<p style="font-weight: 400; text-align: justify;"></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong>Corte di Cassazione, sez. Unite Penali, sentenza 3 luglio 2019 n. 28910</strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Le Sezioni Unite sono chiamate a risolvere la seguente questione di diritto: se le pene accessorie previste per il reato di bancarotta fraudolenta dalla L. Fall., art. 216, u.c., come riformulato ad opera della sentenza n. 222 del 2018 della Corte Costituzionale, debbano considerarsi pene con durata "</em>non predeterminata<em>" e quindi ricadere nella regola generale di computo di cui all’art. 37 c.p.; ovvero se la durata delle pene accessorie debba invece considerarsi "</em>predeterminata<em>" entro la forbice data, con la conseguenza che non trova applicazione l’art. 37 c.p. ma, di regola la rideterminazione involge un giudizio di fatto di competenza del giudice del merito, da effettuarsi facendo ricorso ai parametri di cui all’art. 133 c.p. . Si rende necessaria la soluzione del quesito giuridico sottoposto al vaglio delle Sezioni Unite, a ragione del fatto che agli imputati – nel caso di specie - già con la sentenza di primo grado sono state applicate le sanzioni accessorie previste dalla L. Fall., art. 216, u.c. dell’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e dell’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per la durata di anni dieci in conformità alla previsione normativa vigente al momento dell’assunzione della decisione e quale effetto obbligato, condizionato dal giudizio di responsabilità in ordine alle fattispecie di bancarotta fallimentare loro ascritte. Entrambe le sentenze pronunciate nei due gradi di merito sul punto si sono allineate all’orientamento interpretativo prevalente nella giurisprudenza della Suprema Corte, che, in nome della formulazione letterale allora vigente della L. Fall., art. 216, per la quale "</em>salve le altre pene accessorie, di cui al capo III, titolo II, libro I del codice penale, la condanna per uno dei fatti previsti nel presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione per l’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa<em>", riteneva determinata per legge ed in misura fissa ed inderogabile la durata delle predette sanzioni accessorie (</em>ex multis<em>: Sez. 5, n. 56323 del 26/10/2017, Intrieri; Sez. 5, n. 15638 del 05/02/2015, Assello; Sez. 5, n. 41035 del 10/06/2014, Tesi; Sez. 5, n. 51526 del 18/10/2013, Bonalumi; Sez. 5, n. 17690 del 18/02/2010, Cassa di Risparmio di Rieti s.p.a.; Sez. 5, n. 269 del 10/11/2010, dep. 2011, M.; Sez. 5, n. 39337 del 20/09/2007, B.). Oltre al dato letterale, a sostegno di tale opinione si valorizzava anche un argomento sistematico, alimentato dal raffronto col testo della L. Fall., art. 217, comma 3, che per il reato di bancarotta semplice documentale stabilisce la pena accessoria, determinata solo nel limite massimo "</em>fino a due anni<em>", con la conseguente soggezione al principio generale previsto dall’art. 37 c.p. di equiparazione automatica del </em>quantum<em> della pena accessoria a quello della pena principale. Ancorché minoritaria e meno recente, l’opposta linea interpretativa propendeva, invece, per individuare nella previsione della L. Fall., art. 216, u.c. una durata non predeterminata in misura unica dal legislatore e quindi da individuarsi nell’ambito di un ampio intervallo temporale sino al limite edittale massimo in base al criterio integrativo dettato dall’art. 37 c.p. (Sez. 5, n. 23720 del 18/06/2010, Travaini; Sez. 5, n. 9672 del 22/01/2010, Tonizzo; Sez. 5, n. 4727 del 15/03/2000, Albini). Le posizioni contrapposte riassumono un dibattito giurisprudenziale risalente, nel quale si inseriva anche la sentenza della Corte costituzionale n. 134 del 31/05/2012, che, investita della questione di legittimità costituzionale della L. Fall., art. 216, u.c., l’aveva ritenuta inammissibile senza esaminarla nel merito per l’impossibilità di aderire al </em>petitum<em> formulato dai giudici rimettenti in termini di diversa articolazione della norma con l’aggiunta della durata delle pene accessorie "</em>sino a dieci anni<em>" per renderle soggette alla disciplina dell’art. 37 c.p., soluzione additiva considerata non obbligata e non l’unica praticabile per salvarne la conformità alla Costituzione, ma soltanto una tra quelle ipotizzabili, da rimettere però al prioritario intervento di produzione normativa del legislatore, che ben avrebbe potuto stabilire una graduazione tra un minimo ed un massimo di durata, oppure una differente modulazione delle pene accessorie rispetto alle principali.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Nelle more della trattazione dei ricorsi proposti dagli odierni imputati è intervenuta la pronuncia della sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 2018, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 216, u.c., nella parte in cui prescrive che "</em>la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa<em>", anziché "</em>la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni<em>". La Consulta ha delimitato il proprio scrutinio al solo aspetto del possibile contrasto con il sistema dei valori costituzionali della durata fissa decennale delle pene accessorie fallimentari senza esaminare il tema della loro automatica applicazione nel caso concreto in dipendenza del giudizio di responsabilità, tema non demandato dall’ordinanza di rimessione. Ha richiamato i principi già affermati dalla propria giurisprudenza, osservando che la determinazione del trattamento punitivo per la commissione di fatti costituenti reato è materia riservata alla discrezionalità del legislatore, secondo la previsione dell’art. 25 Cost., comma 2, il cui potere di intervento resta soggetto al sindacato di costituzionalità nei limiti in cui le scelte operate sul fronte sanzionatorio siano palesemente irragionevoli perché comportanti l’inflizione di pene, caratterizzate da manifesta sproporzione rispetto alla gravità del fatto illecito e perciò in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost. ed in specie con la funzione rieducativa della pena. Per scongiurare tale frizione il legislatore ricorre normalmente alla previsione di pene rimesse nella loro misura alla determinazione giudiziale, da individuarsi in via discrezionale tra una soglia minima ed una massima e secondo i criteri orientativi dettati dagli artt. 133 e 133-bis c.p., in grado di assicurare la differenziazione e l’individualizzazione del trattamento sanzionatorio rispetto al fatto ed al relativo autore: al contrario, le pene di entità quantitativa fissa, stabilita per legge, possono essere coerenti col sistema costituzionale a condizione che l’analisi strutturale della fattispecie dimostri la loro proporzione rispetto ai comportamenti tipizzati, riconducibili alla fattispecie di reato. La verifica condotta in base ai superiori principi ha indotto il giudice costituzionale a negare che in linea di principio la durata unica e fissa delle pene accessorie, previste dalla L. Fall., art. 216, u.c., sia compatibile con i principi costituzionali di proporzionalità e di necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio. Nella conformazione strutturale della norma incriminatrice dell’art. 216 ha riscontrato l’inclusione di una serie di fattispecie tipiche di diverso disvalore sul piano astratto, che si riflette nelle differenziate previsioni delle relative pene principali, nonché una pluralità di comportamenti illeciti compresi nell’ambito delle singole ipotesi di reato, contraddistinti da diversificata gravità in dipendenza delle modalità di aggressione del bene giuridico tutelato. A fronte di siffatta varietà di condotte incriminate, il sistema di pene accessorie di identica durata, stabilito in termini indifferenti rispetto alla "</em>qualificazione astratta del reato ascritto all’imputato (ai sensi dello stesso art. 216, comma 1, comma 2 o del comma 3) e quale che sia la gravità concreta delle condotte costitutive di tale reato<em>", nonché alla ricorrenza o meno degli elementi circostanziali, aggravanti o attenuanti, di cui alla L. Fall., art. 219, incidenti sulla commisurazione delle pene principali, genera "</em>risposte sanzionatorie manifestamente sproporzionate per eccesso<em> (...) </em>rispetto ai fatti di bancarotta fraudolenta meno gravi<em>", comportando una penalizzante limitazione dei diritti fondamentali del condannato per la protrazione per dieci anni della possibilità di svolgere determinate attività lavorative, che interviene dopo avere già espiato la pena principale ed anche quando la esecuzione di questa sia in concreto avvenuta mediante accesso a misure alternative alla carcerazione, che finiscono per risultare meno afflittive delle sanzioni accessorie. Al riscontrato </em>vulnus<em> ai principi costituzionali di eguaglianza e della funzione rieducativa della pena la Corte costituzionale ha inteso porre rimedio mediante una soluzione che supera il precedente arresto, espresso nella sentenza n. 134 del 2012, pur nel garantito rispetto delle prerogative del legislatore. Premesso che è rimasta senza seguito la sollecitazione rivolta al legislatore con la citata pronuncia del 2012 ad intervenire con una riforma organica del sistema delle pene accessorie che le rendesse coerenti col principio di cui all’art. 27 Cost., comma 3, la Consulta ha riscontrato la vistosa sproporzione del trattamento punitivo previsto dalla L. Fall., art. 216, u.c., anche in assenza della individuazione da parte del giudice rimettente di altra disposizione di legge, da prendere in considerazione quale elemento comparativo e ha esercitato il proprio potere correttivo della disposizione di legge riconosciuta incostituzionale con la sostituzione del trattamento punitivo in essa previsto, sulla base del