a un giudice rispondente ai requisiti di cui all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, senza che tale diritto possa rimanere rigidamente subordinato a un determinato tipo di pronostico circa il relativo esito (il nuovo processo potrebbe bene concludersi, ad esempio, anziché con l’assoluzione, con una condanna, fermo naturalmente il divieto della <em>reformatio in peius</em>). Esclusa, dunque, la fruibilità dell’istituto della revisione, la giurisprudenza ha sperimentato diverse soluzioni ermeneutiche intese a salvaguardare i diritti riconosciuti dalla CEDU, superando le preclusioni connesse al giudicato. Per comune convincimento tuttavia, precisa la Corte, si tratta di soluzioni parziali e inidonee alla piena realizzazione dell’obiettivo. La notazione vale, anzitutto, con riguardo alla soluzione che fa leva sull’altro mezzo straordinario di impugnazione introdotto più di recente nell’ordinamento, ossia il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto contenuto nei provvedimenti pronunciati dalla Corte di cassazione (art. 625-bis cod. proc. pen.); rimedio che la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto utilizzabile, in via analogica, al fine di dare esecuzione alle sentenze della Corte di Strasburgo che abbiano accertato violazioni di garanzie convenzionali, ancorché non dipese da mero errore percettivo (Cass., 12 novembre 2008-11 dicembre 2008, n. 45807; si veda anche Cass., 11 febbraio 2010-28 aprile 2010, n. 16507). A prescindere da ogni altro rilievo, lo strumento previsto dall’art. 625-bis cod. proc. pen. non può comunque per il Collegio rappresentare una risposta esaustiva al problema, risultando strutturalmente inidoneo ad assicurare la riapertura dei processi a fronte di violazioni che non si siano verificate nell’ambito del giudizio di cassazione (quale quella riscontrata nella vicenda oggetto del giudizio <em>a quo</em>). Analoga conclusione si impone in riferimento all’impiego dell’istituto della restituzione in termini per la proposizione dell’impugnazione (art. 175, comma 2, cod. proc. pen.): trattandosi di meccanismo che, in ragione del dettato della norma ora citata, risulta utilizzabile – ed è stato in fatto utilizzato dalla giurisprudenza – unicamente per porre rimedio alle violazioni della CEDU collegate alla disciplina del processo contumaciale (tra le altre, Cass., 12 febbraio 2008-27 febbraio 2008, n. 8784; Cass., 15 novembre 2006-2 febbraio 2007, n. 4395). Ipotesi che non viene parimenti in rilievo nel giudizio <em>a quo</em>. Ma la valutazione non muta neppure – prosegue la Corte - con riguardo all’ulteriore soluzione interpretativa praticata proprio in relazione alla vicenda oggetto del presente giudizio in sede di esecuzione del giudicato e che fa perno sull’incidente di esecuzione regolato dall’art. 670 cod. proc. pen.. Si tratta, in specie, della tesi secondo la quale, quando la Corte europea abbia accertato che la condanna è stata pronunciata in violazione delle regole sull’equo processo, riconoscendo il diritto del condannato alla rinnovazione del giudizio, il giudice dell’esecuzione sarebbe tenuto a dichiarare l’ineseguibilità del giudicato, ancorché il legislatore abbia omesso di introdurre «<em>un mezzo idoneo a instaurare il nuovo processo</em>» (Cass., 1° dicembre 2006-25 gennaio 2007, n. 2800). Al di là di ogni altra possibile considerazione, il rimedio si rivela infatti per la Corte inadeguato: esso “<em>congela</em>” il giudicato, impedendone l’esecuzione, ma non lo elimina, collocandolo a tempo indeterminato in una sorta di “<em>limbo processuale</em>”. Soprattutto, la mera declaratoria di ineseguibilità non dà risposta all’esigenza primaria: quella, cioè, della riapertura del processo, in condizioni che consentano il recupero delle garanzie assicurate dalla Convenzione. L’assenza, nell’ordinamento italiano, di un apposito rimedio diretto a tale fine è stata d’altronde, chiosa ancora la Corte, reiteratamente stigmatizzata dagli organi del Consiglio d’Europa, anche e soprattutto in rapporto al caso concernente il condannato nel giudizio <em>a quo</em>. A questo proposito, occorre per il Collegio preliminarmente rilevare – a rettifica di quanto si afferma nell’ordinanza di rimessione – che la Corte EDU non si è, in realtà, mai pronunciata sulla detta vicenda. L’atto che il giudice rimettente qualifica come «<em>sentenza del 9 settembre 1998</em>» della Corte di Strasburgo, è, in effetti, un rapporto di pari data della Commissione europea dei diritti dell’uomo (organo soppresso dal Protocollo n. 11): rapporto che è stato recepito dal Comitato dei ministri con decisione del 15 aprile 1999 (Risoluzione interinale DH(99)258). Ai sensi dell’art. 32 della CEDU, nel testo anteriore all’entrata in vigore del Protocollo n. 11 (avvenuta il 1° novembre 1998, ma con applicazione della disciplina previgente ai casi pendenti a detta data, in forza della disposizione transitoria di cui all’art. 5), il Comitato dei ministri era, infatti, competente a deliberare sui casi pervenuti al relativo esame dopo la redazione di un rapporto da parte della Commissione europea, cui non seguisse il deferimento entro 3 mesi della controversia alla Corte di Strasburgo. La circostanza ora evidenziata non influisce tuttavia per la Corte sulla rilevanza della questione, giacché in forza dell’originario art. 32, paragrafo 4, della CEDU, le decisioni del Comitato dei ministri erano vincolanti per gli Stati contraenti allo stesso modo delle sentenze definitive della Corte europea dei diritti dell’uomo: avendosi, quindi – ora per allora – una piena equivalenza delle une alle altre ai fini considerati. Proprio in questa prospettiva, tanto il Comitato dei ministri (Risoluzioni interinali ResDH(2000) 30 del 19 febbraio 2002, ResDH(2004)13 del 10 febbraio 2004 e ResDH(2005)85 del 12 ottobre 2005), quanto l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (si veda, tra le altre, la Risoluzione n. 1516(2006) del 2 ottobre 2006) hanno censurato, in toni via via più pressanti, l’inadempienza dell’Italia all’obbligo di rimuovere le conseguenze della violazione accertata nel caso in esame: inadempienza correlata appunto alla mancanza, nell’ordinamento interno, di un meccanismo atto a consentire la riapertura del processo dichiarato “<em>non equo</em>”. La sollecitazione ad introdurre, «<em>il più rapidamente possibile</em>», un simile meccanismo è stata nuovamente rivolta alle autorità italiane dal Comitato dei ministri anche in occasione della decisione di chiusura della procedura di controllo relativa a detto caso: decisione adottata dopo la ricordata pronuncia della Corte di cassazione che aveva dichiarato ineseguibile il giudicato formatosi nei confronti del condannato, ordinandone la liberazione (Risoluzione finale CM/ResDH(2007)83 del 19 febbraio 2007). In sede di scrutinio della ricordata precedente questione di legittimità costituzionale, sollevata dalla Corte di appello di Bologna nell’ambito del medesimo giudizio, la Corte ha già avuto modo di rimarcare come, alla luce delle vicende dianzi riassunte, la predisposizione di adeguate misure volte a riparare, sul piano processuale, le conseguenze scaturite da accertate violazioni del diritto all’equo processo si ponesse in termini di «<em>evidente, improrogabile necessità</em>» (sentenza n. 129 del 2008). Ciò, tuttavia, non ha potuto impedire che tale questione – per i termini in cui era stata formulata – si dovesse dichiarare non fondata. Il quesito di costituzionalità era diretto, infatti, ad estendere all’ipotesi considerata lo specifico caso di revisione previsto dall’art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., sulla base della denunciata violazione degli artt. 3, 10 e 27 Cost. Al riguardo, si è rilevato in quella occasione dal Collegio come nessuno dei parametri evocati – principio di eguaglianza; presunzione di innocenza, intesa come norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta; finalità rieducativa della pena – risultasse pertinente. Non il primo, stante l’eterogeneità della situazione descritta dal citato art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc. pen. rispetto a quella posta a raffronto: giacché il concetto di inconciliabilità tra sentenze irrevocabili, evocato dalla norma del codice, attiene all’oggettiva incompatibilità tra i «<em>fatti</em>» (intesi in senso storico-naturalistico) su cui si fondano le decisioni, e non alla contraddittorietà logica delle valutazioni in esse effettuate. Non il secondo, poiché l’art. 10, primo comma, Cost. non comprende le norme pattizie che non riproducano principi o norme consuetudinarie del diritto internazionale; ciò, senza considerare che la «<em>presunzione di innocenza</em>» non ha, di per sé, «<em>nulla a che vedere con i rimedi straordinari destinati a purgare gli eventuali </em>errores<em>, </em>in procedendo o in iudicando<em> che siano</em>», dissolvendosi – quella presunzione – nel momento stesso in cui il processo giunge al suo epilogo. Neppure, da ultimo, era conferente il terzo parametro, posto che la pretesa del rimettente di assegnare alle regole del «<em>giusto processo</em>» una funzione strumentale alla «<em>rieducazione</em>» del condannato avrebbe determinato «<em>una paradossale eterogenesi dei fini, che vanificherebbe – questa sì – la stessa presunzione di non colpevolezza</em>» (sentenza n. 129 del 2008). Nel respingere la questione la Corte rammenta di non aver fatto mancare, tuttavia, un «<em>pressante invito</em>» al legislatore, affinché colmasse, con i provvedimenti ritenuti più idonei, la lacuna normativa in contestazione. Ma, registra il Collegio, nonostante il tempo trascorso, tale esortazione è rimasta senza seguito. A diversa conclusione deve pervenirsi – per la Corte - circa la questione di legittimità costituzionale oggi in esame, la quale, per un verso, investe l’art. 630 cod. proc. pen. nel relativo complesso, e, per altro verso, viene proposta in riferimento al diverso e più appropriato parametro espresso dall’art. 117, primo comma, Cost., assumendo, quale «<em>norma interposta</em>», l’art. 46 (in correlazione all’art. 6) della CEDU. Rammenta il Collegio come a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, la giurisprudenza della Corte sia costante nel ritenere che le norme della CEDU – nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, specificamente istituita per dare a esse interpretazione e applicazione (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione) – integrino, quali «<em>norme interposte</em>», il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli «<em>obblighi internazionali</em>» (sentenze n. 1 del 2011; n. 196, n. 187 e n. 138 del 2010; n. 317 e n. 311 del 2009, n. 39 del 2008; sulla perdurante validità di tale ricostruzione anche dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, sentenza n. 80 del 2011). Prospettiva nella quale, ove si profili un eventuale contrasto fra una norma interna e una norma della CEDU, il giudice comune deve verificare anzitutto la praticabilità di una interpretazione della prima in senso conforme alla Convenzione, avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a propria disposizione; e, ove tale verifica dia esito negativo – non potendo a ciò rimediare tramite la semplice non applicazione della norma interna contrastante – egli deve denunciare la rilevata incompatibilità, proponendo questione di legittimità costituzionale in riferimento all’indicato parametro. A sua volta, la Corte costituzionale, investita dello scrutinio, pur non potendo sindacare l’interpretazione della CEDU data dalla Corte europea, resta legittimata a verificare se la norma della Convenzione – la quale si colloca pur sempre a un livello sub-costituzionale – si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Costituzione: ipotesi nella quale dovrà essere esclusa la idoneità della norma convenzionale a integrare il parametro considerato. Nella specie, si è già rimarcato dal Collegio come la Corte di Strasburgo ritenga, con giurisprudenza ormai costante, che l’obbligo di conformarsi alle proprie sentenze definitive, sancito a carico delle Parti contraenti dall’art. 46, paragrafo 1, della CEDU, comporti anche l’impegno degli Stati contraenti a permettere la riapertura dei processi, su richiesta dell’interessato, quante volte essa appaia necessaria ai fini della <em>restitutio in integrum</em> in favore del medesimo, nel caso di violazione delle garanzie riconosciute dalla Convenzione, particolarmente in tema di equo processo. Tale interpretazione non può ritenersi contrastante con le conferenti tutele offerte dalla Costituzione. In particolare – pur nella indubbia rilevanza dei valori della certezza e della stabilità della cosa giudicata – non può per la Corte assumersi contraria a Costituzione la previsione del venir meno dei relativi effetti preclusivi in presenza di compromissioni di particolare pregnanza – quali quelle accertate dalla Corte di Strasburgo, avendo riguardo alla vicenda giudiziaria nel relativo complesso – delle garanzie attinenti a diritti fondamentali della persona: garanzie che, con particolare riguardo alle previsioni dell’art. 6 della Convenzione, trovano del resto ampio riscontro nel vigente testo dell’art. 111 Cost. Il giudice <em>a quo</em> ha, per altro verso, non ingiustificatamente individuato nell’art. 630 cod. proc. pen. la <em>sedes</em> dell’intervento additivo richiesto: la revisione, infatti – comportando, quale mezzo straordinario di impugnazione a carattere generale, la riapertura del processo, che implica una ripresa delle attività processuali in sede di cognizione, estesa anche all’assunzione delle prove – costituisce l’istituto, fra quelli attualmente esistenti nel sistema processuale penale, che presenta profili di maggiore assonanza con quello la cui introduzione appare necessaria al fine di garantire la conformità dell’ordinamento nazionale al parametro evocato. Contrariamente a quanto sostiene l’Avvocatura dello Stato d’altro canto, prosegue la Corte, all’accoglimento della questione non può essere di ostacolo la circostanza che – come pure si è avuto modo di rilevare – l’ipotesi della riapertura del processo collegata al vincolo scaturente dalla CEDU risulti eterogenea rispetto agli altri casi di revisione attualmente contemplati dalla norma censurata, sia perché fuoriesce dalla logica, a questi sottesa, della composizione dello iato tra “<em>verità processuale</em>” e “<em>verità storica</em>”, emergente da elementi “<em>esterni</em>” al processo già celebrato; sia perché a detta ipotesi non si attaglia la rigida alternativa, prefigurata dalla disciplina vigente quanto agli esiti del giudizio di revisione, tra proscioglimento e conferma della precedente condanna. Posta di fronte a un <em>vulnus</em> costituzionale, non sanabile in via interpretativa – tanto più se attinente a diritti fondamentali – la Corte è tenuta comunque a porvi rimedio: e ciò, indipendentemente dal fatto che la lesione dipenda da quello che la norma prevede o, al contrario, da quanto la norma (o, meglio, la norma maggiormente pertinente alla fattispecie in discussione) omette di prevedere. Né, per risalente rilievo della Corte (sentenza n. 59 del 1958), può essere ritenuta preclusiva della declaratoria di illegittimità costituzionale delle leggi la carenza di disciplina – reale o apparente – che da essa può derivarne, in ordine a determinati rapporti. Spetterà, infatti, da un lato, ai giudici comuni trarre dalla decisione i necessari corollari sul piano applicativo, avvalendosi degli strumenti ermeneutici a loro disposizione; e, dall’altro, al legislatore provvedere eventualmente a disciplinare, nel modo più sollecito e opportuno, gli aspetti che apparissero bisognevoli di apposita regolamentazione. Nella specie, l’art. 630 cod. proc. pen. deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo proprio perché (e nella parte in cui) non contempla un «<em>diverso</em>» caso di revisione, rispetto a quelli ora regolati, volto specificamente a consentire (per il processo definito con una delle pronunce indicate nell’art. 629 cod. proc. pen.) la riapertura del processo – intesa, quest’ultima, come concetto di genere, funzionale anche alla rinnovazione di attività già espletate, e, se del caso, di quella integrale del giudizio – quando la riapertura stessa risulti necessaria, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 1, della CEDU, per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo (cui, per quanto già detto, va equiparata la decisione adottata dal Comitato dei ministri a norma del precedente testo dell’art. 32 della CEDU). La necessità della riapertura andrà apprezzata – oltre che in rapporto alla natura oggettiva della violazione accertata (è di tutta evidenza, così, ad esempio, che non darà comunque luogo a riapertura l’inosservanza del principio di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 6, paragrafo 1, CEDU, dato che la ripresa delle attività processuali approfondirebbe l’offesa) – tenendo naturalmente conto delle indicazioni contenute nella sentenza della cui esecuzione si tratta, nonché nella sentenza “<em>interpretativa</em>” eventualmente richiesta alla Corte di Strasburgo dal Comitato dei ministri, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 3, della CEDU. S’intende, per altro verso, che, quando ricorra l’evenienza considerata, il giudice dovrà procedere a un vaglio di compatibilità delle singole disposizioni relative al giudizio di revisione. Dovranno ritenersi, infatti, inapplicabili le disposizioni che appaiano inconciliabili, sul piano logico-giuridico, con l’obiettivo perseguito (porre l’interessato nelle condizioni in cui si sarebbe trovato in assenza della violazione accertata, e non già rimediare a un difettoso apprezzamento del fatto da parte del giudice, risultante da elementi esterni al giudicato), prime fra tutte – per quanto si è osservato – quelle che riflettono la tradizionale preordinazione del giudizio di revisione al solo proscioglimento del condannato. Così, per esempio, rimarrà inoperante la condizione di ammissibilità, basata sulla prognosi assolutoria, indicata dall’art. 631 cod. proc. pen.; come pure inapplicabili saranno da ritenere – nei congrui casi – le previsioni dei commi 2 e 3 dell’art. 637 cod. proc. pen. (secondo le quali, rispettivamente, l’accoglimento della richiesta comporta senz’altro il proscioglimento dell’interessato, e il giudice non lo può pronunciare esclusivamente sulla base di una diversa valutazione delle prove assunte nel precedente giudizio). Occorre considerare d’altro canto, prosegue il Collegio, che l’ipotesi di revisione in parola comporta, nella sostanza, una deroga – imposta dall’esigenza di rispetto di obblighi internazionali – al ricordato principio per cui i vizi processuali restano coperti dal giudicato. In questa prospettiva, il giudice della revisione valuterà anche come le cause della non equità del processo rilevate dalla Corte europea si debbano tradurre, appunto, in vizi degli atti processuali alla stregua del diritto interno, adottando nel nuovo giudizio tutti i conseguenti provvedimenti per eliminarli. Giova ribadire e sottolineare che l’incidenza della declaratoria di incostituzionalità sull’art. 630 cod. proc. pen. non implica una pregiudiziale opzione della Corte a favore dell’istituto della revisione, essendo giustificata soltanto dall’inesistenza di altra e più idonea <em>sedes</em> dell’intervento additivo. Il legislatore resta pertanto e ovviamente libero di regolare con una diversa disciplina – recata anche dall’introduzione di un autonomo e distinto istituto – il meccanismo di adeguamento alle pronunce definitive della Corte di Strasburgo, come pure di dettare norme su specifici aspetti di esso sui quali la Corte non potrebbe intervenire, in quanto involventi scelte discrezionali (quale, ad esempio, la previsione di un termine di decadenza per la presentazione della domanda di riapertura del processo, a decorrere dalla definitività della sentenza della Corte europea). Allo stesso modo, conclude il Collegio, rimane affidata alla discrezionalità del legislatore la scelta dei limiti e dei modi nei quali eventualmente valorizzare le indicazioni della Raccomandazione R(2000)2 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, più volte richiamata, nella parte in cui prospetta la possibile introduzione di condizioni per la riapertura del procedimento, collegate alla natura delle conseguenze prodotte dalla decisione interna e all’incidenza su quest’ultima della violazione accertata. * * * Il 28 aprile esce la sentenza della Corte di Giustizia UE in causa C-61/11 PPU, <em>El Dridi</em>, che assume in frizione con la Direttiva c.d. rimpatri del 16 dicembre 2008, 2008/115/CE - il cui termine di attuazione è peraltro scaduto il 24 dicembre 2010 senza che essa sia stata recepita in Italia – la fattispecie incriminatrice di cui all’art.14, comma 5 ter, del d.lgs. n. 286/1998, in materia di inottemperanza dello straniero all’ordine di allontanamento impartitogli dal Questore. Tale pronuncia pone il problema del possibile superamento di giudicati che abbiano condannato stranieri sulla scorta della ridetta fattispecie incriminatrice, ormai giudicata in contrasto con l’ordinamento sovranazionale eurounitario. * * * Il 29 aprile esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.20130 alla cui stregua, con riferimento al c.d. ordine di allontanamento dello straniero adottato dal Questore ed inottemperato dall’immigrato, deve assumersi applicabile – stante la frizione della pertinente fattispecie incriminatrice con la c.d. Direttiva rimpatri del 2008 – l’art.2, comma 2, c.p., essendosi al cospetto nella sostanza di fatti non più previsti come reato al momento del giudizio, ancorché non in conseguenza di una abrogazione del reato ad opera del legislatore italiano, ma piuttosto dell’intervento di una norma europea dotata di primazia sul diritto interno. Per la Corte, anche in caso di giudicato penale di condanna con cui sia stata data applicazione all’art, 14, co. 5 ter, d.lgs. n. 286/1998, tale giudicato sfavorevole deve intendersi travolto, con possibilità di utilizzare il rimedio processuale nella revoca del giudicato medesimo <em>in executivis</em> ex art. 673 c.p.p., dovendosi ammettere di tale norma un’interpretazione estensiva e dovendola pertanto assumere applicabile anche alla fattispecie di <em>abolitio criminis</em> “<em>sostanziale</em>” che trova luogo allorché la fattispecie incriminatrice che ha fondato in concreto la condanna si sia rivelata, quand’anche <em>ex post</em>, in contrasto con l’ordinamento europeo. Per il Collegio, la condotta di ingiustificata inosservanza dell’ordine di allontanamento del Questore - pur posta in essere prima della scadenza dei termini per il recepimento della direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 dicembre 2008 (e dall’Italia non ancora recepita) - non è più prevista dalla legge come reato, a seguito della pronuncia della Corte di Giustizia <em>El Dridi</em> (laddove essa ha affermato l’incompatibilità della pertinente norma incriminatrice di cui all'art. 14, co. 5-ter, d.lgs. n. 286/1998 con la Direttiva in parola). Si è venuta dunque a determinare la sostanziale “<em>abolitio criminis</em>” della pregressa fattispecie penalmente rilevante, con necessità di conseguentemente applicare, <em>in executivis</em> e giusta interpretazione estensiva, la previsione di cui all'art. 673 c.p.p. * * * Il 24 giugno viene varato il decreto legge n.89, recante disposizioni urgenti per il completamento dell'attuazione della direttiva 2004/38/CE sulla libera circolazione dei cittadini comunitari e per il recepimento della direttiva 2008/115/CE sul rimpatrio dei cittadini di Paesi terzi irregolari (c.d. Direttiva rimpatri). * * * Il 27 giugno esce l’ordinanza della III sezione del Tribunale di Torino che rimette alla Corte costituzionale – a valle della pronuncia delle SSUU di quel medesimo anno in tema di stranieri “<em>irregolari</em>” ed omessa presentazione, penalmente rilevante, del permesso di soggiorno o del documento di identità – la questione di legittimità dell’art. 673 c.p.p. nella parte in cui non include tra le ipotesi di revoca del giudicato “<em>anche il «</em>mutamento giurisprudenziale<em>», determinato da una decisione delle Sezioni unite della Corte di cassazione, in base al quale il fatto giudicato non è </em>[più] <em>previsto dalla legge come reato</em>”. * * * Il 22 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.236, che dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), sollevate, in riferimento agli artt. 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, dalla Corte di appello di Venezia e dalla Corte di appello di Bari; e dichiara, altresì, non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., dalla Corte di cassazione. Per il Collegio, nulla la <a href="http://cmiskp.echr.coe.int/tkp197/view.asp?action=html&documentId=853823&portal=hbkm&source=externalbydocnumber&table=F69A27FD8FB86142BF01C1166DEA398649">Corte EDU nella sentenza del 17 settembre 2009 (Scoppola contro Italia)</a> ha detto per far escludere la possibilità che, in presenza di particolari situazioni, il principio di retroattività <em>in mitius</em> subisca deroghe o limitazioni: è un aspetto che la Corte non ha considerato, e che non aveva ragione di considerare, date le caratteristiche del caso oggetto della propria decisione. È però significativo – prosegue il Collegio - che la Corte EDU abbia espressamente posto un limite, escludendo che il principio in questione possa travolgere il giudicato (nella sentenza si fa esclusivo riferimento a «<em>leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia di una sentenza definitiva</em>»), diversamente da quanto prevede nel nostro ordinamento l’art. 2, secondo comma, cod. pen. * * * Il 2 agosto viene varata la legge n.129 che converte in legge, con modificazioni, il decreto legge n.89 di recepimento della c.d. “<em>Direttiva rimpatri</em>”. <strong>2012</strong> Il 13 gennaio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.977, alla cui stregua va esclusa l’eseguibilità della porzione di pena inflitta dal giudice della cognizione in conseguenza dell’applicazione di una circostanza aggravante dichiarata costituzionalmente illegittima, come nel caso dell’art.61, n.11 bis, del c.p. in tema di “<em>clandestinità</em>” dello straniero. Per la Corte, si può predicare questa soluzione senza tuttavia poter applicare l’art. 673 c.p.p. e, dunque, <em>in executivis</em>, trattandosi (quest’ultima) di disposizione che disciplina i soli fenomeni di depenalizzazione o di illegittimità costituzionale dell’intera fattispecie oggetto del provvedimento divenuto ormai irrevocabile. Per la Corte la questione va piuttosto risolta facendo applicazione della disciplina generale riguardante gli effetti della dichiarazione d'’illegittimità costituzionale, contenuta nell’art. 30 della legge n. 87 del 1953; seppure infatti il pertinente comma 3 dispone che le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione, in base al successivo comma 4, quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano l’esecuzione e tutti gli effetti penali. Lo scopo di tale disposizione è quello di scongiurare privazioni della libertà personale in applicazione di normative assunte in contrasto con la Costituzione, onde sarebbe per la Corte irrazionale circoscrivere la portata della norma di cui all’art.30 ridetto alla sola incostituzionalità di norme incriminatrici; peraltro, mentre gli artt. 2 c.p. e 673 c.p.p. si riferiscono espressamente alla sola <em>abolitio criminis</em> e dunque alla sola “<em>elisione</em>” della figura criminosa, l’art. 30, comma 4, della legge 87.53 menziona più in generale norme dichiarate incostituzionali dalle quali sia discesa sentenza irrevocabile di condanna, con dizione comprensiva delle disposizioni incidenti in particolare sul trattamento sanzionatorio di una determinata fattispecie incriminatrice. Ne discende come – stante in ogni caso l’impossibilità di applicare l'art. 673 c.p.p. – sia sempre il giudice dell'esecuzione il protagonista in simili fattispecie, dovendo tuttavia rideterminare la pena oggetto di previo giudicato in applicazione non già del ridetto art.673 c.p.c., quanto piuttosto ed appunto dell’art. 30, comma 4, l. 87/53. Per il Collegio, allorché si parli di norma penale in senso stretto, s'intende comunemente fare riferimento — nell'accezione mutuata dall'art. 25, secondo comma, Cost. — alle disposizioni che comminano una pena o che (comunque) determinano una differenza di pena in conseguenza di determinati comportamenti o situazioni. Nella misura in cui da dette norme deriva una sanzione criminale per un aspetto dell'agire umano, di esse può dirsi altresì che sono analoghe alle norme incriminatrici, essendo indifferente, da tale punto di vista, che istituiscano un autonomo titolo di reato o – come nel caso scandagliato - una circostanza aggravante. * * * Il 19 gennaio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 27640, <em>Hamrouni</em>, secondo cui l'art. 30, comma quarto, della legge n. 87 del 1953 sugli effetti della declaratoria di incostituzionalità con particolare riguardo al relativo impatto su un giudicato deve ritenersi, a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 673 cod. proc. pen., implicitamente abrogato, la relativa disciplina dovendo assumersi ormai integralmente assorbita in quella della norma codicistica processual-penale. La cessazione - prevista dall'art. 30, comma quarto, legge n. 87 del 1953 - non solo dell'esecuzione ma di <em>'tutti gli effetti penali'</em> della sentenza irrevocabile di condanna viene soppiantata dal disposto dell’art.673 c.p.p. che fa riferimento alla sola dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice onde, secondo il Collegio, per il superamento del giudicato occorre essere in presenza del “<em>radicale presupposto dell'abolitio criminis</em>”, con conseguente restrizione dell'operatività della corrispondente previsione <em>in mitius</em> alla sola elisione di norme incriminatrici (e non anche alla rimodulazione del pertinente trattamento penale). Per la Corte dunque, in aperto contrasto con il precedente della medesima sezione del 13 gennaio, va esclusa la rideterminazione della pena inflitta in applicazione dell’art.61, n. 11 bis c.p., stante come la <em>res iudicata</em> costituisca fondamento affatto ragionevole del <em>discrimen</em> tra situazioni uguali, come risulta anche dalla disciplina dell'art. 2, comma 4, c.p., la quale rende doverosa la espiazione di una pena addirittura superiore al massimo edittale fissato dalla norma incriminatrice successivamente novellata. Per il Collegio, peraltro, lo stesso art. 30, co. 4, dovrebbe assumersi riferibile alle sole “<em>norme incriminatrici</em>” incostituzionali, come si evince dalla disposta cessazione “<em>di ogni effetto penale della condotta</em>”, conseguibile alla sola <em>abolito criminis</em>; in ogni caso, stante l’identità dei rispettivi ambiti di applicazione, il ridetto art 30, comma 4, legge 87/1953, è da assumersi (come detto) tacitamente abrogato dall’art. 673 c.p.p., il quale offre ormai un’elencazione esaustiva dei casi in cui una declaratoria di incostituzionalità può incidere (<em>in melius</em>) sulle sentenza irrevocabili e, dunque, passate in giudicato. * * * Il 12 ottobre esce l’importante sentenza della Corte costituzionale n.230 in tema di c.d. <em>overruling</em> delle SSUU e possibile incidenza sul giudicato sfavorevole, che dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 673 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli articoli 3, 13, 25, secondo comma, 27, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Torino. In disparte quanto concerne l’ammissibilità della pertinente questione di legittimità costituzionale, corretto – e comunque rispondente alla corrente lettura della norma censurata da parte della Corte di cassazione – appare alla Corte il presupposto ermeneutico su cui poggia il ridetto quesito di costituzionalità, siccome rappresentato dall’estraneità del fenomeno del «<em>mutamento giurisprudenziale</em>» all’area applicativa dell’istituto della «<em>revoca della sentenza per abolizione del reato</em>», quale attualmente delineato dall’art. 673 cod. proc. pen. Di riflesso alle norme sostanziali di cui agli artt. 2, secondo comma, cod. pen. e 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), ma con previsione che ne muta la prospettiva d’intervento – facendo incidere la valenza «<em>demolitoria</em>» dell’<em>abolitio criminis</em> direttamente sulla sentenza del giudice della cognizione, anziché sulla sola esecuzione di essa (sentenza n. 96 del 1996) – l’art. 673 cod. proc. pen. stabilisce, infatti, al comma 1, che, nel caso di abrogazione o di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, il giudice dell’esecuzione revoca la sentenza o il decreto penale di condanna (formula che ricomprende, secondo una lettura ormai pacifica, anche la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti), dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adottando i provvedimenti conseguenti. La norma censurata prende, dunque, in considerazione due fenomeni, entrambi riconducibili, in senso ampio, al paradigma dell’«<em>abolizione del reato</em>», richiamato nella rubrica: per effetto dell’intervento del legislatore o in seguito alla declaratoria di illegittimità costituzionale da parte del Giudice delle Leggi, la fattispecie incriminatrice, in relazione alla quale è stata emessa la pronuncia divenuta irrevocabile, viene infatti per il Collegio espunta dall’ordinamento giuridico. La giurisprudenza di legittimità – prosegue il Giudice delle Leggi - ha ritenuto estensibile l’istituto anche al caso di sopravvenienza di una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea che affermi l’incompatibilità della norma incriminatrice interna con il diritto dell’Unione avente effetto diretto per gli Stati membri, stante la sostanziale equiparabilità di detta pronuncia – la quale impedisce in via generale ai giudici nazionali di fare applicazione della norma considerata – ad una legge sopravvenuta, con portata abolitrice del reato (nella giurisprudenza della Corte, sull’idoneità delle sentenze della Corte di giustizia a costituire <em>ius superveniens</em>, <em>ex plurimis</em>, ordinanze n. 311 del 2011, n. 241 del 2005 e n. 125 del 2004). La stessa giurisprudenza di legittimità ha, per converso, escluso che possano collocarsi nel perimetro applicativo dell’art. 673 cod. proc. pen. fenomeni attinenti alle semplici dinamiche interpretative della norma incriminatrice, quali il mutamento di giurisprudenza e la risoluzione di contrasti giurisprudenziali, ancorché conseguenti a decisioni delle Sezioni unite della Corte di cassazione. Si è rilevato, infatti, che un orientamento giurisprudenziale, per quanto autorevole, non ha la stessa efficacia delle ipotesi previste dalla norma censurata, stante il difetto di vincolatività della decisione rispetto a quelle dei giudici chiamati ad occuparsi di fattispecie analoghe: circostanza che impedisce di considerare i fenomeni dianzi indicati alla stregua di uno <em>ius novum</em>. Il giudice <em>a quo</em> reputa tuttavia, prosegue il Collegio, costituzionalmente necessaria una modifica di tale assetto, chiedendo segnatamente alla Corte di aggiungere al novero dei presupposti di operatività della revoca anche il «<em>mutamento giurisprudenziale – intervenuto con decisione delle Sezioni Unite della Corte di cassazione – in base al quale il fatto giudicato non è previsto dalla legge penale come reato</em>». Se pure ammissibile per le ragioni preliminarmente esposte (e qui omesse), la questione non è, tuttavia per la Corte, nel merito, fondata. La prima e fondamentale censura svolta dal rimettente – quella di violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., per contrasto con l’art. 7 della CEDU, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo – trova il proprio presupposto nell’orientamento della Corte, costante a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, in forza del quale le norme della CEDU, nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, specificamente istituita per dare ad esse interpretazione e applicazione, integrano, quali «<em>norme interposte</em>», il parametro costituzionale evocato, nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali (<em>ex plurimis</em>, tra le ultime, sentenze n. 78 del 2012, n. 303, n. 236 e n. 113 del 2011). Ciò, peraltro, nei limiti in cui la norma convenzionale, come interpretata dalla Corte europea – la quale si pone pur sempre a livello sub-costituzionale – non venga a trovarsi in conflitto con altre conferenti previsioni della Costituzione italiana (sentenze n. 303, n. 236 e n. 113 del 2011, n. 93 del 2010, n. 317 e n. 311 del 2009), e ferma restando, altresì, la spettanza alla Corte di un «<em>margine di apprezzamento e di adeguamento</em>», che – nel rispetto della «<em>sostanza</em>» della giurisprudenza di Strasburgo – le consenta comunque di tenere conto delle peculiarità dell’ordinamento in cui l’interpretazione della Corte europea è destinata ad inserirsi (sentenze n. 303 e n. 236 del 2011, n. 311 del 2009). Nella specie, il rimettente individua la «<em>norma convenzionale interposta</em>» – con la quale la norma interna denunciata si porrebbe in asserito contrasto, non componibile per via d’interpretazione – combinando fra loro due distinte affermazioni della Corte europea, riferite all’art. 7, paragrafo 1, della CEDU (ove si stabilisce che «<em>nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale</em>», e che, «<em>parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso</em>»). La prima affermazione – espressiva di un mutamento di indirizzo intervenuto solo in tempi recenti nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo – è quella per cui la citata norma convenzionale, malgrado il relativo tenore letterale (evocativo del solo divieto di applicazione retroattiva della norma penale sfavorevole), sancisce implicitamente – in aggiunta al più generale principio di legalità dei delitti e delle pene (<em>nullum crimen nulla poena sine lege</em>), con i corollari dell’esigenza di determinatezza delle previsioni punitive e del divieto di analogia <em>in malam partem</em> – anche il principio di retroattività della legge penale più mite (Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia; in senso conforme, sentenze 27 aprile 2010, Morabito contro Italia e 7 giugno 2011, Agrati ed altri contro Italia). L’altra affermazione – che riflette, per contro, un orientamento della Corte europea da tempo consolidato – è quella in virtù della quale la nozione di «<em>diritto</em>» («<em>law</em>»), utilizzata nella norma della Convenzione, deve considerarsi comprensiva tanto del diritto di produzione legislativa che del diritto di formazione giurisprudenziale. Tale lettura «<em>sostanziale</em>», e non già «<em>formale</em>», del concetto di «<em>legalità penale</em>», se pure stimolata dalla necessità di tenere conto dei diversi sistemi giuridici degli Stati parte – posto che il riferimento alla sola legge di origine parlamentare avrebbe limitato la tutela derivante dalla Convenzione rispetto agli ordinamenti di <em>common law</em> – è stata ritenuta valevole dalla Corte europea anche in rapporto agli ordinamenti di <em>civil law</em>, alla luce del rilevante apporto che pure in essi la giurisprudenza fornisce all’individuazione dell’esatta portata e all’evoluzione del diritto penale (tra le altre, sentenze 8 dicembre 2009, Previti contro Italia; Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia; 20 gennaio 2009, Sud Fondi s.r.l. ed altri contro Italia; Grande Camera, 24 aprile 1990, Kruslin contro Francia). Proprio tale seconda affermazione dimostra peraltro, prosegue la Corte, come, nell’interpretazione offerta dalla Corte di Strasburgo, il principio convenzionale di legalità penale risulti meno comprensivo di quello accolto nella Costituzione italiana (e, in generale, negli ordinamenti continentali). Ad esso resta, infatti, estraneo il principio – di centrale rilevanza, per converso, nell’assetto interno – della riserva di legge, nell’accezione recepita dall’art. 25, secondo comma, Cost.; principio che, secondo quanto reiteratamente puntualizzato dalla Corte, demanda il potere di normazione in materia penale – in quanto incidente sui diritti fondamentali dell’individuo, e segnatamente sulla libertà personale – all’istituzione che costituisce la massima espressione della rappresentanza politica: vale a dire al Parlamento, eletto a suffragio universale dall’intera collettività nazionale (sentenze n. 394 del 2006 e n. 487 del 1989), il quale esprime, altresì, le proprie determinazioni all’esito di un procedimento – quello legislativo – che implica un preventivo confronto dialettico tra tutte le forze politiche, incluse quelle di minoranza, e, sia pure indirettamente, con la pubblica opinione. Al di là, peraltro, dall’evidenziato scarto di tutela – che pure preclude una meccanica trasposizione nell’ordinamento interno della postulata equiparazione tra legge scritta e diritto di produzione giurisprudenziale – risulta per il Collegio assorbente, ai fini <em>de quibus</em>, la considerazione che la Corte europea non risulta avere mai, fino ad oggi, enunciato il corollario che il giudice <em>a quo</em> vorrebbe far discendere dalla combinazione tra i due asserti dianzi ricordati: e, cioè, che, in base all’art. 7, paragrafo 1, della CEDU, un mutamento di giurisprudenza in senso favorevole al reo imponga la rimozione delle sentenze di condanna passate in giudicato contrastanti col nuovo indirizzo (principio che – se valido – dovrebbe, peraltro, operare non soltanto in rapporto ai mutamenti di giurisprudenza che escludano la rilevanza penale del fatto – come mostra di ritenere il rimettente – ma anche a quelli che si limitino a rendere più mite la risposta punitiva, negando, ad esempio, l’applicabilità di circostanze aggravanti o riconducendo il fatto ad un paradigma sanzionatorio meno grave). Innanzitutto, precisa ancora il Giudice delle Leggi, la Corte di Strasburgo non ha mai sinora riferito, in modo