Corte Costituzionale, sentenza 22 luglio 2022 n. 183
Vanno dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 4, 35, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30, dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1.1.– Lo statuto dei lavoratori, all’art. 18, ottavo comma, si riferisce al «datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici lavoratori o più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, nonché al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che nell’ambito dello stesso comune occupa più di quindici dipendenti e all’impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa più di sessanta dipendenti».
L’art. 18, nono comma, della legge n. 300 del 1970 puntualizza che, ai fini del computo del numero dei dipendenti, «si tiene conto dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo delle unità lavorative fa riferimento all’orario previsto dalla contrattazione collettiva del settore». Non si computano coniuge e parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale.
Per i datori di lavoro che non presentano i descritti requisiti occupazionali, l’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 prevede una indennità di importo dimezzato rispetto a quello stabilito dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 e comunque determinato «nello strettissimo intervallo fra tre e sei mensilità».
1.2.– Sull’ammontare dell’indennità vertono le censure prospettate nell’odierno giudizio.
Nel condividere le censure di illegittimità costituzionale formulate dalla parte ricorrente, il rimettente argomenta che la previsione di un indennizzo non superiore alle sei mensilità, senza neppure l’alternativa della riassunzione, non attuerebbe un ragionevole bilanciamento degli interessi contrapposti.
In particolare, la disposizione censurata, «nella parte in cui determina un limite massimo del tutto inadeguato e per nulla dissuasivo», non garantirebbe «un’equilibrata compensazione» e «un adeguato ristoro» del pregiudizio e non assolverebbe alla necessaria funzione deterrente.
Un’indennità così modulata rappresenterebbe «una forma pressoché uniforme di tutela» e attribuirebbe rilievo esclusivo al «numero degli occupati», elemento «trascurabile nell’ambito di quella che è l’attuale economia». Non sarebbero valorizzati, al contrario, i molteplici criteri che questa Corte ha individuato nelle sentenze n. 194 del 2018 e n. 150 del 2020, allo scopo di adeguare il risarcimento alla peculiarità del caso concreto.
Al generico richiamo all’art. 44 Cost., neppure ribadito nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione, non corrisponde un’autonoma censura, che concorra a definire il thema decidendum devoluto all’esame di questa Corte.
2.– Occorre, in primo luogo, esaminare le eccezioni preliminari mosse dall’Avvocatura generale dello Stato, intervenuta in giudizio in rappresentanza e a difesa del Presidente del Consiglio dei ministri.
3.– Ha priorità logica l’esame dell’eccezione di inammissibilità per carente motivazione in punto di rilevanza. Il giudice a quo non avrebbe spiegato per quali ragioni, nel caso concreto, risulti equo un indennizzo più elevato.
3.1.– L’eccezione deve essere disattesa.
Questa Corte è costante nell’affermare che «[l]’applicabilità della disposizione al giudizio principale è sufficiente a radicare la rilevanza della questione, che non postula un sindacato più incisivo sul concreto pregiudizio ai princìpi costituzionali coinvolti» (sentenza n. 174 del 2016, punto 2.1. del Considerato in diritto).
A tale riguardo, questa Corte ha specificato che, «[a]nche nella prospettiva di un più diffuso accesso al sindacato di costituzionalità (sentenza n. 77 del 2018, punto 8 del Considerato in diritto) e di una più efficace garanzia della conformità della legislazione alla Carta fondamentale, il presupposto della rilevanza non si identifica nell’utilità concreta di cui le parti in causa potrebbero beneficiare (sentenza n. 20 del 2018, punto 2. del Considerato in diritto)» (sentenza n. 174 del 2019, punto 2.1. del Considerato in diritto).
3.2.– Le questioni di legittimità costituzionale sono state sollevate in un giudizio di impugnazione di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Il datore di lavoro, rimasto contumace, non ha ottemperato all’onere di dimostrare le ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al suo regolare funzionamento, così come stabilisce l’art. 5 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali).