riscontro di "</em>precisi punti di riferimento, già rinvenibili nel sistema legislativo<em>", intesi quali "</em>soluzioni già esistenti, idonee a eliminare o ridurre la manifesta irragionevolezza lamentata<em>", secondo le indicazioni esegetiche offerte dalla precedente sentenza n. 236 del 2016. In coerenza con siffatto criterio ha rintracciato nello stesso corpo normativo che delinea i reati fallimentari i necessari punti di riferimento per condurre l’operazione additiva, imposta dall’esigenza di rimuovere la previsione incostituzionale senza privare il sistema normativo dello strumento di tutela degli interessi coinvolti, e li ha individuati nelle disposizioni di cui alla L. Fall., artt. 217 e 218, che incriminano le fattispecie di bancarotta semplice e di ricorso abusivo al credito e prevedono le stesse pene accessorie dell’art. 216, u.c. ma con durata stabilita discrezionalmente dal giudice sino ad un massimo di due anni per il primo reato e di tre anni per il secondo. Ha quindi trasposto all’interno dell’art. 216 la medesima formulazione della determinazione delle sanzioni accessorie sino al limite massimo di dieci anni in base ad una valutazione operata caso per caso e disgiunta da quella di commisurazione della pena principale, da ancorare al diverso carico di afflittività ed alla diversa finalità di ciascuna sanzione, che può comportare anche una loro durata maggiore in ragione della funzione, in parte distinta e più marcatamente orientata verso la prevenzione speciale, che il legislatore del 1942 vi ha assegnato. La Corte costituzionale ha quindi respinto la diversa opzione, suggerita nell’ordinanza di rimessione, del ricorso al criterio residuale, già esistente nel sistema e dettato dall’art. 37 c.p., di ancorare la durata delle sanzioni accessorie fallimentari all’entità della pena principale della reclusione: questa soluzione finirebbe per sostituire un diverso automatismo a quello legale, reputato incostituzionale, con effetti distonici rispetto all’intento del legislatore storico di punire severamente gli autori di delitti di bancarotta che sono considerati gravemente lesivi degli interessi individuali e collettivi al buon funzionamento del sistema economico. A conclusione del proprio percorso argomentativo ha aggiunto l’avvertenza che "</em>la valutazione del modo in cui il sistema normativo reagisce ad una sentenza costituzionale di accoglimento spetta al giudice del processo principale, unico competente a definire il giudizio da cui prende le mosse l’incidente di costituzionalità<em>".</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La giurisprudenza di legittimità nelle pronunce immediatamente successive alla declaratoria d’incostituzionalità della L. Fall., art. 216, u.c. rivela l’emersione di due orientamenti contrapposti quanto agli effetti ed alle modalità di reazione alla sentenza della Corte costituzionale. I primi interventi in ordine cronologico della Suprema Corte (Sez. 5, n. 1963 del 07/12/2018, dep. 2019, Piermartiri; Sez. 5, n. 1968 del 07/12/2018, dep. 2019, Montoleone, Rv. 274228) hanno affermato che "</em>le pene accessorie previste per il reato di bancarotta fraudolenta a norma della L. Fall., art. 216, u.c., nella formulazione derivata dalla sentenza costituzionale n. 222 del 2018, devono essere commisurate alla durata della pena principale, in quanto, essendo determinate solo nel massimo, sono soggette alla disciplina di cui all’art. 37 c.p<em>.". La soluzione così riassunta si avvale di plurimi concorrenti argomenti. Segnala in primo luogo la circoscrizione della </em>ratio decidendi<em> della pronuncia n. 222 del 2018 al solo profilo della durata fissa sino a dieci anni delle pene accessorie di cui alla L. Fall., art. 216, u.c., che non implica necessariamente, perché non da essa dipendente e non vincolante, la prospettiva interpretativa dell’inapplicabilità alle medesime pene della regola generale di cui all’art. 37 c.p.. Evidenzia poi che, in ordine alla durata delle sanzioni accessorie previste dalla L. Fall., artt. 217 e 218, le cui disposizioni sono state valorizzate quale elemento di comparazione per desumere l’elemento integrativo col quale rimediare alla parziale illegittimità costituzionale della norma scrutinata, la consolidata lezione interpretativa, offerta dalla Corte di cassazione, ne equipara la durata a quella della pena principale, in quanto, essendo stabilita solo nel massimo, resta soggetta alla regola di cui all’art. 37 c.p. (</em>ex multis<em>: Sez. 5, n. 15638 del 05/02/2015, Assello, Rv. 263267; Sez. 5, n. 23606 del 16/02/2012, Ciampini, Rv. 252960; Sez. 5, n. 13579 del 02/03/2010, Ografo, Rv. 246712; Sez. 5, n. 17690 del 18/02/2010, Cassa di Risparmio di Rieti S.p.a., Rv. 247319; Sez. 5, n. 4727 del 15/03/2000, Albini, Rv. 215987; Sez. 5, n. 2205 del 26/11/1986 - dep. 1987, Raguzzi, Rv. 175171; Sez. 5, n. 8085 del 11/12/1975 - dep. 1976, Ravaioli, Rv. 134137; Sez. 5, n. 690 del 16/10/1973 - dep. 1974, Tonarelli, Rv. 126018). Le medesime ragioni di soggezione alla disciplina dettata dall’art. 37 c.p. sono ritenute estensibili anche alle pene previste dall’art. 216, u.c. nel testo modificato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 222 del 2018, che non può considerarsi legge speciale da applicarsi in deroga al principio generale. Richiama la soluzione conforme offerta dalle Sezioni unite della Corte di cassazione nella sentenza n. 6240 del 27/11/2014, dep. 2015, B, Rv. 262328, seguita in modo quasi unanime dalle successive pronunce delle Sezioni semplici, per la quale rientrano nel novero delle pene accessorie di durata non espressamente determinata dalla legge penale quelle per le quali sia previsto un minimo e un massimo edittale, ovvero uno soltanto di tali limiti, mentre ne sono escluse solo le pene accessorie perpetue e quelle temporanee stabilite in misura precisa dal legislatore, con la conseguenza che la loro durata deve essere uniformata dal giudice, ai sensi dell’art. 37 c.p., a quella della pena principale. Infine, avverte come incongruente e foriera di possibili conseguenze pregiudizievoli </em>in malam partem<em> in danno dell’imputato l’interpretazione che, sganciando la commisurazione della pena accessoria da quella della pena principale, finisce per consentire il superamento della durata della prima rispetto a quella della seconda. L’ordinanza di rimessione della Quinta Sezione, cui sono seguite altre pronunce conformi che, nel richiamarne il percorso argomentativo, hanno disposto nei medesimi termini l’annullamento delle sentenze impugnate con rinvio al giudice di merito per la rinnovata determinazione della durata delle pene accessorie fallimentari sul presupposto della sopravvenuta illegalità delle medesime per effetto dell’integrazione del testo della disposizione di legge che le prevede, operata dalla Consulta, (Sez. 5, n. 4780 del 20/12/2018, dep. 2019, D’Aquini; Sez. 5, n. 5882 del 29/01/2019, Baù, Rv. 274413; Sez. 5, n. 5514 del 18/01/2019, Passafaro; Sez. 5, n. 6115 del 14/12/2018, dep. 2019, Sperduti), ha sposato la tesi opposta e ripudiato l’affermazione della necessaria correlazione temporale tra pena principale e pena accessoria. Ha basato il proprio assunto in primo luogo sulla necessità, già suggerita dalla riflessione della giurisprudenza di legittimità civile, di considerare la sentenza additiva della Corte costituzionale n. 222 del 2018 mediante la lettura integrata di dispositivo e motivazione. Sulla base di tale premessa ha osservato che la pronuncia di incostituzionalità, nel condurre la ricerca del referente normativo da utilizzare per l’integrazione della disposizione incostituzionale, ha offerto chiare indicazioni interpretative nel senso di escludere l’operatività della regola dettata dall’art. 37 c.p. in riferimento alle pene accessorie della legge fallimentare. Secondo l’ordinanza di rimessione, la riconduzione della nuova formulazione della L. Fall., art. 216, u.c. nell’ambito di applicazione dell’art. 37 c.p. non è compatibile con il pronunciamento del giudice costituzionale. Pertanto, al riconoscimento del potere del giudice, chiamato a prendere cognizione dei reati fallimentari, di determinare in autonomia l’entità della pena accessoria rispetto alla commisurazione della pena principale e facendo ricorso ai criteri di cui all’art. 133 c.p., può pervenirsi attraverso due alternative ermeneutiche possibili: la rivisitazione dei principi affermati dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 6240 del 2015, oppure la sottrazione alla disciplina dettata dall’art. 37 c.p. delle specifiche pene accessorie della L. Fall., art. 216 nel testo riformulato dalla Corte costituzionale. E a tale scopo ha sollecitato l’intervento risolutore delle Sezioni Unite.