specifico, il principio di retroattività della <em>lex mitior</em> ai mutamenti di giurisprudenza. I giudici europei si sono occupati di questi ultimi – oltre che nella generale prospettiva della verifica dei requisiti di «<em>accessibilità</em>» e «<em>prevedibilità</em>» della legge penale, ritenuti insiti nella previsione dell’art. 7, paragrafo 1, della CEDU – solo con riferimento al diverso principio dell’irretroattività della norma sfavorevole: ritenendo, in particolare, contraria alla norma convenzionale l’applicazione a fatti anteriormente commessi di un indirizzo giurisprudenziale estensivo della sfera operativa di una fattispecie criminosa, ove la nuova interpretazione non rappresenti un’evoluzione ragionevolmente prevedibile della giurisprudenza anteriore (su tale premessa, per soluzioni opposte nei casi esaminati, Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenze 10 ottobre 2006, Pessino contro Francia e 22 novembre 1995, S.W. contro Regno Unito; nonché, più di recente, sentenza 10 luglio 2012, Del Rio Prada contro Spagna, nei limiti in cui i principi interpretativi siano applicabili al nostro ordinamento). È, peraltro, da escludere – contrariamente a quanto mostra di ritenere il giudice <em>a quo</em> – che dalle conclusioni raggiunte a proposito del principio di irretroattività della norma sfavorevole possa automaticamente ricavarsi l’esigenza “<em>convenzionale</em>” di rimuovere, in nome del principio di retroattività della <em>lex mitior</em>, le decisioni giudiziali definitive non sintoniche con il sopravvenuto mutamento giurisprudenziale <em>in bonam partem</em>. I due principi – chiosa ancora la Corte - hanno, infatti, diverso fondamento. L’irretroattività della norma penale sfavorevole rappresenta uno strumento di garanzia del cittadino contro persecuzioni arbitrarie, espressivo dell’esigenza di «<em>calcolabilità</em>» delle conseguenze giuridico-penali della propria condotta, quale condizione necessaria per la libera autodeterminazione individuale: esigenza con la quale contrasta un successivo mutamento peggiorativo “<em>a sorpresa</em>” del trattamento penale della fattispecie. Nessun collegamento con la predetta libertà ha, per converso, il principio di retroattività della norma più favorevole, in quanto la <em>lex mitior</em> sopravviene alla commissione del fatto, cui l’autore si era liberamente e consapevolmente autodeterminato in base al panorama normativo (e giurisprudenziale) dell’epoca: trovando detto principio fondamento piuttosto in quello di eguaglianza, che richiede, in linea di massima, di estendere la modifica mitigatrice della legge penale, espressiva di un mutato apprezzamento del disvalore del fatto, anche a coloro che hanno posto in essere la condotta in un momento anteriore (sentenza n. 394 del 2006; analogamente sentenze n. 236 del 2011 e n. 215 del 2008). Con riguardo al carattere non assoluto che, in tale prospettiva, il principio della retroattività <em>in mitius</em> resta suscettibile di assumere, occorre d’altra parte osservare – come già in altra occasione (sentenza n. 236 del 2011) – che la Corte di Strasburgo non soltanto non ha inequivocamente escluso la possibilità che, in presenza di particolari situazioni, il principio in questione subisca delle deroghe, ma ha posto, anzi, un espresso limite alla pertinente operatività, di segno contrastante rispetto alla ricostruzione prospettata dal giudice <em>a quo</em>. Secondo i giudici europei, infatti, il principio della retroattività della <em>lex mitior</em>, ricavabile dall’art. 7, paragrafo 1, della CEDU, «<em>si traduce nella norma per cui, se la legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli</em>» (Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, paragrafo 109). Facendo riferimento alle (sole) «<em>leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia definitiva</em>», la Corte europea – chiosa ancora il Collegio - ha dunque escluso che il principio in questione sia destinato ad operare oltre il limite del giudicato, diversamente da quanto prevede, nel nostro ordinamento, l’art. 2, secondo e terzo comma, cod. pen. (sentenza n. 236 del 2011). La limitazione ora indicata non potrebbe evidentemente non valere – nella prospettiva del giudice <em>a quo</em> – anche in rapporto ai mutamenti di giurisprudenza. La stessa Corte di Strasburgo ha avuto modo, del resto, di rilevare, in termini generali, come, nel caso di avvenuta composizione di un contrasto di giurisprudenza da parte di un tribunale supremo nazionale, l’esigenza di assicurare la parità di trattamento non possa essere utilmente invocata al fine di travolgere il principio di intangibilità della <em>res iudicata</em>: infatti, «<em>intendere il principio di eguaglianza nell’applicazione della legge nel senso che ciò che risulta dalle decisioni posteriori implica la revisione di tutte le decisioni definitive anteriori che risultino contraddittorie con quelle più recenti sarebbe contrario al principio di sicurezza giuridica</em>» (Corte europea dei diritti dell’uomo, 28 giugno 2007, Perez Arias contro Spagna, sempre nella misura in cui i principi interpretativi siano applicabili al nostro ordinamento). Indipendentemente, dunque, dalla verifica di compatibilità con il principio della riserva di legge, sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost. si deve conclusivamente rilevare per la Corte, ancor prima, che l’ipotetica «<em>norma convenzionale interposta</em>», chiamata a fungere da parametro di verifica della legittimità costituzionale della disposizione denunciata, risulta in realtà priva di attuale riscontro nella giurisprudenza della Corte europea. Inconferenti rispetto alla fattispecie in esame si palesano poi, chiosa ancora la Corte, i concorrenti riferimenti agli artt. 5 e 6 della CEDU addotti dal giudice <em>a quo</em>. Quanto all’asserita lesione dell’art. 5, essa viene prospettata dal rimettente richiamando – alla stregua della sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione 21 gennaio 2010-13 maggio 2010, n. 18288, relativa al cosiddetto «<em>giudicato esecutivo</em>» (ove, peraltro, il richiamo assumeva una diversa valenza) – la pronuncia della Corte di Strasburgo che ha ravvisato la lesione del diritto alla libertà personale e alla sicurezza, tutelato dalla citata norma convenzionale, in una fattispecie di ritardata concessione dell’indulto ad un condannato a causa di dubbi interpretativi circa i termini di operatività del provvedimento di clemenza (Corte europea dei diritti dell’uomo, 10 luglio 2003, Grava contro Italia). Difetta, peraltro – né il rimettente l’ha comunque posta in evidenza – una qualsivoglia analogia tra il caso esaminato dalla Corte europea e quello oggetto del giudizio interno: analogia il cui riscontro rappresenta un presupposto necessario per “<em>importare</em>” il principio affermato in sede europea nell’ambito del controllo di legittimità costituzionale (sentenza n. 239 del 2009). Con riguardo, poi, all’ipotizzato contrasto con l’art. 6 della CEDU, il giudice <em>a quo</em> richiama l’orientamento della Corte di Strasburgo secondo il quale la presenza di divergenze profonde e persistenti nella giurisprudenza di una corte suprema nazionale circa l’interpretazione di una determinata norma legislativa, non superabili o in fatto non superate tramite il ricorso a meccanismi che permettano di comporre tali contrasti, è suscettibile di tradursi in una violazione del diritto all’equo processo, stante l’ostacolo che ne può derivare ad una efficace difesa in giudizio (in questo senso, oltre alla sentenza 2 luglio 2009, Iordan Iordanov contro Bulgaria, citata dal giudice a quo, sentenze 24 giugno 2009, Tudor Tudor contro Romania e 2 dicembre 2007, Beian contro Romania, di nuovo nella misura in cui i principi interpretativi siano applicabili al nostro ordinamento). Anche in questo caso, si tratta, peraltro, di fattispecie non comparabile con quella oggetto dell’odierno scrutinio. La revoca della sentenza per abolizione del reato è istituto chiaramente distinto dai meccanismi di composizione dei contrasti di giurisprudenza, che la Corte di Strasburgo ha ritenuto necessari ai fini dell’attuazione della garanzia convenzionale in questione. Nella prospettiva della Corte europea, d’altra parte, il diritto di difesa è suscettibile di essere pregiudicato dai contrasti “<em>sincronici</em>” di giurisprudenza, che rendano incerta la valenza della norma incriminatrice nel momento in cui si svolge il processo, per la compresenza di più linee interpretative tra loro confliggenti: non dai contrasti “<em>diacronici</em>”, quale quello avuto di mira dal rimettente, legati alla successione di un orientamento interpretativo ad un altro, a processo concluso. Parimenti infondate – prosegue il Giudice delle Leggi - risultano le censure di violazione del principio di eguaglianza, anche sotto il profilo della ragionevolezza (art. 3 Cost.). Contrariamente a quanto assume il giudice <em>a quo</em>, non può assumersi manifestamente irrazionale che il legislatore, per un verso, valorizzi, anche in ossequio ad esigenze di ordine costituzionale, la funzione nomofilattica della Corte di cassazione, e delle Sezioni unite in particolare – postulando, con ciò, che la giurisprudenza successiva si uniformi «<em>tendenzialmente</em>» alle decisioni di queste ultime – e, dall’altro, ometta di prevedere la revoca delle condanne definitive pronunciate in relazione a fatti che, alla stregua di una sopravvenuta diversa decisione dell’organo della nomofilachia, non sono previsti dalla legge come reato, col risultato di consentire trattamenti radicalmente differenziati di autori di fatti analoghi. L’orientamento espresso dalla decisione delle Sezioni unite “<em>aspira</em>” indubbiamente ad acquisire stabilità e generale seguito: ma, precisa la Corte, – come lo stesso rimettente riconosce – si tratta di connotati solo «<em>tendenziali</em>», in quanto basati su una efficacia non cogente, ma di tipo essenzialmente “<em>persuasivo</em>”. Con la conseguenza che, a differenza della legge abrogativa e della declaratoria di illegittimità costituzionale, la nuova decisione dell’organo della nomofilachia resta potenzialmente suscettibile di essere disattesa in qualunque tempo e da qualunque giudice della Repubblica, sia pure con l’onere di adeguata motivazione; mentre le stesse Sezioni unite possono trovarsi a dover rivedere le loro posizioni, anche su impulso delle sezioni singole, come in più occasioni è in fatto accaduto. In questa logica – chiosa ancora la Corte - si giustifica, dunque, il mancato riconoscimento all’<em>overruling</em> giurisprudenziale favorevole della capacità di travolgere il principio di intangibilità della <em>res iudicata</em>, espressivo dell’esigenza di certezza dei rapporti giuridici esauriti: esigenza il cui fondamentale rilievo – come lo stesso rimettente ricorda – è ampiamente riconosciuto anche nell’ambito dell’Unione europea (Corte di giustizia, sentenze 22 dicembre 2010, C-507/08, Commissione contro Repubblica slovacca; 3 settembre 2009, C-2/08, Fallimento Olimpiclub s.r.l.; 16 marzo 2006, C-234/04, Kapferer). Al fine di porre nel nulla ciò che, di per sé, dovrebbe rimanere intangibile – il giudicato, appunto – il legislatore esige, non irragionevolmente, una vicenda modificativa che determini la caduta della rilevanza penale di una determinata condotta con connotati di generale vincolatività e di intrinseca stabilità (salvo, nel caso di legge abrogatrice, un eventuale nuovo intervento legislativo di segno ripristinatorio): connotati che la vicenda considerata dal giudice <em>a quo</em>, di contro, non possiede. Né giova alla tesi del rimettente il riferimento alle recenti pronunce della giurisprudenza di legittimità che hanno ritenuto rilevanti i mutamenti di giurisprudenza al fine del superamento del cosiddetto «<em>giudicato esecutivo</em>» e del cosiddetto «<em>giudicato cautelare</em>» (rispettivamente, la già citata sentenza delle Sezioni unite n. 18288 del 2010 – sulla quale il giudice <em>a quo</em> ricalca larga parte delle proprie censure – e la sentenza della seconda Sezione 6 maggio 2010-25 maggio 2010, n. 19716). Dette pronunce non hanno mancato, infatti, di porre adeguatamente in risalto il netto iato che separa i predetti istituti dal giudicato vero e proprio: discutendosi, in quelle ipotesi, di semplici preclusioni processuali inerenti a decisioni rese <em>rebus sic stantibus</em>, volte a prevenire la defatigante reiterazione di istanze con il medesimo oggetto al giudice dell’esecuzione o della cautela, rispetto alle quali si tratta solo di stabilire se il riferimento al mutato orientamento della giurisprudenza possa configurare o meno un nuovo argomento di diritto. Parimenti non probante è il riferimento del rimettente alla rilevanza che la Corte attribuisce al cosiddetto «<em>diritto vivente</em>» ai fini dell’individuazione dell’oggetto dello scrutinio di legittimità costituzionale, anche quando si discuta di norme penali. Tale soluzione risponde ad una esigenza di rispetto del ruolo spettante ai giudici comuni – e segnatamente all’organo giudiziario depositario della funzione di nomofilachia – nell’attività interpretativa: in presenza di un indirizzo giurisprudenziale costante o, comunque, ampiamente condiviso – specie se consacrato in una decisione delle Sezioni unite della Corte di cassazione – la Corte costituzionale assume la disposizione censurata nel significato in cui essa attualmente «<em>vive</em>» nell’applicazione giudiziale. Ciò nondimeno, la Corte ha comunque rimarcato che, pure in presenza di un orientamento giurisprudenziale che abbia acquisito i caratteri del «<em>diritto vivente</em>», il giudice rimettente ha soltanto la facoltà, e non già l’obbligo di uniformarsi ad esso (sentenza n. 91 del 2004). Lungi, dunque, dal risultare necessario al fine di rimuovere una presunta contraddizione del sistema, sarebbe, viceversa, proprio l’intervento richiesto dal giudice <em>a quo</em> – prosegue la Corte - a risultare foriero di aporie, tenuto conto delle caratteristiche dell’istituto che dovrebbe essere attinto dall’auspicata pronuncia additiva di questa Corte. L’art. 673 cod. proc. pen. attribuisce, infatti, natura obbligatoria all’intervento del giudice dell’esecuzione, in presenza d’una <em>abolitio criminis</em>. Nel caso di accoglimento del <em>petitum</em>, tale tratto di obbligatorietà si comunicherebbe anche all’ipotesi aggiuntiva di revoca prefigurata dal rimettente (com’è, del resto, nella logica delle relative censure): con la conseguenza che il giudice dell’esecuzione sarebbe senz’altro tenuto a rimuovere il giudicato di condanna contrastante col <em>dictum</em> dell’organo della nomofilachia, anche qualora non lo condividesse. In questo modo, tuttavia, la richiesta pronuncia additiva comporterebbe una vera e propria sovversione “<em>di sistema</em>”, venendo a creare un generale rapporto di gerarchia tra le Sezioni unite e i giudici dell’esecuzione, al di fuori del giudizio di rinvio: con risultati, peraltro, marcatamente disarmonici, stante la estraneità della regola dello <em>stare decisis</em> alle coordinate generali dell’ordinamento. In sede esecutiva, il giudice sarebbe tenuto, infatti, ad uniformarsi alla decisione “<em>favorevole</em>” delle Sezioni unite, revocando il giudicato di condanna. Di contro, il giudice della cognizione, il quale si trovasse a giudicare <em>ex novo</em> un fatto analogo, non avrebbe il medesimo obbligo, e potrebbe quindi disattendere – sia pure sulla base di adeguata motivazione – la soluzione adottata dall’organo della nomofilachia (provocando eventualmente, con ciò, un nuovo mutamento di giurisprudenza). Sarebbe, tuttavia, illogico che il vincolo di adeguamento alle Sezioni unite valga in presenza di un giudicato di segno contrario (magari sorretto da ampie argomentazioni sul punto specifico della rilevanza penale del fatto) e non operi, invece, allorché il giudicato deve ancora formarsi. Né varrebbe obiettare che – nella prospettiva del giudice <em>a quo</em> – stante l’“<em>affidamento</em>” generato nei consociati dalla decisione delle Sezioni unite, il giudice della cognizione che si discosti da quest’ultima non potrebbe comunque condannare l’imputato, in virtù della ipotizzata estensione del principio di irretroattività anche alla nuova interpretazione sfavorevole della norma penale. Tale obiezione potrebbe – in ipotesi – risultare appropriata se il giudizio vertesse su un fatto commesso dopo la decisione delle Sezioni unite: non qualora si tratti di fatto anteriormente realizzato, il cui autore non aveva alcuna ragione per confidare sulla liceità penale della propria condotta, posta in essere quando era imperante un orientamento giurisprudenziale di segno contrario. Infondata è anche l’ulteriore censura di violazione del «<em>principio di (tendenziale) retroattività della normativa penale più favorevole</em>»: principio che il rimettente reputa desumibile dagli artt. 3 e 25, secondo comma, Cost. Per costante giurisprudenza della Corte, si prosegue, il principio di retroattività della legge penale più favorevole al reo non trova, in realtà, fondamento costituzionale nell’art. 25, secondo comma, Cost. – che si limita a sancire il principio di irretroattività delle norme penali più severe – ma, come già accennato, esclusivamente nel principio di eguaglianza, che impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento dei medesimi fatti, in presenza di una mutata valutazione legislativa del loro disvalore, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’<em>abolitio criminis</em> o la modifica mitigatrice. Proprio in conseguenza di ciò, il principio in questione non ha, quindi, carattere assoluto, rimanendo suscettibile di deroghe ad opera della legislazione ordinaria, quando ne ricorra una sufficiente ragione giustificativa (<em>ex plurimis</em>, sentenze n. 236 del 2011, n. 215 del 2008, n. 394 e n. 393 del 2006). A prescindere, peraltro, dalla possibilità che la salvaguardia dell’intangibilità del giudicato rappresenti una adeguata ragione di deroga, secondo quanto reiteratamente ritenuto in passato dalla Corte (sentenze n. 74 del 1980 e n. 6 del 1978; ordinanza n. 330 del 1995), è assorbente la considerazione onde il principio in questione attiene – anche in base alla relativa disciplina codicistica (art. 2, secondo, terzo e quarto comma, cod. pen.) – alla sola successione di «<em>leggi</em>». Per poterlo estendere anche ai mutamenti giurisprudenziali bisognerebbe, dunque, poter dimostrare – ed è questa, in effetti, la premessa concettuale del rimettente – che la <em>consecutio</em> tra due contrastanti linee interpretative giurisprudenziali equivalga ad un atto di produzione normativa. Ad opporsi ad una simile equazione per la Corte non è, peraltro, solo la considerazione – svolta dalla giurisprudenza di legittimità precedentemente richiamata, in sede di individuazione dei confini applicativi dell’art. 673 cod. proc. pen. – attinente al difetto di vincolatività di un semplice orientamento giurisprudenziale, ancorché avallato da una pronuncia delle Sezioni unite. Vi si oppone anche, e prima ancora – in uno alla già più volte evocata riserva di legge in materia penale, di cui allo stesso art. 25, secondo comma, Cost. – il principio di separazione dei poteri, specificamente riflesso nel precetto (art. 101, secondo comma, Cost.) che vuole il giudice soggetto (soltanto) alla legge. Né la conclusione perde di validità per il solo fatto che la nuova decisione dell’organo della nomofilachia sia nel segno della configurabilità di una <em>abolitio criminis</em>. Al pari della creazione delle norme, e delle norme penali in specie, anche la loro abrogazione – totale o parziale – non può, infatti, dipendere, nel disegno costituzionale, da regole giurisprudenziali, ma soltanto da un atto di volontà del legislatore (<em>eius est abrogare cuius est condere</em>). Le residue censure di violazione degli artt. 13 e 27, terzo comma, Cost., conclude la Corte, sono prive di autonomia. Esse cadono, del pari, con la premessa concettuale su cui poggiano: ossia la pretesa che la <em>consecutio</em> tra diversi orientamenti giurisprudenziali equivalga ad una operazione creativa di nuovo diritto (oggettivo), così da giustificare il richiesto intervento dilatativo del perimetro di applicazione dell’istituto delineato dall’art. 673 cod. proc. pen. Siffatta erronea esegesi comporterebbe la consegna al giudice, organo designato all’esercizio della funzione giurisdizionale, di una funzione legislativa, in radicale contrasto con i profili fondamentali dell’ordinamento costituzionale. La questione – conclude il Giudice delle Leggi - va dichiarata pertanto non fondata in rapporto a tutti i parametri invocati. * * * Il 15 novembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.251 che, con intervento <em>in bonam partem</em>, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) sulla recidiva “<em>reiterata</em>” di cui all’art. 99, quarto comma, del codice penale. <strong>2013</strong> Il 18 luglio esce l’importante sentenza della Corte costituzionale n.210, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 7, comma 1, del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341 (Disposizioni urgenti per l’efficacia e l’efficienza dell’Amministrazione della giustizia), convertito, con modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, con riguardo a reati puniti con la pena dell’ergastolo per i quali sia chiesto giudizio abbreviato. Spetta anzitutto – premette la Corte per quanto qui di interesse - al legislatore rilevare il conflitto verificatosi tra l’ordinamento nazionale e il sistema della Convenzione e rimuovere le disposizioni che lo hanno generato, privandole di effetti; se però il legislatore non interviene, sorge il problema relativo alla eliminazione degli effetti già definitivamente prodotti in fattispecie uguali a quella in cui è stata riscontrata l’illegittimità convenzionale ma che non sono state denunciate innanzi alla Corte EDU, diventando così inoppugnabili. Esiste infatti una radicale differenza tra coloro che, una volta esauriti i ricorsi interni, si sono rivolti al sistema di giustizia della CEDU e coloro che, al contrario, non si sono avvalsi di tale facoltà, con la conseguenza che la loro vicenda processuale, definita ormai con la formazione del giudicato, non è più suscettibile del rimedio convenzionale. Il valore del giudicato, attraverso il quale si esprimono preminenti ragioni di certezza del diritto e di stabilità nell’assetto dei rapporti giuridici, del resto, non è estraneo alla Convenzione, al punto che la stessa <a href="http://hudoc.echr.coe.int/sites/eng/pages/search.aspx?i=001-94073">sentenza Scoppola</a> vi ha ravvisato un limite all’espansione della legge penale più favorevole, come la Corte ha già avuto occasione di porre in evidenza (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2011/0236s-11.html">sentenza n. 236 del 2011</a>). Perciò è da ritenere che, in linea di principio, l’obbligo di adeguamento alla Convenzione, nel significato attribuitole dalla Corte di Strasburgo, non concerne i casi, diversi da quello oggetto della pronuncia, nei quali per l’ordinamento interno si è formato il giudicato, e che le deroghe a tale limite vanno ricavate, non dalla CEDU, che non le esige, ma nell’ambito dell’ordinamento nazionale. Quest’ultimo, difatti, conosce ipotesi di flessione dell’intangibilità del giudicato, che la legge prevede nei casi in cui sul valore costituzionale ad esso intrinseco si debbano ritenere prevalenti opposti valori, ugualmente di dignità costituzionale, ai quali il legislatore intende assicurare un primato. Tra questi, non vi è dubbio per la Corte che possa essere annoverata la tutela della libertà personale, laddove essa venga ristretta sulla base di una norma incriminatrice successivamente abrogata oppure modificata in favore del reo: «<em>per il principio di eguaglianza, infatti, la modifica mitigatrice della legge penale e, ancor di più, l’</em>abolitio criminis<em>, disposte dal legislatore in dipendenza di una mutata valutazione del disvalore del fatto tipico, devono riverberarsi anche a vantaggio di coloro che hanno posto in essere la condotta in un momento anteriore, salvo che, in senso opposto, ricorra una sufficiente ragione giustificativa</em>» (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2011/0236s-11.html">sentenza n. 236 del 2011</a>). Il legislatore a fronte dell’<em>abolitio criminis</em> non ha ravvisato tale ragione giustificativa e ha previsto la revoca della sentenza (art. 673 cod. proc. pen.), disponendo che devono cessare l’esecuzione della condanna e gli effetti penali (art. 2, secondo comma, cod. pen.); analogamente ha stabilito che «<em>Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’articolo 135</em>» (art. 2, terzo comma, cod. pen.). Alla Corte compete perciò di rilevare che, nell’ambito del diritto penale sostanziale, è proprio l’ordinamento interno a reputare recessivo il valore del giudicato, in presenza di alcune sopravvenienze relative alla punibilità e al trattamento punitivo del condannato. Al giudice comune, e in particolar modo al giudice rimettente, quale massimo organo di nomofilachia compete, invece, di determinare l’esatto campo di applicazione in sede esecutiva di tali sopravvenienze, ovvero della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice (art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87), e, nell’ipotesi in cui tale determinazione rilevi ai fini della proposizione di una questione di legittimità costituzionale, spiegarne le ragioni in termini non implausibili. Nel caso in esame le sezioni unite rimettenti, con motivazione che soddisfa tale ultimo requisito, hanno argomentato che, in base all’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953, il giudicato penale non impedisce al giudice di intervenire sul titolo esecutivo per modificare la pena, quando la misura di questa è prevista da una norma di cui è stata riconosciuta l’illegittimità convenzionale, e quando tale riconoscimento sorregge un giudizio altamente probabile di illegittimità costituzionale della norma per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. Nell’ambito dell’odierno incidente di legittimità costituzionale, prosegue la Corte, tale rilievo è sufficiente per concludere che, con riferimento al procedimento di adeguamento dell’ordinamento interno alla CEDU, originato dalla pronuncia della Grande Camera della Corte EDU nel caso Scoppola, il giudicato non costituisce un ostacolo insuperabile che, come invece accade di regola, limiti gli effetti dell’obbligo conformativo ai soli casi ancora <em>sub iudice</em>. Nella prospettiva adottata dalle sezioni unite rimettenti, non vi sono perciò ostacoli che si frappongano alla estensione degli effetti della Convenzione in fattispecie uguali a quella relativa a Scoppola, sulle quali si sia già formato il giudicato. Bisogna ora chiedersi – prosegue la Corte - quale sia il procedimento da seguire per conformarsi alla sentenza della Corte EDU e, in particolare, se il giudice dell’esecuzione abbia “<em>competenza</em>” al riguardo. In proposito va rilevato che il procedimento di revisione previsto dall’art. 630 cod. proc. pen., quale risulta per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale di cui alla <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2011/0113s-11.html">sentenza n. 113 del 2011 della Corte</a>, non è adeguato al caso di specie, nel quale non è necessaria una “<em>riapertura del processo</em>” di cognizione ma occorre più semplicemente incidere sul titolo esecutivo, in modo da sostituire la pena irrogata con quella conforme alla CEDU e già precisamente determinata nella misura dalla legge. Per una simile attività processuale è sufficiente un intervento del giudice dell’esecuzione (che infatti è stato attivato nel caso oggetto del giudizio principale), specie se si considera l’ampiezza dei poteri ormai riconosciuti dall’ordinamento processuale a tale giudice, che non si limita a conoscere delle questioni sulla validità e sull’efficacia del titolo esecutivo ma è anche abilitato, in vari casi, ad incidere su di esso (artt. 669, 670, comma 3, 671, 672 e 673 cod. proc. pen.). Del resto – prosegue la Corte - non è senza significato che dopo la <a href="http://hudoc.echr.coe.int/sites/eng/pages/search.aspx?i=001-94073">sentenza Scoppola l’Italia</a> abbia fatto riferimento proprio al procedimento esecutivo, quando, tra l’altro, ha comunicato al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa che, in vista delle possibilità offerte dalla procedura dell’incidente di esecuzione alle persone che possono trovarsi in una situazione simile a quella del ricorrente nel presente caso, le autorità italiane considerano che la pubblicazione e la diffusione della sentenza della Corte europea ai tribunali competenti costituiscono misure sufficienti per prevenire violazioni simili. Se la sentenza della Corte EDU cui occorre conformarsi implica l’illegittimità costituzionale di una norma nazionale ci si deve anche chiedere se la relativa esecuzione da parte del giudice nazionale debba passare o meno attraverso la pronuncia di tale illegittimità. Nei confronti di Scoppola si è data, da parte della Corte di cassazione, direttamente esecuzione alla sentenza della Corte europea con la procedura del ricorso straordinario ex art. 625-bis cod. proc. pen., ma nel caso in esame, in cui rispetto al ricorrente manca una pronuncia specifica della Corte EDU, è da ritenere che occorra sollevare una questione di legittimità costituzionale della norma convenzionalmente illegittima, come appunto hanno fatto le sezioni unite della Corte di cassazione. Una volta considerato anche questo profilo, è chiara per la Corte la rilevanza della questione di legittimità costituzionale sollevata dalle sezioni unite della Corte di cassazione rispetto all’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000, che impedisce di definire la vicenda processuale in osservanza dell’obbligo costituzionale di adeguamento alla sentenza della Corte EDU, che di quella norma ha rilevato il contrasto con l’art. 7, paragrafo 1, della CEDU. Si tratta, com’è chiaro, di una conclusione che riguarda esclusivamente l’ipotesi in cui si debba applicare una decisione della Corte europea in materia sostanziale, relativa ad un caso che sia identico a quello deciso e non richieda la riapertura del processo, ma possa trovare un rimedio direttamente in sede esecutiva. Le stesse sezioni unite hanno avvertito che «<em>diverso è il caso di una pena rivelatasi illegittima, esclusivamente perché inflitta all’esito di un giudizio ritenuto dalla Corte EDU non equo, ai sensi dell’art. 6 della CEDU: in questa ipotesi, l’apprezzamento, vertendo su eventuali errores in procedendo e implicando valutazioni strettamente correlate alla fattispecie specifica, non può che essere compiuto caso per caso, con l’effetto che il giudicato interno può essere posto in discussione soltanto di fronte ad un vincolante dictum della Corte di Strasburgo sulla medesima fattispecie</em>». Di conseguenza si deve concludere per la Corte che la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000, sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7 della CEDU, è rilevante. La questione di legittimità costituzionale proposta con riferimento all’art. 3 Cost. invece è inammissibile, perché non attiene alla necessità di conformarsi a una sentenza della Corte EDU, cioè al solo caso che, come si è visto, può giustificare un incidente di legittimità costituzionale sollevato nel procedimento di esecuzione nei confronti di una norma applicata nel giudizio di cognizione. Quanto poi al merito della questione sottopostale, la Corte rammenta come la norma impugnata si collochi al termine di una successione di tre distinte discipline. La prima è quella dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., come risultava in seguito alla dichiarazione di illegittimità costituzionale contenuta nella <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/1991/0176s-91.html">sentenza della Corte n. 176 del 1991</a>, che precludeva la possibilità del giudizio abbreviato (e dunque della relativa diminuzione di pena) per i procedimenti concernenti reati punibili con l’ergastolo. La seconda è quella introdotta dalla legge n. 479 del 1999, il cui art. 30, comma 1, lettera b), aveva reso nuovamente possibile il giudizio abbreviato per i reati puniti con la pena dell’ergastolo, perché aveva aggiunto alla fine del comma 2 dell’art. 442 cod. proc. pen. il seguente periodo: «<em>Alla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta</em>». La terza è quella del decreto-legge n. 341 del 2000, il cui art. 7, nel dichiarato intento di dare l’interpretazione autentica dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., aveva stabilito che l’espressione «<em>pena dell’ergastolo</em>», ivi contenuta, dovesse «<em>intendersi riferita all’ergastolo senza isolamento diurno</em>», e alla fine del comma 2 aveva aggiunto un terzo periodo, così formulato: «<em>Alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo</em>». La <a href="http://hudoc.echr.coe.int/sites/eng/pages/search.aspx?i=001-94073">sentenza della Corte EDU, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia</a> – prosegue la Corte - ha affermato che l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. costituisce «<em>una disposizione di diritto penale materiale riguardante la severità della pena da infliggere in caso di condanna secondo il rito abbreviato</em>» e che l’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000, nonostante la formulazione, non è in realtà una norma interpretativa, perché «<em>l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. non presentava alcuna ambiguità particolare; esso indicava chiaramente che la pena dell’ergastolo era sostituita da quella della reclusione di anni trenta, e non faceva distinzioni tra la condanna all’ergastolo con o senza isolamento diurno</em>». Inoltre, aggiunge la <a href="http://hudoc.echr.coe.int/sites/eng/pages/search.aspx?i=001-94073">sentenza Scoppola</a>, «<em>il Governo non ha prodotto esempi di conflitti giurisprudenziali ai quali l’art. 442 sopra citato avrebbe presumibilmente dato luogo</em>». Si tratta – chiosa ancora la Corte - di valutazioni ineccepibili anche in base all’ordinamento interno. La natura sostanziale della disposizione dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. era stata già chiaramente affermata dalle sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza 6 marzo 1992, n. 2977. Allora – precisa il Collegio - era venuta in questione una situazione opposta a quella attuale. La Corte costituzionale con la <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/1991/0176s-91.html">sentenza n. 176 del 1991</a> aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale, per eccesso di delega, del secondo periodo dell’art. 442 cod. proc. pen., uguale a quello attualmente vigente, e occorreva decidere come trattare le condanne già intervenute in applicazione della norma di cui era stata dichiarata l’illegittimità costituzionale. Le sezioni unite hanno ritenuto che non importasse «<em>stabilire la natura della diminuzione o della sostituzione della pena</em>», ma importasse «<em>piuttosto rilevare che essa si risolve indiscutibilmente in un trattamento penale di favore</em>», e hanno affermato che la pronuncia della Corte costituzionale «<em>non può determinare effetti svantaggiosi per gli imputati di reati punibili con l’ergastolo che hanno richiesto il giudizio abbreviato prima della dichiarazione dell’illegittimità costituzionale dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. Per questi imputati deve rimanere fermo il trattamento penale di favore di cui hanno goduto in collegamento con il procedimento speciale</em>», i cui atti di conseguenza non possono essere annullati. È vero inoltre – prosegue ancora la Corte - che l’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000 costituisce solo formalmente una norma interpretativa: è questa una qualifica non corrispondente alla realtà, che gli è stata data per determinare un effetto retroattivo, altrimenti non consentito. Infatti, come è stato precisato dalla Corte, la legge interpretativa ha lo scopo di chiarire “<em>situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo</em>”, in ragione di “<em>un dibattito giurisprudenziale irrisolto</em>” (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2009/0311s-09.html">sentenza n. 311 del 2009</a>), o di “<em>ristabilire un’interpretazione più aderente alla originaria volontà del legislatore</em>” (ancora <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2009/0311s-09.html">sentenza n. 311 del 2009</a>), <em>a tutela della certezza del diritto e dell’eguaglianza dei cittadini</em>» (sentenze <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2013/0103s-13.html">n. 103 del 2013</a> e <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2012/0078s-12.html">n. 78 del 2012</a>). Nessuna di queste ragioni sorregge la norma impugnata, dato che, come ha osservato la <a href="http://hudoc.echr.coe.int/sites/eng/pages/search.aspx?i=001-94073">sentenza Scoppola</a>, l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., cioè l’oggetto della pretesa interpretazione legislativa, era chiaro, non presentava ambiguità e non aveva dato luogo a contrasti sulla disciplina relativa alla pena dell’ergastolo, perché non si dubitava che essa riguardasse sia l’ergastolo “<em>semplice</em>” sia quello con isolamento diurno. In sostanza, l’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000, con il relativo effetto retroattivo, ha determinato la condanna all’ergastolo di imputati ai quali era applicabile il precedente testo dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. e che in base a questo avrebbero dovuto essere condannati alla pena di 30 anni di reclusione. La Corte EDU, con la <a href="http://hudoc.echr.coe.int/sites/eng/pages/search.aspx?i=001-94073">sentenza Scoppola del 17 settembre 2009</a>, ha ritenuto, mutando il proprio precedente e consolidato orientamento, che <em>«l’art. 7, paragrafo 1, della Convenzione non sancisce solo il principio della irretroattività delle leggi penali più severe, ma anche, e implicitamente, il principio della retroattività della legge penale meno severa</em>», che si traduce «<em>nella norma secondo cui, se la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato</em>». Si tratta, nell’ambito dell’art. 7, paragrafo 1, della CEDU, di un principio analogo a quello contenuto nel quarto comma dell’art. 2 cod. pen., che dalla Corte di Strasburgo è stato elevato al rango di principio della Convenzione. Posto questo principio la Corte ha rilevato che «<em>l’articolo 30 della legge n. 479 del 1999 si traduce in una disposizione penale posteriore che prevede una pena meno severa</em>» e che «<em>l’articolo 7 della Convenzione</em> […] <em>imponeva dunque di farne beneficiare il ricorrente</em>». Di conseguenza, secondo la Corte, «<em>nella fattispecie vi è stata violazione dell’articolo 7, paragrafo 1, della Convenzione</em>». Com’è noto, a partire dalle sentenze <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2007/0348s-07.html">n. 348</a> e <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2007/0349s-07.html">n. 349 del 2007</a>, la giurisprudenza della Corte è costante nel ritenere che «<em>le norme della CEDU – nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, specificamente istituita per dare a esse interpretazione e applicazione (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione) – integrano, quali norme interposte, il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali</em>» (sentenze <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2011/0236s-11.html">n. 236</a>, <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2011/0113s-11.html">n. 113</a>, <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2011/0080s-11.html">n. 80</a> – che conferma la validità di tale ricostruzione dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 – e <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2011/0001s-11.html">n. 1 del 2011</a>; <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2010/0196s-10.html">n. 196 del 2010</a>; <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2009/0311s-09.html">n. 311 del 2009</a>), e deve perciò concludersi che, costituendo l’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, rispetto all’art. 117, primo comma, Cost., una norma interposta, la relativa violazione, riscontrata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la <a href="http://hudoc.echr.coe.int/sites/eng/pages/search.aspx?i=001-94073">sentenza della Grande Camera del 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia</a>, comporta l’illegittimità costituzionale della norma impugnata. <strong>2014</strong> Il 25 febbraio esce l’importante sentenza della Corte costituzionale n.32, che dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter, del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2006, n. 49. Il Giudice delle Leggi, con questa pronuncia, fa rivivere l’art.73 del d.P.R. n. 309 del 1990 nella relativa, originaria formulazione, che prevede sanzioni più miti per le c.d. droghe leggere le quali sono invece state assoggettate - dal 2006 ad ora - alla stessa (e più grave) forbice edittale prevista per le c.d. droghe pesanti; ciò implicando la necessità di por mano in sede esecutiva a quanto disposto da sentenze ormai irrevocabili, onde rimodulare (in termini quantitativi pro reo) la pena sulla base della normativa che la Corte qui dichiara incostituzionale. * * * Il 18 aprile esce la sentenza della Corte costituzionale n.105 che, provvedendo <em>in bonam partem</em>, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 648, secondo comma, cod. pen., sulla recidiva (reiterata) di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen. * * * Sempre il 18 aprile esce la sentenza della Corte costituzionale n.106 che, provvedendo <em>in bonam partem</em>, dichiara ancora una volta l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 609-bis, terzo comma, cod. pen. (violenza sessuale), sulla recidiva (reiterata) di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen. * * * Il 7 maggio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.18821, <em>Ercolano</em>, che si pronuncia affermando come la pena dell'ergastolo inflitta all'esito del giudizio abbreviato, richiesto dall'interessato in base all'art. 30, comma 1, lett. b), legge n. 479 del 1999, ma conclusosi nel vigore della successiva e più rigorosa disciplina dettata dall'art. 7, comma 1, d.l. n. 341 del 2000 e in concreto applicata, non può essere ulteriormente eseguita, essendo stata quest'ultima norma ritenuta, successivamente al giudicato, non conforme al principio di legalità convenzionale di cui all'art. 7, p. 1, CEDU, come interpretato dalla Corte EDU, e dichiarata incostituzionale per contrasto con l'art. 117, comma primo, Cost. Ciò peraltro anche nel caso in cui il reo condannato con sentenza in giudicato non abbia proposto ricorso in sede convenzionale innanzi alla CEDU. Per la Corte il giudice dell'esecuzione, investito del relativo incidente ad istanza di parte e avvalendosi dei propri poteri di controllo sulla permanente legittimità della pena in esecuzione, è legittimato dunque a sostituirla, incidendo <em>in bonam partem</em> sul giudicato, con quella di anni 30 di reclusione, prevista dalla più favorevole norma vigente al momento della richiesta del rito semplificato. La questione di diritto per la quale il ricorso è stato assegnato alle Sezioni Unite – prende ad argomentare la Corte nel proprio iter motivazionale - è la seguente: se il giudice dell'esecuzione, in attuazione dei principi dettati dalla Corte EDU con la sentenza 17/09/2009, Scoppola e. Italia, possa sostituire la pena dell'ergastolo, inflitta all'esito del giudizio abbreviato, con la pena di anni 30 di reclusione, in tal modo modificando il giudicato con l'applicazione, nella successione di leggi intervenute in materia, di quella più favorevole. La <em>quaestio iuris</em>, come già rilevato dalle Sezioni Unite nella ordinanza 19/04/2012 con la quale si attivava a suo tempo l'incidente di costituzionalità, impone, innanzi tutto, di stabilire la rilevanza che nell'ordinamento interno possono assumere, in deroga anche al giudicato, le violazioni, accertate dalla Corte di Strasburgo (Corte EDU), della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848. La sentenza della Corte EDU, GC, 17/09/2009, Scoppola c. Italia che qui viene in rilievo – prosegue la Corte - nel riconsiderare gli approdi ermeneutici ai quali la stessa Corte era pervenuta in ordine all'aspetto contenutistico dell'art. 7 CEDU, affronta il delicato problema circa l'effettiva articolazione del principio ivi sancito, quanto alla successione delle leggi penali nel tempo: se cioè detto principio abbia una portata meramente negativa, quale divieto di applicazione retroattiva sia della norma incriminatrice sia del trattamento sanzionatorio più sfavorevole, ovvero se contenga anche un implicito riflesso positivo, costituito dalla esigenza di applicazione della legge sopravvenuta più favorevole. La Corte di Strasburgo, innovando l'orientamento restrittivo della precedente giurisprudenza, che aveva costantemente escluso dalla previsione dell'art. 7 della Convenzione “<em>il diritto di beneficiare dell'applicazione di una pena meno severa prevista da una legge posteriore al reato</em>” (decisione 06/03/2003, Zaprianov c. Bulgaria; decisione 05/12/2000, Le Petit c. Regno Unito; decisione della Commissione, 06/03/1978, X. c. Repubblica Federale Tedesca), delinea più precisamente i confini dello <em>'statuto'</em> della legalità convenzionale in tema di reati e di pene. Dopo avere svolto una preliminare ricognizione degli approdi giurisprudenziali formatisi sull'art. 7 CEDU, con riferimento al principio <em>nullum crimen, nulla poena sine lege</em> e alle nozioni di pena e di prevedibilità della legge penale, afferma che la detta norma non soltanto garantisce il principio di non retroattività delle leggi penali più severe, ma impone anche che, nel caso in cui la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e quelle successive adottate prima della condanna “<em>definitiva</em>” siano differenti, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, con l'effetto che, nell'ipotesi di successione di leggi penali nel tempo, costituisce violazione del principio di legalità convenzionale l'applicazione della pena più sfavorevole al reo. La garanzia sancita dalla norma di cui all'art. 7, p. 1, CEDU, quale elemento sostanziale della preminenza del diritto, assume un rilievo centrale nel sistema di tutela delineato dalla Convenzione, come può evincersi dal successivo art. 15, p. 2, che non prevede alcuna deroga ad essa in tempo di guerra o in caso di altre pubbliche calamità. A tale conclusione la Corte Europea perviene tenendo conto dell'”<em>evoluzione della situazione nello Stato convenuto e negli Stati contraenti in generale</em>” e privilegiando, nell'interpretazione della Convenzione, un “<em>approccio dinamico ed evolutivo</em>”, che renda “<em>le garanzie concrete ed effettive, e non teoriche ed illusorie</em>”; da atto, peraltro, del “<em>consenso a livello Europeo e internazionale per considerare che l'applicazione della legge penale che prevede una pena meno severa, anche posteriormente alla commissione del reato, è divenuta un principio fondamentale del diritto penale</em>”. Tale nuovo orientamento – prosegue la Corte - è stato ribadito nella successiva decisione 27/04/2010, Morabito c. Italia, con la quale la Corte EDU sottolinea che “<em>le disposizioni che definiscono i reati e le pene sottostanno a delle regole particolari in materia di retroattività, che includono anche il principio di retroattività della legge penale più favorevole all'imputato</em>”. Il principio di retroattività <em>in mitius</em>, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, è un corollario di quello di legalità, consacrato dall'art. 7 della CEDU, concerne le sole “<em>disposizioni che definiscono i reati e le pene che li reprimono</em>” e ha, quindi, un campo di operatività meno esteso di quello che il nostro ordinamento riserva all'art. 2, comma quarto, cod. pen.. Quest'ultima norma, infatti, richiama ogni disposizione penale successiva alla commissione del fatto e più favorevole al reo, in quanto incidente sul complessivo trattamento riservato al medesimo, laddove la norma convenzionale, nella interpretazione datane dalla Corte Europea, ha una portata più circoscritta, limitata alle sole norme che prevedono i reati e le relative sanzioni, e ciò in coerenza con il riferimento che la stessa Corte fa alle fonti internazionali e comunitarie, nonché alle pronunce della Corte di Giustizia dell'Unione Europea: in particolare, sia l'art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato a New York il 19/12/1966 (ratificato con legge 25/10/1977, n. 881), sia l'art. 49 della Carta di Nizza non si riferiscono a qualsiasi disposizione penale, ma soltanto alla legge posteriore che “<em>prevede l'applicazione di una pena più lieve</em>”, della quale il colpevole deve comunque beneficiare. L'approdo ermeneutico del Giudice sovranazionale – prosegue la Corte - va ben oltre il caso specifico esaminato ed ha una portata di più ampio respiro, in quanto, cogliendo ed esplicitando il più pregnante significato della norma convenzionale, si fa carico d'individuare la norma interna più favorevole, tra quelle succedutesi nel tempo in tema di trattamento sanzionatorio dei reati punibili con l'ergastolo e giudicati con il rito abbreviato, ed enuncia una regola di giudizio di portata generale, che, proprio perché tale, è astrattamente applicabile a fattispecie identiche a quella esaminata. Già con la sentenza 13/07/2000, Scozzari e Giunta c. Italia, la Corte EDU ha affermato il principio - ormai consolidato - secondo cui, “<em>quando la Corte constata una violazione, lo Stato convenuto ha l'obbligo giuridico non solo di versare agli interessati le somme attribuite a titolo dell'equa soddisfazione prevista dall'art. 41, ma anche di adottare le misure generali e/o, se del caso, individuali necessarie</em>” (Corte EDU, GC, 17/09/2009, Scoppola e. Italia; Corte EDU, GC, 01/03/2006, Sejdovic c. Italia; Corte EDU, GC, 08/04/2004, Assanidze c. Geòrgia). La sentenza <em>'Scoppola c. Italia'</em>, pur non potendo essere definita <em>'sentenza pilota'</em> - in quanto non si spinge sino al punto di indicare le misure più idonee per risolvere il riscontrato problema strutturale, interno allo specifico settore dell'ordinamento nazionale - individua comunque la criticità sistemica, della quale lo Stato responsabile della violazione del principio di legalità convenzionale di cui all'art. 7 CEDU, così come interpretato, deve tenere conto, con il conseguente obbligo, ai sensi dell'art. 46, p. 1, della CEDU, di adottare gli opportuni rimedi. Questi, pur non puntualmente determinati nel loro contenuto dalla pronuncia sovranazionale, ben possono essere individuati con un ragionevole margine di apprezzamento e sono necessitati dall'esigenza di ovviare alla violazione della CEDU da parte della legge interna. In sostanza, la decisione di Strasburgo non si limita ad imporre allo Stato italiano di sostituire la pena perpetua applicata in quel caso specifico con quella temporanea di anni trenta di reclusione, ma lo obbliga a porre riparo alla violazione riscontrata a livello normativo e a rimuoverne gli effetti nei confronti di tutti i condannati che versano nelle medesime condizioni del soggetto, la cui posizione era stata oggetto di esame, e ciò al fine di non trasgredire la trama strutturale dei principi di cui agli artt. 2 e 3 Cost. e di porre, pertanto, comunque rimedio alla lesione, nell'esercizio della giurisdizione penale, di un diritto fondamentale. A conferma della portata di più ampio respiro della decisione della Corte EDU sul caso Scoppola c. Italia, non è superfluo per il Collegio sottolineare che il Comitato dei Ministri, nel dichiarare chiusa, con provvedimento dell'8 giugno 2011, la relativa procedura di sorveglianza sull'esecuzione della sentenza, prendeva atto, dichiarandosi soddisfatto, della nota con la quale lo Stato italiano, in ordine alle misure di carattere generale da adottare per situazioni analoghe, aveva precisato di ritenere sufficiente la pubblicazione e la diffusione della sentenza ai Tribunali competenti, in considerazione “<em>degli effetti diretti concessi dai Tribunali italiani alle sentenze della Corte Europea e</em> [...] <em>delle possibilità offerte dalla procedura di incidente di esecuzione a coloro che si trovino in situazioni uguali a quella del richiedente nel caso in esame”.</em> Il Comitato dei Ministri individuava così con chiarezza la strada da seguire in situazioni analoghe a quella del caso Scoppola. In sintesi, chiosa ancora la Corte, di fronte a pacifiche violazioni convenzionali di carattere oggettivo e generale, già stigmatizzate in sede Europea, il mancato esperimento del rimedio di cui all'art. 34 CEDU (ricorso individuale) e la conseguente mancanza, nel caso concreto, di una sentenza della Corte EDU cui dare esecuzione non possono essere di ostacolo ad un intervento dell'ordinamento giuridico italiano, attraverso la giurisdizione, per eliminare una situazione di illegalità convenzionale, anche sacrificando - come il Collegio preciserà più diffusamente (e significativamente) in seguito - il valore della intangibilità del giudicato. Tanto premesso sul principio di legalità convenzionale, così come delineato dalla Corte di Strasburgo, elettivamente deputata dall'art. 32, p. 1, CEDU all'interpretazione e all'applicazione della stessa e dei relativi protocolli, deve rilevarsi per la Corte che, nel caso in esame, in cui viene in rilievo la disciplina del giudizio abbreviato per i reati punibili con la pena dell'ergastolo, si sono succedute nel tempo tre diverse disposizioni di legge. Il testo originario (più favorevole) dell'art. 442, comma 2, secondo periodo, cod. proc. pen., prevedeva che nel giudizio abbreviato, in caso di condanna, “<em>Alla pena dell'ergastolo è sostituta quella della reclusione di anni trenta</em>”, disposizione - questa - però dichiarata incostituzionale per eccesso di delega, con sentenza n. 176 del 1991 del Giudice delle leggi, con l'effetto che, tra la data di pubblicazione di tale decisione e il successivo intervento legislativo di cui al punto che segue, era precluso agli imputati di delitti punibili con l'ergastolo l'accesso al detto rito semplificato. Con la legge 16 dicembre 1999, n. 479, entrata in vigore il 2 gennaio 2000, è stata reintrodotta la possibilità per l'imputato di reati punibili con l'ergastolo di accedere al rito abbreviato. L'art. 30, comma 1, lett. b), della predetta legge, infatti, ha ripristinato la previsione: “<em>Alla pena dell'ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta</em>”. L'art. 7 del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341, entrato in vigore lo stesso giorno e convertito - con modifiche non inerenti alla previsione medesima - dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, nel dichiarato intento di dare un'interpretazione autentica del secondo periodo del comma 2 dell'art. 442 cod. proc. pen., ha disposto, per un verso, che l'espressione “<em>pena dell'ergastolo</em>” ivi adoperata deve “<em>intendersi riferita all'ergastolo senza isolamento diurno</em>” e, per altro verso, ha inserito all'interno della stessa disposizione un terzo periodo, così formulato: “<em>Alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell'ergastolo</em>”. In via transitoria, peraltro, l'art. 8 del richiamato d.l. n. 341 del 2000, così come sostituito in sede di conversione, consentiva a chi avesse formulato richiesta di giudizio abbreviato nel vigore della sola legge n. 479 del 1999 o a norma dell'art. 4-ter, comma 2, d.l. 7 aprile 2000 n. 82, convertito, con modificazioni, dalla legge 5 giugno 2000, n. 144, e a chi, per effetto dell'impugnazione del pubblico ministero, potesse essere destinatario delle disposizioni di cui all'art. 7 del richiamato decreto-legge n. 341 del 2000 di revocare la richiesta entro un determinato termine, con conseguente prosecuzione del processo secondo il rito ordinario. Per il Collegio la disposizione di cui all'art. 442, comma 2, cod. proc. pen., nelle varie versioni succedutesi nel tempo, pur disciplinando aspetti processuali connessi, in caso di condanna, all'esito sanzionatorio del giudizio abbreviato, coniuga tali aspetti con una indubbia portata sostanziale, quale deve ritenersi quella relativa alla diminuzione o alla sostituzione della pena, che integra un trattamento penale di favore, sia pure con caratteristiche peculiari, perché ricollegabili alla condotta dell'imputato successiva al reato e connotata dalla scelta processuale di accesso al rito alternativo. Tanto è stato già chiaramente affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 2977 del 06/03/1992, Piccillo. Tale decisione prende in considerazione un caso opposto a quello oggetto del presente giudizio. A seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale, per eccesso di delega, dell'art. 442, comma 2, secondo periodo, cod. proc. pen. nel testo originario, si poneva, infatti, il problema di come trattare le condanne già intervenute in applicazione della norma dichiarata successivamente incostituzionale. Le Sezioni Unite, in quella occasione, hanno ritenuto assumere rilievo gli aspetti sostanziali della disposizione concernente il trattamento penale di favore, con la conseguenza che l'intervenuta pronuncia di incostituzionalità non poteva incidere, in senso peggiorativo, su tale trattamento, ormai acquisito proprio in forza del collegamento con il procedimento speciale adottato prima della declaratoria d'incostituzionalità. L'art. 442, comma 2, cod. proc. pen., quindi, disciplinando la severità della pena da infliggere in caso di condanna secondo il rito abbreviato, è norma di diritto penale sostanziale e, tenuto conto che la stessa - con specifico riferimento ai reati punibili con la pena dell'ergastolo - ha subito, nel tempo, varie modifiche per interventi della Corte costituzionale e del legislatore, deve per la Corte soggiacere al principio di legalità convenzionale di cui all'art. 7, p. 1, CEDU, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo, vale a dire irretroattività della previsione più severa (principio già contenuto nell'art. 25, comma secondo, Cost.), ma anche, e implicitamente, retroattività o ultrattività della previsione meno severa. Quanto al problema di diritto intertemporale, volto a individuare - con riferimento ai reati punibili, in astratto, con l'ergastolo e commessi prima dell'ultima modifica normativa sull'accesso al rito abbreviato per tali illeciti - la specie e l'entità della pena da infliggere in coerenza con le regole insite nel richiamato principio di legalità convenzionale, deve per la Corte osservarsi quanto segue. Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 34233 del 19/04/2012, Giannone, hanno già chiarito che l'individuazione, tra le diverse disposizioni succedutesi dalla data di commissione dei detti reati alla pronuncia della sentenza definitiva, di quella più favorevole deve avvenire coordinando il dato normativo relativo alla prevista sostituzione di pena con le modalità e con i tempi di accesso al rito abbreviato, da cui direttamente deriva, in base alla legge vigente al momento, il trattamento sanzionatorio da applicare. In sostanza, non può aversi riguardo soltanto alla data di commissione dei reati e ai successivi interventi legislativi in materia di pena da infliggere all'esito del giudizio abbreviato, ma tali dati fattuali e normativi, per assumere rilievo ai fini della decisione, devono necessariamente integrarsi con il momento in cui viene formulata la richiesta di rito alternativo. Non va sottaciuto, infatti, che gli aspetti processuali propri del giudizio abbreviato sono strettamente collegati, come si è precisato, con quelli sostanziali, dovendosi tali ritenere quelli relativi alla diminuzione o alla sostituzione della pena, profilo questo che si risolve indiscutibilmente in un trattamento penale di favore. Si sottolinea in Sez. U, Giannone, che l'individuazione della pena sostitutiva da applicare, in sede di giudizio abbreviato, per i reati punibili in astratto con l'ergastolo, senza o con isolamento diurno, è condizionata al verificarsi, per così dire, di una fattispecie complessa, integrata dalla commissione di tale tipo di reati in una determinata epoca e dalla richiesta di accesso al rito speciale da parte dell'interessato, elementi questi che, in quanto inscindibilmente connessi tra loro, devono concorrere entrambi, perché possa trovare applicazione, in caso di condanna, la comminatoria punitiva prevista dalla legge in vigore al momento della richiesta. È tale richiesta, in definitiva, a cristallizzare, nell'ipotesi considerata, il più favorevole trattamento sanzionatorio vigente al momento di essa. La richiesta di giudizio abbreviato formulata nel vigore della così detta 'legge intermedia', art. 30, comma 1, lett. b), legge n. 479 del 1999, in relazione ai reati punibili con l'ergastolo individua, pertanto, il più mite trattamento sanzionatorio da applicare in caso di condanna, nulla rilevando che, nel momento in cui interviene la relativa decisione, il corrispondente quadro normativo risulta essere stato - <em>medio tempore</em> - modificato in senso più rigoroso. L'efficacia privilegiata attribuita alla legge intermedia più favorevole garantisce che l'eventuale lunghezza dei processi non vada a discapito dell'imputato, che potrebbe vedersi inflitta - contrariamente alle sue legittime aspettative - una condanna più severa di quella che gli sarebbe stata inflitta se il processo fosse stato definito prima. Conclusivamente per la Corte, con riferimento al mutamento di disciplina della pena, la regola in esame opera nell'ipotesi in cui la fattispecie complessa a cui innanzi si faceva cenno risulti essere stata integrata in tutte le relative componenti durante la vigenza della <em>lex mitior</em> intermedia, vale a dire tra il 2 gennaio e il 23 novembre 2000: in particolare, l'interessato deve avere chiesto, in tale arco temporale, l'accesso al rito semplificato, evento processuale - questo - che, come si è detto, cristallizza la pena meno severa in quel momento prevista, attribuendo al dato normativo di riferimento efficacia retroattiva rispetto alla data di consumazione del fatto-reato (se risale ad epoca in cui l'accesso al rito non era consentito) e ultrattiva rispetto al superamento del citato dato normativo ad opera della legge successiva più severa. È il caso di precisare – prosegue la Corte - che il soggetto coinvolto in un processo penale in corso alla data di entrata in vigore del d.l. n. 341 del 2000 per reati punibili con la pena dell'ergastolo con isolamento diurno poteva revocare, avvalendosi della facoltà riconosciutagli dalla norma transitoria di cui all'art. 8 del medesimo decreto-legge (per come sostituito in sede di conversione), la richiesta di giudizio abbreviato formulata nel vigore della precedente legge più favorevole o la richiesta di cui all'art. 4-ter, comma 2, d.l. n. 82 del 2000, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 144 del 2000. L'eventuale esercizio di tale facoltà, quale libera e consapevole scelta della persona interessata, avendo comportato la celebrazione del giudizio secondo il rito ordinario, vale a dire sulla base di moduli che, rifuggendo da ogni forma di semplificazione deflativa, hanno garantito il più ampio spazio ai diritti delle parti processuali, rimane estraneo alla problematica di cui si discute, proprio perché manca il presupposto processuale della celebrazione del giudizio abbreviato e, conseguentemente, non viene in rilievo il tema della successione di leggi penali che regolano, nel caso di ammissione a tale rito, il trattamento sanzionatorio dei reati punibili in astratto con la pena perpetua (con o senza isolamento diurno). In tale caso - a differenza di quanto si preciserà in seguito con riferimento all'esecuzione della pena inflitta all'esito del giudizio abbreviato e rivelatasi, successivamente al giudicato, non conforme al principio di legalità convenzionale e quindi al dettato di cui all'art. 117, comma primo, della Costituzione - non può incidersi, in sede esecutiva, sulla situazione cristallizzata dal giudicato; non può porsi <em>ex post</em> nel nulla la precedente revoca, ritualmente formulata, della richiesta di giudizio abbreviato (che finirebbe per assumere una fisionomia meramente virtuale), stante l'intervenuta operatività - su sollecitazione dello stesso soggetto interessato, che non aveva eccepito alcunché - della norma transitoria di cui al richiamato art. 8 d.l. n. 341 del 2000, che ha natura esclusivamente processuale e che risulta essere stata applicata, con effetti ormai irretrattabili, dal giudice della cognizione, il solo elettivamente deputato a tanto; non rientra, infatti, nei poteri del giudice dell'esecuzione quello di rivisitare, con effetti a cascata sulla pena da eseguire, le scelte processuali fatte in sede di cognizione. Nell'ipotesi data, in sostanza, il dato dirimente è offerto dal rilievo che, per effetto della revoca della richiesta di giudizio abbreviato, non risulta essere stato mai acquisito nel patrimonio giuridico del soggetto interessato il diritto ad essere giudicato con detto rito sulla base della disciplina recata dalla legge n. 479 del 1999. Riprendendo il tema che interessa specificamente il caso in esame - concernente la situazione di colui che, chiamato a rispondere di reati punibili con l'ergastolo, aveva richiesto, nel vigore della <em>lex mitior</em> intermedia, il giudizio abbreviato, ma la decisione del giudice era intervenuta nel momento in cui, per effetto del d.l. n. 341 del 2000, il corrispondente quadro normativo era mutato in senso più sfavorevole - deve rilevarsi per la Corte quanto segue. Le Sezioni Unite, con l'ordinanza 19/04/2012, partendo dal presupposto della praticabilità dell'incidente di esecuzione (aspetto che sarà trattato in seguito), ritenevano che l'ostacolo a rendere direttamente operativa la <em>lex mitior</em> di cui all'art. 30, comma 1, lett. b), legge n. 479 del 1999 - nella verificata integrazione della fattispecie complessa relativa al rito semplificato per i reati di cui si discute - era costituito dall'etichetta nominale di norma di interpretazione autentica che il legislatore aveva attribuito all'art. 7 del d.l. n. 341 del 2000, per determinarne un effetto retroattivo altrimenti non consentito, e che obbligava formalmente l'interprete ad adeguarvisi, senza alcuna possibilità d'individuare spazi ermeneutici diversi da quelli indicati dal legislatore ordinario e coerenti col principio di legalità convenzionale (art. 7, p. 1, CEDU) delineato dalla Corte di Strasburgo. Obbligata, pertanto, si rivelava la via dell'incidente di costituzionalità. L'ostacolo – precisa la Corte - è stato dipoi rimosso dalla declaratoria d'incostituzionalità dell'art. 7, comma 1, del d.l. n. 341 del 2000, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 4 del 2001 (sent. n. 210 del 2013). Il Giudice delle leggi, richiamando propri precedenti specifici (sentenze n. 103 del 2013, n. 78 del 2012, n. 311 del 2009), sottolinea che “<em>la legge interpretativa ha lo scopo di chiarire situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo, in ragione di un dibattito giurisprudenziale irrisolto, o di ristabilire una interpretazione più aderente alla originaria volontà del legislatore, a tutela della certezza del diritto e dell'uguaglianza dei cittadini</em>”. Riconosce che nessuna di tali ragioni è riscontrabile nell'art. 7, comma 1, d.l. n. 341 del 2000, considerato che la norma oggetto della pretesa interpretazione legislativa (art. 442, comma 2, ultimo periodo, cod. proc. pen.) non evidenziava ambiguità, non aveva dato luogo a un contrasto giurisprudenziale ed era stata sempre interpretata nel senso che la disciplina relativa alla pena dell'ergastolo riguardava sia l'ergastolo semplice sia quello con isolamento diurno. Ravvisa, quindi, nel richiamato art. 7, comma 1, d.l. n. 341 del 2000 una norma sostanzialmente innovativa, che modificava <em>in malam partem</em> il contenuto sanzionatorio dell'art. 442, comma 2, ultimo periodo, cod. proc. pen. e che non poteva avere, pertanto, efficacia retroattiva. La Corte Costituzionale, dopo avere così ricostruito il quadro normativo oggetto di censura, ribadisce, condividendole, le argomentazioni sviluppate nella sentenza Scoppola del 17/09/2009 dalla Corte EDU, che negli effetti innovativi e sfavorevoli dell'art. 7 d.l. n. 341 del 2000 aveva ravvisato la violazione del principio di legalità convenzionale in materia penale, sancito dall'art. 7, p. 1, CEDU; perviene quindi alla conclusione che la violazione di tale norma convenzionale, che integra il parametro costituzionale espresso dall'art. 117, comma primo, Cost., comporta l'illegittimità costituzionale della norma interna impugnata. Sulla base di tale pronuncia della Consulta, si pone per la Corte il problema di fondo circa la possibilità di eliminare gli effetti irrevocabilmente prodotti in una fattispecie identica a quella del caso <em>'Scoppola c. Italia'</em>, ma che, diversamente da quest'ultima, non ha formato oggetto di denuncia dinanzi alla Corte EDU. V'è, infatti, una radicale differenza tra chi, a fronte di un giudicato interno di condanna ritenuto convenzionalmente illegittimo, propone tempestivamente ricorso alla Corte di Strasburgo con esito positivo e chi, invece, non si avvale di tale facoltà, con l'effetto che il <em>decisum</em> nazionale non è più suscettibile del rimedio giurisdizionale previsto dal sistema convenzionale Europeo. In questo secondo caso viene in gioco il tema della vulnerabilità del giudicato, con particolare riferimento, avuto riguardo al caso in esame, alla legittimità dell'esecuzione della pena inflitta. È certamente vero che la portata valoriale del giudicato, nel quale sono insite preminenti ragioni di certezza del diritto e di stabilità nell'assetto dei rapporti giuridici, è presidiata costituzionalmente e non è, del resto, neppure estranea alla CEDU, tanto che la stessa Corte di Strasburgo ha ravvisato nel giudicato un limite all'espansione della legge penale più favorevole, conclusione avallata anche dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 236 del 2011 in materia di applicazione dei termini di prescrizione più brevi introdotti dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251. Vi sono tuttavia argomenti di innegabile solidità che si oppongono all'esecuzione di una sanzione penale rivelatasi, successivamente al giudicato, convenzionalmente e costituzionalmente illegittima. L'istanza di legalità della pena per il vero, prosegue la Corte, è un tema che, in fase esecutiva, deve ritenersi costantemente <em>sub iudice</em> e non ostacolata dal dato formale della c.d. <em>'situazione esaurita'</em>, che tale sostanzialmente non è, non potendosi tollerare che uno Stato democratico di diritto assista inerte all'esecuzione di pene non conformi alla CEDU e, quindi, alla Carta fondamentale. Non va sottaciuto, infatti, che la restrizione della libertà personale del condannato deve essere legittimata, durante l'intero arco della sua durata, da una legge conforme alla Costituzione (artt. 13, comma secondo, 25, comma secondo) e deve assolvere la funzione rieducativa imposta dall'art. 27, comma terzo, Cost., profili che vengono sicuramente vanificati dalla declaratoria d'incostituzionalità della normativa nazionale di riferimento, perché ritenuta in contrasto con la previsione convenzionale, quale parametro interposto dell'art. 117, comma primo, Cost.. E, allora, s'impone un bilanciamento tra il valore costituzionale della intangibilità del giudicato e altri valori, pure costituzionalmente presidiati, quale il diritto fondamentale e inviolabile alla libertà personale, la cui tutela deve ragionevolmente prevalere sul primo. Il <em>novum</em> introdotto dalla sentenza della Corte EDU <em>'Scoppola e. Italia'</em> sulla portata del principio di legalità convenzionale, con i conseguenti riflessi sulla legalità della pena, in quanto sopravvenuto al giudicato e rimasto quindi estraneo all'orizzonte valutativo del giudice della cognizione, impone alla giurisdizione - in forza dell'art. 46 della CEDU e degli obblighi internazionalmente assunti dall'Italia - di riconsiderare il punto specifico dell'adottata decisione irrevocabile, proprio perché non in linea con la norma convenzionale nella interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo. Il giudicato per le SSUU non può che essere recessivo di fronte ad evidenti e pregnanti compromissioni in atto di diritti fondamentali della persona. La preclusione, effetto proprio del giudicato, non può operare allorquando risulti mortificato, per una carenza strutturale dell'ordinamento interno rilevata dalla Corte EDU, un diritto fondamentale della persona, quale certamente è quello che incide sulla libertà: s'impone, pertanto, in questo caso di emendare <em>'dallo stigma dell'ingiustizia'</em> una tale situazione. Eventuali effetti ancora perduranti della violazione, determinata da una illegittima applicazione di una norma interna di diritto penale sostanziale interpretata in senso non convenzionalmente orientato, devono dunque essere rimossi, come si è più sopra precisato, anche nei confronti di coloro che, pur non avendo proposto ricorso a Strasburgo, si trovano in una situazione identica a quella oggetto della decisione adottata dal giudice Europeo per il caso Scoppola. Al nuovo e più ampio profilo di tutela del principio di legalità convenzionale in materia penale enunciato dalla Corte EDU, all'esito dell'approfondita operazione ermeneutica dell'art. 7 CEDU, deve attribuirsi, come si è detto, una valenza generale e, conseguentemente, un effetto operativo anche per la soluzione di casi identici. È agevole, pertanto, concludere che l'avere inflitto a un determinato soggetto, la cui posizione è sostanzialmente sovrapponibile a quella di Scoppola, la pena dell'ergastolo anziché quella di anni trenta di reclusione viola il diritto all'applicazione della norma penale più favorevole tra le diverse succedutesi nel tempo in materia di giudizio abbreviato (art. 7 CEDU), violazione che inevitabilmente si riverbera, con effetti di attualità in fase esecutiva, sul diritto fondamentale della libertà. Una tale situazione, anche a costo di porre in crisi il <em>'dogma'</em> del giudicato, deve essere per la Corte scongiurata, perché legittimerebbe l'esecuzione di una pena ritenuta, oggettivamente e quindi ben al di là della <em>species facti</em>, illegittima dall'interprete autentico della CEDU e determinerebbe una patente violazione del principio di parità di trattamento tra condannati che versano in identica posizione. Certamente è compito primario del legislatore, una volta preso atto del conflitto venutosi a determinare tra l'ordinamento interno e il sistema convenzionale, rimuovere le disposizioni che tale conflitto hanno generato e apprestare strumenti idonei a porre rimedio a situazioni formalmente consolidate. La legge 9 gennaio 2006 n. 12, che ha integrato l'art. 5, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, infatti, proprio a tale fine, impone alla Presidenza del Consiglio dei Ministri non solo di promuovere gli adempimenti di competenza governativa conseguenti alle pronunce della Corte EDU emanate nei confronti dello Stato italiano, ma di comunicare tempestivamente alle Camere le medesime pronunce, per l'esame da parte delle competenti Commissioni parlamentari permanenti, e di presentare annualmente al Parlamento una relazione sullo stato di esecuzione delle suddette pronunce. Di fronte però alla inerzia del legislatore, assolutamente insensibile alle sollecitazioni del Giudice sovranazionale in ordine a una più incisiva tutela dei diritti fondamentali, la giurisdizione non può ignorare o eludere il problema di cui qui si discute e deve farsi carico, una volta preso atto della insussistenza delle condizioni che giustificano l'esecuzione della pena nei confronti del condannato, di riportare la stessa in una dimensione di legittimità, utilizzando spazi di operatività della normativa vigente, che, benché non chiaramente evidenziati, sono in essa impliciti. È pur vero – prosegue la Corte - che il titolo per l'esecuzione della pena è integrato dalla sentenza irrevocabile di condanna, che si atteggia, come sostiene autorevole dottrina, quale “<em>norma del caso concreto</em>” e rende “<em>doverosa l'attuazione del comando sanzionatorio penale</em>”, ma non può ignorarsi la <em>'base giuridica</em>' su cui riposano la sentenza di condanna e, assieme ad essa, la specie e l'entità della pena da eseguire. Se la norma generale e astratta, sulla quale il giudice della cognizione ha fatto leva per giustificare la pronuncia di condanna, si riveli <em>ex post</em> incompatibile con il principio di legalità convenzionale e quindi illegittima ex art. 117, comma primo, Cost., dovrà necessariamente porsi fine, in forza delle ragioni innanzi illustrate, a tale situazione di flagrante illegalità. Il nostro ordinamento – chiosa a questo punto il Collegio - non ignora ipotesi di flessione dell'intangibilità del giudicato, sul cui valore costituzionale prevalgono, come si è detto, altri valori, ai quali il legislatore assicura un primato. In caso di <em>abolitio criminis</em>, infatti, è prevista la revoca della sentenza di condanna (art. 673 cod. proc. pen.) e ne cessano la esecuzione e gli effetti penali (art. 2, comma secondo, cod. pen.). Analoga previsione è contenuta nello stesso art. 673 cod. proc. pen. per l'ipotesi di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice. Altra ipotesi di cedevolezza del giudicato è quella prevista dall'art. 30, comma quarto, legge 11 marzo 1953, n. 87, secondo cui cessano l'esecuzione e tutti gli effetti penali della sentenza irrevocabile di condanna pronunciata in applicazione della norma dichiarata incostituzionale. L'art. 2, comma terzo, cod. pen. (inserito dall'art. 14 della legge 24 febbraio 2006, n. 85) statuisce, inoltre, che la pena detentiva inflitta con condanna irrevocabile deve essere convertita immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, se la legge posteriore prevede esclusivamente quest'ultima, regola questa che deroga alla previsione di cui al successivo comma quarto dello stesso articolo, che individua nel giudicato il limite all'operatività della <em>lex mitior</em>. All'ipotesi introdotta dall'art. 14 della legge n. 85 del 2006 può essere accostato, in via analogica, il <em>novum</em> dettato dalla Corte EDU in tema di legalità convenzionale della pena, pur considerati i diversi effetti prodotti nell'ordinamento da una <em>lex supervenies</em> più favorevole rispetto a quelli derivanti da una sentenza di Strasburgo, alla quale consegue la declaratoria d'incostituzionalità della relativa normativa interna: in entrambi i casi comunque è l'esigenza imprescindibile di porre fine agli effetti negativi dell'esecuzione di una pena <em>contra legem</em> a prevalere sulla tenuta del giudicato, che deve cedere alla più <em>'alta valenza fondativa'</em> dello statuto della pena, la cui legittimità deve essere assicurata anche <em>in executivis</em>, fase in cui la sanzione concretamente assolve la sua funzione rieducativa, in una dimensione ovviamente dinamica e, quindi, in termini di attualità. Ritenuto quindi superabile, anche nel caso in esame, lo scoglio del giudicato, rivelatosi <em>ex post</em> intrinsecamente illegittimo nella parte relativa all'esecuzione della pena irrogata, perché convenzionalmente e costituzionalmente illegittima, l'attenzione deve essere rivolta all'individuazione dello strumento processuale idoneo a consentire l'intervento correttivo sullo stesso giudicato. Non è percorribile il procedimento di revisione ex art. 630 cod. proc. pen., come integrato dalla sentenza additiva di principio n. 113 del 2011 della Consulta, non essendo necessaria una <em>'riapertura del processo'</em> funzionale a un nuovo giudizio di cognizione sul merito della vicenda. Impraticabile è anche la via del ricorso straordinario ex art. 625-bis cod. proc. pen., benché risulti essere stata percorsa, nel solo intento pragmatico di rispettare i principi dell'economia dei mezzi processuali e della ragionevole durata del procedimento, proprio nel caso Scoppola, al fine di sostituire la pena dell'ergastolo, dichiarata convenzionalmente illegittima, con quella di anni trenta di reclusione (Sez. 5, n. 16507 dell'11/02/2010, Scoppola, Rv. 247244). Detto rimedio, previsto per ovviare ad errori di fatto contenuti in provvedimenti pronunciati dalla Corte di cassazione, è inidoneo strutturalmente a intervenire in casi non contraddistinti da violazioni verificatesi nell'ambito del giudizio di legittimità. Analoga conclusione s'impone in riferimento all'impiego dell'istituto della restituzione in termini per la proposizione dell'impugnazione (art. 175, comma 2, cod. proc. pen.), trattandosi di meccanismo utilizzabile unicamente per porre rimedio alle violazioni della CEDU collegate alla disciplina del processo contumaciale, ipotesi che non viene in rilievo nella specie. Considerato che, nel caso in esame, non è necessario un nuovo accertamento di merito che imponga la riapertura del processo, ma occorre semplicemente incidere sul titolo esecutivo, per sostituire la pena inflitta con quella conforme alla CEDU, corretta costituzionalmente e già determinata, nella specie e nella misura, dalla legge, il meccanismo procedurale da utilizzare non può che essere individuato – per la Corte - nell'incidente di esecuzione, correttamente attivato dal ricorrente. Ed invero, i margini di manovra che l'ordinamento processuale riconosce alla giurisdizione esecutiva sono molto ampi. I poteri di questa non sono circoscritti alla sola verifica della validità e dell'efficacia del titolo esecutivo, ma possono incidere, in vario modo, anche sul contenuto di esso, allorquando imprescindibili esigenze di giustizia, venute in evidenza dopo l'irrevocabilità della sentenza, lo esigano. A norma dell'art. 665 cod. proc. pen., il giudice dell'esecuzione è “<em>competente a conoscere dell'esecuzione di un provvedimento</em>”, assolve il compito quindi di garantire il rispetto dei presupposti e delle condizioni legittimanti l'attuazione del comando esecutivo, tanto che gli sono anche riconosciuti dal successivo art. 666, comma 5, ove ritenuti necessari ai fini della decisione, poteri istruttori da esercitare nel rispetto del contraddittorio. L'incidente di esecuzione disciplinato dall'art. 670 cod. proc. pen., pur sorto per comporre i rapporti con l'impugnazione tardiva e la restituzione nel termine, implica necessariamente, al di là del dato letterale, un ampliamento dell'ambito applicativo dell'istituto, che è un mezzo per far valere tutte le questioni relative non solo alla mancanza o alla non esecutività del titolo, ma anche quelle che attengono alla eseguibilità e alla concreta attuazione del medesimo. Il <em>genus</em> delle doglianze da cui può essere investito il giudice degli incidenti ex art. 666 cod. proc. pen., in sostanza, è per il Collegio molto ampio ed investe tutti quei vizi che, al di là delle specifiche previsioni espresse, non potrebbero farsi valere altrimenti, considerata l'esigenza di garantire la permanente conformità a legge del fenomeno esecutivo. Il titolo esecutivo, infatti, può essere afflitto da diverse tipologie di vizi, rapportate ai tre momenti fondamentali della fase esecutiva: quello della <em>'esecutività'</em>, che è il presupposto fondamentale del titolo esecutivo e che non prelude alla necessaria sua esecuzione, occorrendo ancora accertare la possibilità reale che esso possa essere eseguito; quello della <em>'eseguibilità'</em>, che ne rappresenta, invece, il contenuto ed ha quindi, per così dire, una portata pratica; quello infine della <em>'esecuzione'</em>, che dà concreta attuazione al comando punitivo e che si concretizza una volta accertato che il provvedimento giurisdizionale è esecutivo ed eseguibile. I vizi che