Il rimettente evidenzia che il datore di lavoro non possiede i requisiti occupazionali di cui all’art. 18, commi ottavo e nono, dello statuto dei lavoratori e che al licenziamento è applicabile ratione temporis la disciplina dell’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015.
Il giudice a quo ha dunque illustrato, con motivazione adeguata, le ragioni che rendono necessaria l’applicazione della previsione censurata, requisito necessario e sufficiente ai fini della rilevanza delle questioni sollevate.
4.– L’Avvocatura generale dello Stato, in secondo luogo, imputa al rimettente di avere demandato a questa Corte la rideterminazione dell’indennizzo adeguato e, conseguentemente, la scelta «tra più opzioni normative, tutte ugualmente conformi a Costituzione», in mancanza di «parametri normativi alternativi». Da questa angolazione, sarebbe evidente lo sconfinamento nella sfera riservata alla discrezionalità del legislatore.
4.1.– L’eccezione è fondata, nei termini e per i motivi di séguito precisati.
4.2.– Questa Corte, già nella sentenza n. 45 del 1965, ha ricondotto la tutela contro i licenziamenti illegittimi agli artt. 4 e 35 Cost., interpretati in una prospettiva unitaria. In quell’occasione si affermò che, pur non essendo il diritto al lavoro assistito dalla garanzia della stabilità dell’occupazione, spetta al legislatore, «nel quadro della politica prescritta dalla norma costituzionale», adeguare le tutele in caso di licenziamenti illegittimi (punto 4 del Considerato in diritto).
In armonia con tali principi, la protezione riconosciuta al lavoro dalla Costituzione, ribadita anche dall’art. 24 della Carta sociale europea, è stata collocata in un quadro contraddistinto dall’integrazione delle garanzie e dalla loro massima espansione (sentenza n. 194 del 2018, punto 14 del Considerato in diritto).
Il rimettente avvalora i dubbi di legittimità costituzionale con il richiamo alle sentenze n. 194 del 2018 e n. 150 del 2020, che, in merito all’indennità per i licenziamenti viziati dal punto di vista, rispettivamente, sostanziale e formale, hanno censurato un meccanismo di determinazione ancorato al rigido e uniforme criterio dell’anzianità di servizio.
Nelle pronunce richiamate, questa Corte ha ribadito che la modulazione delle tutele contro i licenziamenti illegittimi è demandata all’apprezzamento discrezionale del legislatore, vincolato al rispetto del principio di eguaglianza, che vieta di omologare situazioni eterogenee e di trascurare la specificità del caso concreto.
In una vicenda che vede direttamente implicata la persona del lavoratore, si rivela di importanza primaria la valutazione del giudice, chiamato, nell’alveo dei criteri individuati dalla legge, ad attuare la necessaria «personalizzazione del danno subito dal lavoratore, pure essa imposta dal principio di eguaglianza» (sentenza n. 194 del 2018, punto 11 del Considerato in diritto e, nello stesso senso, sentenza n. 150 del 2020, punto 9 del Considerato in diritto).
Tra tali criteri, rilevano anche il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’impresa, il comportamento e le condizioni delle parti, tipizzati dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966, confermati dalla legge 11 maggio 1990, n. 108 (Disciplina dei licenziamenti individuali) e largamente sperimentati nell’esperienza applicativa.
Inoltre, un organico sistema di tutele si incentra sul principio di ragionevolezza, «che questa Corte, nell’àmbito della disciplina dei licenziamenti, ha declinato come necessaria adeguatezza dei rimedi, nel contesto di un equilibrato componimento dei diversi interessi in gioco e della specialità dell’apparato di tutele previsto dal diritto del lavoro» (sentenza n. 150 del 2020, punto 13 del Considerato in diritto).
Un rimedio adeguato, che assicuri un serio ristoro del pregiudizio arrecato dal licenziamento illegittimo e dissuada il datore di lavoro dal reiterare l’illecito, si impone in forza della «speciale tutela riconosciuta al lavoro in tutte le sue forme e applicazioni, in quanto fondamento dell’ordinamento repubblicano (art. 1 Cost.)» (sentenza n. 125 del 2022, punto 6 del Considerato in diritto).