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Così definito il tema del contrasto giurisprudenziale che impone il sollecitato componimento, si osserva che formalmente la pronuncia di incostituzionalità in esame ha colpito soltanto la L. Fall., art. 216, u.c. e limitatamente al solo profilo di fissa quantificazione delle sanzioni ivi previste, demandando al giudice ordinario la scelta del relativo criterio commisurativo nel rispetto del solo limite invalicabile di durata decennale, sicché esse potrebbero essere tuttora legittimamente determinate secondo la disciplina dettata dall’art. 37 c.p., norma che ha conservato la propria perdurante esistenza ed efficacia prescrittiva. La Consulta ha, infatti, scelto di non estendere il proprio potere di scrutinio di legittimità costituzionale, conferitole dalla L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 27, anche alla disposizione da ultimo citata, non ravvisandovi il nesso di consequenzialità rispetto all’art. 216. Tuttavia, non può ignorarsi l’autorevolezza e la capacità persuasiva del suggerimento interpretativo offerto dal giudice costituzionale in coerenza con la funzione di normazione additiva esercitata, là dove ha escluso che la previsione dell’art. 37 c.p., come letta dal diritto vivente sino al momento attuale, possa continuare ad essere riferita alle pene accessorie della legge fallimentare ed a sancire l’obbligatorio adeguamento della loro durata a quella della pena della reclusione. La formulazione di tale soluzione non è avulsa dal quesito rivolto al giudice costituzionale, investito da ordinanza, la cui motivazione prospetta che "</em>L’esigenza di una articolazione legale del sistema sanzionatorio che, anziché prevedere una ingiustificata equiparazione di situazioni profondamente differenti, renda possibile tale adeguamento individualizzato, proporzionale, delle pene inflitte con le sentenze di condanna, potrebbe, d’altra parte, in larga parte essere soddisfatta ove, eliminandosi il riferimento alla misura fissa di dieci anni, rivivesse la regola generale di cui all’art. 37 c.p<em>.". In altri termini, l’evocazione del parametro commisurativo dettato da quest’ultima norma rientra nel fascio di possibili opzioni decisorie prospettate nella questione formulata dal giudice rimettente, sicché rispetto ad essa l’espressione del parere del giudice delle leggi si mantiene nell’ambito della necessaria corrispondenza tra chiesto e pronunciato, sancita dalla L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 27. Le Sezioni Unite, pur nella consapevolezza della non obbligatoria conformazione alle indicazioni del giudice costituzionale, perché non di matrice legislativa, tuttavia ritengono di dovervi aderire in quanto conformi ai precetti costituzionali ed avvalorate dall’interpretazione letterale-logico-sistematica.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Il codice penale dopo la parte dedicata alle pene principali, incidenti in senso proprio sulla libertà personale dell’imputato, al capo III, titolo II, libro I prevede le pene accessorie, la cui caratteristica peculiare consiste nel limitare la capacità giuridica individuale nell’esercizio di diritti, poteri, attività e funzioni e che nella visione del legislatore del 1930 assolvono ad una funzione complementare rispetto alle sanzioni principali in quanto, secondo la Relazione ministeriale al progetto definitivo, che dà conto dei lavori preparatori, "</em>non posseggono una efficienza tale, per cui possano riuscire, per sé medesime, sufficienti a realizzare gli scopi intimidativi ed afflittivi della repressione<em>". Dalla loro insufficienza punitiva discende la necessità dell’applicazione congiunta ad altre sanzioni, cui appunto accedono, rivelando la astratta posizione ancillare dal punto di vista sistematico sin dalla loro denominazione. Per espressa indicazione normativa, rinvenibile nell’art. 20 c.p., esse sono considerate appartenere alla più ampia categoria degli effetti penali della condanna, cui "</em>conseguono di diritto<em>". La concreta individuazione della misura applicabile al soggetto condannato quale pena accessoria costituisce operazione agevole quando sia il legislatore a definirla direttamente tale in disposizione codicistica o in testi di legge speciale, in difetto dei quali va condotta in base alla natura della sanzione in dipendenza della relativa capacità afflittiva e del finalismo cui è orientata. Il sistema penale riflette il principio di fondo dell’automatismo applicativo, che ispira tutta la regolamentazione delle pene accessorie: se ne trae conferma dalla formulazione dello stesso art. 20 c.p., che, nel contrapporre il meccanismo di determinazione giudiziale discrezionale introdotto per le pene principali, stabilisce "</em>quelle accessorie conseguono di diritto alla condanna, come effetti penali di essa<em>". Le locuzioni del testo normativo esprimono già di per sé il ripudio e la sfiducia in un intervento cognitivo rimesso al libero convincimento del giudice, sia sull’</em>an<em> dell’applicazione, che sul </em>quomodo<em> e sul </em>quantum<em> della durata della pena accessoria, sottratto alla commisurazione individualizzata e correlata al caso di specie, al punto da avere autorizzato giurisprudenza e dottrina ad esentare il giudice da espressa inflizione e motivazione al riguardo, rimediabile quanto al primo aspetto in sede di esecuzione. Soltanto in casi limitati e residuali, previsti dall’art. 32 c.p., comma 3, e art. 36 c.p., comma 2 e comma 3, oltre che da altre disposizioni della legislazione speciale, è rimessa al giudice la scelta circa l’inflizione della sanzione accessoria o la determinazione delle relative modalità attuative. Il medesimo criterio dell’automatismo permea anche la disciplina legale della determinazione della durata delle pene accessorie, per lo più di tipo temporaneo e solo in via di eccezione perpetue, basato su rigidi parametri legislativi. La regolamentazione originaria delle pene accessorie ha subito successivi interventi di modifica, numericamente limitati e dai contenuti poco incisivi sul piano qualitativo, perché riguardanti l’ampliamento dello strumentario delle sanzioni e dei loro effetti, ma non il procedimento applicativo e commisurativo, che non sono stati sottoposti a revisione critica sul piano dogmatico. In tale senso si segnalano la L. 24 novembre 1981, n. 689, introduttiva di nuove disposizioni in materia di pene accessorie, nonché la L. 7 febbraio 1990, n. 19, che all’art. 4 ha riformulato l’art. 166 c.p. ed all’art. 7 ha abrogato l’art. 175 c.p., comma 4, eliminando il divieto di applicazione alle pene accessorie dei benefici della sospensione condizionale e della non menzione della condanna. Ulteriore parziale modifica della disciplina delle sanzioni in esame è stata apportata con il codice di rito del 1988, che all’art. 217 disp. att. c.p.p. ha soppresso la previsione della loro applicazione provvisoria, già contenuta nell’art. 140 c.p. ed in ogni altra disposizione di legge ed all’art. 445 c.p.p. ha escluso dalla sottoposizione a pene accessorie l’imputato che chieda ed ottenga di definire il processo col rito alternativo dell’applicazione della pena ex art. 444 c.p.p.. Recependo la generalizzata invocazione degli interpreti di un riassetto normativo della materia per adeguarla ai mutamenti sociali ed economici verificatisi nel paese dall’introduzione del codice Rocco ed alla sempre più incisiva afflittività delle sanzioni complementari, che, grazie ai meccanismi di espiazione della pena detentiva in forma alternativa alla carcerazione, possono risultare le uniche ad essere realmente subite dal condannato ed a comprimere la sua sfera giuridica in aspetti fondamentali, assistiti da tutela costituzionale, i susseguitisi progetti di riforma del codice penale hanno elaborato varie soluzioni, che non hanno però ricevuto positivo accoglimento da parte del legislatore. Del pari non è stata ottemperata la delega, che è stata conferita al Governo con la L. 23 giugno 2017, n. 103, perché intervenisse, seppur in riferimento all’ordinamento penitenziario, con una riforma della disciplina delle pene accessorie in grado di rimuovere gli ostacoli al reinserimento sociale del condannato e di scongiurare l’effetto del superamento della loro durata rispetto a quella della pena principale. Anche la recente L. 9 gennaio 2019, n. 3, ha operato un mero intervento settoriale in riferimento ai reati contro la pubblica amministrazione e, in un quadro di modifiche volte all’inasprimento sanzionatorio, ha apportato novità sul piano sostanziale e processuale con un aggravamento del regime punitivo e con misure volte a consolidare nel tempo gli effetti delle pene accessorie, limitando i requisiti di accesso alla riabilitazione ed escludendo dalla relativa applicazione alcune pene, oltre che prevedendone l’irrogazione anche in caso di definizione del processo con sentenza di patteggiamento o nei confronti di condannati a pena condizionalmente sospesa, che però hanno mantenuto immutato l’impianto originario codicistico. Uno degli aspetti più problematici e controversi che l’attuale regolamentazione delle pene accessorie pone attiene alla determinazione della loro durata. Al riguardo l’art. 37 c.p. prevede che "</em>quando la legge stabilisce che la condotta importa una pena accessoria temporanea e la durata di questa non è espressamente determinata, la pena accessoria ha una durata eguale a quella della pena principale inflitta o che dovrebbe scontarsi nel caso di conversione per insolvibilità del condannato<em>". Se è pacifico che sono esclusi dalla soggezione a siffatta regola equiparativa i casi più semplici in cui la legge stabilisce direttamente la durata perpetua della pena accessoria, come prescrivono l’art. 29 e l’art. 317-bis c.p. per l’interdizione dai pubblici uffici (Sez. 1, n. 8126 del 06/12/2017, dep. 2018, Ngwoke, Rv. 272408; Sez. 5, n. 33150 del 30/03/2018, Pacchioni), oppure la relativa temporanea protrazione per un periodo unico ed invariabilmente fisso, ad esempio nel caso di cui all’art. 512 c.p., altrettanto agevole è ricondurvi le ipotesi in cui nella norma sia assente ogni indicazione temporale, prevedendo essa soltanto la tipologia di pena da infliggere, come accade per alcune delle ipotesi previste dall’art. 609-nonies c.p.. È, invece, discussa l’individuazione del significato da attribuire al riferimento a pena "</em>non espressamente determinata<em>", presupposto per l’attuazione concreta della prescrizione, in tutte le altre situazioni in cui, specie in ambiti trattati dalla legislazione speciale, la legge si limita a stabilire un limite minimo ed altro massimo di durata con un possibile intervallo compreso tra i due estremi, oppure una sola soglia temporale insuperabile ed una protrazione non inferiore o non superiore a tale soglia. Si registrano due contrapposte opinioni. La prima, sostenuta, sia dalla giurisprudenza di legittimità