attengono all'esecutività del titolo si traducono – chiosa ancora il Collegio - in vizi che colpiscono il titolo medesimo, che finisce per essere inefficace <em>ab origine</em>; quelli che attengono al contenuto colpiscono in maniera diretta il titolo esecutivo, che deve essere sostituito, pertanto, con un provvedimento dotato del requisito della eseguibilità; i vizi che incidono sull'attuazione del titolo riguardano la sua esecuzione, che in tanto potrà avere regolare corso in quanto siano garantite le legittime modalità di attuazione. Ne consegue che qualsiasi doglianza concernente il titolo esecutivo va per le SSUU proposta dinanzi al giudice dell'esecuzione, la cui competenza ha natura funzionale. La questione relativa alla non eseguibilità del giudicato di condanna nella parte concernente la specie e l'entità della sanzione irrogata, perché colpita da sopravvenuta declaratoria d'illegittimità costituzionale per contrasto con l'art. 117, comma primo, Cost., integrato - quale parametro interposto - dall'art. 7, p. 1, CEDU, non può essere risolta facendo leva sulla norma processuale di cui all'art. 673 cod. proc. pen. (revoca della sentenza per abolizione del reato). Quest'ultima disposizione completa la disciplina generale sostanziale in tema di successione della legge penale nel tempo e di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, statuendo testualmente che “<em>il giudice dell'esecuzione revoca la sentenza di condanna o il decreto penale dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti</em>”. La norma prende chiaramente in considerazione i fenomeni della depenalizzazione e della incostituzionalità di una determinata fattispecie penale, oggetto della pronuncia irrevocabile, e incide direttamente su questa, cancellandola radicalmente o limitatamente alla parte corrispondente; prevede l'adozione dei provvedimenti conseguenti, nel cui ambito deve certamente farsi rientrare la rimodulazione del trattamento sanzionatorio relativo ad altri illeciti eventualmente confluiti - per la ritenuta sussistenza del vincolo della continuazione o del concorso formale col fatto non previsto dalla legge come reato - nella pronuncia del giudice della cognizione e non coinvolti nell'<em>abolitio criminis</em> (Corte cost., sent. n. 96 del 1996); non lascia spazio, però, per essere interpretata anche nel senso di legittimare un intervento selettivo del giudice dell'esecuzione sul giudicato formale nella sola parte relativa all'aspetto sanzionatorio ad esso interno e riferibile al titolo di reato non attinto da perdita di efficacia. L'art. 673 cod. proc. pen., tuttavia, non esclude che, in sede di esecuzione, possano venire in rilievo situazioni diverse che, sebbene in esso non considerate, impongano comunque un intervento parziale sul contenuto del giudicato e una relativa modifica: si pensi all'operatività dell'art. 2, comma terzo, cod. pen., più sopra richiamato, che statuisce la conversione della pena detentiva inflitta per un determinato reato con la corrispondente pena pecuniaria introdotta da una legge posteriore; ed ancora, ai casi in cui deve applicarsi il principio di retroattività delle sentenze che dichiarano l'incostituzionalità di una norma non nella parte incriminatrice, ma in quella relativa al trattamento penale, declaratoria che ha forza invalidante <em>ex tunc</em>, la cui portata, già implicita nell'art. 136 Cost., è resa esplicita dall'art. 30 della legge 11 marzo 1953, n. 87. In particolare, il divieto di dare esecuzione ad una pena prevista da una norma dichiarata illegittima dal Giudice delle leggi è esso stesso principio di rango sovraordinato - sotto il profilo della gerarchia delle fonti - rispetto agli interessi sottesi all'intangibilità del giudicato. È sull'art. 30 della legge n. 87 del 1953 per la Corte che, ai fini che qui interessano, deve farsi leva, disponendo tale norma di un perimetro operativo più esteso rispetto a quello prescrittivo dell'art. 673 cod. proc. pen..I commi terzo e quarto del citato art. 30 rispettivamente dispongono che “<em>Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione” e che “Quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano l'esecuzione e tutti gli effetti penali</em>”. Il riferimento generico alla <em>'norma dichiarata incostituzionale'</em> evoca qualsiasi tipologia di norma penale - comprese quindi quelle che incidono sul <em>quantum</em> sanzionatorio - e non incontra il limite che, invece, contraddistingue la portata applicativa dell'art. 673 cod. proc. pen., circoscritta alla sola <em>'norma incriminatrice</em>' in senso stretto, costitutiva cioè di un autonomo titolo di reato. Ne consegue che non è estraneo alla <em>ratio</em> del richiamato art. 30, comma quarto, legge n. 87 del 1953 l'impedire che anche una sanzione penale, per quanto inflitta con una sentenza divenuta irrevocabile, venga ingiustamente sofferta sulla base di una norma dichiarata successivamente incostituzionale: la conformità a legge della pena, e in particolare di quella che incide sulla libertà personale, deve essere costantemente garantita dal momento della relativa irrogazione a quello della sua esecuzione (Sez. 1, n. 26899 del 25/05/2012, Harizi, Rv. 253084; Sez. 1, n. 19361 del 24/02/2012, Teteh, Rv. 253338; Sez. 1, n. 977 del 27/10/2011, dep. 13/01/2012, Hauohu, Rv. 252062; in tema di ineseguibilità della porzione di pena riferibile a circostanza aggravante incostituzionale). È il caso di sottolineare che non può condividersi la tesi, sostenuta da Sez. 1, n. 27640 del 19/01/2012, Hamrouni, secondo cui l'art. 30, comma quarto, della legge n. 87 del 1953 deve ritenersi, a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 673 cod. proc. pen., implicitamente abrogato, in quanto la relativa disciplina sarebbe stata integralmente assorbita in quella della norma codicistica. Tale conclusione, prosegue la Corte, oltre ad essere contrastata da quanto enunciato dalla sentenza n. 210 del 2013 della Corte costituzionale, che avalla implicitamente la perdurante operatività nell'ordinamento giuridico della norma in questione, mal si concilia col rilievo che non può esservi abrogazione implicita di una disposizione sostanziale ad ampio spettro, qual è il comma quarto del richiamato art. 30, ad opera di una norma processuale (art. 673 cod. proc. pen.) orientata a disciplinare, in sede esecutiva, la sola ipotesi dell'abrogazione o della declaratoria d'incostituzionalità della norma incriminatrice. Né appare dirimente l'argomento in forza del quale la cessazione - prevista dall'art. 30, comma quarto, legge n. 87 del 1953 - non solo dell'esecuzione ma di <em>'tutti gli effetti penali'</em> della sentenza irrevocabile di condanna implicherebbe, secondo Sez. 1, Hamrouni, “<em>il radicale presupposto dell'</em>abolitio criminis”, vale a dire la restrizione dell'operatività della corrispondente previsione alle sole norme incriminatrici. È agevole obiettare che il riferimento volutamente generico, contenuto nel richiamato art. 30, quarto comma, è certamente comprensivo di queste ultime norme (il che spiega il riferimento alla cessazione anche di <em>'tutti</em>' gli effetti penali), ma nulla induce a ritenere che sia circoscritto soltanto alle medesime. Conclusivamente per le SSUU in tanto il meccanismo di aggressione del giudicato, nella parte relativa alla specie e alla misura della pena inflitta dal giudice della cognizione, è attivabile con incidente di esecuzione, in quanto ricorrano le seguenti condizioni: a) la questione controversa deve essere identica a quella decisa dalla Corte EDU; b) la decisione sovranazionale, alla quale adeguarsi, deve avere rilevato un vizio strutturale della normativa interna sostanziale, che definisce le pene per determinati reati, in quanto non coerente col principio di retroattività <em>in mitius</em>; c) la possibilità d'interpretare la normativa interna in senso convenzionalmente orientato ovvero, se ciò non è praticabile, la declaratoria d'incostituzionalità della medesima normativa (com'è accaduto nella specie); d) l'accoglimento della questione sollevata deve essere l'effetto di una operazione sostanzialmente ricognitiva e non deve richiedere la riapertura del processo. Ricorrendo tali condizioni, il giudice dell'esecuzione non deve procedere alla revoca (parziale) della sentenza di condanna, ma deve limitarsi, avvalendosi degli ampi poteri conferitigli dagli artt. 665 e 670 cod. proc. pen., a ritenere non eseguibile la pena inflitta e a sostituirla con quella convenzionalmente e costituzionalmente legittima. Diverso – chiosa ancora la Corte - è il caso, come si è avvertito nell'ordinanza del 19 aprile 2012 con la quale si è sollevata la questione di costituzionalità, di una pena rivelatasi illegittima esclusivamente perché irrogata all'esito di un giudizio ritenuto dalla Corte EDU non equo, ai sensi dell'art. 6 CEDU: in questa ipotesi, l'apprezzamento, vertendo su eventuali <em>errores in procedendo</em> e implicando valutazioni strettamente correlate alla fattispecie specifica, non può che essere compiuto caso per caso, con l'effetto che il giudicato interno può essere posto in discussione soltanto di fronte a un vincolante <em>dictum</em> della Corte di Strasburgo sulla medesima fattispecie e attraverso lo strumento della revisione ex art. 630 cod. proc. pen. (come integrato dalla sentenza n. 113 del 2011 Corte cost.), che comporta la riapertura del processo. A norma dell'art. 173, comma 3, disp. att. cod. proc. pen., le SSUU enunciano dunque i conseguenti principi di diritto onde, da un lato la pena dell'ergastolo inflitta all'esito del giudizio abbreviato, richiesto dall'interessato in base all'art. 30, comma 1, lett. b), legge n. 479 del 1999, ma conclusosi nel vigore della successiva e più rigorosa disciplina dettata dall'art. 7, comma 1, d.l. n. 341 del 2000 e in concreto applicata, non può essere ulteriormente eseguita, essendo stata quest'ultima norma ritenuta, successivamente al giudicato, non conforme al principio di legalità convenzionale di cui all'art. 7, p. 1, CEDU, come interpretato dalla Corte EDU, e dichiarata incostituzionale per contrasto con l'art. 117, comma primo, Cost.; dall’altro, il giudice dell'esecuzione, investito del relativo incidente ad istanza di parte e avvalendosi dei relativi poteri di controllo sulla permanente legittimità della pena in esecuzione, è legittimato a sostituirla, incidendo sul giudicato, con quella di anni 30 di reclusione, prevista dalla più favorevole norma vigente al momento della richiesta del rito semplificato. * * * Il 14 ottobre esce la nota sentenza delle SSUU n.42858, <em>Gatto</em>, in tema di spaccio di lieve entità di stupefacenti e c.d. “<em>rideterminazione della pena</em>”, secondo la quale allorché un dato trattamento sanzionatorio penale sia divenuto incostituzionale per effetto di una pronuncia del Giudice delle Leggi, quand’anche la sentenza che lo ha disposto sia ormai in giudicato risulta nondimeno possibile rideterminare, <em>in executivis</em>, il ridetto trattamento sanzionatorio per conformarlo al <em>decisum</em> <em>in mitius</em> della Corte costituzionale. Per il Collegio, se da un lato si registra una diversità tanto di presupposti quanto di effetti tra abrogazione di una norma e relativa dichiarazione di illegittimità costituzionale, dall’altro il c.d. dogma dell’intangibilità del giudicato ha subito nel corso degli anni una progressiva erosione, tanto ad opera del Legislatore che della giurisprudenza. Per quanto riguarda il primo aspetto, va considerato per la Corte che i fenomeni di abrogazione di norme o di successione tra norme non estinguono le norme stesse, delimitandone piuttosto la sfera materiale di efficacia, potendosi applicare (le ridette norme) solo a fatti verificatisi sino ad un dato momento temporale; si tratta di fenomeni fisiologici dell’ordinamento giuridico che scaturiscono da una rinnovata e diversa valutazione del disvalore penale di un dato fatto, sulla scorta di considerazioni di opportunità politica e sociale rimesse alle scelte del Parlamento. Ne discende come l’applicazione della sopravvenuta legge penale più favorevole, essendo collegata al fenomeno “<em>fisiologico</em>” della vigenza normativa, trova un limite invalicabile nella sentenza irrevocabile. Quando interviene invece una declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma, quest’ultima ne risulta inficiata fin dall’origine (<em>ex tunc</em>), con caducazione <em>ab ovo </em>che impedisce qualsivoglia fenomeno di successione di leggi nel tempo; si è al cospetto dunque di un evento di patologia normativa che attesta inconfutabilmente come una data norma (quella, per l’appunto, dichiarata incostituzionale) mai avrebbe dovuto essere introdotta nell’ordinamento repubblicano. In caso di sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale dunque - a differenza di quanto accade per l’applicazione della legge penale sopravvenuta più favorevole - la norma costituzionalmente illegittima viene espunta dall’ordinamento proprio perché affetta da una invalidità originaria, così giustificando ed anzi imponendo una “<em>proiezione “</em>retroattiva” <em>sugli effetti ancora n corso di rapporti giuridici pregressi</em>”. Peraltro, soggiunge il Collegio, la retroattività della declaratoria di illegittimità costituzionale assume “<em>in materia penale una portata ben maggiore</em>”, in forza dell’art. 30, co. 4, L.87.53, laddove tale disposizione estende al massimo l'incidenza retroattiva delle decisioni d'incostituzionalità nella ridetta materia penale, in considerazione della particolare gravità che connota le sanzioni di natura, per l’appunto, “<em>penale</em>”. Le SSUU fondano poi il proprio impianto argomentativo sulla scorta di una assunta erosione del giudicato nella relativa, tradizionale concezione “<em>assolutistica</em>”; quello del giudicato “<em>intangibile</em>” si atteggia infatti, per la Corte, ad epifania mitica e dogmatica di una mistica ideologica avvinta allo “<em>Stato forte</em>” e dunque, sostanzialmente, al precedente regime autoritario; la giurisprudenza nazionale prima, ed il legislatore poi, hanno tuttavia progressivamente ridimensionato il mito del giudicato intangibile, in ciò sospinti anche dall’incalzare della giurisprudenza europea. Su questo crinale, il Collegio assume a punto di riferimento le SSUU “<em>Ercolano</em>”, onde il bilanciamento tra il valore costituzionale che predica l’intangibilità del giudicato ed il (del pari costituzionalmente significativo) diritto fondamentale e inviolabile della libertà personale impone che sia il secondo a prevalere, onde anche in fase esecutiva deve assumersi costantemente soggetta a controllo giurisdizionale la conformità della pena in concreto applicata al condannato al canone della legalità; in uno Stato democratico, appare infatti al Collegio intollerabile che si proceda ad eseguire pene non conformi alla CEDU e, dunque, alla Costituzione. Ne discende che in ambito penalistico si ha esaurimento del rapporto, e conseguente intangibilità del giudicato non già nel momento in cui interviene quest’ultimo (e, dunque, non già nell’attimo in cui la sentenza considerata passa in giudicato), quanto piuttosto nel momento in cui ne divengono irreversibili gli effetti, che non possono essere più rimossi perché ormai già “<em>consumatisi</em>” (si pensi ad una pena già integralmente eseguita). Per il Collegio, stanti tali premesse, il diritto fondamentale alla libertà personale deve prevalere sul valore dell'intangibilità del giudicato, onde devono essere rimossi gli effetti ancora perduranti della violazione conseguente all'applicazione di una norma incidente sulla determinazione della sanzione, laddove dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale pur dopo la sentenza irrevocabile. Venendo agli strumenti tecnici a disposizione del giudice – da intendersi inevitabilmente quale giudice dell’esecuzione penale – il risultato da raggiungere è quello della rideterminazione <em>in melius</em> della pena che il condannato deve alfine scontare, giustapponendosi sul punto una tesi giurisprudenziale che ammette solo l’applicazione di rigidi automatismi di tipo matematico ad una diversa opzione ermeneutica tesa ad affidare al giudice dell’esecuzione poteri dalla natura maggiormente “<em>elastica</em>” onde è possibile – con applicazione <em>in executivis</em> dell’art.133 c.p. – la rimodulazione del trattamento sanzionatorio complessivo siccome a suo tempo applicato (<em>contra Constitutionem</em>) in sede di cognizione. Per il Collegio, è da preferire la tesi più elastica, capace di affidare al giudice dell’esecuzione ampi margini di manovra che gli consentano non già solo di verificare la validità e l’efficacia del titolo esecutivo, ma che lo abilitino ad adeguare il rapporto esecutivo col condannato allo <em>ius superveniens</em> siccome disegnato a valle della declaratoria di illegittimità costituzionale ad opera del Giudice delle Leggi. Ciò a meno che tale operazione adeguatrice del giudice dell’esecuzione non sia stata già espressamente esclusa dal giudice della cognizione in sede di applicazione al reo del pertinente trattamento sanzionatorio, in modo del tutto indipendente dalla presenza di un divieto di legge poi rivelatosi incostituzionale. La Corte conclude affermando taluni principi di diritto onde, da un lato, l’irrevocabilità della sentenza di condanna non impedisce la rideterminazione della pena in favore del condannato, quando interviene la dichiarazione d’illegittimità costituzionale di una norma penale diversa da quella incriminatrice, incidente sul trattamento sanzionatorio, e quest’ultimo non sia stato interamente eseguito, e ciò quand’anche il provvedimento ‘<em>correttivo’</em> da adottare non sia a contenuto rigidamente predeterminato; conseguentemente, dall’altro il giudice dell’esecuzione, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 2012 - che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui vietava di valutare prevalente la circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen. - può affermare la prevalenza dell’attenuante anche compiendo attività di accertamento, sempre che tale valutazione non sia stata esclusa dal giudice della cognizione; Infine, per la Corte spetta al PM, in ragione delle relative funzioni istituzionali e per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 2012, il compito di richiedere al giudice dell’esecuzione l’eventuale rideterminazione della pena inflitta anche in applicazione dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., nel testo dichiarato costituzionalmente illegittimo, quand’anche il pertinente trattamento sanzionatorio sia già in corso di attuazione (purché l’esecuzione non si sia esaurita). * * * Il 25 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.51844, <em>Riva</em>, che si inserisce in un trend pretorio che – in tema di rideterminazione di “<em>pena patteggiata divenuta illegale</em>” a seguito di sentenza della Corte costituzionale con riguardo a fattispecie di droghe c.d. leggere – assume la conseguente rideterminazione della pena dover avvenire giusta criterio oggettivo di tipo matematico-proporzionale. Su questo crinale la pena, contenuta in una sentenza di patteggiamento irrevocabile, ineseguibile perché derivata da parametri costituzionalmente illegittimi, deve essere rideterminata, in sede di esecuzione, secondo un criterio proporzionale che la trasponga all'interno della nuova cornice edittale determinatasi in seguito alla reviviscenza della normativa previgente alla dichiarazione di incostituzionalità di cui alla sentenza n. 32 del 2014. Secondo tale impostazione il criterio prescelto consente di meglio salvaguardare «<em>la volontà negoziale delle parti irrevocabilmente espressa e la susseguente valutazione di congruità della pena concordata espressa dal giudice della cognizione</em>», in quanto la rideterminazione avviene in base ai limiti edittali, minimi e massimi, previsti dalla fattispecie astratta precedente alla dichiarazione di incostituzionalità, applicando una pena che, in proporzione, corrisponda all'entità della pena applicata in sentenza, aggiungendo al nuovo minimo di pena la stessa percentuale di aumento applicata in sede di cognizione. Così, se per la violazione dell'art. 73 d.P.R. 309/1990 risulta essere stata applicata la pena-base di sette anni, con l'aggiunta di un anno rispetto alla pena edittale minima, che all'epoca era di sei anni, occorrerà aggiungere, in proporzione, lo stesso aumento al nuovo minimo edittale, che oggi è di due anni. Il Collegio precisa altresì che «<em>la circostanza che il precedente accordo per l'applicazione di una pena prossima al minimo edittale possa essere stato condizionato dall'entità particolarmente elevata del minimo edittale di sei anni di reclusione, a suo tempo vigente in materia di droghe cosiddette leggere, non costituisce valido argomento contrario alla replicazione della pena secondo un identico criterio di prossimità al vigente minimo edittale di due anni di reclusione, non essendo consentito al giudice (della cognizione come dell'esecuzione) un sindacato di congruità sui parametri edittali adottati dal legislatore, ma soltanto una commisurazione discrezionale della pena entro i limiti fissati dalla legge a norma dell'art. 132 cod. pen</em>.» Alla rideterminazione della pena può per il Collegio procedere direttamente la Corte di cassazione, ai sensi dell'art. 620, comma 1, lett. I), cod. proc. pen., operando la stessa percentuale di aumento, rispetto al minimo edittale, che era stata applicata in sede di accordo ratificato dal giudice della cognizione. Si tratta di un orientamento seguito anche da una parte della giurisprudenza di merito (Trib. Bologna, 27/05/2014, M.Y.; Trib. Lecce, 17/06/2014, A.), che assume come il criterio puramente aritmetico proporzionalistico rispetto alla pena applicata garantisca la conservazione dei canoni valutativi adottati in sede di merito sotto tutti i profili, con riferimento sia ai criteri di cui all'art. 133 cod. pen., sia ad eventuali aumenti e diminuzioni di pena per effetto di circostanze. In tal modo “<em>si preserva</em>” maggiormente il giudicato, sacrificandolo solo ove esso entri in evidente contrasto con l'applicazione di una pena non più rispondente a quella oggi prevista dall'ordinamento, peraltro limitando il potere discrezionale del giudice dell'esecuzione. * * * Il 19 dicembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.52981, <em>De Simone</em>, che si inserisce in un alternativo <em>trend</em> pretorio onde – sempre in tema di rideterminazione di “<em>pena patteggiata divenuta illegale</em>” a seguito di sentenza della Corte costituzionale con riguardo a fattispecie di droghe c.d. leggere – va operata una dequotazione del contenuto pattizio <em>inter partes</em> per propugnare la tesi della libera determinazione della pena da parte del giudice dell'esecuzione. In sede di esecuzione, per il Collegio il giudice deve rideterminare la pena in rapporto ai nuovi e diversi parametri edittali, dando conto, ai sensi degli art. 132 e 133 cod. pen., delle modalità di esercizio del potere commisurativo e tenendo conto dei principi generali del sistema sanzionatorio, tra i quali quello per cui non può essere aumentata l'afflittività della pena stabilita in sentenza. Inoltre, la pena deve essere ricalcolata anche se il provvedimento da adottare non è a contenuto predeterminato, in quanto il giudice può avvalersi dei penetranti poteri di accertamento e di valutazione che gli sono attribuiti, purché rispetti, da un lato, i limiti edittali previsti dalla originaria formulazione dell'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, in relazione alla tipologia di condotta e di sostanza stupefacente oggetto di contestazione, dall'altro, le valutazioni già effettuate in sentenza dal giudice della cognizione con riferimento alla sussistenza del fatto e al significato allo stesso attribuibile. Per il Collegio il giudice, nella rideterminazione della pena, prescinde dalla volontà delle parti. In questa operazione si riconosce al giudice il compito di «<em>collocare il fatto concreto nella scala dei comportamenti riconducibili alla figura criminosa, e di tarare la pena, rispetto ai parametri oggettivi e soggettivi di misurazione, tenuto conto del cursore assegnatogli dal legislatore</em>», specificando che «<em>nella situazione determinata dalla citata sentenza n. 32 del 2014, la gravità obiettiva di condotte concernenti droghe cosiddette leggere non va più misurata anche rispetto a comportamenti concernenti droghe pesanti, come prima accadeva per effetto dell'equiparazione stabilita dal legislatore, ma nell'ambito di un sistema ove tutte le condotte riguardano ormai stupefacenti considerati meno pericolosi</em>». In sostanza, per il Collegio va attribuita alla fase esecutiva la necessità di «<em>una valutazione globale del fatto</em>», che viene rimessa al giudice dell'esecuzione, «<em>non essendo più discutibile la forma dell'accertamento e restando a questo punto da reiterare, in termini ormai sottratti alla dinamica negoziale, la valutazione officiosa di congruità del trattamento sanzionatorio</em>». Tale diverso orientamento dunque, oltre a rivisitare criticamente la tesi della rideterminazione della pena in termini matematico-proporzionali, afferma il principio secondo cui è attribuito al giudice il compito di collocare il fatto nella figura criminosa e di tarare la pena rispetto ai parametri oggettivi e soggettivi di misurazione, ritenendo che, con riferimento alle sentenze di applicazione di pena divenute irrevocabili, spetti al giudice della esecuzione procedere alla rideterminazione della pena "<em>in termini ormai sottratti alla dinamica negoziale</em>", escludendo che rientri nelle attribuzioni del giudice di legittimità la verifica della concreta idoneità del trattamento sanzionatorio, trattandosi di una valutazione in fatto. Nella medesima scia pretoria si muovono peraltro anche talune decisioni di merito che insistono sull'esigenza di recuperare tutta la discrezionalità nel momento in cui deve procedersi alla rideterminazione della pena, senza necessità di acquisire nuovamente il consenso delle parti e dando conto della scelta in motivazione, ai sensi dell'art. 133 cod. pen. (G.i.p. Trib. Perugia, 12/11/2014; Trib. Milano, 16/09/2014; Trib. Milano, 16/07/2014; Trib. Treviso, 18/06/2014, M.). <strong>2015</strong> Il 14 aprile esce la sentenza della IV sezione della Corte EDU sul caso Contrada, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, occasione nella quale la Corte Europea riscontra da parte dell’Italia la violazione dell’art.7 CEDU per difetto di prevedibilità al momento della commissione dei fatti contestati, da parte dell’imputato, di una propria responsabilità penale appunto per c.d. “<em>concorso esterno</em>” in associazione mafiosa. La Corte rammenta come si tratti – quelle contestate - di condotte afferenti ad un torno temporale che va dal 1979 al 1988; solo nel 1987, nondimeno, la Corte di Cassazione ha timidamente lasciato affacciare per la prima volta la non configurabilità di un concorso esterno in associazione mafiosa con una sentenza che non ha tuttavia subito trovato seguito costante presso la giurisprudenza della Corte medesima, essendo intervenuta la sentenza Demitry - favorevole (all’opposto) all’ammissibilità della pertinente figura e capace di sciogliere i maggiori contrasti interpretativi, oltre che di meglio definire i presupposti applicativi dell’istituto - solo nel 1994. Più nel dettaglio, e limitandosi alle considerazioni della Corte afferenti allo specifico caso di specie, essa assume come la questione che si pone sia quella di stabilire se, all’epoca dei fatti ascritti al ricorrente, la legge applicabile definisse chiaramente il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, dovendosi dunque esaminare se, a partire dal testo delle disposizioni pertinenti e con l’aiuto dell’interpretazione della legge fornita dai tribunali interni, il ricorrente potesse conoscere le conseguenze dei propri atti sul piano penale. Nel caso di specie, il ricorrente è stato condannato a una pena di 10 anni di reclusione per concorso in associazione di tipo mafioso con una sentenza emessa dal tribunale di Palermo il 5 aprile 1996 riguardo a fatti compiuti tra il 1979 e il 1988: nella parte in diritto della sentenza, tale concorso veniva definito «<em>eventuale</em>» o «<em>esterno</em>». La condanna del ricorrente, dapprima annullata da una sentenza della corte d’appello di Palermo, è stata poi confermata da un’altra sezione di quest’ultima e, in via definitiva, da una sentenza della Corte di cassazione. La Corte fa a questo punto notare che non è oggetto di contestazione tra le parti il fatto che il concorso esterno in associazione di tipo mafioso costituisca un reato di origine giurisprudenziale. Come ha giustamente ricordato il Tribunale di Palermo nella relativa sentenza del 5 aprile 1996 – prosegue la Corte - l’esistenza di questo reato è stata oggetto di approcci giurisprudenziali divergenti; l’analisi della giurisprudenza citata dalle parti dimostra infatti che la Corte di cassazione ha menzionato per la prima volta il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso nella sentenza Cillari del gennaio 1987, depositata con il n. 8092 il 14 luglio di quell’anno. Nel caso di specie, la Corte di cassazione ha contestato l’esistenza di un tale reato e ha poi ribadito questa posizione in altre sentenze successive, in particolare nella sentenza Agostani, n. 8864 del 27 giugno 1989 e nelle sentenze Abbate e Clementi, nn. 2342 e 2348 del 27 giugno 1994. Nel frattempo, chiosa ancora la Corte, in altre cause la Corte di cassazione ha riconosciuto l’esistenza del reato di concorso eventuale in associazione di tipo mafioso, come nel caso della sentenza <em>Altivalle</em>, n. 3492, del 13 giugno 1987 e, successivamente, delle sentenze <em>Altomonte</em>, n. 4805 del 23 novembre 1992, <em>Turiano</em>, n. 2902 del 18 giugno 1993 e <em>Di Corrado</em>, del 31 agosto 1993. Tuttavia, è solo nella sentenza <em>Demitry</em>, pronunciata dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione il 5 ottobre 1994, che quest’ultima ha fornito per la prima volta una elaborazione della materia controversa, esponendo gli orientamenti che negano e quelli che riconoscono l’esistenza del reato in questione e, nell’intento di porre fine ai conflitti giurisprudenziali in materia, ha finalmente ammesso in maniera esplicita l’esistenza del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso nell’ordinamento giuridico interno. In questo contesto, prosegue la Corte, l’argomento del ricorrente secondo il quale, all’epoca della perpetrazione dei fatti (1979-1988), la giurisprudenza interna in materia non era in alcun modo contraddittoria, non può essere accolto. La Corte considera poi che il riferimento del Governo italiano alla giurisprudenza in materia di concorso esterno, che si è sviluppata a partire dalla fine degli anni 60’ del secolo scorso, ossia prima dei fatti ascritti al ricorrente, non toglie nulla a questa constatazione, le cause menzionate dal Governo convenuto riguardando certamente lo sviluppo giurisprudenziale della nozione di «<em>concorso esterno</em>», e tuttavia i casi evidenziati non riguardando il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, che è oggetto del ricorso sottoposto ora alla Corte EDU, ma di reati diversi, ossia la cospirazione politica attraverso la costituzione di una associazione e gli atti di terrorismo. Pertanto, non si può per la Corte dedurre dallo sviluppo giurisprudenziale citato l’esistenza nel diritto interno del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, che si differenzia per sua stessa sostanza dai casi menzionati dal Governo, e che, come sopra ricordato è stato oggetto di uno sviluppo giurisprudenziale distinto e posteriore rispetto a questi ultimi. La Corte osserva ancora che, nella sentenza del 25 febbraio 2006, la Corte d’appello di Palermo, pronunciandosi sull’applicabilità della legge penale in materia di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, si è basata sulle sentenze <em>Demitry</em>, del 5 ottobre 1994, <em>Mannino</em> del 27 settembre 1995, <em>Carnevale</em>, 30 ottobre 2002 e nuovamente <em>Mannino</em>, del 17 luglio 2005, tutte posteriori ai fatti ascritti al ricorrente. Per di più, la doglianza del ricorrente relativa alla violazione del principio della irretroattività e della prevedibilità della legge penale, sollevata dinanzi a tutti i gradi di giudizio non è stata oggetto di un esame approfondito da parte dei giudici nazionali, essendosi questi ultimi limitati ad analizzare in dettaglio l’esistenza stessa del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso nell’ordinamento giuridico interno senza tuttavia stabilire se un tale reato potesse essere conosciuto dal ricorrente all’epoca dei fatti a lui ascritti. In queste circostanze, per la Corte EDU il reato in questione è stato il risultato di una evoluzione giurisprudenziale iniziata verso la fine degli anni 80’ del secolo scorso e consolidatasi nel 1994 con la sentenza <em>Demitry</em>, onde, all’epoca in cui sono stati commessi i fatti ascritti al ricorrente (1979-1988), il reato in questione non era sufficientemente chiaro e prevedibile per quest’ultimo, non potendo dunque egli conoscere nella fattispecie la pena in cui incorreva per la responsabilità penale derivante dagli atti da lui compiuti: tutti elementi sufficienti per concludere che vi è stata violazione dell’articolo 7 della Convenzione. * * * Il 30 aprile esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.34147 che si occupa della differenza tra partecipazione ad associazione mafiosa e concorso esterno facendo perno sul diverso grado di compenetrazione del soggetto agente nella compagine criminale. Non si tratta per la Corte di una distinzione di natura quantitativa ma, piuttosto, qualitativa, palesandosi essa collegata alla organicità del rapporto tra il singolo soggetto considerato e la consorteria di riferimento, onde – sul crinale oggettivo – può essere considerato contributo di partecipazione quello del soggetto cui sia stato attribuito un ruolo nel sodalizio, quand’anche egli non abbia mai avuto occasione di attivarsi, mentre va all’opposto qualificato come contributo concorsuale “<em>esterno</em>” quello di colui sulla cui disponibilità l’associazione mafiosa non può contare, che sia stato più volte contattato per tenere determinate condotte agevolative, concordate con il ridetto <em>extraneus</em> sulla base di autonome determinazioni. Si tratta di un orientamento giurisprudenziale teso, fra l’altro, ad isolare gli elementi che consentono di distinguere tra contiguità illecita con il sodalizio criminale (a titolo di concorso esterno) e collateralismo mafioso penalmente irrilevante, seppure moralmente e socialmente riprovevole, onde esiste una soglia al di là della quale il secondo (collateralismo mafioso) si tramuta nella prima (contiguità mafiosa), solo quest’ultima palesandosi rilevante a titolo appunto di concorso esterno nel delitto di associazione mafiosa. Da questo punto di vista, una particolare pregnanza assume l’indagine afferente all’apporto causale concretamente offerto dal soggetto rispetto alla compagine criminosa, in termini di mantenimento in vita, potenziamento e consolidamento della compagine medesima: se in genere l’elemento causale ha lo scopo di consentire l’imputazione oggettiva di un fatto penalmente tipico al relativo autore, nella particolare fattispecie del reato di associazione mafiosa la causalità finisce con il tipizzare, come ha osservato la più attenta dottrina, il contributo concorsuale punibile, onde se si riscontra un nesso eziologico in termini appunto di mantenimento in vita, o di potenziamento e consolidamento, della compagine criminosa, può discorrersi di concorso esterno, mentre laddove ciò non accada si ha al massimo un mero collateralismo che non lambisce la soglia della responsabilità penale. Per la Corte, sotto altro profilo, va assunta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 110 e 416.bis c.p., in combinato disposto tra loro, con riferimento agli articoli 25, comma 2, e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in riferimento all’art.7 della CEDU: anche dopo la decisione sul caso Contrada, la fattispecie del concorso esterno in associazione mafiosa non costituisce un istituto di creazione giurisprudenziale, evincendosi esso piuttosto dalla operatività della funzione incriminatrice ascrivibile all’art.110 c.p., capace di estendere la punibilità laddove avvinto a singole norme incriminatrici di parte speciale (tra le quali appunto l’art.416 bis c.p.). * * * Il 28 luglio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.33040 che, a valle della sentenza della Corte costituzionale n.32 del 2014 in tema di omogeneità della cornice edittale sanzionatoria tra c.d. droghe pesanti e droghe leggere, si occupa della rimodulazione della pena per chi abbia subito condanna, ormai passato in giudicato, sulla scorta di una forbice edittale afferente alle droghe leggere ed ormai, giust’appunto, dichiarata incostituzionale. La richiamata sentenza della Corte costituzionale ha posto tutta una serie di dubbi interpretativi; <em>in primis</em> – all’opposto di quanto accaduto in occasione di precedenti declaratorie di incostituzionalità, laddove è affiorata solo l'esigenza di riquantificare talune pene in misura predeterminata o comunque determinabile giusta l’utilizzo di agevoli e “<em>meccanici</em>” calcoli aritmetici, come nel caso “<em>negativo</em>” della decurtazione della pena irrogata in applicazione dell’illegittima aggravante ex art, 61, n. 11-bis c.p., ovvero dell’applicazione “<em>positiva</em>” di una diminuzione sanzionatoria in precedenza negata, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 69, co. 4, c.p. – nel caso considerato dalle SSUU la reviviscenza del testo originario dell’art. 73, d.P.R. 309/1990, implica la necessità di misurare la pena su una cornice edittale diversa rispetto a quella considerata nel processo di cognizione, richiedendo dunque un procedimento di rimodulazione sanzionatoria assai meno meccanico, aritmetico ed automatico. Ancora, appare incerto se il giudice dell'esecuzione sia tenuto a ricalcolare la pena inflitta soltanto ove essa abbia ecceduto il massimo edittale previsto dall’originario att. 73, d.P.R. 309/1990, ovvero sia piuttosto abilitato a farlo in riferimento a ogni condanna per reati aventi ad oggetto droghe c.d. leggere, stante la mutata forbice sanzionatoria che ha interessato tale tipologia di stupefacenti a valle del pronunciamento della Corte costituzionale. Vieppiù peculiare il caso in cui la sentenza in giudicato sia stata una sentenza di “<em>patteggiamento</em>” ex art.444 c.p.p., anch’essa resa nondimeno sulla scorta di una cornice edittale da assumersi ormai contraria a Costituzione. Per le SSUU, che rispondono ai dubbi <em>supra</em> elencati, è <em>in primis</em> da assumersi illegale la pena determinata dal giudice penale attraverso un procedimento di commisurazione che si sia basato sui limiti edittali dell’art. 73 d.P.R. 309/1990 come modificato dalla legge n. 49 del 2006, in vigore al momento del fatto, ma dichiarato successivamente incostituzionale con sentenza n. 32 del 2014; ciò anche peraltro nel caso in cui la pena concretamente inflitta rientri nei limiti edittali previsti dall’originaria formulazione del medesimo articolo, e dunque prima della novella del 2006 poi dichiarata incostituzionale. Laddove peraltro la sentenza “<em>irrevocabile</em>” oggetto di incisione sia stata resa a valle di un patteggiamento, per il Collegio l’illegalità sopraggiunta della pena determina la nullità del pertinente accordo, dovendo la Corte annullare senza rinvio la sentenza basata su tale accordo. Ancora, per le SSUU nel giudizio di cassazione l’illegalità della pena conseguente a dichiarazione di incostituzionalità di norme riguardanti il trattamento sanzionatorio va assunta rilevabile d’ufficio anche in caso di inammissibilità del pertinente ricorso (di legittimità), tranne che nel caso di ricorso tardivo. Si tratta di conclusioni che il Collegio raggiunge snodando un coerente iter motivazionale che muove dal quesito sottoposto al Collegio medesimo dal giudice di merito rimettente, ovvero se per i delitti previsti dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, in relazione alle droghe c.d. leggere, la pena applicata con sentenza dî ‘<em>patteggiamento’</em> sulla base della normativa dichiarata incostituzionale debba essere rideterminata anche nel caso in cui la stessa rientri nella nuova (e già “<em>vecchia</em>”, ante riforma del 2006) cornice edittale applicabile; quesito al quale, come anticipato, il Collegio risponde in senso affermativo. Le SSUU ripercorrono il dibattito giurisprudenziale sorto all'indomani della sentenza Corte costituzionale n. 32/2014, richiamando le argomentazioni svolte nei noti casi “<em>Ercolano</em>” e “<em>Gatto</em>”, per alfine riconoscere come la valorizzazione dell'illegalità della pena trovi piena giustificazione - oltre che nel principio di legalità di cui all'art. 1 c.p., all’art. 25 Cost, comma 2, e all’art. 7 CEDU, anche nel principio di proporzionalità, venendo altrimenti legittimata l'applicazione di una pena al di sopra della misura della colpevolezza. Per il Collegio la valutazione del giudice nella commisurazione della pena ha come imprescindibile presupposto la valutazione del legislatore che, a propria volta, deve essere espressione di un corretto esercizio del principio di colpevolezza e di proporzionalità. Con riferimento a questi principi deve escludersi che possa essere conservata, in quanto legittima, sotto il profilo del principio costituzionale di proporzione tra offesa e pena, la pena determinata in relazione a una cornice edittale prevista da una norma dichiarata incostituzionale e, quindi, inesistente sin dalla relativa origine. Ancora, per le Sezioni Unite va adeguatamente valorizzata l'esigenza di preservare la legalità della pena, ciò imponendo di ricalcolare in ogni caso (e, dunque, anche quando la sanzione concretamente applicata rientri nella forbice edittale ante