assolutamente maggioritaria, sia in dottrina, riconosce l’espressa determinazione normativa quando il legislatore stabilisca in modo concreto e preciso la durata della pena, mentre in tutti gli altri casi in cui sono specificati il minimo e il massimo, ovvero solo il minimo o solo il massimo, la sua quantificazione resta soggetta alla regola dell’art. 37 c.p. con automatica e rigida conformazione alla pena principale inflitta (Sez. 3, n. 8041 del 23/01/2018, Carlessi, Rv. 272510; Sez. 3, n. 20428 del 02/04/2014, S., Rv. 259650; Sez. 5, n. 29780 del 30/06/2010, Ramunno, Rv. 248258; Sez. 3, n. 41874 del 09/10/2008, Azzani, Rv. 241410; Sez. 1, n. 19807 del 22/04/2008, Ponchia, Rv. 240006; Sez. 5, n. 4727 del 15/03/2000, Albini, Rv. 215987). La contraria soluzione, meno affermata, esclude l’applicazione dell’art. 37 c.p. quando la pena accessoria è indicata con la previsione di un minimo o di un massimo, giacché anche in tal caso la pena accessoria deve considerarsi espressamente stabilita dalla legge, che demanda al giudice di dosarne la protrazione temporale, facendo ricorso ai parametri di cui all’art. 133 c.p. (Sez. 6, n. 697 del 03/12/2013, dep. 2014, Antonelli, Rv. 257850; Sez. F, n. 35729 del 01/08/2013, Agrama, Rv. 256581; Sez. 3, n. 42889 del 15/10/2008, Di Vincenzo, Rv. 241538; Sez. 3, n. 25229 del 17/04/2008, Ravara, Rv. 240256; Sez. 3, n. 42889 del 15/10/2008, Di Vincenzo, Rv. 241538; Sez. 5, n. 759 del 21/09/1989, Denegri, Rv. 183110). Nel contrasto tra i due orientamenti si è inserita la pronuncia delle Sezioni Unite, n. 6240 del 27/11/2014, dep. 2015, B, Rv. 262328, che, chiamata a dirimere una divergenza interpretativa in ordine ai poteri del giudice dell’esecuzione di rilevare, dopo la formazione del giudicato di condanna, l’illegalità della pena accessoria applicata </em>extra<em> o </em>contra<em> legem in sede di cognizione, ha offerto risposte ermeneutiche anche al tema coinvolto nel presente procedimento. Ha riconosciuto che, per il disposto dell’art. 183 disp. att. c.p.p. ed in coerenza con i limitati poteri del giudice dell’esecuzione, cui compete dare attuazione al comando giudiziale irrevocabile, interpretandolo ed integrandolo, senza poterlo esprimere, nemmeno in riferimento al trattamento sanzionatorio, l’illegalità della pena accessoria può essere rilevata a condizione che "</em>essa sia determinata per legge ovvero determinabile, senza alcuna discrezionalità, nella specie e nella durata, e non derivi da errore valutativo del giudice della cognizione<em>". Nella conseguente ricognizione delle tipologie di pena accessoria che ammettono il riconosciuto intervento emendativo in fase esecutiva in assenza di apprezzamento discrezionale, le Sezioni Unite vi hanno incluso anche le ipotesi previste dall’art. 37 c.p. e hanno affrontato il nodo interpretativo posto da quest’ultima disposizione, aderendo all’indirizzo maggioritario. A sostegno di tale soluzione si è evidenziato che: - l’esegesi letterale della disposizione in esame induce a riconoscere come "</em>espressamente determinata<em>" soltanto la pena che sia stata fissata precisamente dal legislatore nella specie e nella durata senza lasciare nessuno spazio per una commisurazione discrezionale del giudice; a riprova si indica la formula lessicale prescelta dal legislatore, che "</em>non adopera le preposizioni "<em>da</em>" "<em>a</em>", cui ordinariamente ricorre nell’indicare la pena principale per i reati, ma sempre le parole "<em>non inferiore</em>" e "<em>non superiore</em>" oppure "<em>fino a</em>"", sicché "<em>non può parlarsi neppure di uno "spettro</em>", di una "<em>forbice</em>" o di un "<em>intervallo</em>" edittale<em>"; - conferma ulteriore è desumibile dall’art. 183 disp. att. c.p.p., che consente di rimediare, in sede esecutiva, </em>in malam partem<em>, alla omissione dell’applicazione di una pena accessoria, sempre che sia "</em>predeterminata nella specie e nella durata<em>"; - ulteriore argomento testuale, che avvalora l’orientamento accolto, è rintracciato nell’inciso finale del medesimo art. 37 c.p., secondo cui "</em>in nessun caso può oltrepassarsi il limite minimo e quello massimo stabiliti per ciascuna specie di pena accessoria<em>", che sarebbe superfluo qualora il principio della uniformità temporale tra pena principale e pena accessoria, sancito dalla norma, non dovesse rispettarsi nelle ipotesi di indicazione di un minimo o di un massimo della durata di ciascuna specie di pena accessoria; - la collocazione sistematica della norma alla fine del Capo III del Titolo II del Libro I del codice penale, indica la funzione dell’art. 37 c.p. quale disposizione generale e di "</em>chiusura<em>", applicabile in ogni situazione in cui difetti una precisa indicazione quantitativa della pena accessoria da applicare. Le Sezioni Unite hanno quindi offerto ulteriori spunti di riflessione sul tema, avendo rinvenuto argomenti a conferma dell’indirizzo recepito nella già citata sentenza n. 134 del 2012, con la quale la Corte costituzionale aveva dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 216, u.c., sollevate in riferimento agli artt. 3 e 4 Cost. nonché degli artt. 27 e 41 Cost., declinando di apportare l’addizione normativa richiesta dai giudici rimettenti mediante l’aggiunta delle parole "</em>fino a<em>" al testo della L. Fall., art. 216, u.c., al fine di rendere applicabile l’art. 37 c.p.. La successiva evoluzione delle linee interpretative emerse nella giurisprudenza di legittimità mostra un prevalente allineamento ai principi espressi dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 6240 del 2015. In riferimento alla sanzione accessoria prevista per i reati tributari dal D.Lgs. n. 10 marzo 2000, n. 74, art. 12 afferma il principio di uniformazione temporale alla durata della pena principale inflitta Sez. 3, n. 8041 del 23/01/2018, Carlessi, Rv. 272510, che, in contrasto con la sentenza Sez. 3, n. 4916 del 14/07/2016, dep. 2017, Bari, Rv. 269263, ha ribadito l’adesione ai principi delle Sezioni Unite n. 6240 del 2015 (in termini analoghi, Sez. 3, n. 35855 del 11/05/2016, Scrollini; Sez. 3, n. 38825 del 12/04/2018, Festa; Sez. 7, n. 1306 del 27/10/2017, dep. 2018, Mantelli; Sez. 7, n. 53265 del 23/09/2016, Petrone; Sez. 3, n. 37853 del 18/06/2015, Ceriani; Sez. 3, n. 29397 del 20/04/2016, Cafarelli; Sez. 3, n. 19100 del 24/02/2016, Genova; Sez. 3, n. 23657 del 26/01/2016, Incorvaia; Sez. 3, n. 37870 del 18/06/2015, Ferraretti; Sez. 3, n. 13218 del 20/11/2015, dep. 2016, Reggiani; Sez. 1, n. 25809 del 05/05/2015, Bonalumi). Il medesimo principio è stato espresso per la pena accessoria comminata solo nel massimo dal D.P.R. n. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 85 (Sez. 3, n. 36869 del 28/06/2016, Morabito; Sez. 3, 19964 del 14/12/2016, dep. 2017, Corvi). Alla stessa soluzione sono approdate le pronunce occupatesi delle pene accessorie per i reati previsti dal codice penale in materia di violenza sessuale: rispetto alle previsioni dell’art. 609-nonies c.p., comma 1, n. 4), che distingue l’interdizione temporanea dai pubblici uffici dall’interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque in seguito alla condanna alla reclusione da tre a cinque anni, è stato affermato che, nella prima ipotesi, in cui la pena accessoria non presenta durata espressamente determinata dalla legge penale, il giudice deve equipararla a quella della pena principale ai sensi dell’art. 37 c.p. (Sez. 3, n. 40679 del 01/07/2016, C., Rv. 268080). Sulla stessa linea interpretativa si collocano le pronunce in tema di reati fallimentari e relative pene accessorie: in riferimento alla fattispecie di bancarotta semplice documentale, è stato affermato che, essendo la pena accessoria prevista dalla L. Fall., art. 217, u.c. determinata solo nel massimo e fino a due anni, essa debba determinarsi in una durata eguale a quella della pena principale inflitta, ai sensi dell’art. 37 c.p. (Sez. 5, n. 50499 del 4/07/2018, V. ; Sez. 5, n. 13079 del 3/12/2015, dep. 2016, Corgiolu; Sez. 5, n. 37204 del 14/04/2017, Falchi; Sez. 5, n. 15638 del 5/02/2015, Assello, Rv. 263267).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Le Sezioni Unite ritengono che, per quanto qui rileva, l’indirizzo espresso dalla precedente sentenza n. 6240 del 2015, debba essere superato, poiché gli argomenti addotti a sostegno della soluzione proposta, - che solo incidentalmente ed a livello esemplificativo si era occupata del tema della durata delle pene accessorie prescritte dalla L. Fall., art. 216, u.c., pur pregevoli, non meritano condivisione. L’analisi testuale, già condotta dalle Sezioni Unite, non considera che sul piano lessicale, là dove l’art. 37 c.p. menziona la pena espressamente determinata, richiede che la tecnica legislativa contempli una esplicita indicazione di estensione cronologica della relativa durata, che non può intendersi nel solo significato di quantificazione in misura unica, fissa, invariata ed invariabile. Come evidenziato anche da alcuni interpreti in dottrina, sul piano terminologico una previsione espressa richiede una dichiarazione esternata, manifestata nel testo e quindi non implicita o sottintesa ed a tale definizione corrisponde anche la previsione di una sanzione da determinare entro un intervallo compreso tra minimo e massimo edittale o in entità non inferiore o non superione ad uno solo dei due estremi. Inoltre, non è condivisibile nemmeno l’osservazione, che valorizza l’inserimento nel testo delle singole disposizioni che stabiliscono le pene accessorie dell’espressione "</em>fino a<em>", o della previsione di un unico limite invalicabile al di sotto o al di sopra del quale non è consentito modulare l’entità della sanzione, come caratteristico della tecnica legislativa riferita alle sole pene complementari. Anche volendo arrestare la disamina alle sole norme incriminatrici codicistiche, si riscontra come questa sia la modalità di formulazione usuale e tipica delle disposizioni che descrivono le fattispecie penali di minore gravità, per le quali le sanzioni detentive e/o pecuniarie sono contenute in modo da non superare rispettivamente i due-tre anni e qualche migliaio di Euro, anche se non mancano casi di alcuni delitti di maggiore gravità, per i quali si è adottata la medesima scelta lessicale. Gli esempi sono innumerevoli: nel settore dei delitti contro la personalità internazionale dello Stato l’art. 241 c.p. incrimina gli attentati contro l’integrità, l’indipendenza e l’unità dello Stato, che punisce con la reclusione non inferiore a dodici anni; gli artt. 243 e 247 c.p. comminano ciascuno la pena della reclusione non inferiore a dieci anni a chi compia intelligenze con lo straniero a scopo di guerra o favoreggiamento bellico ed, analogamente, dispongono in riferimento a soglie limite diverse gli artt. 248, 249, 252, 253, 255, 257, 258, 261, 262, 263, 264, 265, 267; nel Capo dei delitti contro la personalità interna dello Stato gli artt. 280, 280-ter, 283 c.p. provvedono in egual modo. Ed ancora analoga formulazione presentano: tra i delitti contro la pubblica amministrazione l’art. 326, comma 2, artt. 329, 335, 340, 341-bis, 343, 347, 348 e 354; tra i delitti contro l’incolumità pubblica l’art. 422 c.p. e l’art. 439 c.p., comma 1; tra i delitti di comune pericolo mediante frode l’art. 444, comma 1; tra i delitti colposi di comune pericolo l’art. 450 c.p, comma 1 e comma 2, e l’art. 451 c.p.; tra i delitti contro la fede pubblica gli artt. 457, 462 e 464 c.p.; tra i delitti di falso in sigilli gli artt. 471 e 472 c.p; tra i delitti di falso in atti gli artt. 481, comma 1, 483, comma 1, 484 c.p.; tra i delitti di falsità personale l’art. 494 c.p., l’art. 495 c.p., comma 2, e l’art. 495-bis c.p. e l’art. 497 c.p.; tra i delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio l’art. 501 c.p., l’art. 502 c.p., comma 1 e comma 2, gli artt. 503, 504, 507 e 508 c.p.; tra i delitti contro l’industria e il commercio l’art. 513 c.p., l’art. 515 c.p., comma 1 e comma 2, gli artt. 516, 517, 517-ter, 517-quater c.p.; tra i delitti contro l’assistenza familiare gli artt. 570, 571 e 573 c.p.; tra i delitti contro la persona gli artt. 575, 581, 588, 589-ter, 590, 590-ter e 593 c.p.; tra i delitti contro l’onore l’art. 595 c.p.; tra i delitti contro la libertà personale gli artt. 606, 607, 608, 609, 610, 611, 612 c.p., l’art. 613 c.p., comma 1 e comma 3; tra i delitti contro l’inviolabilità del domicilio l’art. 615-ter c.p., comma 1, artt. 615-quater e 615-quinquies c.p.; tra i delitti contro l’inviolabilità dei segreti l’art. 616 c.p., comma 1 e comma 2, l’art. 622 c.p., comma 1, l’art. 623 c.p., comma 1; tra i delitti contro il patrimonio l’art. 626 c.p., comma 1, artt. 627, 631, 632, 633 e 634 c.p., l’art. 636 c.p., comma 2 e comma 3, art. 637 c.p., art. 638 c.p., comma 1, art. 639 c.p., comma 1; tra i delitti contro il patrimonio mediante frode gli artt. 640-quinquies, 641, 646 e 647 c.p.. La medesima tecnica espressiva è riscontrabile nelle disposizioni che incriminano le fattispecie contravvenzionali quando siano punite con la pena principale detentiva dell’arresto, previsto sino ad un tetto massimo o in misura non inferiore ad una soglia minima, sicché il criterio esegetico basato sul testo e sulla formulazione terminologica non appare risolutivo e non consente di negare che in tali situazioni per volontà legislativa il trattamento punitivo sia graduabile nell’ambito di un intervallo compreso tra due estremi opposti ed invalicabili. Non si ritiene conferente ed utile all’analisi condotta nemmeno il richiamo all’art. 183 disp. att. c.p.p.: la disposizione, sul piano sistematico collocata in un differente contesto, quello dell’esecuzione penale, assolve ad una funzione differente, che prescinde dal meccanismo di quantificazione legale della pena accessoria, ma appresta uno strumento integrativo ed emendativo dell’</em>error in iudicando<em> contenuto nella sentenza di condanna per effetto dell’omessa applicazione della pena stessa, pur doverosa, strumento la cui attivazione si è consentita in via interpretativa anche per l’ulteriore scopo di correggere profili di illegalità del giudicato a presidio della costante conformità alla legge del trattamento punitivo sino ai suoi aspetti complementari. Che poi la norma ripeta, variandola, la locuzione "</em>determinata dalla legge<em>", rinvenibile anche nell’art. 37 c.p., cui aggiunge la specificazione "</em>nella specie e nella durata<em>", non apporta alcun contributo valorizzabile, nè contenutistico, nè definitorio, in grado di offrire argomenti alla lettura proposta dalla sentenza n. 6240 del 2015, posto che la nozione di specie di pena accessoria rimanda all’elencazione dell’art. 19 c.p. senza descrivere nulla di più e senza poter orientare la soluzione del quesito ermeneutico che si sta affrontando. In definitiva, la considerazione sul piano lessicale, teleologico e sistematico convince dell’irrilevanza del raffronto comparativo tra la norma dell’art. 183 citato e l’art. 37 c.p., poiché entrambe pongono e non risolvono sul piano dell’immediata disciplina positiva la medesima problematica dell’individuazione di cosa s’intenda per determinazione legale della durata della pena accessoria. L’ulteriore argomento letterale, tratto dall’ultima proposizione dell’art. 37 c.p., che impone il rispetto in tutti i casi del limite minimo e di quello massimo stabiliti per ciascuna specie di pena accessoria, non assume il preteso significato di conferma della applicabilità dello stesso art. 37 in dipendenza della mancata determinazione per legge della durata quando la stessa sia prevista con riferimento agli estremi edittali, individuati nella singola norma incriminatrice. Questa lettura dell’inciso non è l’unica possibile per riconoscere l’utilità e l’autonoma portata precettiva della previsione, altrimenti superflua. Al contrario, essa impartisce un criterio commisurativo che assicuri il mancato superamento dei limiti di durata indicati in linea generale dal codice penale agli artt. 28-36 per ciascuna specie di pena accessoria sul presupposto che la singola fattispecie, inserita nello stesso codice o nelle leggi speciali, non li contempli. Ed, infine, la collocazione sistematica dell’art. 37 c.p. a conclusione delle altre disposizioni sulle pene accessorie, se conferma l’intento di approntare una norma di chiusura che completi il quadro normativo dedicato alle sanzioni complementari, non autorizza la conclusione rassegnata dalla sentenza n. 6240 del 2015 e ad elevarne la disciplina al rango di regola generale: quello previsto costituisce un meccanismo decisorio, suscettibile di fornire soluzione pratica di immediata attuazione anche per la futura introduzione di nuove ipotesi di pena accessoria, prive di previsioni sanzionatorie, a fronte di un sistema codicistico che nella relativa parte generale contiene per ciascuna pena un proprio regolamento edittale e la gamma di criteri orientativi a guidare l’operato del giudice, stabiliti dagli artt. 132 e 133 c.p.. Come segnalato da attenta dottrina, la formulazione dispositiva di questi articoli non contiene nessun riferimento letterale che consenta di escludere dall’ambito di applicazione le pene accessorie e di privilegiare l’opposto meccanismo quantificativo dettato dall’art. 37: l’art. 132 c.p. menziona soltanto l’attività del giudice che "</em>applica la pena discrezionalmente<em>" senza aggiungere altre qualificazioni sul tipo di pena e l’art. 133 c.p. indica criteri logici non riferibili soltanto a quelle principali. Ne discende che la regola della equiparazione meccanica della durata della pena accessoria a quella della pena principale in concreto inflitta assume piuttosto una funzione residuale, cui fare ricorso nei casi in cui la legge in astratto sia priva di qualsiasi indicazione sul profilo temporale che circoscriva e guidi l’esercizio del potere dosimetrico del giudice. Ad avviso del Collegio, la riflessione esegetica sul tema in esame non può prescindere dalla considerazione che la decisione da assumere interviene all’esito di un diverso pronunciamento del giudice costituzionale, che, innestandosi su un orientamento esplicitato nella sentenza n. 236 del 21/09/2016 in riferimento alla fattispecie di reato di cui all’art. 567 c.p., comma 2, ed allo specifico carico sanzionatorio in essa previsto, sull’identico quesito, già esaminato con la citata sentenza n. 143 del 2012, ha mutato radicalmente posizione ed il quadro degli orizzonti esegetici. Se, quindi, nella pronuncia della Corte costituzionale n. 134 del 2012 "</em>vi era l’implicito riconoscimento che la soluzione indicata dai giudici rimettenti (una delle possibili), è cioè con l’aggiunta alla disposizione normativa delle parole "<em>fino a</em>", avrebbe reso possibile l’applicazione dell’art. 37 c.p.",<em> la netta opzione di disfavore per l’automatismo punitivo sotto l’aspetto dosimetrico riferito alle pene accessorie, espresso nella sentenza n. 222 del 2018, priva la soluzione in precedenza assunta dalle Sezioni Unite della Corte del suo referente sul piano dell’ermeneutica costituzionale. Tanto autorizza una lettura alternativa dell’art. 37 c.p., che tenga conto dell’evoluzione maturata negli ultimi decenni nell’interpretazione del trattamento sanzionatorio e della relativa funzione.