riforma del 2006) sanzioni comunque quantificate in base a una cornice edittale riconosciuta incostituzionale. Ciò, precisa il Collegio, tanto se la sanzione penale “<em>sopravvenuta incostituzionale</em>” sia stata inflitta a seguito di processo penale ordinario, quanto se sia stata determinata su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p., in questa ultima evenienza il pertinente accordo dovendosi assumere oggettivamente viziato perché fondato su una pena a cui le parti sono addivenute utilizzando criteri e limiti edittali incostituzionali, a nulla rilevando – precisa ancora la Corte - che la pena applicata rientri nei limiti edittali ‘<em>rivissuti</em>’ per effetto della sentenza di incostituzionalità. * * * Il 15 settembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.37107, che torna ad occuparsi della rimodulazione della pena in caso di condanna – resa ex art.444 c.p.p. (patteggiamento) e passata in giudicato – in tema di droghe c.d. leggere, alla quale sia seguita la pronuncia di incostituzionalità di cui alla sentenza della Corte costituzionale n.32.14. Per le SSUU la pena applicata con la sentenza di patteggiamento avente ad oggetto uno o più delitti previsti dall'art. 73 d.P.R. 309 del 1990, relativi alle droghe c.d. leggere, divenuta irrevocabile prima della sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, può essere rideterminata in sede di esecuzione in quanto va assunta come pena illegale. Tale rideterminazione – chiarisce il Collegio – deve avvenire ad iniziativa della parti, con le modalità di cui al procedimento previsto dall'art. 188 disp. att. cod. proc. pen., sottoponendo al giudice dell'esecuzione una nuova pena su cui è stato raggiunto l'accordo, mentre in caso di mancato accordo o di pena concordata ritenuta non congrua il giudice dell'esecuzione provvede autonomamente alla rideterminazione della pena ai sensi degli artt. 132 e 133 cod. pen. Nel contesto motivazionale della pronuncia, le SSUU chiariscono come il giudice dell’esecuzione debba assumersi abilitato ad incidere sulle sentenze di patteggiamento coperte da giudicato, anche se in giurisprudenza (di merito) si profila incerto il concreto procedimento di rideterminazione della pena. Stando ad un primo orientamento occorre applicare un criterio matematico-proporzionale tale da trasporre la volontà manifestata dalle parti in sede di cognizione nella mutata cornice sanzionatoria, in modo da arginare la discrezionalità del giudice dell’esecuzione ridetto: si tratta di una presa di posizione che nondimeno per le SSUU finisce col trascurare che l’originaria valutazione di congruità della pena – siccome posta a fondamento del mentovato criterio matematico-proporzionale - risente di una cornice edittale che si è alfine rivelata illegittima perché contraria alla Costituzione. Alla stregua di un secondo prisma ermeneutico, va predicata la libera ri-determinazione della pertinente pena <em>ope iudicis</em>, in rapporto alla rinnovata forbice edittale (post declaratoria di incostituzionalità); tale libertà di rimodulazione sanzionatoria va assunta necessaria dacché la volontà a suo tempo espressa in relazione a una differente previsione normativa è da considerarsi condizionata in misura consistente da quest’ultima, risultando pertanto inattendibile: in sostanza, se le parti avessero avuto dinanzi una cornice edittale “<em>legale</em>” avrebbero con ogni probabilità determinato diversamente la pena in concreto applicata ex art.444 c.p.p. Anche questa seconda opzione risente tuttavia per il Collegio di un difetto, recando seco il rischio di applicare una sanzione ex art, 444 c.p.p. che, di fatto, non è quella concordata tra la parti. Per il Collegio va dunque seguita una terza via che fa perno sull’applicazione analogica dell’art, 188 disp. att. c.p.p. in tema di reato continuato, onde consentire l'intervento del giudice dell’esecuzione assicurando alle patti la possibilità di rinnovare l'accordo già a suo tempo raggiunto al cospetto di una cornice edittale ex post giudicata illegale dalla Corte costituzionale. Solo nell’eventualità di un mancato accordo tra le parti, ovvero di pena concordata assunta non congrua, il giudice dell'esecuzione deve per il Collegio provvedere autonomamente alla rideterminazione della pena ai sensi degli artt. 132 e 133 cp. * * * Il 18 novembre esce la sentenza della Corte d’appello di Caltanissetta che respinge l’istanza di revisione proposta dal Contrada. <strong>2016</strong> Il 12 febbraio esce la sentenza del G.I.P. del Tribunale di Catania n.1077 che dispone il non luogo a procedere nei confronti di un indagato per concorso esterno in associazione mafiosa menzionando il precedente della Corte EDU sul caso Contrada, sulla cui scorta va ormai negata penale rilevanza alle fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa: l’Italia è retta da un ordinamento di <em>civil law</em>, e non già di <em>common law</em>, onde proprio il fatto che l’istituto <em>de quo</em> – come ha riconosciuto appunto la Corte EDU – è di creazione giurisprudenziale lo pone in indefettibile frizione con il principio di legalità. Non sono mancate, nondimeno, critiche della dottrina a questo pronunciamento che non tiene conto del fatto che la sentenza europea Contrada non nega in astratto la configurabilità del reato di concorso esterno in associazione mafiosa, ma condanna piuttosto lo Stato italiano per violazione dell’art.7 della Convenzione con riguardo a fattispecie realizzate in un torno di tempo in cui la pertinente responsabilità penale non poteva dirsi prevedibile da parte del soggetto attivo del reato; del resto, se sul crinale della c.d. prevedibilità della sanzione penale, non rileva se la corrispondente fattispecie criminosa sia di origine legale o giurisprudenziale, dall’altro viene rammentato come la giurisprudenza italiana non abbia in realtà “<em>creato</em>” la figura delittuosa, ma la abbia piuttosto ricondotta per via interpretativa ad una precisa previsione legale, ovvero il combinato disposto degli articoli 110 e 416.bis c.p. * * * Il 17 marzo esce la criticata sentenza della I sezione penale della Corte d’Appello di Caltanissetta n.924 che respinge l’istanza di revisione proposta dal Contrada a valle del pronunciamento della Corte EDU, assumendolo pienamente in grado di rappresentarsi essere le relative condotte agevolative dei clan mafiosi riconducibili al c.d. concorso esterno in associazione mafiosa. Si tratta di una pronuncia non perfettamente in linea con l’art.46 della CEDU, che impone agli Stati membri di conformarsi alle sentenze definitive della Corte EDU, senza poter rimettere in discussione profili già scandagliati dalla medesima Corte EDU. * * * Il 7 aprile esce la sentenza della Corte costituzionale n.74 che, ancora una volta operando <em>in bonam partem</em>, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 7, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) sulla recidiva reiterata prevista dall’art. 99, quarto comma, cod. pen. * * * Il 13 aprile esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.18132 onde, ai fini della configurabilità dell’elemento soggettivo, in termini di dolo, in capo al concorrente esterno, è sempre necessario che l’agente, pur in assenza di <em>affectio societatis</em> e dunque della specifica volontà di far parte dell’associazione, sia comunque consapevole dei metodi e dei fini della compagine stessa e, insieme, dell’efficacia causale della propria attività di sostegno per la conservazione o il rafforzamento della pertinente struttura organizzativa, palesandosi peraltro sufficiente che egli abbia previsto ed accettato tale effetto come risultato non già solo possibile, quanto piuttosto certo o altamente probabile della propria condotta. Per la Corte, sotto altro profilo, va ribadita manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 110 e 416.bis c.p., in combinato disposto tra loro, con riferimento agli articoli 25, comma 2, e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in riferimento all’art.7 della CEDU: per la Corte, anche dopo la decisione sul caso Contrada, la fattispecie del concorso esterno in associazione mafiosa non costituisce un istituto di creazione giurisprudenziale, evincendosi esso piuttosto dalla operatività della funzione incriminatrice ascrivibile all’art.110 c.p., capace di estendere la punibilità laddove avvinto a singole norme incriminatrici di parte speciale (tra le quali appunto l’art.416 bis c.p.). * * * Il 23 giugno esce la sentenza delle SSUU n.26259 che in tema di immigrazione e c.d. <em>overruling in mitius</em> – collocandosi nel solco della giurisprudenza della I sezione (29 gennaio 2014, n. 12982; 29 gennaio 2014, n, 16738; 15 luglio 2013, n. 37976) – se da un lato condivide quanto sostenuto dalla Corte costituzionale nella sentenza 230.12 - onde il fenomeno abrogativo (e la retroattività <em>in mitius</em> che ne discende, anche in rapporto a sentenze ormai in giudicato) deve assumersi circoscritto alla sola successione nel tempo di atti normativi escludendo che l’abrogazione di una legge possa essere determinata da un mutamento giurisprudenziale, quand’anche autorevolmente contenuto in una pronuncia delle Sezioni Unite - sostengono che nel caso ad esse sottoposto la ritenuta parziale abrogazione della norma incriminatrice non sia conseguita (né sarebbe potuta conseguire) al mero mutamento di indirizzo giurisprudenziale (c.d. <em>overruling</em>), quanto piuttosto direttamente alla legge n. 94 del 2009, laddove (articolo 1, comma 22, lettera h) essa ha sostituito il testo dell’originario art. 6, co. 3, d.lgs.n. 286/1998. Muovendo da questo presupposto, l'intervento successivo delle Sezioni Unite con la pronuncia 16453.11 ha quindi avuto – prosegue il Collegio - una funzione meramente ricognitiva dell’intervenuto effetto abrogativo parziale <em>ex lege</em>, diretto a restringere l’area applicativa della menzionata disposizione ai soli stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato; effetto di cui le SSUU del 2011 si sono limitate a meramente dare atto, ma che è in realtà riconducibile, piuttosto, esclusivamente alla legge. Per il Collegio, il giudice dell'esecuzione deve assumersi pertanto abilitato a revocare, ai sensi dell'articolo 673 c.p.p., una sentenza di condanna pronunciata dopo l’entrata in vigore della legge del 2009 che ha abrogato la pertinente norma incriminatrice, e ciò anche quando l’<em>abolitio criminis</em> non sia stata rilevata dal (e dunque sia sfuggita al) giudice della cognizione, incorso pertanto in un errore da qualificarsi non già di tipo valutativo, quanto piuttosto “<em>percettivo</em>”. Proprio tale errore percettivo appare alle SSUU idoneo a legittimare l'intervento del giudice dell’esecuzione, quale garante “<em>ultimo</em>” della legalità della pena e come tale tenuto a scandagliare se, nel caso concreto, la sentenza di condanna debba essere revocata perché pronunciata in relazione a un fatto commesso (peraltro) dopo l’entrata in vigore della legge abrogatrice. * * * Il 17 ottobre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.43886, che dichiara inammissibile il ricorso per errore materiale o di fatto proposto dal Contrada ex art.625.bis c.p.p., a valle della sentenza della Corte EDU del 2015. * * * Il 24 ottobre esce l’ordinanza della I sezione della Corte d’appello di Palermo n.466 che, sollecitata ancora dal Contrada, nega che l’incidente di esecuzione possa costituire lo strumento processuale da azionare per porre rimedio nel diritto interno alla violazione, sul piano internazionale, dell’art.7 della CEDU, siccome accertata dalla Corte EDU. <strong>2017</strong> Il 23 giugno viene varata la legge n.103, che modifica l’art.625 bis, comma 3, c.p.p., onde se l'errore materiale può essere rilevato dalla corte di cassazione, d'ufficio, in ogni momento e senza formalità, anche l'errore di fatto può essere rilevato dalla Corte di Cassazione, sempre d'ufficio, ma solo entro 90 giorni dalla deliberazione. * * * Il 20 settembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.43112 che, scandagliando la pronuncia della Corte d’appello di Palermo n.466 del 2016, va in contrario avviso ed assume non eseguibile e dunque improduttiva di effetti la condanna a suo tempo emessa nei confronti di Contrada. Per la Corte, al quesito relativo alla sussistenza di un obbligo dei giudici italiani di conformarsi, per il caso Contrada, alla decisione della Corte EDU che lo riguarda, occorre fornire risposta positiva. Costituisce dato ermeneutico consolidato (viene richiamata la sentenza della Sez. 1, n. 2800 dell'01/02/2006, dep. 2007, Dorigo) quello dell'efficacia immediatamente precettiva delle norme della Convenzione EDU, nonostante alle stesse non possa direttamente riconoscersi rango costituzionale (Corte cost., sent. n. 388 del 1999; Corte cost., sent. 10 del 1993). Sul piano applicativo, prosegue la Corte, l'efficacia precettiva delle norme della Convenzione EDU è garantita dall'art. 19 del testo convenzionale che prevede l'istituzione della Corte EDU per «<em>assicurare il rispetto degli impegni derivanti alle Alte parti contraenti dalla presente Convenzione e dai suoi Protocolli</em> [...]», riconoscendo a tale organo sovranazionale una competenza estesa a tutte le questioni concernenti l'interpretazione e l'applicazione della predetta normativa. In questo contesto normativo, prosegue la Corte, si inserisce la previsione dell'art. 46 CEDU, secondo il cui primo paragrafo le «<em>Alte Parti contraenti s'impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie nelle quali sono Parti</em>». La stessa disposizione precisa, nel relativo secondo paragrafo, che «<em>la sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne sorveglia l'esecuzione</em>». L'obbligo di conformazione alle sentenze della Corte EDU è ulteriormente ribadito dal terzo paragrafo dell'art. 46 CEDU, a tenore del quale se «<em>il Comitato dei Ministri ritiene che il controllo dell'esecuzione di una sentenza definitiva sia ostacolato da una difficoltà di interpretazione di tale sentenza, esso può adire la Corte affinché questa si pronunci su tale questione di interpretazione</em> [...]». L'obbligo previsto dall'art. 46 CEDU, dunque, non può per la Corte essere messo in discussione. Il contrario assunto, da cui muove la Corte di appello di Palermo per emettere la declaratoria di inammissibilità censurata dalla difesa di Contrada, non è condivisibile, presupponendo un margine di discrezionalità nell'esecuzione delle decisioni della Corte EDU - che limitatamente allo specifico caso coinvolto dalla pronuncia in esame e a differenza dei casi analoghi - non può essere riconosciuto al giudice nazionale. Basti, in proposito, richiamare – prosegue la Corte - l'orientamento (Sez. 1, n. 2800 dell'01/02/2006, dep. 2007, Dorigo) secondo cui le decisioni della Corte EDU sono immediatamente produttive di diritti e obblighi nei confronti delle parti in causa, con la conseguenza che lo Stato è tenuto a conformarsi a tali pronunzie e a eliminare, fin dove é possibile, le conseguenze pregiudizievoli della violazione riscontrata. Occorre, pertanto, ribadire conclusivamente che la previsione dell'art. 46 CEDU, nelle ipotesi di violazioni delle norme del testo convenzionale, impone al giudice nazionale, limitatamente al caso di cui si controverte, di conformarsi alle sentenze definitive della Corte EDU, i cui effetti si estendono sia allo Stato sia alle altre parti coinvolte dalla decisione che tale violazione ha censurato. Sgomberato il campo da ogni possibile equivoco in ordine all'efficacia precettiva delle norme CEDU, così come interpretate dalla Corte di Strasburgo, e chiarito quali effetti vincolanti discendano, per l'ordinamento interno, in relazione allo specifico caso esaminato, dalle decisioni con cui lo Stato italiano viene condannato dalla Corte EDU, occorre per il Collegio affrontare l'ulteriore questione, concernente gli strumenti in concreto attivabili per rimuovere le conseguenze della sentenza emessa dalla Corte di appello di Palermo nei confronti di Contrada il 25/02/2006. Osserva in proposito il Collegio che, nel caso di specie, il rimedio esperibile deve essere individuato, analogamente a quanto già affermato nella sentenza Dorigo citata, nell'incidente di esecuzione. Né osta alla praticabilità di tale soluzione la circostanza che la predetta decisione riguardava una violazione di natura processuale; mentre, nell'ipotesi in esame, la violazione ravvisata dalla Corte EDU è di natura sostanziale. Quello che rileva infatti, per la Corte, è che nel caso di violazioni delle norme convenzionali afferenti al diritto penale sostanziale, specificamente riconducibili all'art. 7, viene censurata la piattaforma legale sulla base della quale interviene una sentenza di condanna; piattaforma legale assunta generica, imprecisa ovvero indeterminata nelle relative connotazioni di conoscibilità e prevedibilità. La norma che impone che le decisioni di condanna intervengano sulla base di precetti astrattamente conoscibili e prevedibili - come già affermato dalla Corte EDU nella sentenza emessa il 06/03/2003 nel caso <em>Zaprianov contro Bulgaria</em> - è dunque caratterizzata da una matrice intrinsecamente garantista. Così inquadrata la violazione dell'art. 7 CEDU ravvisata dalla Corte EDU nella vicenda giurisdizionale che ha coinvolto il ricorrente, il Collegio osserva che non può comunque essere eluso l'obbligo di conformarsi a detta decisione, pur tenendo conto delle peculiarità del caso Contrada. E' perciò compito dell'interprete ricercare nell'ordinamento interno gli strumenti processuali attraverso i quali eseguire, tenuto conto delle emergenze del caso concreto, la sentenza della Corte europea presupposta; e siffatti strumenti non possono che essere individuati – per la Corte - nell'ambito dei poteri di cui dispone il giudice dell'esecuzione. Si tratta di una soluzione che si impone anche alla luce della posizione giurisprudenziale da ultimo recepita dalle Sezioni unite (Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto), che, intervenendo in relazione alle conseguenze sistematiche prodotte dalla sentenza della Corte costituzionale 11 febbraio 2014, n. 32, tra le quali il problema del bilanciamento tra il valore dell'intangibilità del giudicato e l'esecuzione di una decisione penale rivelatasi successivamente illegittima, hanno affermato il potere-dovere del giudice dell'esecuzione di incidere sul giudicato. Codesto potere-dovere del resto – prosegue la Corte - è connaturato alla funzione giurisdizionale propria del giudice dell'esecuzione, atteso che - come affermato in un precedente arresto chiarificatore delle stesse Sezioni unite (Sez. U, n. 4687 del 20/12/2005, dep. 2006, Catanzaro) - una volta «<em>dimostrato che la legge processuale demanda al giudice una determinata funzione, allo stesso giudice è conferita la titolarità di tutti i poteri necessari all'esercizio di quella medesima attribuzione</em> [...]». Tanto si impone anche in ossequio a esigenze di razionalità del sistema processuale. Non è, pertanto, possibile ritenere non attivabile un percorso di tutela giurisdizionale di Contrada, in relazione alla decisione della Corte EDU presupposta, invocando l'avvenuto esaurimento del rapporto giurisdizionale, conseguente al fatto che il ricorrente ha interamente scontato la pena principale di 10 anni di reclusione irrogatagli dal Tribunale di Palermo con sentenza emessa il 05/04/1996, confermata dalla pronuncia della Corte di appello di Palermo del 25/02/2006. Questa soluzione, invero, non tiene conto degli effetti penali ulteriori rispetto a quelli connessi all'esecuzione della pena principale, dei quali, invece, occorre dichiarare l'improduttività. Come poi evidenziato dalle Sezioni unite (Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto), l'ampiezza degli ambiti di intervento della giurisdizione esecutiva - che legittima nel caso di specie l'attivazione dei poteri di cui agli artt. 666 e 670 cod. proc. pen. per conformarsi alla decisione della Corte EDU - è stata riconosciuta dalla Corte costituzionale (Corte cost., sent. n. 210 del 2013), secondo la quale il giudice dell'esecuzione «<em>non si limita a conoscere delle questioni sulla validità e sull'efficacia del titolo esecutivo ma è anche abilitato, in vari casi, ad incidere su di esso</em> [...]». Opzione, questa, già recepita in un precedente intervento chiarificatore delle Sezioni unite (Sez. U, n. 34472 del 24/10/2013, Ercolano), nel quale si era affermato che al giudice dell'esecuzione deve essere riconosciuto un ampio potere di intervento sul giudicato, ai sensi degli artt. 666 e 670 cod. proc. pen., atteso che lo strumento previsto «<em>dall'art. 670 cod. proc. pen., pur sorto per comporre i rapporti con l'impugnazione tardiva e la restituzione nel termine, implica necessariamente, al di là del dato letterale, un ampliamento dell'ambito applicativo dell'istituto, che è un mezzo per far valere tutte le questioni relative non solo alla mancanza o alla non esecutività del titolo, ma anche quelle che attengono alla eseguibilità e alla concreta attuazione del medesimo</em>». E ancora: «<em>il genus delle doglianze da cui può essere investito il giudice degli incidenti ex art. 666 cod. proc. pen., in sostanza, è molto ampio ed investe tutti quei vizi che, al di là delle specifiche previsioni espresse, non potrebbero farsi valere altrimenti, considerata l'esigenza di garantire la permanente conformità a legge del fenomeno esecutivo</em>». In questa cornice sistematica, chiosa ancora la Corte, deve anzitutto escludersi la possibilità di attivare il procedimento di revisione previsto dall'art. 630 cod. proc. pen., così come prefigurato dalla Corte costituzionale (Corte cost., sent. n. 113 del 2011), per rimuovere gli effetti della sentenza emessa dalla Corte di appello di Palermo il 25/02/2006. Deve, infatti, rilevarsi che tale percorso giurisdizionale, originariamente attivato da Contrada davanti alla Corte di appello di Caltanissetta, non è più concretamente esperibile, in conseguenza della sentenza emessa il 20/01/2017 dalla Sezione quinta penale, che ha concluso il procedimento di revisione in questione con la declaratoria di inammissibilità dell'impugnazione proposta, per effetto della rinuncia al ricorso, depositata il 28/12/2016. Va ad ogni buon conto evidenziato – prosegue la Corte - che, con la decisione n. 113 del 2011, la Corte costituzionale si riferisce allo «<em>impegno degli Stati contraenti a permettere la riapertura dei processi, su richiesta dell'interessato, quante volte essa appaia necessaria ai fini della </em>restitutio in integrum<em> in favore del medesimo, nel caso di violazione delle garanzie riconosciute dalla Convenzione, particolarmente in tema di equo processo</em>». E - a ragione della declaratoria d'illegittimità costituzionale «<em>dell'art. 630 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell'art. 46, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo</em>» - osserva come la revisione, comportando, quale mezzo straordinario di impugnazione a carattere generale, la riapertura del processo, che implica una ripresa delle attività processuali in sede di cognizione, estesa anche all'assunzione delle prove, costituisce l'istituto che presenta profili di maggiore assonanza con quello la cui introduzione appare necessaria al fine di garantire la conformità dell'ordinamento nazionale al parametro evocato. Tuttavia, prosegue ancora la Corte, fermo l'obbligo di conformazione, è la stessa Corte costituzionale (Corte cost., sent. n. 113, cit.) che ha rimarcato come la necessità della riapertura vada apprezzata sia in rapporto alla natura oggettiva della violazione accertata in sede convenzionale, sia tenendo conto delle indicazioni contenute nella sentenza della cui esecuzione si tratta, oltre che nella sentenza "<em>interpretativa</em>" eventualmente richiesta alla Corte di Strasburgo dal Comitato dei ministri, ai sensi dell'art. 46, paragrafo 3, della CEDU. Nel caso in esame – chiosa a questo punto la Corte - rileva dunque che non si verte in alcuna ipotesi di violazione delle regole del giusto processo e che la decisione della Corte di Strasburgo, per la relativa natura e per le ragioni su cui si fonda, non implica né appare superabile da alcuna rinnovazione di attività processuale o probatoria; che il nostro ordinamento non conosce la creazione di matrice giurisprudenziale di fattispecie incriminatrici e che il principio di irretroattività delle norme penali è principio fondante del nostro sistema penale, assistito da garanzia costituzionale; che, secondo la giurisprudenza interna, le sentenze di merito e quelle di legittimità che hanno portato alla condanna di Contrada, la questione di diritto diversamente intesa dalla Corte EDU atteneva, invece, alla configurabilità dell'ipotesi del concorso di persone (art. 110 cod. pen.) in relazione alla fattispecie di cui all'art. 416-bis cod. pen., anziché di mero favoreggiamento (principio di diritto affermato nella sentenza di annullamento con rinvio, Sez. 2, n. 15756 del 12/12/2002, dep. 2003, Contrada, e ribadito nella seconda sentenza di legittimità, Sez. 6, n. 542 del 10/05/2006, dep. 2007, Contrada); che, per conseguenza, nessuna "<em>rinnovazione</em>" di attività processuale, probatoria o del giudizio potrebbe o avrebbe potuto condurre al superamento di quello che, stando alla Corte EDU, sarebbe un mero errore di diritto. Nemmeno, per altro verso, è esperibile per la Corte il rimedio previsto dall'art. 673 cod. proc. pen., finalizzato all'eliminazione, mediante revoca, della sentenza di condanna nei casi in cui è venuto meno l'illecito penale per l'intervento del legislatore o della Corte costituzionale; condizioni, queste, pacificamente insussistenti nel caso in esame, che rendono infondate le pretese del ricorrente incentrate sulle potenzialità applicative dell'istituto revocatorio. Le esposte considerazioni, relative alla possibilità di intervenire sul giudicato ai sensi dell'art. 670 cod. proc. pen., al contempo, impongono di ritenere quantomeno irrilevante la questione di legittimità costituzionale dell'art. 673 cod. proc. pen., in riferimento agli artt. 25 e 117 Cost., proposta da Contrada in via subordinata, nella parte in cui tale disposizione non prevede l'ipotesi della revoca della sentenza di condanna per le decisioni emesse dalla Corte EDU. Né, prosegue ancora la Corte, sussistono contrasti interpretativi, in ordine all'applicazione dell'art. 673 cod. proc. pen. alle ipotesi assimilabili a quelle in esame, idonei a legittimare la rimessione del procedimento alle Sezioni unite. Nel caso di specie, non vi è in effetti alcuno spazio per revocare il giudicato di condanna presupposto, la cui eliminazione non è richiesta, né direttamente né indirettamente, dalla Corte EDU, com'è desumibile - oltre che dall'assenza di riferimenti testuali a una tale possibilità - dalle statuizioni relative al rigetto della domanda di equa soddisfazione, rilevante ai sensi dell'art. 41 CEDU, contenute nel punto 4 del dispositivo della pertintene decisione. La decisione della Corte EDU non richiede né lascia spazio per interventi residui del giudice italiano, differenti da quelli adottabili in sede appunto esecutiva, ai sensi degli artt. 666 e 670 cod. proc. pen., occupandosi esaustivamente di tutti i profili censori sollevati da Contrada nel giudizio svoltosi in sede sovranazionale e riguardanti, oltre alla violazione dell'art. 7 CEDU, la domanda di equa soddisfazione - di cui si è detto - e i danni patiti per effetto del processo conclusosi con la sentenza irrevocabile presupposta. Occorre pertanto ribadire – conclude la Corte - che la sentenza pronunziata dalla Corte EDU nel caso Contrada contro Italia non impone interventi <em>in executivis</em> differenti da quelli legittimati dalle disposizioni degli artt. 666 e 670 cod. proc. pen.; non sussistendo, del resto, alcun limite letterale o sistematico all'applicazione al caso in esame di detti poteri, gli artt. 666 e 670 cod. proc. pen. non possono che essere interpretati nel senso di consentire l'eliminazione degli effetti pregiudizievoli derivanti da una condanna emessa dal giudice italiano in violazione di una norma della Convenzione EDU, dovendosi ribadire che garante della legalità della sentenza in fase esecutiva è il giudice dell'esecuzione, cui compete, se necessario, di ricondurre la decisione censurata ai canoni della legittimità (Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto). Non resta allora che riconoscere che, a seguito della decisione emessa dalla Corte EDU il 14/04/2015, che ha dichiarato che la sentenza di condanna emessa nei confronti di Bruno Contrada dalla Corte di appello di Palermo il 25/02/2006, divenuta irrevocabile il 10/05/2007, violerebbe l'art. 7 CEDU, tale pronuncia non è suscettibile di ulteriore esecuzione e non è produttiva di ulteriori effetti penali, onde l'ordinanza (in senso contrario) emessa dalla Corte di appello di Palermo l'11/10/2016 deve essere annullata senza rinvio e la sentenza emessa nei confronti di Bruno Contrada dalla Corte di appello di Palermo il 25/02/2006, divenuta irrevocabile il 10/05/2007, deve essere dichiarata ineseguibile e improduttiva di effetti penali. <strong>2019</strong> L’8 marzo esce la sentenza della Corte costituzionale n.40, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nella parte in cui in cui prevede la pena minima edittale della reclusione nella misura di otto anni anziché di sei anni. Si tratta di un importante intervento <em>pro reo</em> in tema di c.d. pena illegale che consente alla magistratura penale di intervenire anche su pregressi giudicati, secondo i collaudati congegni ormai varati dalla giurisprudenza. * * * Il 21 marzo esce la sentenza della Corte costituzionale n.63, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, del decreto legislativo 12 maggio 2015, n. 72 (Attuazione della direttiva 2013/36/UE, che modifica la direttiva 2002/87/CE e abroga le direttive 2006/48/CE e 2006/49/CE, per quanto concerne l’accesso all’attività degli enti creditizi e la vigilanza prudenziale sugli enti creditizi e sulle imprese di investimento. Modifiche al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 e al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58), nella parte in cui esclude l’applicazione retroattiva delle modifiche apportate dal comma 3 dello stesso art. 6 alle sanzioni amministrative previste per l’illecito disciplinato dall’art. 187-bis del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52). La stessa pronuncia dichiara altresì, in via consequenziale ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015, nella parte in cui esclude l’applicazione retroattiva delle modifiche apportate dal comma 3 dello stesso art. 6 alle sanzioni amministrative previste per l’illecito di cui all’art. 187-ter del d.lgs. n. 58 del 1998; dichiara invece inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015, sollevata, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Milano. Per il Collegio va premesso che - anche a prescindere dal rilievo che l’art. 49, paragrafo 1, CDFUE non è richiamato, nel caso di specie, nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione, ove il giudice <em>a quo</em> ha inteso formulare in termini chiari e definitivi le questioni sottoposte all’esame della Corte - occorre ribadire – sulla scorta dei principi già affermati nelle <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2017/0269s-17.html">sentenze n. 269 del 2017</a> e <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2019/0020s-19.html">n. 20 del 2019</a> – che alla Corte medesima non può ritenersi precluso l’esame nel merito delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento sia a parametri interni, anche mediati dalla normativa interposta convenzionale, sia – per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. – alle norme corrispondenti della Carta che tutelano, nella sostanza, i medesimi diritti; e ciò fermo restando il potere del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, e – ricorrendone i presupposti – di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al relativo esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta. Laddove però sia stato lo stesso giudice comune a sollevare una questione di legittimità costituzionale che coinvolga anche le norme della Carta, la Corte non può esimersi, eventualmente previo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, dal fornire una risposta a tale questione con gli strumenti che le sono propri: strumenti tra i quali si annovera anche la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione ritenuta in contrasto con la Carta (e pertanto con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.), e conseguente eliminazione dall’ordinamento, con effetti <em>erga omnes</em>, di tale disposizione, da ciò conseguendone l’ammissibilità, sotto questo profilo, delle questioni prospettate dal GO rimettente. Prima di esaminare il merito di tali questioni, è peraltro necessario per il Collegio vagliare la possibile rilevanza nel giudizio <em>a quo</em> dello <em>ius superveniens</em> rappresentato dal d.lgs. n. 107 del 2018 il cui art. 4, comma 9, ha nuovamente modificato il quadro sanzionatorio previsto dall’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998, in particolare tenendo fermo il minimo edittale di ventimila euro, ma innalzando il massimo da tre a cinque milioni di euro, salva la possibilità di ulteriori aumenti nei casi previsti dal comma 5 dello stesso art. 187-bis. Nulla ha disposto, però, il legislatore del 2018 in merito all’applicazione nel tempo della nuova disciplina, facendo così ritenere che abbia inteso assegnarle efficacia soltanto per il futuro. Ciò esclude, per la Corte, che sia necessario restituire gli atti al giudice <em>a quo</em>. Nel merito, per la Corte, le questioni ad essa sottoposte sono fondate, in relazione a entrambi i parametri invocati dal rimettente. Il principio della retroattività della <em>lex mitior</em> in materia penale si appunta infatti, secondo la giurisprudenza della Corte, tanto sull’art. 3 Cost., quanto sull’art. 117, primo comma, Cost., eventuali deroghe a tale principio dovendo superare un vaglio positivo di ragionevolezza in relazione alla necessità di tutelare di controinteressi di rango costituzionale. Il principio in questione deve ritenersi applicabile anche alle sanzioni amministrative che abbiano natura “<em>punitiva</em>”. Le sanzioni amministrative previste per l’abuso di informazioni privilegiate di cui all’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998 hanno natura “<em>punitiva</em>”, e rientrano come tali nell’ambito di applicazione del principio della retroattività <em>in mitius</em>. La deroga alla retroattività <em>in mitius</em> stabilita dall’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015, qui censurato, non supera il “<em>vaglio positivo di ragionevolezza</em>” ed è, pertanto, costituzionalmente illegittima, nella parte in cui esclude l’applicazione retroattiva delle modifiche <em>in mitius</em> apportate alle sanzioni amministrative previste per l’illecito di abuso di informazioni privilegiate di cui all’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998. Invero, secondo la costante giurisprudenza della Corte (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2011/0236s-11.html">sentenze n. 236 del 2011</a>, <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2008/0215s-08.html">n. 215 del 2008</a> e <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2006/0393s-06.html">n. 393 del 2006</a>), la regola della retroattività della <em>lex mitior</em> in materia penale non è riconducibile alla sfera di tutela dell’art. 25, secondo comma, Cost., che sancisce piuttosto il principio – apparentemente antinomico – secondo cui «[n]<em>essuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso</em>». Tale principio deve, invero, essere interpretato nel senso di vietare l’applicazione retroattiva delle sole leggi penali che stabiliscano nuove incriminazioni, ovvero che aggravino il trattamento sanzionatorio già previsto per un reato, non ostando così a una possibile applicazione retroattiva di leggi che, all’opposto, aboliscano precedenti incriminazioni ovvero attenuino il trattamento sanzionatorio già previsto per un reato. L’applicazione retroattiva della <em>lex mitior</em> non può, però, ritenersi imposta dall’art. 25, secondo comma, Cost., la cui <em>ratio</em> immediata è – <em>in parte qua</em> – quella di tutelare la libertà di autodeterminazione individuale, garantendo al singolo di non essere sorpreso dall’inflizione di una sanzione penale per lui non prevedibile al momento della commissione del fatto. Una simile garanzia non è posta in discussione dall’applicazione di una norma penale, pur più gravosa di quelle entrate in vigore successivamente, che era comunque in vigore al momento del fatto: e ciò «<em>per l’ovvia ragione che, nel caso considerato, la </em>lex mitior<em> sopravviene alla commissione del fatto, al quale l’autore si era liberamente autodeterminato sulla base del pregresso (e per lui meno favorevole) panorama normativo</em>» (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2006/0394s-06.html">sentenza n. 394 del 2006</a>). Cionondimeno, prosegue la Corte, la regola dell’applicazione retroattiva della <em>lex mitior</em> in materia penale – sancita, a livello di legislazione ordinaria, dall’art. 2, secondo, terzo e quarto comma, del codice penale – non è sprovvista di fondamento costituzionale: fondamento che la costante giurisprudenza della Corte ravvisa anzitutto nel principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., «<em>che impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’</em>abolitio criminis<em> o la modifica mitigatrice</em>» (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2006/0394s-06.html">sentenza n. 394 del 2006</a>). Ciò in quanto, in via generale, «[n]<em>on sarebbe ragionevole punire (o continuare a punire più gravemente) una persona per un fatto che, secondo la legge posteriore, chiunque altro può impunemente commettere (o per il quale è prevista una pena più lieve</em>)» (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2011/0236s-11.html">sentenza n. 236 del 2011</a>). La riconduzione della retroattività della <em>lex mitior</em> in materia penale all’alveo dell’art. 3 Cost. anziché a quello dell’art. 25, secondo comma, Cost., segna però – chiosa la Corte - anche il limite della garanzia costituzionale della quale la regola in parola costituisce espressione. Mentre, infatti, l’irretroattività <em>in peius</em> della legge penale costituisce un «<em>valore assoluto e inderogabile</em>», la regola della retroattività <em>in mitius</em> della legge penale medesima «<em>è suscettibile di limitazioni e deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli</em>» (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2011/0236s-11.html">sentenza n. 236 del 2011</a>). Il criterio di valutazione della legittimità costituzionale di eventuali deroghe legislative alla retroattività della <em>lex mitior</em> in materia penale, alla stregua dell’art. 3 Cost., è stato oggetto di approfondita analisi da parte della Corte nella <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2006/0393s-06.html">sentenza n. 393 del 2006</a>. In quell’occasione, la Corte osservò che la retroattività <em>in mitius</em> della legge penale è ormai affermata non solo, a livello di legislazione ordinaria, dall’art. 2 cod. pen., ma trova ampi riconoscimenti nel diritto internazionale e nel diritto dell’Unione europea. La retroattività della <em>lex mitior</em> in materia penale è in particolare enunciata tanto dall’art. 15, comma 1, terzo periodo, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, concluso a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881; quanto dall’art. 49, paragrafo 1, terzo periodo, CDFUE. Ciò ha indotto la Corte a concludere che il valore tutelato dal principio in parola «<em>può essere sacrificato da una legge ordinaria solo in favore di interessi di analogo rilievo</em> […]. <em>Con la conseguenza che lo scrutinio di costituzionalità ex art. 3 Cost., sulla scelta di derogare alla retroattività di una norma più favorevole al reo deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo a tal fine sufficiente che la norma derogatoria non sia manifestamente irragionevole</em>» (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2006/0393s-06.html">sentenza n. 393 del 2006</a>). In applicazione di tale criterio, la stessa <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2006/0393s-06.html">sentenza n. 393 del 2006</a> giudicò non ragionevole, e pertanto costituzionalmente illegittima, la deroga alla retroattività delle modifiche più favorevoli, introdotte dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), alla disciplina della prescrizione del reato, con riferimento ai processi pendenti in primo grado in cui fosse stata già dichiarata l’apertura del dibattimento. La successiva <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2008/0072s-08.html">sentenza n. 72 del 2008</a> escluse invece l’incostituzionalità di tale deroga rispetto ai processi già pendenti in grado di appello, in ragione dell’esigenza di tutelare gli interessi di rango costituzionale dell’efficienza e della salvaguardia dei diritti dei destinatari della funzione giurisdizionale, potenzialmente pregiudicati dalla dispersione delle attività processuali già svolte che sarebbe conseguita all’applicazione generalizzata dei nuovi e più brevi termini di prescrizione a processi già conclusi in primo grado. La questione della legittimità costituzionale della deroga alla retroattività, per i processi pendenti in grado di appello, delle più favorevoli disposizioni in materia di prescrizione introdotte dalla legge n. 251 del 2005 tornò qualche anno più tardi all’esame della Corte, in ragione del fatto nuovo rappresentato dalla sentenza della Grande Camera della Corte EDU, 17 settembre 2009, <a href="http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-94135">Scoppola contro Italia</a>. Tale pronuncia aveva, per la prima volta, dedotto dall’art. 7 CEDU il principio secondo cui «<em>se la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato</em>»; il che aveva indotto la Corte di cassazione a sollevare questione di legittimità costituzionale della medesima disciplina transitoria già giudicata legittima, quanto ai parametri allora dedotti, dalla <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2008/0072s-08.html">sentenza n. 72 del 2008</a>, sotto il profilo – questa volta – di un relativo possibile contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 7 CEDU, come interpretato dalla <a href="http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-94135">sentenza Scoppola</a>. Con la già menzionata sentenza <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2011/0236s-11.html">n. 236 del 2011</a>, la Corte affermò che – proprio in seguito alla <a href="http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-94135">sentenza Scoppola</a> – il «<em>principio di retroattività in mitius</em>» ha, «<em>attraverso l’art. 117, primo comma, Cost, acquistato un nuovo fondamento con l’interposizione dell’art. 7 della CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo</em>»; aggiungendo, peraltro, che – anche nel prisma del diritto convenzionale – a tale principio non può riconoscersi carattere assoluto, ben potendo il legislatore «<em>introdurre deroghe o limitazioni alla sua operatività, quando siano sorrette da una valida giustificazione</em>». La <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2011/0236s-11.html">sentenza n. 236 del 2011</a> ritenne, per l’appunto, sussistere una simile valida giustificazione per la deroga legislativa alla retroattività <em>in mitius</em> sottoposta nuovamente al relativo esame; e ciò per le medesime ragioni che avevano condotto la sentenza <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2008/0072s-08.html">n. 72 del 2008</a> a risolvere in senso positivo la questione della relativa compatibilità con l’art. 3 Cost. La giurisprudenza costituzionale è, in tal modo, giunta ad assegnare al principio della retroattività della <em>lex mitior</em> in materia penale un duplice, e concorrente, fondamento. L’uno – di matrice domestica – riconducibile allo spettro di tutela del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., nel cui alveo peraltro la <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2006/0393s-06.html">sentenza n. 393 del 2006</a>, in epoca immediatamente precedente alle <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2007/0348s-07.html">sentenze “<em>gemelle</em>” n. 348</a> e <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2007/0349s-07.html">n. 349 del 2007</a>, aveva già fatto confluire gli obblighi internazionali derivanti dall’art. 15, comma 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e dall’art. 49, paragrafo 1, CDFUE, considerati in quell’occasione come criteri interpretativi (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/1996/0015s-96.htm">sentenza n. 15 del 1996</a>) delle stesse garanzie costituzionali. L’altro – di origine internazionale, ma avente ora ingresso nel nostro ordinamento attraverso l’art. 117, primo comma, Cost. – riconducibile all’art. 7 CEDU, nella lettura offertane dalla giurisprudenza di Strasburgo (oltre alla <a href="http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-94135">sentenza Scoppola</a>, Corte europea dei diritti dell’uomo, decisione 27 aprile 2010, <a href="http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-98642">Morabito contro Italia</a>; sentenza 24 gennaio 2012, <a href="http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-108754">Mihai Toma contro Romania</a>; sentenza 12 gennaio 2016, <a href="http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-159911">Gouarré Patte contro Andorra</a>; sentenza 12 luglio 2016, <a href="http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-165250">Ruban contro Ucraina</a>), nonché alle altre norme del diritto internazionale dei diritti umani vincolanti per l’Italia che enunciano il medesimo principio, tra cui gli stessi artt. 15, comma 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e 49, paragrafo 1, CDFUE, quest’ultimo rilevante nel nostro ordinamento anche ai sensi dell’art. 11 Cost. A tale pluralità di basi normative nel testo costituzionale fa, peraltro, da contraltare la comune <em>ratio</em> della garanzia in questione, identificabile in sostanza nel diritto dell’autore del reato a essere giudicato, e se del caso punito, in base all’apprezzamento attuale dell’ordinamento relativo al disvalore del fatto da lui realizzato, anziché in base all’apprezzamento sotteso alla legge in vigore al momento della relativa commissione. Comune è altresì il limite della tutela assicurata, assieme, dalla Costituzione e dalle carte internazionali a tale garanzia: tutela che la giurisprudenza della Corte ritiene non assoluta, ma aperta a possibili deroghe, purché giustificabili al metro di quel «<em>vaglio positivo di ragionevolezza</em>» richiesto dalla <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2006/0393s-06.html">sentenza n. 393 del 2006</a>, in relazione alla necessità di tutelare interessi di rango costituzionale prevalenti rispetto all’interesse individuale in gioco. Se poi, ed eventualmente in che misura – prosegue la Corte - il principio della retroattività della <em>lex mitior</em> sia applicabile anche alle sanzioni amministrative, è questione recentemente esaminata <em>funditus</em> dalla <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2016/0193s-16.html">sentenza n. 193 del 2016</a>. In quell’occasione, la Corte ha rilevato come la giurisprudenza di Strasburgo non abbia «<em>mai avuto ad oggetto il sistema delle sanzioni amministrative complessivamente considerato, bensì singole e specifiche discipline sanzionatorie, ed in particolare quelle che, pur qualificandosi come amministrative ai sensi dell’ordinamento interno, siano idonee ad acquisire caratteristiche “</em>punitive<em>” alla luce dell’ordinamento convenzionale</em>». In difetto, pertanto, di alcun «<em>vincolo di matrice convenzionale in ordine alla previsione generalizzata, da parte degli ordinamenti interni dei singoli Stati aderenti, del principio della retroattività della legge più favorevole, da trasporre nel sistema delle sanzioni amministrative</em>», la <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2016/0193s-16.html">sentenza n. 193 del 2016</a> ha giudicato non fondata una questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), del quale il giudice <em>a quo</em> sospettava il contrasto con gli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU, nella parte in cui non prevede una regola generale di applicazione della legge successiva più favorevole agli autori degli illeciti amministrativi: regola generale la cui introduzione, secondo la valutazione della Corte, avrebbe finito «<em>per disattendere la necessità della preventiva valutazione della singola sanzione (qualificata “</em>amministrativa<em>” dal diritto interno) come “</em>convenzionalmente penale<em>”, alla luce dei cosiddetti criteri Engel</em>». Rispetto, però, a singole sanzioni amministrative che abbiano natura e finalità “<em>punitiva</em>”, il complesso dei principi enucleati dalla Corte di Strasburgo a proposito della “<em>materia penale</em>” – ivi compreso, dunque, il principio di retroattività della <em>lex mitior</em>, nei limiti appena precisati – non potrà per il Collegio che estendersi anche a tali sanzioni. A tale conclusione non osta l’assenza, sino a questo momento, di precedenti specifici nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Come la Corte ha avuto recentemente occasione di affermare, infatti, «<em>è da respingere l’idea che l’interprete non possa applicare la CEDU, se non con riferimento ai casi che siano già stati oggetto di puntuali pronunce da parte della Corte di Strasburgo</em>» (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2017/0068s-17.html">sentenza n. 68 del 2017</a>). L’estensione del principio di retroattività della <em>lex mitior</em> in materia di sanzioni amministrative aventi natura e funzione “<em>punitiva</em>” è, del resto, conforme alla logica sottesa alla giurisprudenza costituzionale sviluppatasi, sulla base dell’art. 3 Cost., in ordine alle sanzioni propriamente penali. Laddove, infatti, la sanzione amministrativa abbia natura “<em>punitiva</em>”, di regola non vi sarà ragione per continuare ad applicare nei confronti di costui tale sanzione, qualora il fatto sia successivamente considerato non più illecito; né per continuare ad applicarla in una misura considerata ormai eccessiva (e per ciò stesso sproporzionata) rispetto al mutato apprezzamento della gravità dell’illecito da parte dell’ordinamento. E ciò salvo che sussistano ragioni cogenti di tutela di controinteressi di rango costituzionale, tali da resistere al medesimo «<em>vaglio positivo di ragionevolezza</em>», al cui metro debbono essere in linea generale valutate le deroghe al principio di retroattività <em>in mitius</em> nella materia penale. Non v’è dubbio – prosegue la Corte venendo al caso di specie - che la sanzione amministrativa prevista dall’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998 abbia natura punitiva, e soggiaccia pertanto alle garanzie che la Costituzione e il diritto internazionale dei diritti umani assicurano alla materia penale, ivi compresa la garanzia della retroattività della <em>lex mitior</em>. La Corte dichiara di avere già avuto occasione di affermare, in due distinte occasioni, la natura sostanzialmente punitiva della confisca per equivalente prevista per l’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2018/0223s-18.html">sentenze n. 223 del 2018</a> e <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2017/0068s-17.html">n. 68 del 2017</a>); ma tale qualificazione deve necessariamente estendersi anche alla sanzione amministrativa pecuniaria prevista per il medesimo illecito, che qui viene immediatamente in considerazione. Tale sanzione non può essere considerata come una misura meramente ripristinatoria dello <em>status quo ante</em>, né semplicemente mirante alla prevenzione di nuovi illeciti. Si tratta, infatti, di sanzione dall’elevatissima carica afflittiva, che può giungere, oggi, sino a cinque milioni di euro (a loro volta elevabili sino al triplo ovvero al maggior importo di dieci volte il profitto conseguito o le perdite evitate), e che è comunque sempre destinata, nelle intenzioni del legislatore, a eccedere il valore del profitto in concreto conseguito dall’autore, a propria volta oggetto, di separata confisca. Una simile carica afflittiva si spiega soltanto in chiave di punizione dell’autore dell’illecito in questione, in funzione di una finalità di deterrenza, o prevenzione generale negativa, che è certamente comune anche alle pene in senso stretto. Del resto, proprio in considerazione della «<em>finalità repressiva</em>» di questa sanzione amministrativa e del relativo «<em>elevato carico di severità</em>», la Corte di giustizia UE ha recentemente affermato la relativa natura «<em>penale</em>» ai sensi dell’art. 50 CDFUE (Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 20 marzo 2018, Di Puma e altri, in cause <a href="https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX:62016CJ0596">C-596/16</a> e <a href="https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX:62016CJ0596">C-596/16</a>, paragrafo 38). Resta, dunque, da verificare se la deroga, stabilita dalla disposizione in questa sede censurata, alla retroattività <em>in mitius</em> del più favorevole regime sanzionatorio introdotto dal d.lgs. n. 72 del 2015 (il cui principale effetto pratico, come più sopra evidenziato, consiste nella “<em>dequintuplicazione</em>” delle sanzioni amministrative previste dal d.lgs. n. 58 del 1998) possa ritenersi legittima al metro del vaglio positivo di ragionevolezza di cui si è detto. A tale quesito non può tuttavia, per la Corte, che rispondersi negativamente. Nella relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo, in attuazione della legge n. 154 del 2014, il Governo dichiarò la propria intenzione di non introdurre nel decreto il principio del <em>favor rei</em> «<em>sia per la sospetta irragionevolezza dell’introduzione di detto principio con riferimento solo ad alcune disposizioni, sia per evitarne l’applicazione a tutti i procedimenti ancora </em>sub iudice», con conseguente «<em>rischio di ripercussioni negative su procedimenti sanzionatori in corso</em>». La prima ragione è <em>ictu oculi</em> infondata: è semmai la mancata generalizzata previsione della retroattività delle modifiche sanzionatorie <em>in melius</em> a essere sospetta di irragionevolezza, e bisognosa pertanto di una specifica giustificazione in termini di necessità di tutela di controinteressi costituzionalmente rilevanti. Tali controinteressi non possono, d’altra parte, identificarsi semplicemente nell’esigenza di evitare «<em>ripercussioni negative su procedimenti sanzionatori in corso</em>», posto che l’influenza della <em>lex mitior</em> sui procedimenti sanzionatori non ancora conclusi al momento della relativa entrata in vigore è la conseguenza necessaria del principio di retroattività della <em>lex mitior</em> stessa. Né la scelta del legislatore di posporre l’entrata in vigore delle modifiche al regime sanzionatorio degli illeciti previsti dalla Parte V del d.lgs. n. 58 del 1998 al momento dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni regolamentari della Banca d’Italia e della CONSOB appare essa stessa sorretta dalla finalità di tutelare cogenti controinteressi di rango costituzionale, di importanza assimilabile a quella che legittimò, nella valutazione delle citate <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2008/0072s-08.html">sentenze n. 72 del 2008</a> e <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2011/0236s-11.html">n. 236 del 2011</a>, la deroga alla retroattività delle disposizioni più favorevoli in materia di prescrizione del reato introdotte dalla legge n. 251 del 2005 con riferimento ai giudizi pendenti in grado di appello (ove si trattava di evitare, per effetto della maturazione dei più brevi termini di prescrizione introdotti dalla nuova disciplina, la dispersione di tutte le attività processuali svolte nei giudizi già conclusi in primo grado, rispetto a fatti che continuavano a essere considerati come reato e a essere puniti con la medesima pena in vigore al momento della loro commissione). I menzionati regolamenti della Banca d’Italia e della CONSOB, infatti, concernono pressoché esclusivamente la procedura di accertamento della sanzione, e non influiscono sulla configurazione degli illeciti, né – se non in misura marginalissima – sulla modalità di determinazione delle sanzioni amministrative pecuniarie, che qui viene direttamente in considerazione. Conseguentemente, la scelta del legislatore del 2015 di derogare alla retroattività dei nuovi e più favorevoli quadri sanzionatori risultanti dal d.lgs. n. 72 del 2015 sacrifica irragionevolmente il diritto degli autori dell’illecito di abuso di informazioni privilegiate a vedersi applicare una sanzione proporzionata al disvalore del fatto, secondo il mutato apprezzamento del legislatore. Mutato apprezzamento che riflette, evidentemente, la consapevolezza del carattere non proporzionato di un minimo edittale di centomila euro. Da ciò consegue per la Corte l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015, nella parte in cui esclude l’applicazione retroattiva delle modifiche apportate dal comma 3 dello stesso art. 6 alle sanzioni amministrative previste per l’illecito disciplinato dall’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998. La dichiarazione di illegittimità costituzionale deve per la Corte essere poi estesa in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), alla mancata previsione – da parte del censurato art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015 – della retroattività delle modifiche apportate dal comma 3 dello stesso art. 6 alle corrispondenti sanzioni amministrative previste per l’illecito di cui all’art. 187-ter (Manipolazione del mercato) del d.lgs. n. 58 del 1998. Tale illecito è, infatti, corredato da un quadro sanzionatorio identico a quello previsto dall’art. 187-bis, rispondente esso pure a un’evidente logica punitiva, già riconosciuta come tale dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza 4 marzo 2014, <a href="http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-141794">Grande Stevens e altri contro Italia</a>, paragrafi 94-101), dalla Corte di giustizia UE (Grande sezione, sentenza 20 marzo 2018, <em>Garlsson</em> e altri, in causa <a href="https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX:62016CJ0537">C-537/16</a>, paragrafi 34-35) e dalla stessa Corte di cassazione (sezione quinta civile, sentenza 30 ottobre 2018, n. 27564). Anche rispetto alla disciplina sanzionatoria dell’illecito amministrativo previsto dall’art. 187-ter, d’altra parte, la deroga al principio della retroattività della <em>lex mitior</em> apportata dal legislatore delegato non supera il vaglio positivo di ragionevolezza, per le medesime ragioni già evidenziate a proposito del parallelo illecito di cui all’art. 187-bis. Dal che, per l’appunto, la necessità di dichiarare la illegittimità costituzionale della disciplina transitoria dettata dalla disposizione censurata anche nella parte in cui essa esclude l’applicazione retroattiva delle modifiche <em>in melius</em> apportate alle sanzioni previste per l’illecito di cui all’art. 187-ter. <strong>2020</strong> Il 3 marzo esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.8544, onde I principi affermati dalla sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015, Contrada contro Italia, non si estendono nei confronti di coloro che, estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione quanto alla (non) prevedibilità della condanna per il reato di concorso esterno in associazione a delinquere di tipo mafioso, in quanto la sentenza non è una sentenza pilota e non può considerarsi espressione di una giurisprudenza europea consolidata. Le Sezioni Unite premettono di esser chiamate a risolvere la seguente questione di diritto: «<em>se la sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015 sul caso Contrada abbia una portata generale, estensibile nei confronti di coloro che, estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione, quanto alla prevedibilità della condanna e, conseguentemente, qualora sia necessario conformarsi alla predetta sentenza nei confronti di questi ultimi, quale sia il rimedio applicabile</em>». Sul tema principale posto dal procedimento si registra effettivamente un contrasto di opinioni nella giurisprudenza di legittimità. Secondo una prima linea interpretativa, sostenuta da Sez. 1, n. 44193 del 11/10/2016, Dell'Utri, (cui si è uniformata anche Sez. 1, n. 53610 del 10/04/2017, Gorgone), chiamata a pronunciarsi sulla legittimità del diniego di revoca della sentenza di condanna definitiva, inflitta al ricorrente per il delitto di concorso esterno in associazione di stampo mafioso, commesso prima del 1994, è inammissibile il ricorso all'incidente di esecuzione in quanto, nonostante la contestazione all'imputato di condotta illecita in termini analoghi per titolo di reato e per estensione temporale rispetto a quella ascritta al Contrada, l'accertato <em>deficit</em> di prevedibilità dell'illecito e della pena conseguibile dalla relativa commissione, riscontrato per quest'ultimo condannato, richiede la valutazione della concreta vicenda fattuale e processuale del soggetto che invochi l'applicazione degli stessi principi, che nel caso specifico differiva da quella del Contrada. La pronuncia in questione non ha natura di sentenza "<em>pilota</em>" e non ha rilevato una carenza strutturale dell'ordinamento italiano da superare mediante una riforma di valenza generale, -uniche situazioni nelle quali possono invocarsi gli effetti favorevoli di una sentenza della Corte EDU richiedendone l’applicabilità a casi non direttamente esaminati, ma analoghi-, ma ha riscontrato il difetto di prevedibilità della qualificazione giuridica del comportamento di agevolazione di un'associazione mafiosa in termini di concorso esterno, piuttosto che di partecipazione all'associazione stessa o di favoreggiamento. Per poter beneficiare degli effetti di siffatta pronuncia, in cui il limitato <em>deficit</em> strutturale rilevato dal giudice europeo è dipendente da una norma di legge sostanziale, è comunque necessario attivare l'incidente di costituzionalità della disposizione per violazione dell'art. 117 Cost. e, solo qualora intervenga la declaratoria di illegittimità costituzionale, la rimozione o la modifica del giudicato di condanna potranno essere conseguiti mediante proposizione della domanda di revisione europea, - strumento da esperire in via privilegiata ed in termini di priorità logica, secondo le indicazioni della Corte costituzionale nella sentenza n. 113 del 2011- se la rimozione della lesione debba avvenire mediante la riapertura del processo di cognizione, già a suo tempo definito, oppure, in alternativa, dell'incidente di esecuzione in presenza di altre disposizioni di legge che prestabiliscano e consentano di conseguire l'effetto sperato, come nel caso dell'<em>abolitio criminis</em> o dell'adattamento del solo trattamento sanzionatorio, fermo restando il giudizio di responsabilità. In termini adesivi si pone anche la successiva sentenza sez. 5, n. 27308 del 22/01/2019, Dell'Utri, che, nel respingere la domanda di revisione europea proposta dal predetto ricorrente, ha interpretato il contenuto della decisione Contrada come privo di valenza generalizzante e riferibile <em>tout court</em> ad ogni caso di condanna per concorso esterno in associazione di stampo mafioso, pronunciata per fatti verificatisi prima dell'ottobre 1994 e ne ha negato la collocazione nell'ambito di una linea interpretativa consolidata. Secondo un diverso orientamento invece, prosegue la Corte, l'obbligo di conformazione nascente dall'art. 46 CEDU riguarda soltanto il caso specifico affrontato dalla Corte EDU, i cui principi, privi di portata generale, non sono esportabili in riferimento a situazioni processuali analoghe. Nel caso specifico della sentenza Contrada, in senso ostativo all'estensione si pone la considerazione che nell'ordinamento interno, governato dal principio di legalità formale e di tassatività, non può trovare ingresso una fattispecie penale di creazione giurisprudenziale, tale comunque non potendo definirsi il concorso esterno in associazione di stampo mafioso, che è frutto della combinazione della norma speciale incriminatrice e della clausola più generale di cui all'art. 110 cod. pen. In continuità con tale posizione interpretativa si colloca anche la sentenza sez. 1, n. 13856 del n. 13856 del 27/2/2019, con la quale è stato rigettato il ricorso proposto dall'odierno ricorrente S. G. avverso il provvedimento del giudice dell'esecuzione che aveva respinto la sua richiesta di revoca del giudicato di condanna sul presupposto della negazione della portata generale della sentenza della Corte EDU nel caso Contrada e della relativa esportabilità per la decisione di casi analoghi. Con l'ordinanza di rimessione – chiosa a questo punto il Collegio - la Sesta Sezione Penale si è confrontata in termini dissenzienti con entrambe le impostazioni citate: alla ricostruzione offerta dalla sentenza Esti e da quelle successive ad essa conformi ha addebitato il fraintendimento della nozione di diritto, in relazione alla quale si è ravvisata da parte della sentenza Corte EDU nel caso Contrada la violazione del principio di legalità, perché, in continuità con quanto già riconosciuto dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con la sentenza n. 18288 del 12/01/2010, Beschi, nella giurisprudenza della Corte europea tale principio viene riconosciuto e garantito in relazione, sia al diritto di produzione legislativa, sia a quello creato dall'interpretazione giurisprudenziale nell'ambito dell'intervento ricognitivo del contenuto e dell'esatta portata applicativa della disposizione di legge in riferimento ad un caso concreto. Per la Sezione rimettente, l'essenza della decisione europea sta piuttosto nell'aver posto l'accento, non sulla natura della fonte di produzione, quanto sulle inalienabili qualità di accessibilità e prevedibilità della legge, che, se insussistenti, rendono la pronuncia di condanna in contrasto con la norma convenzionale dell'art. 7. Anche alla soluzione ermeneutica espressa dalla sentenza Dell'Utri del 2016 l'ordinanza di rimessione ha mosso articolate obiezioni; pur riconoscendo che tale pronuncia ha correttamente individuato nella carenza di prevedibilità della punizione penale la <em>ratio decidendi</em> della determinazione assunta dalla Corte europea, la stessa avrebbe errato nel riferire la prevedibilità dell'incriminazione al piano soggettivo ed individuale dell'imputato, ossia alla relativa condizione ed esperienza personale ed alla linea di condotta difensiva assunta nel processo di cognizione, e non al profilo oggettivo della struttura della disposizione quanto a dato formale ed all'interpretazione giurisprudenziale affermatasi al momento del compimento della condotta. Al contrario, per la Sesta Sezione Penale, facendo leva sulla nozione di prevedibilità in senso oggettivo e sulla relativa accertata carenza per la ravvisata incertezza circa la riconducibilità dei comportamenti contestati alla fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa, oppure ad altre ipotesi criminose di minore gravità quali il favoreggiamento personale, in alternativa alla loro liceità, la Corte europea ha riscontrato un <em>deficit</em> sistemico nell'ordinamento giuridico interno in termini di non prevedibilità della norma incriminatrice e della relativa pena, sicché la pertinente pronuncia riveste portata generale, tale da poter essere estesa anche ad altri condannati per la medesima fattispecie, realizzata prima del febbraio 1994, risultando soltanto di incerta individuazione lo strumento processuale per conseguire tale risultato. La soluzione del quesito giuridico sottoposto al vaglio delle Sezioni Unite postula a questo punto, per il Collegio, la preventiva ricognizione dei contenuti decisori della sentenza del 14/04/2015, emessa nel caso Contrada contro Italia dalla Quarta Sezione della Corte EDU, cui era stata devoluta la questione della compatibilità con il diritto convenzionale della condanna, pronunciata dalla Corte di appello di Palermo in data 25/02/2006 per il delitto di concorso esterno in associazione mafiosa, commesso da Contrada tra il 1979 ed il 1988, sul presupposto che in riferimento a tale arco temporale in giurisprudenza non era stato ancora univocamente risolto il quesito circa la configurabilità della fattispecie ravvisata e di conseguenza non era possibile prevedere il carattere illecito della condotta e la connessa sanzione, che sarebbero stati oggetto di interventi risolutivi da parte delle Sezioni Unite della Corte di cassazione soltanto in epoca successiva con la pronuncia n. 16 del 5/10/1994, Demitry. La Corte EDU ha accolto la domanda e le ragioni di doglianza di Contrada, cui ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno morale sofferto a causa della violazione dell'art. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell'uomo e delle Libertà fondamentali, ritenendo che: «<em>l'evoluzione giurisprudenziale in questa materia, posteriore ai fatti ascritti al ricorrente, dimostra che all'epoca in cui tali fatti sarebbero avvenuti il ricorrente non poteva ragionevolmente prevedere le conseguenze, in termini di sanzione, delle sue presunte azioni, in quanto l'esistenza del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso all'epoca dei fatti era oggetto di interpretazioni giurisprudenziali divergenti</em>». Passati in rassegna i principi tratti dalla propria giurisprudenza in ordine alle garanzie riconosciute dall'art. 7 della Convenzione, definite «<em>un elemento essenziale dello stato di diritto</em>» non derogabile nemmeno in tempo di guerra o in caso di altro pericolo pubblico, la Corte EDU ha precisato che la disposizione non esaurisce la propria portata nella proibizione dell'applicazione retroattiva del diritto penale a svantaggio dell'imputato, ma sancisce il principio della legalità dei delitti e delle pene <em>nullum crimen, nulla poena sine lege</em>, vietando di estendere il campo di applicazione dei reati già esistenti a fatti che, in precedenza, non costituivano illecito penale ed anche di applicare la legge penale in modo estensivo a sfavore dell'imputato, come nel caso del ricorso all'analogia. La chiara definizione dei reati e delle pene con le quali essi sono puniti si realizza se la persona sottoposta a giudizio può conoscere dal testo della disposizione pertinente, con l'ausilio dell'interpretazione giudiziale e di consulenti, per quali atti e omissioni viene attribuita la responsabilità penale e di quale pena è passibile per tali atti. Ed è compito della stessa Corte europea, non già di interpretare il diritto di ciascuno Stato membro o di offrire qualificazione giuridica ai fatti oggetto del processo, funzione demandata ai giudici nazionali, ma di verificare che all'epoca della commissione del comportamento, oggetto di incriminazione e di condanna, «<em>esistesse una disposizione di legge che rendeva l'atto punibile, e che la pena inflitta non eccedesse i limiti fissati da tale disposizione</em>», in modo tale che il risultato dell'attività cognitiva giudiziale sia stato rispettoso dell'art. 7 della Convenzione. Premesse tali affermazioni di principio – chiosa ancor il Collegio - la Corte sovranazionale ha osservato che nel caso del Contrada, secondo indicazione concorde e pacifica tra le parti, il delitto di concorso esterno in associazione di tipo mafioso ha origine giurisprudenziale e che la relativa sussistenza era stata oggetto di soluzioni divergenti nelle pronunce della giurisprudenza di legittimità nel lasso temporale in cui l'imputato aveva tenuto i comportamenti incriminati. Ha quindi affermato che solo con la sentenza delle Sezioni Unite Demitry si è ammesso in maniera esplicita l'esistenza del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso nell'ordinamento giuridico interno, mentre la sentenza di condanna, emessa dalla Corte di appello di Palermo il 25/02/2006, per pervenire al giudizio di colpevolezza si era basata su affermazioni di principio desunte da pronunce delle Sezioni Unite, tutte posteriori ai fatti ascritti all'imputato. Ha, infine, concluso nel senso che «<em>il reato in questione è stato il risultato di una evoluzione giurisprudenziale iniziata verso la fine degli anni ottanta del secolo scorso e consolidatasi nel 1994 con la sentenza Demitry</em>», sostenendo che all'epoca in cui sono stati commessi i fatti ascritti (1979-1988) «<em>il reato in questione non era sufficientemente chiaro e prevedibile per quest'ultimo</em>», così escludendo che il ricorrente avesse potuto conoscere nella fattispecie la pena in cui incorreva per la responsabilità penale derivante dagli atti da lui compiuti e in tal modo ha riconosciuto la lamentata violazione dell'art. 7 della Convenzione. La vicenda personale del ricorrente Contrada è proseguita anche dopo la citata sentenza della Corte EDU a seguito della proposizione presso gli organi giudiziari interni, da un lato della domanda di revisione della condanna, che, una volta respinta dalla Corte di appello di Caltanissetta, era stata coltivata mediante ricorso per cassazione, cui però l'interessato aveva rinunciato, dall'altro di incidente di esecuzione per ottenere la conformazione alla pronuncia della Corte sovranazionale: in riferimento a quest'ultima iniziativa, respinta dalla Corte di appello di Palermo, il successivo ricorso è stato accolto dalla Prima Sezione penale della Corte di cassazione, che, con sentenza n. 43112 del 6/07/2017, Contrada, ha dichiarato ineseguibile nei suoi confronti la sentenza di condanna passata in giudicato. Il quesito all'odierno esame richiede per la Corte di affrontare il tema preliminare dell'individuazione della natura e della portata della decisione della Corte EDU nel caso Contrada contro Italia. Il ricorrente S.G., senza essere destinatario di una pronuncia favorevole della Corte EDU di contenuto sovrapponibile a quella conseguita dal Contrada, ne invoca gli effetti vantaggiosi per conseguire la revoca della sentenza definitiva di condanna sul presupposto del riscontro da parte della Corte sovranazionale di una violazione di ordine generale, tale da travalicare il singolo caso risolto e da imporre allo Stato convenuto l'obbligo giuridico di conformazione ai principi affermati dalla stessa Corte EDU in favore del Contrada, in modo da impedire il futuro ripetersi di analoghe trasgressioni nell'interesse generale dei soggetti che, pur senza avere adito la Corte europea, versino in situazione identica a quella già da questa vagliata. Ad avviso delle Sezioni Unite, non può convenirsi con la tesi difensiva, come recepita dalla Sezione rimettente. Il ricorrente non può invocare in proprio favore l'applicazione diretta dell'art. 46 della CEDU, per il quale «<em>gli Stati contraenti sono tenuti a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parte</em>», non essendo stato parte del giudizio al cui esito è stata pronunciata la sentenza Contrada. S'impone quindi la verifica circa la sussistenza delle condizioni che legittimino l'attribuzione alla stessa decisione dell'idoneità all'applicazione generalizzata degli affermati principi e la riferibilità della violazione dell'art. 7 CEDU a tutti i casi di condanna già irrevocabile per concorso esterno in associazione di stampo mafioso, consumato in epoca antecedente al febbraio 1994. La soluzione risiede nella considerazione della natura della violazione della norma convenzionale riscontrata e dei rimedi per la relativa eliminazione. E' opportuno premettere – chiosa ancora il Collegio - che nel sistema convenzionale l'espansione degli effetti di una decisione della Corte EDU ad altri casi non oggetto di specifica disamina rinviene una base normativa nell'art. 61 del regolamento CEDU, per il quale, ove venga rilevata una violazione strutturale dell'ordinamento statale, causa della proposizione di una pluralità di ricorsi di identico contenuto, é possibile adottare una sentenza "<em>pilota</em>", che indichi allo Stato convenuto la natura della questione sistemica riscontrata e le misure riparatorie da adottare a livello generalizzato per conformarsi al <em>decisum</em> della sentenza stessa con eventuale rinvio dell'esame di tutti i ricorsi, fondati sulle medesime ragioni, in attesa dell'adozione dei rimedi indicati. Oltre a tale strumento, è oggetto di formale riconoscimento normativo anche il diverso caso, in cui la pronuncia della Corte sovranazionale assume un rilievo ed una portata generali, perché, sebbene priva dei caratteri propri della sentenza pilota e non emessa all'esito della relativa formalizzata procedura, accerta una violazione di norme convenzionali in tema di diritti della persona, suscettibile di ripetersi con analoghi effetti pregiudizievoli nei riguardi di una pluralità di soggetti diversi dal ricorrente, ma versanti nella medesima condizione. La nozione di sentenza a portata generale trova fondamento positivo nel comma 9 del predetto art. 61, il quale stabilisce testualmente che: «<em>Il Comitato dei Ministri, l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa, il Segretario generale del Consiglio d'Europa e il Commissario per i diritti dell'uomo del Consiglio d'Europa sono informati sistematicamente dell'adozione di una sentenza pilota o di qualsiasi altra sentenza in cui la Corte segnali l'esistenza di un problema strutturale o sistemico all'interno di una Parte contraente</em>». In tali situazioni il riscontro della violazione dei diritti individuali del proponente il ricorso contiene in sé anche l'accertamento di lacune ed imperfezioni normative o di prassi giudiziarie, proprie dell'ordinamento interno scrutinato, contrarie ai precetti della Convenzione, che assumono rilevanza anche per tutti coloro che subiscano identica violazione, sicché l'obbligo di adeguamento dello Stato convenuto trascende la posizione del singolo coinvolto nel caso risolto, ed investe tutti quelli caratterizzati dalla sussistenza di una medesima situazione interna a portata generale di contrarietà alle previsioni convenzionali. Se ne trae conferma dalla giurisprudenza della Corte EDU che, sin dalla sentenza della Grande Camera del 13/07/2000 nel caso Scozzari e Giunta c. Italia, ha affermato il principio, poi più volte ribadito, per il quale «<em>quando la Corte constata una violazione, lo Stato convenuto ha l'obbligo giuridico non solo di versare agli interessati le somme attribuite a titolo dell'equa soddisfazione prevista dall'art. 41, ma anche di adottare le misure generali e/o, se del caso, individuali necessarie</em>» aventi contenuto ripristinatorio, ossia quegli interventi specificamente suggeriti dalla Corte europea, oppure individuati in via autonoma dallo Stato condannato, purché idonei ad eliminare il pregiudizio subito dal ricorrente, che deve essere posto, per quanto possibile, in una situazione equivalente a quella in cui si troverebbe se non si fosse verificata l'inosservanza delle norme della Convenzione (in termini Corte EDU, GC, 17/09/2009, Scoppola c. Italia; Corte EDU, GC, 01/03/2006, Sejdovic c. Italia; Corte EDU, GC, 08/04/2004, Assanidze c. Georgia). Ulteriori significative indicazioni provengono in tal senso anche dalla giurisprudenza costituzionale, che, impegnatasi più volte nel definire i rapporti tra giudice europeo e giudice interno nell'attività di interpretazione della legge nel rispetto della gerarchia delle fonti di produzione normativa, ha assegnato valore vincolante e fondante l'obbligo conformativo per lo Stato condannato nel giudizio celebrato dinanzi la Corte sovranazionale alla statuizione contenuta in sentenza pilota, oppure in quella che, seppur legata alla concretezza della situazione che l'ha originata, «<em>tenda ad assumere un valore generale e di principio</em>» (Corte cost., sent. n. 236 del 2011; sent. n. 49 del 2015). A fronte di tali presupposti, allo Stato convenuto ed al relativo giudice non è consentito negare di dar corso alla decisione adottata dalla Corte di Strasburgo e di eliminare la violazione patita dal cittadino mediante i rimedi apprestati dall'ordinamento interno. Qualora, invece, non ricorrano tali presupposti, compete al giudice interno applicare ed interpretare le disposizioni di legge, operazione da condursi in conformità alle norme convenzionali ed al significato loro attribuito dall'attività esegetica compiuta dalla Corte EDU, alla quale è rimessa una «<em>funzione interpretativa eminente</em>» sui diritti fondamentali, riconosciuti dalla Convenzione e dai relativi Protocolli secondo quanto previsto dall'art. 32 CEDU, al fine di realizzare la certezza e la stabilità del diritto (Corte cost., sent. nn. 348 e 349 del 2007). Gli approdi, definitivamente acquisiti, della giurisprudenza costituzionale mostrano lo sforzo compiuto per conciliare autonomia interpretativa del giudice comune e dovere di quest'ultimo di prestare collaborazione con la Corte europea, affinché il significato del diritto fondamentale cessi di essere controverso e riceva effettiva attuazione. Si è affermato che il giudice comune, nell'interpretare la disposizione del proprio ordinamento interno deve recepire i contenuti della «<em>giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente</em>» e, qualora, facendo ricorso a tutti gli strumenti di ermeneutica praticabili, la ravvisi in contrasto con i precetti della Carta costituzionale, non potendo disapplicarla, deve investire il giudice delle leggi della questione di costituzionalità della norma stessa in riferimento all'art. 117, comma 1, Cost., spettando poi a quest'ultimo pronunciarsi in adesione alla giurisprudenza europea, se uniforme e consolidata, salvo che in via eccezionale non ne riconosca la difformità dalla Costituzione. In questa residuale ipotesi, il giudice delle leggi non può sostituirsi alla Corte EDU nell'interpretare le disposizioni della Convenzione, pena l'usurpazione di prerogative altrui in violazione dell'impegno assunto dallo Stato italiano con la sottoscrizione del trattato internazionale, ma deve operare un giudizio di bilanciamento, finalizzato a verificare la sussistenza di un vuoto di tutela normativa rilevante in relazione ad un diritto costituzionalmente garantito. Nel diverso caso, in cui il giudice interno ravvisi l'incompatibilità tra la norma nella lettura offertane dal diritto vivente europeo e la Costituzione, in assenza di un "<em>diritto consolidato</em>" il relativo dubbio è sufficiente per negarvi i potenziali contenuti assegnabili secondo la giurisprudenza sovranazionale e per operarne l'interpretazione costituzionalmente orientata, -doverosa e prioritaria rispetto a qualsiasi altra possibile-, che esclude la necessità di sollevare incidente di costituzionalità (Corte cost., sent. n. 113 del 2011; sent. n. 311 del 2009). Rileva che, nel condurre tali verifiche, il giudice comune non resta relegato nella posizione di mero esecutore o di recettore passivo del comando contenuto nella pronuncia del giudice europeo, poiché una tale subordinazione finirebbe per violare la funzione assegnatagli dall'art. 101, comma 2, Cost. ed eludere il principio che ne prevede la soggezione soltanto alla legge e non ad altra fonte autoritativa, principio che non soffre eccezioni neppure in riferimento alle norme della CEDU, che hanno valenza nell'ordinamento interno grazie ad una legge ordinaria di adattamento. Il giudice nazionale dispone quindi di un margine di apprezzamento del significato e delle conseguenze della pronuncia della Corte EDU, purché ne rispetti la sostanza e la stessa esprima una decisione che si collochi nell'ambito del diritto consolidato e dell'uniformità dei precedenti, mentre «<em>nessun obbligo esiste in tal senso, a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento oramai divenuto definitivo</em>» (Corte cost., sent. n. 236 del 2011 e n. 311 del 2009). Ha avvertito la Consulta che l'esigenza di rispettare indicazioni esegetiche conformi e costanti, stabili rispetto ad altre pronunce della stessa Corte sovranazionale, nasce dalla constatazione della vocazione casistica dei relativi interventi decisori, legati alla situazione concreta esaminata e del loro flusso continuo di produzione in riferimento ad una pluralità e varietà di corpi legislativi di riferimento; non dipende, pertanto, dalla negazione della natura vincolante delle pronunce emesse dalle singole sezioni, piuttosto che dalla Grande Camera, quanto dalla necessità di individuare un pronunciamento che non sia isolato o contraddetto da altri di segno diverso (Corte cost., sent. n. 236 del 2011; n. 49 del 2015). Del resto, è l'art. 28, comma 1 lett. b), come modificato dal Protocollo addizionale n. 14 della CEDU, a conferire un maggiore grado di autorevolezza e di capacità persuasiva alle pronunce espressive di un principio consolidato, tanto da consentire che la decisione sul ricorso individuale sia adottata da un comitato di tre giudici, anzichè da una Camera nella composizione ordinaria di sette giudici, e che la stessa sia direttamente definitiva, quando la questione di interpretazione ed applicazione delle norme della Convenzione o dei relativi Protocolli all'origine della causa è oggetto di una giurisprudenza consolidata della Corte. Nozione questa che è stata costantemente richiamata e considerata quale criterio selettivo degli obblighi di adeguamento per il giudice interno dalla Consulta sino alle sue più recenti pronunce (Corte cost., sent. nn. 187/2015; 36/2016; 102/2016; 200/2016; 68/2017; 43/2018; 25/2019; 66/2019), per le quali «<em>la denunciata violazione del parametro convenzionale interposto, ove già emergente dalla giurisprudenza della Corte EDU, può comportare l'illegittimità costituzionale della norma interna sempre che nelle pronunce di quella Corte sia identificabile un «</em>approdo giurisprudenziale stabile<em>»</em> <em>(sentenza n. 120 del 2018) o un «</em>diritto consolidato<em>» (sentenze n. 49 del 2015 e, nello stesso senso, n. 80 del 2011</em>)» (sent. n. 25/2019), nonché dalle Sezioni Unite, sia civili (n. 9142 del 06/05/2016), che penali (n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta). La Corte costituzionale, consapevole delle difficoltà per il singolo interprete di riconoscere nel contesto della giurisprudenza europea sui diritti fondamentali un orientamento contrassegnato da adeguato consolidamento, ha individuato i seguenti criteri negativi da impiegare a tal fine: «<em>la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l'avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell'ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano</em>» (sent. n. 49/2015). La ricorrenza di tutti o di alcuni di tali indici svincola il giudice comune dal dovere di osservanza della linea interpretativa adottata dalla Corte EDU nella risoluzione della singola fattispecie concreta. La Sezione rimettente – prosegue la Corte - ha evidenziato al riguardo che la portata interpretativa della citata sentenza n. 49 del 2015 nei termini come sopra riassunti avrebbe ricevuto smentita ad opera della sentenza della Grande Camera della Corte EDU del 28/06/2018, G.I.E.M. ed altri c. Italia, per la quale le proprie «<em>sentenze hanno tutte lo stesso valore giuridico. Il loro carattere vincolante e la loro autorità interpretativa non possono pertanto dipendere dal collegio giudicante che le ha pronunciate</em>» (§ 252). Osservano a questo punto le Sezioni Unite che, non soltanto tale lapidaria affermazione non è corredata da nessun rilievo esplicativo, che ne chiarisca il significato in correlazione ed a confutazione delle diffuse e puntuali argomentazioni del giudice costituzionale italiano, ad eccezione delle annotazioni di un giudice di minoranza dissenziente, ma la stessa non pare avere nemmeno colto l'essenza del principio enunciato dalla Corte costituzionale, affidato, non già alla composizione numerica dell'organo giudicante ed alla relativa maggiore autorevolezza, quanto all'inserimento della singola pronuncia in un orientamento coerente con i precedenti, che renda acquisito il principio di diritto enunciato. Inoltre, non può sostenersi che la teoria del diritto consolidato costituisca un espediente per avvalorare prassi esegetiche elusive dell'obbligo di dare piena esecuzione alle sentenze della Corte EDU. Attenta dottrina ha evidenziato che proprio la sentenza G.I.E.M. contro Italia offre conferma della fondatezza del criterio prudenziale, prescelto dal giudice costituzionale, allorché nel 2015 non aveva recepito i principi dettati dalla sentenza Varvara contro Italia del 29/10/2015, laddove si era affermato che la confisca di terreni abusivamente lottizzati, misura che realizza una pena, pretende che il reato non sia prescritto e che sia pronunciata una condanna, e non aveva dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 44, comma 2, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380: tali principi non si ascrivono, infatti, al diritto consolidato, perché successivamente smentiti o fortemente limitati nella loro portata proprio dalla Grande Camera nel 2018, i cui esiti, differenti dal precedente pronunciamento, non avrebbero potuto vanificare gli effetti della pronuncia di illegittimità costituzionale nel frattempo eventualmente intervenuta, per loro natura definitivi e non suscettibili di revoca. La considerazione della sentenza nel caso Contrada in base ai principi esposti consente per le SSUU di escludere che essa rientri nello schema formale della sentenza pilota e che sul piano contenutistico contenga l'affermazione, esplicita e chiaramente rintracciabile dall'interprete, della natura generale della violazione riscontrata. Al contrario, prosegue il Collegio, essa si sviluppa mediante l'esame del caso specifico ed analizza l'imputazione elevata al ricorrente nel processo celebrato a relativo carico, la linea di difesa adottata, le risposte giudiziarie ottenute ed i relativi percorsi giustificativi, incentrati sul tema della definizione giuridica del fatto e della sua prevedibilità. Esprime quindi il giudizio finale di violazione dell'art. 7 CEDU in termini strettamente individuali, ma senza specificare se la trasgressione rilevata riguardi il primo o il secondo periodo dell'art. 7, § 1, ossia se risieda nell'accertamento in sé di responsabilità penale, oppure nel titolo e nella connessa punizione, come pare potersi dedurre dal seguente inciso conclusivo della motivazione, secondo cui «<em>Il ricorrente non poteva dunque conoscere nella fattispecie la pena in cui incorreva per la responsabilità penale derivante dagli atti da lui compiuti</em>» (§ 74, cit.). Infine, la sentenza non è corredata da una qualsiasi indicazione in ordine ai rimedi adottabili, suscettibili di applicazione individuale a favore del ricorrente vittorioso, oppure generalizzata nei riguardi di soggetti protagonisti di casi identici o similari per prevenire il futuro ripetersi di violazioni analoghe a quella accertata. Queste ultime considerazioni sono state rappresentate dal Governo italiano in replica alla richiesta, formulata dal Dipartimento per l'esecuzione delle sentenze della Corte EDU 1'8 febbraio 2018, di informazioni sullo stato dell'adozione di misure generali, conseguenti alla sentenza sul caso Contrada, come già detto non specificate nella loro consistenza, nel senso della non necessità di rimedi sistemici e della sollecitazione ad una revisione del pronunciamento, siccome affetto da errori di fatto e di diritto. Resta allora da verificare – chiosa ancora la Corte - se alla pronuncia in esame possa assegnarsi portata generale, secondo quanto previsto dal comma 9 del citato art. 61, e se vi sia ricavabile il riscontro di una carenza di ordine strutturale nel sistema giuridico italiano, derivante dal testo delle norme di legge pertinenti, lesiva dell'interesse non soltanto del singolo ricorrente, ma di una pluralità di soggetti trovatisi nella medesima situazione processuale. L'unico profilo che potrebbe autorizzare siffatta conclusione riguarda la stigmatizzazione del contrasto interpretativo, emerso nella giurisprudenza interna, sulla configurabilità quale fattispecie di reato autonoma del concorso esterno in associazione mafiosa, con la conseguente incertezza sulla relativa illiceità penale e sulla pena conseguente, pregiudizievole per l'imputato per l'origine giurisprudenziale della fattispecie stessa. A ben vedere però – chiosa ancora il Collegio - il giudizio espresso nella sentenza Contrada si sviluppa, sia sul piano oggettivo, allorché rileva la carenza di sufficiente chiarezza del reato, sia al contempo su quello soggettivo per la ritenuta imprevedibilità dell'incriminazione delle condotte compiute e della loro punizione da parte dell'imputato alla stregua dell'andamento del processo di cognizione, delle difese articolate e dei contenuti motivazionali delle decisioni susseguitesi. Come puntualmente osservato nella citata sentenza Dell'Utri del 2016, la Corte EDU «<em>pur evidenziando le criticità derivanti dalla tumultuosa evoluzione giurisprudenziale in tema di concorso esterno in associazione mafiosa non realizza - a ben vedere — una considerazione generalizzata di illegittimità convenzionale di qualsiasi affermazione di responsabilità, per fatti antecedenti al 1994, divenuta irrevocabile</em>». Tale considerazione, che si condivide perché aderente alle statuizioni della pronuncia, priva dell'indicazione di misure ripristinatorie, impersonali ed universali, sarebbe già in sé sufficiente per negare l'efficacia estensiva della decisione Contrada nei riguardi di altri condannati per la medesima fattispecie di concorso esterno in associazione di stampo mafioso, ravvisata per comportamenti agevolativi dell'organizzazione, realizzati prima dell'anno 1994. Ma ulteriore e non meno rilevante ragione – precisa ancora la Corte - milita a favore di tale conclusione. Considerata alla stregua dei criteri orientativi, formulati dalla giurisprudenza costituzionale, la pronuncia non costituisce espressione di un diritto consolidato, ossia non si inserisce in un filone interpretativo uniforme, costantemente rintracciabile in pronunce di analogo tenore argomentativo e dispositivo. Non risultano, infatti, in precedenza, ma nemmeno dal 2015 ad ora, ulteriori decisioni di accoglimento di ricorsi proposti da soggetti, condannati dallo Stato italiano per la identica fattispecie di cui agli artt. 110 e 416-bis cod. pen., quanto alla carente prevedibilità della natura di illecito penale delle condotte compiute ed alla pena discendente. Ed anche il ricorso proposto da Marcello Dell'Utri in data 30 dicembre 2014 per far valere analoga violazione, sovrapponibile a quella del Contrada, a distanza di oltre cinque anni è tuttora pendente e non è stato deciso. Inoltre, come segnalato in più contributi dottrinali, nella giurisprudenza europea non è dato nemmeno rinvenire una univoca e costante impostazione interpretativa ed applicativa dei concetti di accessibilità e prevedibilità del diritto penale, intesi quale possibilità materiale per il cittadino di prendere anticipata conoscenza del comando normativo penale e precognizione delle conseguenze punitive in caso di relativa trasgressione, entrambi requisiti qualitativi del principio di legalità. Se è ricorrente nelle sentenze della Corte EDU l'affermazione che, privilegiando l'approccio sostanzialistico rispetto a quello formale e la tradizione giuridica dei paesi di <em>common law</em>, intende il diritto nella più ampia accezione di corpo precettivo e sanzionatorio di formazione, sia legale, che giurisprudenziale, sul presupposto che le pronunce giudiziali contribuiscono a chiarire il significato e l'ambito applicativo della regola generale ed astratta, promanante dalla fonte di produzione parlamentare, non altrettanto unico ed invariato è il criterio in base al quale si è esercitato il sindacato sulla prevedibilità del comando e della sanzione nel valutare i casi giudiziari già risolti dai giudici nazionali, così come non sono costanti e sovrapponibili gli esiti di tale verifica, raggiunti in base ai medesimi criteri. In numerose pronunce, sia precedenti, che successive a quella resa nei confronti del Contrada, è accolta la concezione soggettiva della prevedibilità, apprezzata in riferimento ad attività professionali, qualifiche ed esperienze individuali, dalle quali si è ricostruito il dovere per l'imputato, nonché la materiale possibilità, di conoscere l'illiceità penale dei comportamenti che aveva in animo di tenere, nonostante la relativa proibizione non fosse stata ancora trasfusa in un testo normativo o non fosse stata oggetto di precedenti interpretazioni giudiziali (Corte EDU, 01/09/2016, X e Y c. Francia; 6/10/2011, Soros c. Francia; 10/10/2006, Pessino c. Francia; 28/03/1990, Groppera Radio AG c. Svizzera). In altre situazioni la Corte europea ha fatto ricorso, non al patrimonio di conoscenze personali del soggetto giudicato, ma al dato formale del contenuto precettivo della legge, puntuale e determinato, e dell'interpretazione giudiziale già formatasi in precedenza (Corte EDU, 26/04/1979, Sunday Times c. Regno Unito; 25/05/1993, Kokkinakis c. Grecia; GC, 15/11/1996, Cantoni c. Francia; GC, 21/10/2013, Del Rio Prada c. Spagna). In altre ancora è stata oggetto di valutazione l'evoluzione della considerazione sociale del comportamento come antigiuridico, ritenendo prevedibile l'incriminazione persino se in contrasto con un testo normativo dal tenore liberatorio e pur in assenza di indicatori orientativi oggettivi (Corte EDU, 22/11/1995, S.W. c. Regno Unito e C.R. c. Regno Unito; 24/05/1988, Muller c. Svizzera). La sentenza Contrada rivela, come già detto, l'impiego di una combinazione di criteri, quello soggettivo incentrato sulla condotta processuale del ricorrente e quello, che è preponderante, propriamente oggettivo, basato sull'assenza di una norma precisa e chiara e di una interpretazione giurisprudenziale univoca, situazione superata soltanto da un intervento giudiziale delle Sezioni Unite successivo ai fatti accertati. Nel panorama delle decisioni della Corte dei diritti fondamentali l'inedito rigore col quale è stata risolta la vicenda Contrada, che avrebbe conseguito un ben diverso epilogo, se soltanto fosse stata apprezzata alla luce del criterio soggettivo o di quello basato sulla considerazione sociale, si contraddistingue, oltre che per il metro di apprezzamento della prevedibilità, anche per il fatto di avere superato i rilievi in precedenza ed anche in seguito espressi sul necessario ruolo evolutivo e specificativo da assegnare all'interpretazione giurisprudenziale, quale fattore ineliminabile di progressiva chiarificazione delle regole legislative e di possibile violazione dell'art. 7 CEDU soltanto quando non congruente con l'essenza del reato e quale sviluppo non conoscibile rispetto alla linea interpretativa già affermata. La Corte EDU aveva in precedenza sostenuto: «<em>per quanto chiaramente formulata sia una previsione, in ogni sistema legale, ivi incluso il diritto penale, esiste un inevitabile elemento di interpretazione giudiziale L'art. 7 della Convenzione non può essere inteso nel senso che pone fuori dal quadro convenzionale la graduale chiarificazione delle regole relative alla responsabilità penale attraverso l'interpretazione giudiziale, in relazione ai casi concreti, quante volte lo sviluppo conseguente sia coerente con l'essenza dell'incriminazione e possa essere ragionevolmente previsto</em>» (S.W. c. Regno Unito, citata, § 36). Analoghi concetti – prosegue la Corte - erano stati espressi nella nota sentenza della Grande Camera, 21/10/2013, Del Rio Prada c. Spagna (si vedano altresì Kokkinakis, sopra citata, § 40, e Cantoni, sopra citata, § 31), con la quale la medesima Corte aveva ravvisato la violazione dell'art. 7 CEDU a ragione di un improvviso mutamento giurisprudenziale nel diniego di benefici penitenziari, che, per la relativa subitaneità ed il contrasto con le prassi applicative a lungo osservate in precedenza, non era «<em>equivalso a un'interpretazione del diritto penale che seguiva una linea percettibile dello sviluppo giurisprudenziale</em>» (§ 115). Indicazioni conformi sono leggibili nelle pronunce della Grande Camera, 22/03/2001, Streletz, Kessler e Krenz c. Germania (§ 50 e 82) e 17/05/2010, Kononov c. Lituania (§ 185) e, proprio in riferimento a questioni insorte in riferimento all'ordinamento giuridico italiano, 17/9/2009, Scoppola c. Italia, mentre anche la recente pronuncia, resa il 17/10/2017 nel caso Navalnyye c. Russia, si è posta nel solco di quelle sopra citate. Va poi aggiunto – chiosa ancora il Collegio - che è nota una pronuncia della medesima Corte, nella quale l'esistenza contestuale negli interpreti di visioni esegetiche difformi in ordine alla configurabilità di un reato, nella specie quello di genocidio nell'ambito dell'ordinamento tedesco, non disciplinato espressamente, ma tratto da norme internazionali pubbliche, non è stata ritenuta causa di violazione del principio di legalità, sebbene quella accolta nei confronti del ricorrente fosse stata l'interpretazione sfavorevole all'imputato, non restrittiva e mai applicata in precedenza (Corte EDU, 12/07/2007, Jorgic c. Germania). Le superiori considerazioni convincono le SSUU del carattere peculiare della decisione in esame, condivisibilmente definito atipico o anomalo da parte della dottrina e meritevole di più attenta rielaborazione, anche perché basato su presupposti di fatto non correttamente percepiti: essa si inserisce in un contesto in cui, per la vocazione naturalmente casistica delle decisioni, risulta mutevole e di volta in volta diverso il criterio adottato per riconoscere la prevedibilità dell'esito giudiziario e di tale variabilità di valutazioni è consapevole anche la Sesta Sezione Penale nell'ordinanza di rimessione, che le richiama, pur senza trarne la dovuta conseguenza dell'impossibilità di estrarne un principio di diritto consolidato, oltre che chiaramente espresso in ordine alla tipologia di violazione ravvisata. Né in senso contrario è sufficiente il solo dato dell'inserimento della sentenza Contrada nella guida all'interpretazione dell'art. 7 CEDU, predisposta dalla stessa Corte europea, in riferimento al concetto di prevedibilità, posto che tale catalogazione attiene all'individuazione della norma convenzionale ritenuta violata, senza che se ne possa inferire la riconducibilità della decisione ad un indirizzo uniforme e coerente. Ne discende che, ad avviso delle Sezioni Unite, la statuizione adottata nei confronti del ricorrente Contrada dalla Corte EDU non è vincolante per il giudice nazionale al di fuori dello specifico caso risolto e non consente di affermare in termini generalizzati l'imprevedibilità dell'incriminazione per concorso esterno in associazione mafiosa per tutti gli imputati italiani condannati per avere commesso fatti agevolativi di un siffatto organismo criminale prima della sentenza Demitry e che non abbiano adito la Corte europea, ottenendo a loro volta una pronuncia favorevole. Plurimi profili di criticità, non considerati nell'ordinanza di rimessione e nemmeno nelle pur articolate prospettazioni difensive, inducono la Corte a ritenere che l'applicazione del concetto di prevedibilità, contenuto nella sentenza Contrada, non sia esportabile nei riguardi di altri soggetti già condannati irrevocabilmente per la stessa fattispecie e nello specifico dell'odierno ricorrente G., nemmeno ai fini di un'interpretazione convenzionalmente orientata del principio di legalità, che possa condurre al positivo apprezzamento della relativa istanza di revisione della condanna. In primo luogo, è singolare e non rispondente al reale contenuto delle decisioni adottate nel panorama giurisprudenziale interno sul tema del concorso esterno in associazione mafiosa, intervenute prima del 1994, l'affermazione circa la «<em>creazione giurisprudenziale</em>» della fattispecie. L'errore che vi si annida, indotto dalla concorde deduzione delle parti, non riguarda tanto l'individuazione del formante della regola applicata, pronuncia giudiziale in luogo di atto legislativo, che di per sé non si concilia col principio, proprio dell'ordinamento nazionale, di riserva di legge di cui all'art. 25, comma 2, Cost. e crea insormontabili difficoltà di adattamento al sistema di legalità interno, in cui la giurisprudenza ha soltanto una funzione dichiarativa (Corte cost., sent. n. 25 del 2019) e di cui la Corte europea pare non essersi avveduta, quanto piuttosto la totale pretermissione della considerazione della base legislativa dalla quale muoveva l'interpretazione poi accolta dalle Sezioni Unite Demitry. La configurabilità come reato del concorso esterno in associazione mafiosa – chiariscono le SSUU - non è stato l'esito di operazioni ermeneutiche originali e svincolate dal dato normativo, operate dalla giurisprudenza di legittimità <em>ex abrupto</em> in termini innovativi rispetto allo spettro delle soluzioni praticabili già affermate; al contrario, discende dall'applicazione in combinazione di due disposizioni già esistenti nel sistema codicistico della legge scritta, pubblicata ed accessibile a chiunque, ossia degli artt. 110 e 416-bis cod. pen., la prima norma generale sul concorso di persone, la seconda avente funzione più specificamente incriminatrice ed è l'approdo di un lungo dibattito dottrinale e giurisprudenziale, che si era svolto in parallelo anche sul tema sulla definizione della condotta punibile di partecipazione, rientrante nell'ipotesi di cui all'art. 416-bis cod. pen.. Come evidenziato in dottrina e da sez. 1, n. 44193 del 11/10/2016, Dell'Utri, tale esito è stato il portato di una riflessione teorica, che, dall'epoca postunitaria, si è sviluppata mediante plurimi riconoscimenti giudiziari dell'ammissibilità del concorso nel reato a plurisoggettività necessaria a fronte di condotte in vario modo agevolatrici, compiute in favore o del singolo associato, ovvero dell'attività dell'associazione di per sé considerata, non integranti il fatto tipico della partecipazione. Riconoscimento operato in riferimento, sia all'associazione a delinquere, sia a quella di tipo politico eversivo. Tale percorso era giunto già nel corso degli anni ottanta del secolo scorso a riferire i medesimi concetti anche alla fattispecie di associazione di stampo mafioso, introdotta nell'ordinamento dalla legge 13 settembre 1982, n. 646, in relazione a fenomeni di contiguità con la mafia, aventi come protagonisti soggetti non formalmente affiliati, ma di estrazione imprenditoriale, politico-amministrativa o appartenenti alle forze dell'ordine: in tal senso si erano espresse la sentenza sez. 1, n. 3492 del 13/06/1987, dep. 1988, Altivalle, Rv. 177889 ed altre coeve e successive, ma antecedenti alla pronuncia Demitry. Inoltre, la prima decisione del giudice di legittimità ad avere esaminato l'ipotesi del concorso esterno (Sez. 1, n. 8092 del 19/01/1987, Cillari), aveva rielaborato principi già affermati dalla giurisprudenza della Corte di cassazione nei precedenti decenni a partire da Sez. 1, n. 1569 del 27/11/1968, dep. 1969, Muther. I superiori rilievi convincono che i contrasti interpretativi, considerati dalla Corte EDU, non avevano pregiudicato la possibilità di comprendere e conoscere la possibile punizione per le condotte agevolatrici o di rafforzamento di una formazione di stampo mafioso, ritenute integrare la fattispecie del concorso esterno, ma al contrario costituivano il fondamento giuridico di un dovere di informazione mediante qualsiasi utile accertamento, e, nella persistenza dell'incertezza, di astensione in via prudenziale e precauzionale dalla commissione di comportamenti, che vi era il rischio incorressero nella contestazione dello stesso reato, rischio tanto più percepito con chiarezza dall'agente quanto più specifico il patrimonio di conoscenze ed esperienze individuali di tipo professionale e relazionale. E' altresì sfuggito alla considerazione dei giudici europei – chiosa ancora il Collegio - che, sia la citata sentenza Cillari, sia quelle successive pur richiamate nella sentenza Contrada, avevano risolto negativamente il tema dell'autonomia concettuale del concorso eventuale nel delitto associativo mafioso, ma non perché le condotte di agevolazione o comunque di ausilio alla vita ed all'operato dell'organizzazione, compiute dell'estraneo, fossero ritenute integrare comportamenti leciti e quindi da mandare esenti da responsabilità, ma perché ricomprese nella nozione di partecipazione, penalmente rilevante e punibile e ravvisata in tutti i casi in cui il soggetto prestasse un contributo all'organizzazione. Può quindi condividersi quanto osservato nelle due sentenze Dell'Utri (Sez. 1, n. 44193 del 11/10/2016 e Sez. 5, n. 27308 del 22/01/2019) e da parte della dottrina, ossia che il contrasto composto dalle Sezioni Unite nel 1994 in ordine alla condotta che, al di fuori dello stabile inserimento nei ranghi dell'organizzazione criminosa, ne realizzasse il rafforzamento ed il mantenimento in vita, non presupponeva l'alternativa decisoria tra l'incriminazione a titolo di concorso esterno in associazione mafiosa ai sensi degli artt. 110 e 416-bis cod. pen. secondo la tesi che l'ammetteva e l'assoluzione da ogni forma di responsabilità penale per quella che la negava, poiché quest'ultima impostazione faceva rientrare il concorso nel fatto tipico di partecipazione e comportava la punizione del reo. In base agli arresti giurisprudenziali e dottrinali dell'epoca di commissione dei fatti ascritti al ricorrente G. le conseguenze giuridiche del comportamento, causalmente rilevante e volto al consolidamento ed al mantenimento in essere della organizzazione mafiosa, ipotizzabili anche con l'assistenza di consulenti giuristi da parte dell'agente nel periodo antecedente la sentenza Demitry, comportavano la relativa incriminazione quale delitto, potendo variare soltanto la definizione giuridica tra le due opzioni della partecipazione concorsuale piena da un lato e del concorso eventuale o del favoreggiamento personale, continuato ed aggravato ai sensi dell'art. 7 della legge n. 203/91, dall'altro. Contrariamente a quanto sostenuto dalle difese, non potevano residuare dubbi o insuperabili incertezze sul carattere illecito della condotta e sulla pertinente rilevanza penale, sicchè l'unico esito non prevedibile in quel contesto interpretativo della fattispecie era l'assoluzione, senza riflessi pregiudizievoli nemmeno sotto il profilo sanzionatorio, stante l'invariata punizione della partecipazione del concorrente necessario e dell'apporto del concorrente eventuale. Il che è tanto più vero nel caso del G., al quale, a differenza che per la posizione del Contrada, nel processo di cognizione erano state ascritte plurime condotte, poste in essere in un arco temporale protrattosi sino al febbraio 1994, ossia sino a pochi mesi prima dell'intervento delle Sezioni Unite con la sentenza Demitry, quando il dibattito tra gli interpreti aveva già ben delineato la fattispecie di concorso esterno poi ravvisata a relativo carico. Nella sentenza della Corte EDU non si rinviene nemmeno una posizione coerente con i propri precedenti pronunciamenti quanto all'incidenza del contrasto interpretativo, attinente al solo profilo della qualificazione giuridica del fatto illecito, sulla reale capacità di previsione dell'esito giudiziario da parte del cittadino. Si è osservato da parte della dottrina, e si condivide dalla Corte il rilievo, che le divergenti definizioni giuridiche date al contributo dell'<em>extraneus</em> ed il numero limitato di opzioni alternative, individuate in giurisprudenza, rendevano conoscibile in via anticipata al momento del compimento della condotta la possibile adozione di una delle soluzioni in discussione, conducenti in ogni caso all'incriminazione ed alla punizione, senza che la stessa potesse manifestarsi quale effetto a sorpresa, quale risposta giudiziaria postuma, improvvisa ed inedita, tale da sorprendere l'affidamento del soggetto agente come formatosi al momento del compimento dei fatti, in cui erano già presenti segnali discernibili, anticipatori del realizzarsi dell'incriminazione e della punizione. In altri termini, come sottolineato dal Procuratore Generale, la tesi accolta dalla sentenza Demitry nel 1994 si presenta, non come un mutamento normativo, ma quale mera evoluzione nell'interpretazione della disposizione di legge vigente, coerente con l'essenza della fattispecie tipizzata dagli artt. 110 e 416-bis cod. pen., possibile e conoscibile in anticipo, oltre che consentita dalla Convenzione nel significato attribuitole dalla Corte EDU, che ha sanzionato sino ad ora soltanto gli interventi decisori dei giudici nazionali dissonanti rispetto ai precedenti costanti orientamenti, sia per il loro contenuto radicalmente innovativo, sia per gli effetti peggiorativi per l'imputato, frutto di un'applicazione in via retroattiva, non consentita dall'art. 7 della Convenzione (Corte EDU, GC, Del Rio Prada, § 116; 24/05/2007, Dragotoniu e Militaru-Pidhorni c. Romania, § 44; GC, 20/10/2005, Vasiliauskas c. Lituania, § 181; 05/05/1993, Kokkinakis c. Grecia, § 52). Per quanto già esposto, chiosa ancora la Corte, nel caso del concorso esterno in associazione mafiosa la sentenza Demitry non ha operato in via esegetica una ricostruzione <em>in malam partem</em> della fattispecie di reato in riferimento a comportamenti tenuti in un periodo temporale in cui gli stessi erano considerati leciti ed esenti da pena, ma ha recepito una delle possibili soluzioni, già nota ed ampiamente illustrata nel relativo fondamento giuridico, quindi conoscibile e tale da avvertire il cittadino del rischio di punizione in sede penale. Convincenti conferme della correttezza della lettura qui proposta, non isolata nel panorama dei precedenti di legittimità, sono ricavabili dalla giurisprudenza già occupatasi di casi, in cui si era dedotto l'intervento di un c.d. <em>overruling</em> giurisprudenziale, ossia di un mutamento ermeneutico, ascrivibile alla Corte di cassazione e foriero di un'applicazione retroattiva sfavorevole della disposizione di legge, sia processuale, che sostanziale, denunciata dalle difese come trasgressiva degli artt. 2 cod. pen. 25 Cost. e 7 CEDU. Singole sezioni penali della Corte, chiamate a pronunciarsi in relazione a decisioni giudiziali, assunte dalle Sezioni Unite in un momento successivo alla violazione dei precetti che aveva dato luogo al processo, quindi giocoforza retroattive, in tema di imprescrittibilità della pena dell'ergastolo (Sez. U. n. 19756 del 24/09/2015, Trubia), di corretta interpretazione del delitto di cui all'art. 615-ter cod. pen. (Sez. U. n. 41210 del 18/05/2017, Savarese) e di inammissibilità dell'appello per genericità dei motivi (Sez. U. n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, Galtelli), hanno rilevato che l'<em>overruling</em> non consentito, perché non prevedibile per l'imputato, è ravvisabile nei soli casi di radicale innovazione della soluzione giurisprudenziale, inconciliabile con le precedenti decisioni, mentre va esclusa qualora la soluzione offerta si collochi nel solco di interventi già noti e risalenti, di cui costituisca uno sviluppo prefigurabile pur nel contrasto di opinioni, che di per sé rende l'esito conseguito comunque presente e possibile, anche se non accolto dall'indirizzo maggioritario. Altrettanto conformi i precedenti della giurisprudenza delle Sezioni Unite civili, le quali, seppur in riferimento al limitato campo applicativo del diritto processuale e non sostanziale, e con la precisazione della relativa valenza circoscritta agli interventi interpretativi <em>in malam partem</em>, hanno di recente ribadito che: «<em>Il </em>prospective overruling<em> è finalizzato a porre la parte al riparo dagli effetti processuali pregiudizievoli (nullità, decadenze, preclusioni, inammissibilità) di mutamenti imprevedibili della giurisprudenza di legittimità su norme regolatrici del processo sterilizzandoli, così consentendosi all'atto compiuto con modalità ed in forme ossequiose dell'orientamento giurisprudenziale successivamente ripudiato, ma dominante al momento del compimento dell'atto, di produrre ugualmente i suoi effetti</em>» (Sez. U. civ. n. 4135 del 12/02/2019; Sez. U. civ., n. 28575 del 08/11/2018; Sez. U. civ., n. 15144 del 11/07/2011). Al contrario, precisa il Collegio, si è negata tutela alla parte incorsa in sanzioni processuali nei casi di innovazioni esegetiche, postesi quale sviluppo non irragionevole di un pregresso indirizzo già affermato. In aggiunta ai superiori rilievi s'impone per le SSUU l'ulteriore considerazione delle difficoltà di individuare il momento in cui, a fronte di divergenti interpretazioni del dato normativo, affermatesi contestualmente, il grado di consolidamento del quadro ermeneutico in sede giudiziaria sia sufficiente per garantire la prefigurazione per il soggetto agente della punizione penale: nell'ambito dell'ordinamento interno, contrassegnato dal valore non vincolante del precedente, dall'efficacia soltanto persuasiva, per la profondità ed accuratezza dei pertinenti argomenti, dell'interpretazione giurisprudenziale, il cui avvento non soggiace di per sé al divieto di retroattività e non è assimilabile ad una nuova disposizione di legge, un eccessivo irrigidimento del criterio della prevedibilità dell'esito processuale in senso oggettivo finirebbe per precludere alla Corte di cassazione, cui questa attività compete istituzionalmente, di individuare una nuova soluzione esegetica sfavorevole all'imputato, ma rispettosa dell'essenza del reato tipizzato dalla legge, quindi perfettamente ragionevole e coerente con il testo normativo, ciò solo per il suo carattere innovativo, per l'assenza di casi precedenti già risolti, o perché preceduta da contrasti sulla corretta lettura del testo stesso. Tanto comporterebbe una limitazione dei poteri decisori del giudice di legittimità ed il vincolo del rispetto del precedente in chiara collisione col disposto dell'art. 101, comma 2, Cost., finendo per assegnare al principio di legalità un contenuto contrastante con il precetto costituzionale, che, come tale, non può essere recepito (Sez. 5, n. 42996 del 14/09/2016, Ciancio Sanfilippo). L'eventualità di un sindacato postumo sulla formazione del giudicato di condanna per verificare il rispetto dei diritti di garanzia dell'individuo, considerati nell'ottica del principio di legalità convenzionale, come inteso nella sentenza Contrada, costituisce altresì un freno al dibattito giuridico ed all'evoluzione del diritto vivente nella relativa accezione siccome fornita dalla giurisprudenza costituzionale (Corte cost., n. 276/1974), che postula la funzione di «<em>mediazione accertativa della giurisprudenza, nel senso che deve riconoscersi ai giudici un margine di discrezionalità, che comporta una componente limitatamente </em>'creativa'<em> della interpretazione, la quale, senza varcare la 'linea di rottura' col dato positivo ed evadere da questo, assume un ruolo centrale nella precisazione del contenuto e della latitudine applicativa della norma e assolve sostanzialmente una funzione integrativa della medesima</em>» (Sez. U. n. 18288 del 12/01/2010, Beschi). A convincere che nel sistema giuridico italiano non è possibile riscontrare una carenza strutturale, universalmente rintracciabile in tutti i giudicati di condanna per concorso esterno in associazione mafiosa per fatti antecedenti il 1994 e verificatasi anche nella situazione del G., è anche la considerazione che all'epoca l'unico profilo di incertezza in presenza di definizioni giuridiche del fatto di reato non uniformi, ma nessuna comportante l'esenzione da responsabilità e nemmeno variazioni di pena, era confinato a quale di esse avrebbe potuto essere recepita in sede giudiziaria, dubbio che però non eliminava la colpevolezza, perché evitabile attraverso consulenze giuridiche e la considerazione dell'evoluzione della riflessione giurisprudenziale sul tema e tale da imporre di astenersi dai comportamenti poi incriminati. Il concetto di prevedibilità delle conseguenze penali della condotta non è estraneo all'ordinamento nazionale, ma è veicolato attraverso la nozione di errore di diritto incolpevole, come elaborata dalla giurisprudenza costituzionale nella sentenza n. 364 del 1988, poi ripresa nella sentenza n. 185 del 1992, che ha dichiarato parzialmente illegittimo l'art. 5 cod. pen. «<em>nella parte in cui non esclude dall'inescusabilità dell'ignoranza della legge penale l'ignoranza inevitabile</em>». La decisione si basa sulla considerazione che il principio di legalità dei reati e delle pene, inteso quale riserva di legge statale di cui all'art. 25, comma 2, Cost., costituisce presidio a tutela della persona e della libertà individuale, che viene posta al riparo da interventi creativi delle fattispecie di illecito, compiuti dal giudice contro o al di là del dato testuale della norma e dall'imputazione di responsabilità per la violazione di precetti non conoscibili o inevitabilmente ignorati; esso pretende la determinatezza della norma penale ed impone al legislatore l'obbligo di formulare testi di legge precisi sotto il profilo semantico della chiarezza e della intelligibilità delle espressioni, in modo che il soggetto vi possa «<em>trovare, in ogni momento, cosa gli è lecito e cosa gli è vietato: ed a questo fine sono necessarie leggi precise, chiare, contenenti riconoscibili direttive di comportamento</em>». Se difettino tali requisiti, la indeterminatezza della fattispecie pregiudica la relativa conoscibilità e la prevedibilità delle conseguenze penali delle azioni, sicché vengono meno la relazione tra soggetto e legge penale, la personalità dell'illecito, la possibilità di muovere un rimprovero per l'infrazione commessa ed il fondamento legale della punizione per la mancanza del requisito della colpevolezza, costituzionalmente preteso dall'art. 27, comma 1, che «<em>compendia tutti i requisiti subiettivi minimi d'imputazione</em>». Rileva poi che, secondo il giudice delle leggi, per identificare l'errore inevitabile sul divieto normativo, occorre fare riferimento a criteri oggettivi, "<em>puri</em>", o "<em>misti</em>", ossia basati su obiettiva oscurità del testo di legge, su irrisolti e gravi contrasti interpretativi giurisprudenziali, su "<em>assicurazioni erronee</em>" delle competenti autorità pubbliche, ma anche sulle condizioni e conoscenze personali del singolo soggetto agente; dalla combinazione di tali parametri discende che l'ignoranza può essere inescusabile anche in presenza di un generalizzato errore sul divieto quando l'agente si rappresenti comunque la possibilità che il fatto sia antigiuridico, mentre è inevitabile se il dubbio sia oggettivamente irrisolvibile, oppure se l'assenza di dubbio dipenda da carente socializzazione della persona. Concetti non dissimili – chiarisce ancora il Collegio - sono stati espressi più di recente dalla Grande Camera della Corte EDU nella citata sentenza G.I.E.M. c. Italia, per la quale, come già affermato nel precedente arresto 20/01/2009, Sud Fondi s.r.l. ed altri c. Italia, l'art. 7 della Convenzione, pur senza menzionare testualmente «<em>il legame morale esistente tra l'elemento oggettivo del reato e la persona che ne è considerata l'autore</em>» (§ 241), lo presuppone. Infatti, la logica della punizione e la nozione di colpevolezza autorizzano a ritenere che l'art. 7 pretenda, per poter infliggere la pena, «<em>un legame di natura intellettuale (coscienza e volontà) che permetta di rilevare un elemento di responsabilità nella condotta dell'autore materiale del reato</em>», così riconoscendo la «<em>correlazione tra il grado di prevedibilità di una norma penale e il grado di responsabilità personale dell'autore del reato</em>» (§ 242). Può dunque concludersi che la Corte europea ha ricondotto al principio di legalità convenzionale quella nozione di prevedibilità che la giurisprudenza costituzionale italiana aveva già riconosciuto, pur se correlata al principio di colpevolezza, in termini altrettanto funzionali per la garanzia del cittadino, ma che non possono assumere rilievo per la soluzione del caso rimesso odiernamente alle Sezioni Unite: l'apprezzamento di un errore incolpevole dell'imputato, indotto dalla pretesa oscurità o incertezza del dato normativo e della relativa interpretazione, dovrebbe tradursi nella rivisitazione del giudizio ricostruttivo del fatto di reato e dell'atteggiamento soggettivo dell'autore, operazione preclusa dalla già avvenuta formazione del giudicato, quindi non conducibile nella fase esecutiva, tranne che non ricorrano i presupposti di attivazione della revisione speciale di cui all'art. 630 cod. proc. pen., che nella presente vicenda per la Corte e non ricorrono per quanto già esposto. A tale ostacolo, evidenziato anche nell'ordinanza di rimessione, si aggiunge l'ulteriore difficoltà di intendere l'errore incolpevole di diritto in base ai costanti insegnamenti della giurisprudenza della Corte. Invero, nelle applicazioni della nozione di prevedibilità, successive alla pronuncia della Corte costituzionale, è stata esclusa la colpevolezza quando l'errore di diritto sia dipeso da ignoranza inevitabile della legge penale, giustificata da una pacifica posizione giurisprudenziale che abbia indotto nell'agente la ragionevole conclusione della correttezza della propria condotta; per contro, a fronte di difformi orientamenti interpretativi accolti nelle pronunce giudiziali, si è esclusa la possibilità di invocare la condizione soggettiva di ignoranza inevitabile, poiché lo stato di incertezza impone al soggetto di astenersi dall'agire e di condurre qualsiasi utile accertamento per conseguire la corretta conoscenza della legislazione vigente in materia anche attraverso la mediazione applicativa operatane dalla giurisprudenza. Deve conclusivamente escludersi che dal giudicato della Corte europea nel caso Contrada sia possibile rintracciarvi contenuti che consentano di estrarvi, per espressa indicazione, oppure in base al complessivo percorso ermeneutico seguito, la individuazione di una fonte generale di violazione dei diritti individuali, garantiti dalla Convenzione. Con riferimento alla questione principale oggetto del ricorso deve dunque per le SSUU essere enunciato il seguente principio di diritto: «<em>I principi affermati dalla sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015, Contrada contro Italia, non si estendono nei confronti di coloro che, estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione quanto alla prevedibilità della condanna per il reato di concorso esterno in associazione a delinquere di tipo mafioso, in quanto la sentenza non è una sentenza pilota e non può considerarsi espressione di una giurisprudenza europea consolidata</em>». * * * Quel medesimo 3 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.10894 che rammenta <em>in incipit</em> come la normativa sugli stupefacenti, in particolare la disciplina sanzionatoria della fattispecie di cui all'art. 73 d.P.R. n. 309/1990, sia stata oggetto di plurimi interventi, del legislatore e della Corte Costituzionale che, da ultimo, con la sentenza n. 40 del 23 gennaio 2019, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 73, comma 1, d.P.R. 309/90 - nel testo ante legge n. 49/2006 dichiarata incostituzionale <em>in parte qua</em> - nella parte in cui prevede un minimo edittale di otto anziché sei anni di reclusione. La dichiarazione di incostituzionalità della norma, attinente il trattamento sanzionatorio, applicata dalla sentenza di condanna divenuta irrevocabile produce per la Corte i relativi effetti anche sul giudicato: il giudice dell'esecuzione, nel caso in cui la pena inflitta non sia stata interamente espiata, in applicazione del disposto di cui all'art. 30 legge n. 87/1953 ha l'obbligo di non applicare le norme dichiarate incostituzionali e, per converso, di procedere, attraverso la procedura del così detto incidente di esecuzione, alla rideterminazione della pena secondo la più favorevole normativa risultante dalla declaratoria di incostituzionalità così da rimuovere dall'universo giuridico tutti gli effetti pregiudizievoli derivanti da una sentenza penale di condanna fondata, sia pure in parte, sulla norma dichiarata incostituzionale salvo quelli irreversibili perché già compiuti e del tutto consumati. (Sez. Un., n. 18821 del 18.10.2013 dep. 2014, Ercolano; Sez. Un. 29.5.2014, Gatto). Coerentemente con gli esposti principi anche a seguito della pronuncia della sentenza n. 40/2019 della Corte costituzionale - che ha indicato come conforme ai principi costituzionali il minimo edittale della fattispecie incriminatrice prevista dall'art. 73 d.P.R. n. 309/90 riguardanti le droghe così dette pesanti di anni sei di reclusione anziché di anni otto - è divenuta necessaria la rideterminazione della pena inflitta, e non ancora interamente espiata, con sentenze, divenute irrevocabili, che avevano applicato la norma dichiarata incostituzionale. D'altra parte, la giurisprudenza di legittimità, occupandosi degli effetti prodotti dalla sentenza n. 32 del 2014 con cui la Corte costituzionale, dichiarando l'illegittimità costituzionale di alcune norme di legge, aveva modificato <em>in melius</em> il trattamento sanzionatorio dei reati concernenti le così dette droghe leggere, il cui minimo edittale da anni sei di reclusione era «<em>tornato</em>» ad anni due, ha affermato il principio generale della illegalità della pena commisurata sulla base di una cornice edittale incostituzionale, a prescindere dal fatto che la pena sia stata determinata in termini conformi alla cornice edittale costituzionale (Sez. Un. 26.2.2015, Marcon; Sez. Un. 26.2.2015, Jazouli; Sez. Un. 26.2.2015, Sebbar). La commisurazione della pena è, infatti, finalizzata ad individuare, nell'ambito che il legislatore ha rimesso alla discrezionalità del giudice, la pena giusta in relazione ai parametri di cui all'art. 133 cod. pen., condizione necessaria per assicurare il rispetto del principio della personalità della responsabilità penale. La più recente pronuncia costituzionale, pur lascando inalterato il massimo edittale (anni venti di reclusione), ha operato un intervento innovativo sul minimo edittale, che è stato ritenuto costituzionale in misura ridotta di quasi un terzo (sei anni invece di otto) ed in tal modo ha dichiarato la incostituzionalità di un parametro legale (il minimo edittale di anni otto di reclusione), individuandone un altro (anni sei di reclusione), diverso e più favorevole, conforme ai principi costituzionali. Tanto basta alla Corte per rendere necessaria la rideterminazione <em>in melíus</em> della pena inflitta, da parte del giudice dell'esecuzione, tutte le volte in cui il giudice della cognizione ha commisurato la pena in misura prossima a quel minimo edittale, poi dichiarato incostituzionale. In tali casi è evidente che il giudizio compiuto in sede di cognizione, parametrato su un dato normativo incostituzionale, non assicura la necessaria proporzione tra gravità del fatto e profilo soggettivo del reo, da una parte, e misura della pena, dall'altra. Quanto alla natura del giudizio riservato al giudice dell'esecuzione chiamato alla rideterminazione del trattamento sanzionatorio per adeguarlo alla cornice editale risultante dalla pronuncia di incostituzionalità, va precisato per il Collegio che non si tratta di una operazione di mera trasposizione matematica di quel giudizio (formulato in sede di cognizione) entro la nuova cornice edittale, bensì di un nuovo giudizio commisurativo, da operare alla stregua dei principi di cui agli artt. 132 e 133 cod. pen. e con i limiti che, di seguito, si indicano. Innanzitutto, la discrezionalità del giudice dell'esecuzione opera, laddove il giudizio formulato nella cognizione era stata parannetrato con riferimento al minimo edittale incostituzionale e non, invece, al massimo edittale, nell'ambito del giudizio di riduzione della pena, e dunque non può essere inteso come autonoma commisurazione della pena. Inoltre, il giudice dell'esecuzione deve tener conto delle componenti, attinenti al trattamento sanzionatorio, già riconosciute in sede di cognizione, e anche ove frutto, nell'<em>an</em>, di una valutazione discrezionale, come è il caso delle attenuanti generiche e del giudizio di bilanciamento tra circostanze. Con riferimento, infine, al <em>quantum</em> di pena, anche nei diversi passaggi della determinazione del trattamento sanzionatorio - individuazione della pena base, applicazione delle circostanze, aumento per la continuazione, eventuale riduzione ai sensi dell'art. 444 ovvero 442 cod. proc. pen. - il giudice dell'esecuzione è vincolato quanto al risultato finale, che deve pervenire ad una pena più mite. Il giudizio, demandato al giudice dell'esecuzione concerne, in conclusione, la complessiva commisurazione della pena, in tutte le componenti del trattamento sanzionatorio. Il disvalore del fatto, espresso dal legislatore nella sanzione legale e, in particolare, nel minimo edittale, è il parametro che vincola la discrezionalità del giudice nella commisurazione della pena, e quindi nel complesso di valutazioni che concorre a determinare il trattamento sanzionatorio. Dunque, anche nel giudizio sul <em>quantum</em> della diminuzione di pena per le attenuanti generiche la valutazione discrezionale del giudice non può prescindere dagli indicatori astratti (il minimo e il massimo edittale) del disvalore del fatto, con la conseguenza che se cambiano tali indicatori mutano i parametri entro i quali la valutazione in concreto deve essere effettuata. Al giudice dell'esecuzione, anche nella particolare vicenda connessa alla incostituzionalità della cornice sanzionatoria legale, è dunque per la Corte attribuito il potere dovere di compiere una nuova valutazione in ordine alla pena giusta, esercitando, rispetto a tutti i giudizi che concorrono a determinare il trattamento sanzionatorio, il potere discrezionale di cui all'art. 132 cod. pen. Il potere discrezionale del giudice dell'esecuzione, chiamato a rideterminare una pena inflitta sulla base di norma dichiarata incostituzionale, prosegue la Corte, è più ampio di quello proprio del giudice che provvede ai sensi dell'art. 671 cod. proc. pen. In quella sede il giudice dell'esecuzione è chiamato, una volta riconosciuta la continuazione fra reati già giudicati, a determinare la pena del reato continuato, nel rispetto di alcuni limiti connessi al giudizio già formulato in sede di cognizione, di tal che si è specificato che il limite costituito dalle pene inflitte in sede di cognizione, di cui all'art. 671, comma 2 cod. proc. pen., comporta anche che non si possa «<em>... quantificare gli aumenti di pena per í reati-satellite in misura superiore a quelli fissati dal giudice della cognizione con la sentenza irrevocabile di condanna</em>» (Sez. Un., 24/11/2016, Nocerino, Rv. 268735). Nella diversa fattispecie processuale di cui trattasi, caratterizzata dalla necessità di rinnovare la commisurazione della pena sulla base di normativa conforme alla Costituzione, il giudice dell'esecuzione, nel rispetto delle componenti (circostanze, continuazione, diminuenti processuali) del trattamento sanzionatorio riconosciute in sede di cognizione, esercita per la Corte il potere discrezionale di cui all'art. 132 cod. pen. nella stessa ampiezza riconosciuta al giudice della cognizione. Il limite costituito dalla necessità che il risultato del rinnovato giudizio commisurativo sia in <em>favor rei</em> deriva dalla <em>ratio</em> del particolare istituto processuale, finalizzato ad eliminare gli effetti, sfavorevoli per il condannato, della applicazione di una norma dichiarata incostituzionale. Risulta quindi più appropriato richiamare l'orientamento giurisprudenziale che ha chiarito che, nel giudizio di cognizione, «<em>non viola il divieto di </em>reformatio in peius<em> previsto dall'art. 597 cod. proc. pen. il giudice dell'impugnazione che, quando muta la struttura del reato continuato (come avviene se la </em>regiudicanda<em> satellite diventa quella più grave o cambia la qualificazione giuridica di quest'ultima), apporta per uno dei fatti unificati dall'identità del disegno criminoso un aumento maggiore rispetto a quello ritenuto dal primo giudice, pur non irrogando una pena complessivamente maggiore</em>" (Sez. Un., 27/03/2014, C., Rv. 258653). Analogamente, il giudice dell'esecuzione, nel particolare giudizio conseguente alla declaratoria di incostituzionalità del minimo edittale, deve compiere una rinnovata valutazione di quell'elemento (la determinazione della così detta pena base) e di quelli ulteriori, logicamente connessi al primo nella formulazione del giudizio commisurativo. Nel caso in cui la illegalità della pena riguardi, anche ovvero esclusivamente, un aumento di pena nella continuazione, essendo la fattispecie in tema di stupefacenti un così detto reato satellite, si deve procedere a una rivalutazione del complessivo trattamento sanzionatorio, alla luce della più favorevole cornice edittale determinata dalla pronuncia costituzionale. Infatti, anche nella determinazione in concreto del <em>quantum</em> di aumento da apportare per i singoli reati satellite, deve comunque procedersi a una preliminare valutazione di gravità, ai sensi dell'art. 133 cod. pen., in rapporto al parametro sanzionatorio legale. Dunque, anche tale porzione di pena, ove commisurata in relazione ad una cornice edittale incostituzionale, deve essere rideterminata <em>in melius</em> (Sez. Un.26.2.2015, Sebbar, Rv. 263717). In conclusione, per la Corte il giudice dell'esecuzione, anche nel caso in cui, a seguito del mancato raggiungimento dell'accordo tra le parti, la rideterminazione abbia ad oggetto una pena inflitta con sentenza irrevocabile di patteggiamento, non può esaurire il proprio compito delibativo confermando la pena già inflitta, perché rientrante nell'ambito sia della forbice punitiva della norma precedente sia di quella attualmente vigente, ma deve, al contrario, procedere ad una vera e propria rinnovazione in concreto della valutazione sanzionatoria secondo i criteri di cui agli artt. 132 e 133 cod. con necessaria riduzione della pena, anche se non in misura predeterminata. * * * Il 9 aprile esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.11770 che – ancora una volta con riguardo al noto caso Contrada – ribadisce quali sono i limiti per poter accedere alla revisione “<em>europea</em>” (con effetti retroattivi <em>in mitius</em>) di un processo omologo. La Corte premette come i principi desumibili dalla sentenza n. 113 del 2011 della Corte costituzionale in tema di revisione europea siano applicabili solo in presenza di talune condizioni, ribadite di recente dalle Sezioni unite: occorre dunque che la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo implichi una riapertura del giudizio, al fine di emendare la riscontrata lesione di una garanzia convenzionale, e che l'accertamento della lesione sia avvenuto nei confronti del soggetto che propone il giudizio di revisione ovvero con una sentenza «<em>pilota</em>», secondo il meccanismo contemplato dall'art. 61 del regolamento CEDU, e dunque con sentenza che rilevi una violazione strutturale dell'ordinamento statuale e indichi le misure riparatorie da adottare a livello generale, o comunque con sentenza che assuma portata e rilievo generali, in quanto accerti una violazione di norme convenzionali suscettibile di produrre effetti pregiudizievoli nei confronti di soggetti diversi dal ricorrente. Nel caso di specie è stata invocata la nota sentenza emessa in data 14 aprile 2015 dalla Corte di Strasburgo nel caso Contrada, con la quale è stata ravvisata una violazione della garanzia convenzionale di cui all'art. 7 C.E.D.U., in relazione a condanna pronunciata per concorso esterno in associazione mafiosa, per fatti anteriori al 1994, essendosi ritenuto che non ricorresse la prevedibilità della sanzione, quando l'ipotesi del concorso esterno era ancora oggetto di interpretazioni giurisprudenziali divergenti, prima della sentenza <em>Demitry</em> delle Sezioni unite, risalente al 1994. Il ricorrente ha prospettato in particolare la connotazione strutturale della violazione riscontrata e la relativa portata generale, tale da involgere il principio di legalità e da proiettarsi oltre i limiti soggettivi del giudizio dinanzi alla Corte di Strasburgo. Ma proprio su tale tema l'arresto delle Sezioni Unite è di segno contrario. E' stato invero rilevato – prosegue il Collegio - che la sentenza Contrada, evidentemente riferita a soggetto diverso dall'odierno ricorrente, non ha neppure carattere di sentenza «<em>pilota</em>», non presentandone i requisiti formali e sostanziali, e comunque non è inquadrabile tra quelle che abbiano rilevanza e portata generale in rapporto all'individuazione di un problema di tipo sistemico, ferma restando, alla stregua dell'insegnamento della Corte costituzionale (Corte cost. 49 del 2015), la necessità che ai fini della configurabilità di uno strutturale obbligo conformativo possa parlarsi di sentenza che tende ad assumere un valore generale e di principio. Le Sezioni unite hanno a tal fine rilevato che la sentenza della Corte di Strasburgo si è sviluppata attraverso l'esame del caso specifico e ha analizzato l'imputazione elevata a carico dell'imputato, la linea di difesa, le risposte ottenute e i relativi percorsi giustificativi sul tema della definizione giuridica del fatto e della pertinente prevedibilità, pronunciandosi in termini individuali, senza specificare se la violazione riguardasse il primo o il secondo comma dell'art. 7 C.E.D.U. e se dunque riguardasse l'accertamento in sé della penale responsabilità o il titolo e la connessa punizione, come peraltro avrebbe potuto dedursi da taluni passaggi. Relativamente alla verifica della portata generale dell'accertamento, le Sezioni unite l'hanno escluso, osservando che il giudizio si è sviluppato sia sul piano oggettivo sia su quello soggettivo dell'imprevedibilità, considerando l'andamento del processo di cognizione, delle difese e dei contenuti motivazionali: è stato in particolare sottolineato che è assente l'indicazione di misure ripristinatorie di carattere generale, universali e impersonali, destinate ad esplicare effetti oltre i limiti di quel giudizio. Inoltre è stato rimarcato come la sentenza non esprima un diritto consolidato, riconducibile ad un filone interpretativo uniforme, in assenza di pronunce analoghe sul tema, riguardante il concorso esterno in associazione mafiosa prima del 1994, e in assenza di una univoca e costante impostazione applicativa e interpretativa dei concetti di accessibilità e prevedibilità del diritto penale, quale possibilità per il cittadino di prendere anticipata cognizione del comando normativo e delle conseguenze punitive. Si è al riguardo rilevato – chiosa ancora il Collegio - come sia stata spesso accolta dalla Corte di Strasburgo la concezione soggettiva di prevedibilità e altre volte sia stato dato rilievo al profilo formale del contenuto precettivo della legge e dell'interpretazione giudiziale, talvolta essendosi fatto riferimento all'evoluzione della considerazione sociale del comportamento come antigiuridico. E si è dunque osservato che l'inedito rigore della sentenza Contrada si contraddistingue per il metro di apprezzamento della prevedibilità e per il fatto dì aver superato i rilievi incentrati sul criterio soggettivo o quello della considerazione sociale, risultando non in sintonia con quanto osservato in circostanze diverse (secondo le pronunce all'uopo richiamate dalle Sezioni unite). Di qui il riconoscimento del carattere atipico della pronuncia della Corte di Strasburgo, in un contesto in cui risulta di volta in volta mutevole il criterio seguito, ciò che vieppiù impedisce, secondo le Sezioni unite, di trarne un principio di diritto consolidato, suscettibile di universale applicazione <em>erga alios</em>. Peraltro – prosegue il Collegio - le Sezioni unite hanno posto in luce anche le molteplici criticità della sentenza, che non consentono di considerare il concetto di prevedibilità esportabile nei confronti di altri soggetti, pur condannati per concorso esterno risalente ad epoca analoga a quella del Contrada e comunque prima del chiarimento introdotto dalla sentenza <em>Demitry</em> delle Sezioni unite. In particolare è stato posto in evidenza in rapporto all'analisi contenuta nella sentenza Contrada che non si sarebbe potuto parlare di creazione giurisprudenziale e che peraltro le ragioni di contrasto ravvisabili si sarebbero potute appuntare sulla qualificazione del fatto, non sul discrimine tra la relativa liceità e illiceità, non essendo preclusa per il soggetto agente la possibilità di avvedersi della possibile punizione di condotte agevolatrici o di rafforzamento di una formazione mafiosa, fermo restando che il dibattito sul tema e la persistenza dell'incertezza avrebbe comunque imposto l'astensione da comportamenti che potevano dare luogo alla contestazione del reato anche in relazione al patrimonio di conoscenze del soggetto. Ed anche con riguardo al tema della qualificazione del fatto le Sezioni Unite hanno rilevato come la sentenza Contrada non risulti in linea con precedenti affermazioni della Corte di Strasburgo, e hanno inoltre richiamato gli insegnamenti della giurisprudenza di legittimità in materia di <em>overruling</em> giurisprudenziale, ferma restando comunque la difficoltà di individuare il momento dell'insorgenza di un quadro giurisprudenziale idoneo a garantire la prefigurazione in capo al soggetto agente della punizione penale. D'altro canto è stato posto in evidenza che il concetto di prevedibilità non è comunque estraneo all'ordinamento nazionale, anche alla luce della verifica dell'ignoranza inevitabile della legge penale, come desumibile dagli insegnamenti della Corte costituzionale. Anche sotto tale profilo dunque è stato escluso che sia stato individuato un <em>deficit</em> strutturale, rintracciabile in tutti i giudicati di condanna intervenuti per fatti coevi a quello attribuito al Contrada. In conclusione le Sezioni unite hanno ritenuto che la sentenza Contrada contro Italia del 14 aprile 2015 della Corte di Strasburgo per le relative connotazioni intrinseche e per il fatto di non costituire espressione di un orientamento consolidato, non estende i propri effetti nei confronti di soggetti estranei a quel giudizio, dovendosi escludere il carattere vincolante dell'interpretazione fornita del principio di legalità nei relativi aspetti qualitativi di accessibilità e prevedibilità. In questa sede non possono per il Collegio che farsi proprie tali articolate considerazioni, estese a tutti i profili sottoposti all'attenzione delle Sezioni unite dall'ordinanza di rimessione, che ricomprendono anche i temi dedotti con i due motivi di ricorso, che non individuano peraltro argomenti diversi e ulteriori, meritevoli di uno specifico vaglio. Con riguardo poi alla prospettata questione di legittimità costituzionale, deve rimarcarsi per la Corte come secondo il richiamato orientamento della Corte costituzionale (sentenza n. 49 del 2015, ampiamente valorizzata dalle Sezioni unite) la prospettazione di uno scostamento della norma interna non possa discendere che da un orientamento realmente espressivo dell'interpretazione data dalla Corte di Strasburgo alla norma convenzionale, costituente norma interposta rispetto al parametro di costituzionalità riveniente dall'art. 117 Cost., che è anche, innanzi tutto, alla base della verifica della possibilità di un'interpretazione conforme. Sta di fatto che proprio alla luce di quanto rilevato dalle Sezioni unite nella sentenza ampiamente richiamata, deve escludersi che la sentenza Contrada possa dirsi espressione di un siffatto consolidato orientamento, alla cui stregua possa valutarsi la conformità della norma interna al parametro di costituzionalità fornito dalla norma convenzionale. E peraltro deve ribadirsi quanto osservato anche dalle Sezioni Unite in merito al fatto che l'incidente di costituzionalità difetta di rilevanza, dovendosi escludere che la sentenza Contrada possa proiettare effetti oltre i limiti di quel giudizio e che possano individuarsi specifici profili di illegittimità costituzionale nel giudicato di condanna nei confronti del ricorrente, in relazione all'art. 7 C.E.D.U. Non conduce a diverse conclusioni sulle stesse basi – conclude il Collegio - il riferimento al parametro offerto dall'art. 3 Cost. in quanto non ricorrono elementi che consentano di argomentare in ordine alla ravvisabilità di un differente trattamento di situazioni analoghe, avuto riguardo al rilievo specifico attribuibile alla sentenza Contrada. * * * Il 26 giugno esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 19371 in tema di rideterminazione della pena detentiva per spaccio di droghe c.d. “pesanti” a seguito della sentenza della Corte Costituzionale che era intervenuta sulla cornice edittale. Richiamando precedenti orientamenti in materia, afferma la Corte che quando, successivamente alla pronuncia di una sentenza irrevocabile di condanna, interviene la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale diversa da quella incriminatrice, incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, e quest'ultimo non sia stato interamente eseguito, il giudice dell'esecuzione deve rideterminare la pena in favore del condannato, anche se il suo provvedimento "correttivo" non abbia contenuto predeterminato, potendo egli avvalersi di penetranti poteri di accertamento e di valutazione, fermi restando i limiti fissati dalla pronuncia di cognizione, in applicazione di norme diverse da quelle dichiarate incostituzionali. L'intervento in sede esecutiva ai fini di siffatta rideternninazione presuppone la preliminare verifica della sussistenza di un interesse, concreto ed attuale, che ricorre non solo quando la pena non sia stata ancora interamente espiata, ma anche ove essa possa essere imputata alla condanna per altro titolo, secondo i principi dettati dall'art. 657 cod. proc. pen., sempre che la detenzione in eccesso sia sofferta dopo la consumazione del reato in relazione al quale si chiede di applicare la fungibilità. Alla stregua di quanto ancora precisato dalle Sezioni Unite nelle pronunce rese in materia di "correzione" del trattamento sanzionatorio a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, l'intervento incidente sull'entità della pena, al fine di renderne l'esecuzione in linea con i parametri legali sanciti dalla dichiarazione di illegittimità, si impone anche quando l'entità della pena in concreto fissata sia collocabile all'interno del range edittale corrispondente a quello costituzionale. Anche in tal caso, infatti, la "misurazione della responsabilità" è stata operata attraverso un processo valutativo ancorato, sotto il profilo della quantificazione in concreto, a punti di riferimento, costituiti dalla forbice edittale avuta allora presente in sede di cognizione, costituzionalmente non accettabili, di modo che la commisurazione finale è rimasta sempre patologicamente alterata. Inoltre, è stato esplicitamente escluso che per lo stesso fatto, inquadrato nei nuovi limiti edittali scaturiti dalla dichiarazione di incostituzionalità, il giudice possa operare la rideternninazione partendo dalla stessa pena base individuata in origine. Nella delineata prospettiva, si è già affermato come, nel caso delle "droghe pesanti" e tenuto conto della particolare incidenza della dichiarazione di illegittimità costituzionale solo sul minimo del trattamento sanzionatorio, il vulnus evidenziato potrà essere escluso unicamente quando la pena originariamente irrogata si sia attestata nel massimo o in misura prossima al massimo, ovvero in misura notevolmente superiore al minimo e prossima al valore medio rispetto alla cornice edittale previgente, giacché, in siffatte ipotesi, tenuto conto del mantenimento inalterato del massimo edittale, non sussiste quella condizione di sproporzione e di inadeguatezza della pena, rilevabile nei casi puniti con la reclusione nel minimo edittale pari ad otto anni, che ne impone un adeguamento al nuovo limite. In altri termini, al di fuori di tali ipotesi, in sede di esecuzione, se da un lato non ci si può esimere dall'apportare una "correzione" sanzionatoria in melius, dall'altro va escluso che debbano operare rigidi criteri di riduzione di tipo matematico-proporzionale, ovvero automatismi che replichino pedissequamente le opzioni di cognizione. Invero, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, al giudice dell'esecuzione va riconosciuto un ampio potere discrezionale ai fini della rideterminazione di cui trattasi, esercitabile secondo i parametri fissati dagli artt. 132 e 133 cod. pen., tenuto conto del contenuto del giudicato, che segna i contorni oggettivi e soggettivi del fatto e del loro disvalore, secondo gli accertamenti intervenuti in sede di cognizione. In tali casi, viene a definirsi, nel procedimento di esecuzione, un vero e proprio incidente di cognizione, circoscritto alla rideterminazione della pena, che il giudice dovrà discrezionalmente commisurare, alla luce dei parametri normativi evocati e secondo i dati cristallizzati nella sentenza irrevocabile, esplicitando nella motivazione gli indicatori valutati in riferimento al nuovo perimetro sanzionatorio. E dell'esercizio di siffatto potere discrezionale il giudice dovrà dar conto in motivazione, articolando un percorso giustificativo tanto più persuasivo quanto più si discosti dal minimo edittale e dai parametri sanzionatori vigenti all'epoca in cui si è formato l'accordo sulla pena, sì da esplicitare il rinnovato giudizio di adeguatezza e proporzionalità della sanzione penale entro i nuovi limiti definiti dall'intervento della Consulta. In altri termini, al giudice dell'esecuzione che, restituito nella piena cognizione sanzionatoria, operi un intervento correttivo in senso conservativo dell'originaria sanzione irrogata, è richiesta una motivazione rafforzata, che espliciti compiutamente in virtù di quali parametri, evincibili dalla sentenza irrevocabile, la pena originariamente determinata risulti ancora conforme al disvalore del fatto e funzionale al reinserimento sociale del condannato, pur in un quadro legale ridefinito in melius. <strong> </strong> <strong>Questioni intriganti</strong> <strong>Cosa occorre rammentare del giudicato sfavorevole in rapporto alle c.d. sopravvenienze <em>in mitius</em>?</strong> <ol> <li>occorre muovere dal generale canone di intangibilità (di massima) del giudicato penale, ivi compreso quello sfavorevole e, dunque, di condanna;</li> <li>sono la “<em>certezza del diritto</em>” - e la stabilità dei rapporti di giuridici che ne discende - i principi dei quali il canone di intangibilità del giudicato costituisce il più immediato e diretto corollario;</li> <li>la sentenza in giudicato si assume tradizionalmente “<em>concretizzare</em>” l’astratto ordinamento, compendiando l’immutabile “<em>norma del caso concreto</em>”;</li> <li>il concetto stesso di “<em>giudicato</em>” attraversa tuttavia negli ultimi anni una fase di progressiva flessibilizzazione e, a tratti, di vera e propria erosione, e ciò anche ad opera della giurisprudenza euro-unitaria (Corte di Giustizia UE) e convenzionale (Corte EDU); ciò al fine di garantire un maggior presidio a valori cardine del sistema giuridico – anche a livello costituzionale interno – quali la libertà personale, la legalità e proporzionalità della pena ed il relativo, tendenziale finalismo rieducativo;</li> <li>l’unica affermazione giuridicamente certa è la possibilità: e.1) per il legislatore, attraverso l’<em>abolitio criminis</em>, di incidere su un giudicato sfavorevole, ai sensi e per gli effetti dell’art.2, comma 2, c.p. e 673 c.p.p.; e.2) per la Corte costituzionale, del pari, di incidervi giusta declaratoria di incostituzionalità della norma incriminatrice che ha fondato la condanna, ai sensi dell’art.30, comma 4, della legge 87.53; e.3) per il giudice penale, di procedere <em>in executivis</em> all’applicazione della disciplina del concorso formale e del reato continuato, incidendo ancora una volta su un previo giudicato in senso favorevole al reo (stante la valenza <em>in bonam partem</em> dei ridetti istituti), ai sensi dell’art.671, comma 1, c.p.p.;</li> <li>più dubbio, in linea di principio, che un simile effetto possa sortire da una presa di posizione della giurisprudenza, con particolare riguardo alle SSUU della Cassazione.</li> </ol> <strong>Cosa occorre rammentare, in particolare, dei rapporti tra giudicato sfavorevole e. sopravvenienze <em>in mitius</em> legate alla Corte costituzionale?</strong> <ol> <li>il giudicato sfavorevole (tipicamente, di condanna) poggia su determinate norme interne;</li> <li>tali norme possono, in una fase successiva all’intervenuto giudicato, essere dichiarate incostituzionali dalla Corte costituzionale per acclarato conflitto con la Carta;</li> <li>ciò accade ad esempio quando una sentenza di condanna ormai passata in giudicato abbia applicato <em>ex ante</em> una circostanza aggravante basata su norma dichiarata <em>ex post</em> – e, dunque, dopo il passaggio in giudicato della pertinente sentenza - costituzionalmente illegittima dal Giudice delle Leggi;</li> <li>in queste fattispecie: d.1) parte della giurisprudenza assume – <em>pro reo</em> - di poter ricorrere all’art.30 della legge 87.53 onde consentire al giudice dell’esecuzione di superare il giudicato “<em>in mitius</em>”; d.2) altra parte della giurisprudenza, all’opposto, assume intangibile il giudicato, non potendosi ricorrere all’art.673 c.p.p. - che ha riguardo alla sola <em>abolitio criminis</em>, e dunque ai soli casi in cui la declaratoria di incostituzionalità abbia travolto una intera fattispecie incriminatrice, e non anche disposizioni che ne aggravano il trattamento sanzionatorio – né potendo invocare l’art.30 della legge 87.53, da assumersi ormai abrogato dal successivo art.673 c.p.p. ridetto;</li> <li>altra fattispecie rilevante è quella in cui la sentenza sfavorevole ormai in giudicato non abbia fatto applicazione di determinate circostanze attenuanti in forza di una norma di legge che ne vietava la comparazione con talune circostanze aggravanti (il caso si è posto in particolare con riguardo alla c.d. recidiva reiterata ex art.99, comma 4, c.p.), norma successivamente dichiarata incostituzionale; qui le SSUU nel 2014 si sono espresse nel senso di ammettere, in sede esecutiva (<em>in executivis</em>), la rideterminazione della pena “<em>sopravvenuta incostituzionale</em>”, anche a fronte della riconosciuta “<em>patologia</em>” di una norma nata incostituzionale rispetto alla “<em>fisiologia</em>” di una norma nata conforme a Costituzione e abrogata (o modificata) <em>ex post</em> sulla base di scelte di opportunità del Legislatore.</li> </ol> <strong> </strong> <strong>Cosa occorre rammentare, in particolare, dei rapporti tra giudicato sfavorevole e. sopravvenienze <em>in mitius</em> legate alla Corte di Giustizia UE?</strong> <ol> <li>il giudicato sfavorevole (tipicamente, di condanna) poggia su determinate norme incriminatrici interne;</li> <li>tali norme si scoprono essere – dopo il passaggio in giudicato della sentenza sfavorevole (segnatamente, di condanna) – in conflitto con l’ordinamento eurounitario, onde avrebbero dovuto essere disapplicate;</li> <li>la questione è quella di vedere se in simili ipotesi è possibile incidere sul giudicato in senso favorevole al condannato, atteso come l’art.673 c.p.p. fa riferimento, <em>in executivis</em>, alla sola <em>abolitio criminis</em> e alla dichiarazione di incostituzionalità della fattispecie incriminatrice, senza far menzione dell’eventuale frizione della stessa con l’ordinamento eurounitario;</li> <li>si è posto il problema con riguardo - in particolare - alla fattispecie, penalmente sanzionata, del Questore che ordini l’allontanamento dello straniero dal territorio nazionale senza che questi vi ottemperi, assunta in contrasto con la c.d. Direttiva rimpatri UE del 2008;</li> <li>stando alla pertinente presa di posizione della giurisprudenza, in simili fattispecie è applicabile in via di interpretazione estensiva l’art.673 c.p.p., con possibilità di incidere sul giudicato sfavorevole muovendo da quella che viene vista come una sostanziale “<em>abolitio criminis</em>” di ascendenza sovranazionale.</li> </ol> <strong> </strong> <strong> </strong> <strong>Cosa occorre rammentare, in particolare, dei rapporti tra giudicato sfavorevole e. sopravvenienze <em>in mitius</em> legate alla CEDU?</strong> <ol> <li>il giudicato sfavorevole (tipicamente, di condanna) poggia su determinate norme interne;</li> <li>tali norme possono, in una fase successiva all’intervenuto giudicato, essere dichiarate incostituzionali dalla Corte costituzionale perché, più in specie, in contrasto con la CEDU;</li> <li>in questi casi si pone il delicato problema della sorte del giudicato interno, che può essere superato attraverso, ad esempio, una rimodulazione <em>in melius</em> del trattamento sanzionatorio previsto dalla condanna giusta intervento del giudice “<em>in executivis</em>”, e dunque del giudice dell’esecuzione penale;</li> <li>può anche succedere che, a fronte di un giudicato interno sfavorevole (di condanna), sopravvenga una sentenza della Corte EDU, sollecitata dal condannato, che accerti <em>ex post</em> la violazione della CEDU;</li> <li>esemplificativo da questo punto di vista il caso “<em>Contrada</em>”, che ha visto lo Stato italiano obbligato a “<em>superare</em>” un proprio giudicato di condanna attivando un intervento <em>in melius</em> e sempre in sede di esecuzione penale;</li> <li>qui il ricorrente è stata giudicato colpevole di “<em>concorso esterno in associazione mafiosa</em>” – giusta combinato disposto degli articoli 110 e 416 bis c.p. – pur avendo commesso il fatto in un’epoca nella quale tale fattispecie di reato non poteva per la Corte EDU essere assunta “<em>sufficientemente chiara e prevedibile</em>” con conseguente, acclarata violazione dell’art.7 della CEDU;</li> <li>anche in questo caso, la via che in Italia è stata ritenuta migliore per poter superare il giudicato sfavorevole attraverso un intervento “<em>in melius</em>” è stata appunto quella di procedere “<em>in executivis</em>”, e dunque giusta intervento del competente giudice dell’esecuzione;</li> <li>il caso Contrada ha avuto peraltro riguardo ad una violazione dell’art.7 della CEDU e, dunque, al principio di diritto penale sostanziale “<em>nulla poena sine lege</em>”, a forte connotazione sostanziale (assai più che processuale); si è posto dunque il problema di applicare il principio del superamento del giudicato sfavorevole in fattispecie omologhe a quelle del caso Contrada ridetto (concorso esterno in associazione mafiosa ancora “<em>imprevedibile</em>”), laddove il condannato abbia tuttavia omesso di adire la Corte EDU;</li> <li>le SSUU della Cassazione, nel 2020, hanno tuttavia escluso la percorribilità di tale via, assumendo il caso Contrada non costituire un c.d. “<em>caso pilota</em>”, con <em>decisum</em> pertanto inestensibile ad altri casi omologhi in difetto di una omologa sentenza della Corte EDU.</li> </ol> <strong>Cosa occorre rammentare, in particolare, dei rapporti tra giudicato sfavorevole e sopravvenienze <em>in mitius</em> legate a mutamenti giurisprudenziali (c.d. <em>overruling</em>) ?</strong> <ol> <li>quando si parla di principio di retroattività favorevole, o “<em>in mitius</em>”, rispetto ad una pronuncia sfavorevole ormai in giudicato, ci si riferisce in prima battuta a quanto previsto dall’art.2, comma 2, c.p. (c.d. <em>abolitio criminis</em>), e dunque al sopraggiungere di una “<em>norma</em>” più favorevole, o al più di un provvedimento della Corte costituzionale (del pari ad effetti “<em>normativi</em>”);</li> <li>una questione che si è posta riguarda la fattispecie in cui la norma di riferimento resta la medesima, ma ne cambia – in senso più favorevole al reo condannato con sentenza ormai passata in giudicato – l’interpretazione datane dalla giurisprudenza, massime se si tratti di autorevole giurisprudenza delle SSUU della Cassazione;</li> <li>il problema si pone soprattutto quando una fattispecie astratta (disposizione incriminatrice: ad esempio, l’omessa esibizione di un documento di identità o del permesso di soggiorno ex art.6, comma 3, del decreto legislativo 286.98 in tema di immigrazione) - che la sentenza di condanna ormai in giudicato ha riferito a quanto concretamente commesso dal soggetto agente - diviene in seguito non riferibile al medesimo fatto concreto (nell’esempio citato, perché commesso da uno straniero “<em>irregolare</em>”) sulla scorta di una novella interpretazione delle SSUU della Cassazione e, dunque, per via pretoria (senza intervento del Legislatore o della Corte costituzionale); in questa ipotesi, la questione è quella di capire se possa essere invocato l’art.2, comma 2, c.p. innanzi al giudice dell’esecuzione penale, al fine di ottenerne la revoca del giudicato ai sensi dell’art.673 c.p.p.;</li> <li>ad una presa di posizione in senso negativo da parte della della Corte EDU e della Corte costituzionale risalenti, rispettivamente, al 2007e al 2012, ha fatto seguito una importante sentenza della SSUU del 2016 che ha invece sottolineato come occorra verificare di volta in volta se si sia in presenza di una vera e propria “<em>overruling</em>” pretoria o, piuttosto, di una più autentica <em>abolitio criminis</em> (affiorata dalla autorevole interpretazione che delle norme coinvolte dà la giurisprudenza), nel primo caso palesandosi inammissibili interventi <em>ex post</em> (ed <em>in melius)</em> sul giudicato che, invece, sono nel secondo caso letteralmente imposti al giudice dall’art.2, comma 2, c.p.</li> </ol> <strong> </strong> <strong>Cosa occorre rammentare della c.d. retroattività <em>in mitius</em> in rapporto alle sanzioni amministrative?</strong> <ol> <li>si è al cospetto di una questione, fondamentalmente, di c.d. “<em>legalità europea</em>”, massime con riferimento alla CEDU (c.d. legalità “<em>convenzionale</em>”)</li> <li>essa si pone con riguardo al canone della c.d. retroattività della legge penale sopravvenuta più favorevole, che in Italia non coinvolge le sanzioni (formalmente) amministrative (legge 689.81), e che potrebbe invece coinvolgerle laddove esse dovessero essere considerate “<em>sostanzialmente penali</em>”, in forza dell’art.7 della CEDU, ovvero dell’art.50 della CDFUE, e delle garanzie in dette norme inscritte;</li> <li>la questione riguarda tanto la c.d. retroattività <em>in mitius</em> della eventuale legge sopravvenuta più favorevole, quanto – più in radice – la ineseguibilità di una sanzione amministrativa “<em>sostanzialmente penale</em>” che si ritrovi, per legge sopravvenuta, sprovvista della relativa base legale;</li> <li>la Corte costituzionale ha tuttavia affermato sul punto come il nostro sistema ordinamentale interno si differenzi da quello convenzionale (CEDU) dacché mentre quest’ultimo applica le garanzie penalistiche a tutte le misure c.d. afflittive, non distinguendo tra misure “<em>amministrative – penali in senso lato</em>” e “<em>penali in senso stretto</em>”, il sistema ordinamentale italiano si basa su tale distinzione, diversificando il pertinente regime al cospetto di sanzioni che, pur afflittive, presentano natura sostanzialmente “<em>penale</em>” o, alternativamente, amministrativa;</li> <li>dopo varie prese di posizione della Corte EDU e della Corte costituzionale italiana, si è giunti ad un assetto onde la presenza di eventuali sanzioni amministrative “<em>para-penali</em>” (massime in ambito tributario e finanziario) può implicare la illegittimità costituzionale del divieto di retroattività <em>in mitius</em>, proprio perché in queste circostanze si è al cospetto di sanzioni che, pur formalmente amministrative, sono tuttavia sostanzialmente penali, potendo dunque fruire del regime (<em>pro reo</em>) della retroattività <em>in mitius</em>, quand’anche ormai inoppugnabili;</li> <li>per un esame approfondito delle pronunce che si sono succedute in questo settore, giova rinviare al Crono-percorso <em>ex professo</em> dedicato al PRINCIPIO DI LEGALITA’ EUROPEA TRA SANZIONI PENALI E AMMINISTRATIVE.</li> </ol>