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La giurisprudenza costituzionale sin dagli anni sessanta del secolo scorso (sentenze n. 67 del 1963 e n. 104 del 1968) ha posto in evidenza che i principi costituzionali, quello generale di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. e quelli, specificamente riferiti alla materia penale, di legalità, di personalità della responsabilità e della finalità rieducativa della pena, dettati dagli artt. 25 e 27 Cost., possono ricevere attuazione nella legislazione ordinaria mediante previsioni sanzionatorie caratterizzate da "</em>mobilità<em>" della pena, che si realizza attraverso la prescrizione quantitativa, compresa tra un minimo ed un massimo, e sul piano applicativo esigono l’intervento commisurativo giudiziale, riferito al caso specifico, che traduce la regolamentazione astratta nell’inflizione di una pena scelta in via discrezionale nell’ambito dei due estremi, individualizzata e proporzionata alle caratteristiche della fattispecie concreta in base ai parametri di cui all’art. 133 c.p.. Illuminante al riguardo il passaggio della sentenza n. 50 del 1980, nel quale la Consulta aveva affermato che: "</em>L’uguaglianza di fronte alla pena viene a significare, in definitiva, "<em>proporzione</em>" della pena rispetto alle "<em>personali</em>" responsabilità ed alle esigenze di risposta che ne conseguano, svolgendo una funzione che è essenzialmente di giustizia e anche di tutela delle posizioni individuali e di limite della potestà punitiva statuale<em>", per concludere che "</em>in linea di principio, previsioni sanzionatorie rigide non appaiono pertanto in armonia con il "<em>volto costituzionale</em>" del sistema penale; ed il dubbio d’illegittimità costituzionale potrà essere, caso per caso, superato a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, questa ultima appaia ragionevolmente "<em>proporzionata</em>" rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato<em>" (in senso conforme, sentenze n. 236 del 2016, n. 341 del 1994 e n. 409 del 1989). Raffrontata con i superiori principi, che pretendono elasticità nella previsione astratta e discrezionalità nella relativa attuazione in riferimento alla situazione fattuale concreta, "</em>ogni fattispecie sanzionata con pena fissa (di qualunque ne sia la specie) è per ciò solo "<em>indiziata</em>" di illegittimità<em>" (Corte Cost., n. 222 del 2018) ed ogni automatismo sanzionatorio, che sottragga alla giurisdizione il compito di apprezzare la specificità del caso e di offrirvi risposta adeguata e differenziata, va scongiurato perché in contrasto con il "</em>volto costituzionale<em>" della repressione penale e con la funzione rieducativa e di reinserimento sociale della punizione, che richiede il rispetto della proporzione per qualità e quantità col fatto di reato, con la relativa offensività e con la personalità del relativo autore, da garantire nella fase della irrogazione, così come in quella dell’esecuzione (sentenza n. 257 del 2006; in senso conforme sentenza n. 79 del 2007). Nella medesima ottica di assicurare reazioni repressive adeguate e personalizzate devono leggersi gli interventi demolitori del giudice costituzionale in materia penitenziaria, per la quale ha riconosciuto quale criterio "</em>costituzionalmente vincolante<em>" l’esclusione di "</em>rigidi automatismi<em>" che si realizza soltanto con "</em>una valutazione individualizzata caso per caso<em>" (sentenza n. 436 del 1999; in senso conforme: " (sentenza n. 257 del 2006; in senso conforme sentenza n. 79 del 2007; n. 255 del 2006, n. 189 del 2010), pena l’inammissibile sacrifico del profilo rieducativo della pena. Indicazioni solo all’apparenza contrastanti sono rinvenibili nelle più recenti pronunce della Corte costituzionale, occupatesi della legittimità delle disposizioni di legge contenenti per specifiche figure di reato la previsione di una pena pecuniaria di entità fissa o proporzionale, congiunta a pena detentiva mobile e determinabile nell’ambito di una forbice tra minimo e massimo. Nell’escludere il contrasto con i principi costituzionali, la Consulta ha valorizzato l’assetto normativo complessivo del trattamento sanzionatorio, articolato in due specie di pene ed in base di diversi criteri di commisurazione e riscontrato in tali situazioni la consentita possibilità per il giudice, quanto meno per la reclusione o l’arresto, o comunque in ragione della quantificazione proporzionale della sanzione pecuniaria, di graduare ed adattare con apprezzamento discrezionale la pena alle peculiarità della singola situazione giudicata, confermando l’orientamento ormai consolidato della illegittimità costituzionale delle sole pene stabilite in misura fissa ed invariabile, salvo che le stesse non siano introdotte per punire fattispecie di reato che, per la loro natura, manifestino lo stesso disvalore e lo stesso grado di offensività, non richiedendo quindi una graduazione di sanzione (Corte Cost., sentenza n. 233 del 2018; sentenza n. 142 del 2017; ordinanza n. 91 del 2008). Anche il legislatore dal canto suo nella produzione normativa postcodicistica ha mostrato un mutato atteggiamento verso l’automatismo applicativo delle pene accessorie in contrasto con la filosofia ispiratrice l’introduzione dell’art. 37 c.p., allorché, come già detto, ha modificato l’art. 166 c.p., consentendo l’estensione della sospensione condizionale anche alle pene accessorie ed impedendone l’attuazione provvisoria in dipendenza della pronuncia di condanna non irrevocabile. La considerazione autonoma delle pene accessorie emerge rafforzata dalla recente L. 9 gennaio 2019, n. 3, la quale in un quadro di interventi volti al rafforzamento degli strumenti repressivi e preventivi dei reati contro la pubblica amministrazione, ha inciso anche sulla sottoposizione del condannato alle pene accessorie, mediante, sia l’allargamento dell’area delle fattispecie che ne determinano l’applicazione, l’aggravamento della loro durata e la loro irrogazione anche nei casi di pena già espiata, pena condizionalmente sospesa e pena patteggiata, sia la distinzione dei requisiti temporali di accesso alla riabilitazione per le pene accessorie rispetto a quelli valevoli per la pena principale e l’inibizione dell’operatività su quelle di durata perpetua dell’effetto estintivo conseguente all’esito positivo dell’affidamento in prova. I principi interpretativi che si richiamano ai valori costituzionali di colpevolezza e proporzionalità e che si oppongono agli automatismi ed alla rigida regolamentazione sanzionatoria, oltre che richiamati a monito per il legislatore ordinario, che vi deve dare attuazione nella relativa produzione normativa, offrono spunti inediti per una considerazione differente e costituzionalmente orientata anche del meccanismo parificativo vincolante, previsto dall’art. 37 c.p., sotto l’unico profilo del </em>quantum<em> di pena accessoria irrogabile, posto che l’indefettibilità della relativa applicazione discende dalla legge e dalla esplicita e testuale definizione di effetto penale della condanna. I predetti principi non consentono di interpretare l’art. 37 c.p. come prescrittivo di un automatismo che, seppur mediato dall’aggancio alla misura della pena principale, questa sì stabilita in via discrezionale dal giudice, rappresenta pur sempre un sistema rigido di determinazione del trattamento punitivo, che non trova giustificazione soprattutto se si considera la funzione cui assolvono le pene accessorie, l’estrema varietà delle condotte che, in violazione dei precetti penali, realizzano le condizioni per la loro inflizione ed il severo carico di afflittività che le contraddistingue. Secondo l’opinione più accreditata in dottrina le pene principali svolgono funzioni retributive, preventive di carattere generale e speciale, nonché rieducative mediante la sottoposizione al trattamento orientato al graduale reinserimento sociale del condannato; le pene accessorie, specie quelle interdittive ed in abilitative, collegate al compimento di condotte postulanti lo svolgimento di determinati incarichi o attività, sono più marcatamente orientate a fini di prevenzione speciale, oltre che di rieducazione personale, che realizzano mediante il forzato allontanamento del reo dal medesimo contesto operativo, professionale, economico e sociale, nel quale sono maturati i fatti criminosi e dallo stimolo alla violazione dei precetti penali per impedirgli di reiterare reati in futuro e per sortirne l’emenda. Ebbene, la piena realizzazione soprattutto dello specifico finalismo preventivo, cui sono preordinate le pene complementari, richiede una loro modulazione personalizzata in correlazione con il disvalore del fatto di reato e con la personalità del responsabile, che non necessariamente deve riprodurre la durata della pena principale. Risultato questo conseguibile soltanto ammettendone la determinazione caso per caso ad opera del giudice nell’ambito della cornice edittale disegnata dalla singola disposizione di legge sulla scorta di una valutazione discrezionale, che si avvalga della ricostruzione probatoria dell’episodio criminoso e dei parametri dell’art. 133 c.p. e di cui è obbligo dare conto con congrua motivazione. Al contrario, la perequazione automatica di cui all’art. 37 c.p., nella lettura che ne è stata offerta dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 6240 del 2015, non estesa alla considerazione della funzione svolta dalle pene accessorie e delle linee evolutive della giurisprudenza costituzionale, non consente risposte individualizzate e graduate in dipendenza delle peculiarità del caso, delle esigenze specifiche ad esso sottese, nonché delle caratteristiche di afflittività delle singole sanzioni accessorie, incidenti in senso fortemente limitativo sul diritto al lavoro e sul diritto di iniziativa economica, oltre che su altri aspetti della vita individuale e sociale, e finisce per estendervi i sospetti di incostituzionalità, insiti in tutti gli automatismi punitivi. Ulteriore argomento, seppur meno rilevante dei precedenti, milita per la soluzione accolta. Come osservato nell’ordinanza di rimessione, il necessario parallelismo cronologico tra pena principale e pena accessoria presenta delle difficoltà applicative. Proprio nel settore dei reati fallimentari la L. Fall., art. 219, comma 1, in caso sia ritenuta sussistente la circostanza aggravante dell’aver cagionato un danno patrimoniale di rilevante gravità stabilisce che la pena principale da tre a dieci anni di reclusione può essere aumentata sino alla metà, evenienza che renderebbe inoperante la regola dettata dall’art. 37 c.p. per l’impossibilità di commisurare le pene accessorie in entità superiore a dieci anni. Altrettanto problematico è il caso posto dalla L. Fall., art. 229 per il delitto di accettazione o pattuizione da parte del curatore del fallimento di retribuzione in denaro o altra forma, punito con la reclusione da tre mesi a due anni, per il quale la pena principale massima coincide con il limite minimo della pena accessoria di cui al comma 2, il che, se si facesse applicazione dell’art. 37 c.p. nei termini tradizionali, renderebbe del tutto eccezionale l’equiparazione della durata delle due sanzioni ed impossibile irrogare la pena dell’inabilitazione temporanea dall’ufficio di amministratore per un periodo superiore al minimo. Analoghe considerazioni valgono in relazione alla sospensione dall’esercizio di una professione o di un’arte ex art. 35 c.p., che indica quale limite edittale minimo la durata di quindici giorni e quale massimo due anni; la stessa norma dispone però che la sospensione è irrogabile soltanto in caso di condanna all’arresto non inferiore ad un anno. Pertanto, applicandosi l’equiparazione automatica di cui all’art. 37, il minimo della pena accessoria sarebbe sempre di un anno, con la conseguente inutilità della previsione di una possibile durata inferiore. Difficoltà di coordinamento similari pongono anche: l’art. 544-ter c.p., che per il reato di maltrattamento di animali stabilisce la pena della reclusione da tre a diciotto mesi o con la multa da 5.000 a 30.000 Euro, mentre l’art. 544-sexies c.p. consente la pena accessoria della sospensione dell’attività di trasporto, di commercio o di allevamento di animali da tre mesi a tre anni; la L. 13 dicembre 1989, n. 401, art. 1 in tema di frodi sportive, la cui pena detentiva oscilla tra un mese ed un anno di reclusione e le pene accessorie applicabili ai sensi dell’art. 5 dello stesso testo di legge non possono essere inferiori a sei mesi e superiori a tre anni; il D.P.R. n. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 85 per il quale con la sentenza di condanna per uno dei fatti di cui agli artt. 73, 74, 79 e 82, il giudice può disporre il divieto di espatrio e il ritiro della patente di guida per un periodo non superiore a tre anni, sebbene le pene detentive irrogabili per le predette fattispecie di reato possano superare la soglia massima di tre anni; il D.Lgs. n. 10 marzo 2000, n. 74, art. 12, alle lett. b) e c) introduce sanzioni accessorie di durata compresa tra il minimo di un anno e massimi differenziati sino a tre e sino a cinque anni, che non trovano coincidenza con le pene detentive stabilite per le ipotesi di reato di cui agli artt. 10-bis, 10-ter, 10-quater, 11 dello stesso D.Lgs., per le quali il minimo edittale è fissato in sei mesi, per cui l’irrogazione di sanzione detentiva nel minimo assoluto non potrebbe comportare l’automatica perequazione di quelle accessorie ai sensi dell’art. 37 c.p. per la conseguente illegalità per difetto della loro durata. Tutti gli inconvenienti segnalati trovano, invece, agevole soluzione qualora si ammetta che le rispettive sanzioni accessorie sono determinabili dal giudice anche in entità svincolata da quella della reclusione o dell’arresto.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Superando il precedente arresto di cui alla sentenza n. 6240 del 2015, le pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 c.p. In dipendenza del principio stabilito, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio in riferimento alla determinazione della durata delle pene accessorie applicate agli imputati. Come correttamente rilevato nell’ordinanza di rimessione, ancorché la questione non sia stata sollevata nei ricorsi, la sopravvenuta illegalità dell’inflizione delle predette pene per il periodo fisso di dieci anni, ossia nella misura massima consentita dal testo ora vigente della L. Fall., art. 216, u.c., come integrato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 222 del 2018, consente di riscontrare d’ufficio il contrasto con il parametro normativo. In aderenza all’insegnamento contenuto nella sentenza Sez. U., n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264207, "</em>deve escludersi che possa essere conservata, in quanto legittima, sotto il profilo del principio costituzionale di proporzione tra offesa e pena, la pena determinata in relazione ad una cornice edittale prevista da una norma dichiarata incostituzionale e, quindi, inesistente sin dalla sua origine<em>". Implicando valutazioni sul fatto, che eccedono i limiti del sindacato di legittimità, sarà dunque compito del giudice di rinvio individuare, in piena libertà cognitiva, la misura congrua ed adeguata al caso delle sanzioni accessorie fallimentari, facendo ricorso ai criteri di cui all’art. 133 c.p. e dando conto nella motivazione delle considerazioni svolte.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Non è consentita nel giudizio di legittimità la produzione di un documento, che attiene al merito delle vicende criminose oggetto di contestazione, dal momento che la Corte di cassazione non ha il compito di procedere ad un esame degli atti, ma solo alla valutazione del provvedimento impugnato sotto i profili dell’esistenza della motivazione e della relativa logicità ed alla verifica di osservanza e corretta applicazione delle norme sostanziali e procedurali che rilevano. Di conseguenza possono essere introdotti soltanto quei documenti non attinenti al merito, che l’interessato non sia stato in condizione di esibire nei precedenti gradi e dai quali possa derivare l’applicazione dello </em>ius superveniens<em>, di cause estintive o di disposizioni più favorevoli (Sez. 1, n. 42817 del 06/05/2016, Tulli, Rv. 267801; Sez. 3, n. 5722 del 07/01/2016, Sanvitale, Rv. 266390; Sez. 3, n. 20885 del 15/04/2015, Calò, Rv. 264096; Sez. 5, n. 45139 del 23/04/2013, Casamonica, Rv. 257541).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Vanno ribaditi i principi già affermati dalla giurisprudenza di legittimità, onde è sicuramente configurabile la bancarotta fraudolenta nell’ipotesi in cui l’imprenditore, nella imminenza della dichiarazione di fallimento, consegni al venditore i beni acquistati con patto di riservato dominio. La particolare situazione di tali beni mobili non li esclude dalla nozione e dalla categoria di elementi attivi del patrimonio suscettibili di essere oggetto delle condotte distrattive, che comprende il complesso dei rapporti giuridici economicamente valutabili che fanno capo all’imprenditore, la cui integrità viene tutelata in funzione dell’interesse dei creditori e della possibilità di ottenere la soddisfazione delle loro ragioni nell’ambito della procedura concorsuale (Sez. 5, n. 7124 del 04/04/1984, Tinti, Rv. 165469; Sez. 5, n. 8044 del 17/06/1983, Lisi, Rv. 160521). La disciplina dettata dall’art. 1526 c.c. stabilisce, infatti, che quando intervenga la risoluzione del contratto di compravendita con riserva di proprietà in capo al venditore, sorge per l’acquirente il diritto di credito alla restituzione delle rate già corrisposte. In caso di fallimento dell’acquirente, è rimessa alla valutazione del creditore L. Fall., ex art. 73 la scelta se acquisire i beni al fallimento, subentrando al fallito nel contratto con l’autorizzazione del giudice delegato e solo nel caso di mancato esercizio di tale facoltà, il venditore può sciogliersi dal contratto ed ottenere la restituzione della cosa, ma dovrà corrispondere al fallimento le rate riscosse ed insinuare al passivo il credito chirografario per l’utilizzo del bene, salva la compensazione L. Fall., ex art. 56 se ne ricorrano le condizioni (Sez. 5, n. 49472 del 9/10/2013, Albasi ed altri, Rv. 257565; Sez. 5, n. 3392 del 14/12/2004, Curaba, Rv. 231407; Sez. 5, n. 2790 del 13/12/1984, dep. 1985, Merletti, Rv. 168498). Non assume dunque rilievo che, per la mancata completa esecuzione dei contratti acquisitivi, i beni non fossero ancora entrati definitivamente nel patrimonio della società fallita, che aveva ricompreso non soltanto quanto oggetto del diritto di proprietà o di altro diritto reale, anche tutto ciò sul quale l’impresa aveva vantato un diritto personale di godimento di contenuto economico, che le aveva assicurato la disponibilità giuridica e qualificata, non di fatto, di strumenti ed attrezzature in grado di produrre delle utilità, di cui il fallimento avrebbe potuto avvalersi. Merita condivisione l’interpretazione fornita dai giudici di merito, i quali hanno escluso che la risoluzione del contratto caratterizzato dalla riserva di proprietà dei beni a favore della venditrice impedisca di ravvisare la fattispecie di bancarotta per distrazione, conclusione non smentita dal vantaggio per la massa rappresentato dalla mancata insinuazione al passivo delle due società creditrici, che, non soltanto ha privato il curatore della possibilità di operare le legittime scelte consentitegli dalla disciplina della L. Fall., art. 73, ma ha sottratto all’attivo, sia i beni, sia i ratei di corrispettivo già versati dalla (</em>omissis<em>) s.r.l. e che le venditrici avrebbero dovuto restituire, per quanto già esposto. Va poi anche ribadito il principio, già affermato dalla Corte, secondo cui, in tema di bancarotta fraudolenta, la prova della distrazione o dell’occultamento dei beni della società dichiarata fallita può essere desunta dalla mancata dimostrazione, da parte dell’amministratore, della destinazione dei beni suddetti. Si è osservato che la responsabilità dell’imprenditore per la conservazione della garanzia patrimoniale verso i creditori e l’obbligo di verità, penalmente sanzionato, gravante L. Fall., ex art. 87 sul fallito quando sia richiesto dal curatore di fornire spiegazioni sulla destinazione dei beni dell’impresa, giustificano l’apparente inversione dell’onere della prova a carico dell’amministratore della società fallita in caso di mancato rinvenimento di beni aziendali o del loro ricavato, non essendo a tal fine sufficiente la generica asserzione per cui gli stessi sarebbero stati assorbiti dai costi gestionali, ove, come nel caso presente, questi non siano documentati, nè precisati nel loro dettagliato ammontare (ex multis, Sez. 5, n. 8260 del 22/09/2015, dep. 2016, Aucello, Rv. 267710; Sez. 5, n. 11095 del 13/02/2014, Ghirardelli, Rv. 262740).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Per pacifico arresto giurisprudenziale, ai fini della configurabilità del reato di bancarotta preferenziale è necessaria la violazione della </em>par condicio creditorum<em>, che consiste nell’alterazione dell’ordine, stabilito dalla legge, di soddisfazione dei creditori, sicché deve essere provata l’esistenza di altri creditori, che vantino ragioni prevalenti o eguali, rimasti insoddisfatti per effetto del pagamento eseguito al preferito (Sez. 5, n. 3797 del 15/01/2018, Hofmann, Rv. 272165; Sez. 5, n. 32637 del 16/04/2018, Marcello, Rv. 273712; Sez. 5, n. 15712 del 12/03/2014, Consol, Rv. 260221; Sez. 5, n. 15712 del 12/03/2014, Carbonelli, rv.260221). Nell’assenza di qualsiasi dato conoscitivo sulle ragioni dell’accordata preferenza ai creditori in favore dei quali sono stati effettuati – nel caso di specie - gli esborsi, resta il dato processualmente acquisito di uno stato passivo consistente e di plurimi creditori che sono stati postergati indebitamente e hanno subito un trattamento diseguale, consapevolmente mirato a favorirli a discapito degli altri. Non merita condivisione nemmeno l’ulteriore argomento secondo il quale le condotte dovrebbero essere considerate lecite in forza del disposto della L. Fall., art. 67, nel testo modificato dal D.Lgs. n. 169 del 2007. L’esclusione dalla soggezione all’azione revocatoria dei pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività di impresa nei termini d’uso opera soltanto in riferimento ai rimedi di natura civilistica, approntati a tutela della massa dei creditori, ma non rende perciò solo lecita l’erogazione che sia compiuta in violazione della parità di trattamento o dell’ordine di preferenza accordato per legge ad alcuni creditori.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Con riferimento al mancato riconoscimento dell’esimente di cui all’art. 54 c.p., entrambe le conformi sentenze di merito hanno rimarcato nel caso di specie che nel compimento degli atti volti a soddisfare i creditori preferiti non ne erano ravvisabili i presupposti applicativi, atteso che gli imputati avevano volontariamente richiesto l’intervento mediante forniture di merci e sostegno finanziario di esponenti della locale criminalità organizzata nella consapevolezza della loro caratura criminale ed al di fuori di ogni costrizione e si erano esposti alle prevedibili richieste di rientro delle esposizioni debitorie, che erano state loro espresse con modalità intimidatorie e tipicamente mafiose. La scelta effettuata per libera determinazione di coinvolgere nelle vicende societarie personaggi militanti in formazioni ‘ndranghetistiche in luogo di ricorrere ad altri canali di finanziamento, ha creato le condizioni del pericolo di ritorsioni violente in dipendenza del mancato soddisfacimento delle pretese di siffatti finanziatori, che in modo logico e coerente con il compendio probatorio ed intercettativo è stato collegato ad una situazione che gli imputati avevano di loro iniziativa cagionato e che avrebbe potuto essere evitata, rivolgendosi prima ad altri interlocutori e denunciando successivamente le minacce ricevute. Ed anche la pretesa finalità di evitare il fallimento della società, accedendo a finanziamenti a tassi usurari, è stata svalutata come inidonea ed insufficiente a giustificare le condotte illecite compiute, poiché il ricorso a personaggi del calibro del C.S. , del P. e del Cr. o loro consorti era avvenuto deliberatamente da parte degli imputati senza esplorare soluzioni alternative, secondo quanto deducibile dalle loro conversazioni intercettate. La soluzione così come motivata è corretta sul piano giuridico: l’esimente di cui all’art. 54 c.p., sebbene sia configurabile quando il danno grave ed attuale alla persona sia minacciato alla vita o all’integrità fisica, ma anche se riguardi altri beni attinenti alla personalità, quali, ad esempio, la libertà, il pudore, l’onore, il decoro, richiede che il pericolo non sia stato determinato per volontà o per colpa del soggetto minacciato ed altresì che la necessità di contravvenire alla legge non sia altrimenti evitabile col ricorso ad altri rimedi, privi di disvalore penale. Va richiamato in termini adesivi il principio di diritto, che in riferimento alle situazioni di decozione dell’impresa si è articolato nei seguenti termini: "</em>Non sussiste la scriminante dello stato di necessità in relazione al reato di bancarotta qualora i soci amministratori distraggano i beni appartenenti alla società per destinarli a creditori che pratichino interessi usurari qualora essi abbiano volontariamente e consapevolmente creato una situazione di pericolo per l’impresa, non ricorrendo, in tal caso, nè il requisito del generarsi del pericolo per cause indipendenti dalla volontà dell’agente, nè il requisito della sua inevitabilità con altri mezzi<em>". (Sez. 5, n. 10542 del 31/10/2014, dep. 2015, Rocca, Rv. 262726; in termini conformi Sez. 2, n. 19714 del 14/04/2015, Moccardi, Rv. 263533). Con argomentazioni pienamente condivise, si è affermato che l’intento di proseguire l’attività ed impedire il tracollo non giustificano la scelta dell’imprenditore di ricercare e fare ricorso ad ulteriori canali di finanziamento a carattere illecito, che, indebitando ulteriormente l’impresa, lo espongano a pressanti ed altrettanto illecite pretese, per tacitare le quali sia poi indotto ad effettuare pagamenti preferenziali non consentiti dalla legge e certamente non giustificabili per la causazione volontaria, ad opera dell’imprenditore medesimo, della situazione che il pericolo ha generato e del pericolo, sin dall’inizio della intera operazione, cui ha esposto le ragioni degli altri creditori.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>E’ legittima l’applicazione della circostanza aggravante di cui alla L. Fall., art. 219, comma 1, all’ipotesi criminosa prevista dalla L. Fall., art. 223. La circostanza aggravante in esame, configurabile soltanto se ad un fatto di bancarotta di rilevante gravità, quanto al valore dei beni sottratti all’esecuzione concorsuale, corrisponda un danno patrimoniale per i creditori che, complessivamente considerato, sia di entità altrettanto elevata (Sez. 5, n. 48203 del 10/07/2017, Meluzio, rv. 271274), è riferibile anche ai fatti di bancarotta "</em>impropria<em>". La questione ha già trovato convincente e costante soluzione nell’ambito della giurisprudenza della Quinta Sezione penale della Corte, per la quale, poiché la L. Fall., art. 223 contiene il rinvio formale ai fatti di bancarotta sanzionati dalla L. Fall., artt. 216 e 217 "</em>la circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità è applicabile anche alle ipotesi di bancarotta impropria, essendo riscontrabile "<em>un’innegabile continuità prescrittiva del precetto penale, senza indebita estensione dello stesso in pregiudizio del reo</em>" e dovendosi escludere "<em>un incolmabile iato tra la fattispecie incriminatrice e quella che configura le circostanze per la bancarotta "propria", considerata la espressa continuità nascente dal raccordo testuale delle previsioni. Assunto che esclude l’inevitabile necessità di ricorrere ad interpretazione analogica, inammissibile perché pregiudizievole per l’imputato" (Sez. 5, n. 2903 del 22/03/2013, dep. 2014, P.G. e Venturato, Rv. 258446; nei termini: Sez. 5, n. 18695 del 21/01/2013, Liori, Rv. 255839; Sez. 5, n. 10791 del 25/01/2012, Bonomo, Rv. 252009; Sez. 5, n. 127 del 08/11/2011, dep. 2012, Pennino, Rv. 252664; Sez. 5, n. 44933 del 26/09/2011, Pisani, Rv. 251215; Sez. 5, n. 17690 del 18/02/2010, Cassa di Risparmio di Rieti s.p.a., Rv. 247320). Uno spunto ermeneutico coerente è ricavabile anche dalla pronuncia delle Sezioni Unite n. 21039 del 27/01/2011, Loy, Rv. 249666, che, seppur occupatasi della diversa circostanza di cui alla L. Fall., art. 219, comma 2, ha espresso un principio suscettibile di applicazione più ampia, là dove ha riconosciuto che "</em>il richiamo contenuto nelle norme incriminatrici della bancarotta impropria allo stesso trattamento sanzionatorio previsto per le corrispondenti ipotesi ordinarie non legittima margini di dubbio sull’applicabilità del relativo regime nella sua interezza, ivi compresa l’aggravante sui generis di cui si discute. D’altra parte, avendo il legislatore posto su un piano paritario i reati di bancarotta propria e quelli di bancarotta impropria, non v’è ragione, ricorrendo l’eadem ratio, di differenziare la disciplina sanzionatoria<em>". L’opposta opzione interpretativa finirebbe per creare una ingiustificata disparità di trattamento punitivo in danno dell’imprenditore individuale, soggetto a sanzione più severa rispetto all’imprenditore societario, astrattamente in grado di commettere fatti di bancarotta forieri di conseguenze patrimoniali più o altrettanto pregiudizievoli, che risulterebbero puniti in termini più blandi in forza della sola circostanza aggravante comune di cui all’art. 61 c.p., n. 7.</em></p>