4.3.– Tali esigenze di effettività e di adeguatezza della tutela si impongono anche per i licenziamenti intimati da datori di lavoro di più piccole dimensioni (di cui ai citati commi ottavo e nono dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori).
Questa Corte, nel dichiarare non fondati i dubbi di legittimità costituzionale della disciplina, che per tali datori di lavoro escludeva la reintegrazione, ha posto l’accento sulla natura fiduciaria del rapporto di lavoro nell’ambito delle descritte realtà organizzative, sull’opportunità di non gravarle di oneri eccessivi e, infine, sulle tensioni che l’esecuzione di un ordine di reintegrazione potrebbe ingenerare (sentenze n. 2 del 1986, n. 189 del 1975 e n. 152 del 1975).
Inoltre, le «dimensioni che il datore di lavoro abbia conferito alla organizzazione della sua attività» rappresentano un «dato aderente alla realtà economica di comune esperienza» (sentenza n. 55 del 1974, punto 4 del Considerato in diritto). In questa prospettiva, «la componente numerica dei lavoratori ha riflessi sul modo di essere e di operare del rapporto di lavoro organizzato», soprattutto in ragione del «criterio economico suggerito per regolare gli interessi delle aziende aventi un minor numero di dipendenti, pur senza trascurare gli interessi dei lavoratori» (sentenza n. 81 del 1969, punto 4 del Considerato in diritto).
4.4.– L’assetto delineato dal d.lgs. n. 23 del 2015 è profondamente mutato rispetto a quello analizzato dalle più risalenti pronunce di questa Corte. La reintegrazione è stata circoscritta entro ipotesi tassative per tutti i datori di lavoro e le dimensioni dell’impresa non assurgono a criterio discretivo tra l’applicazione della più incisiva tutela reale e la concessione del solo ristoro pecuniario.
In un sistema imperniato sulla portata tendenzialmente generale della tutela monetaria, la specificità delle piccole realtà organizzative, che pure permane nell’attuale sistema economico, non può giustificare un sacrificio sproporzionato del diritto del lavoratore di conseguire un congruo ristoro del pregiudizio sofferto.
5.– Il rimettente, in continuità con la giurisprudenza di questa Corte, segnala le disarmonie insite nella predeterminazione dell’indennità stabilita nell’ipotesi di datori di lavoro che non raggiungono i requisiti dimensionali di cui all’art. 18 della legge n. 300 del 1970.
Tali disarmonie traggono origine, per un verso, dall’esiguità dell’intervallo tra l’importo minimo e quello massimo dell’indennità e, per altro verso, dal criterio distintivo individuato dal legislatore, che si incardina sul numero degli occupati.
5.1.– Quanto al primo profilo, si deve rilevare che un’indennità costretta entro l’esiguo divario tra un minimo di tre e un massimo di sei mensilità vanifica l’esigenza di adeguarne l’importo alla specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un’efficace deterrenza, che consideri tutti i criteri rilevanti enucleati dalle pronunce di questa Corte e concorra a configurare il licenziamento come extrema ratio.
5.2.– Quanto al secondo profilo, si deve evidenziare che il limitato scarto tra il minimo e il massimo determinati dalla legge conferisce un rilievo preponderante, se non esclusivo, al numero dei dipendenti, che, a ben vedere, non rispecchia di per sé l’effettiva forza economica del datore di lavoro, né la gravità del licenziamento arbitrario e neppure fornisce parametri plausibili per una liquidazione del danno che si approssimi alle particolarità delle vicende concrete.
Invero, in un quadro dominato dall’incessante evoluzione della tecnologia e dalla trasformazione dei processi produttivi, al contenuto numero di occupati possono fare riscontro cospicui investimenti in capitali e un consistente volume di affari. Il criterio incentrato sul solo numero degli occupati non risponde, dunque, all’esigenza di non gravare di costi sproporzionati realtà produttive e organizzative che siano effettivamente inidonee a sostenerli.
Il limite uniforme e invalicabile di sei mensilità, che si applica a datori di lavoro imprenditori e non, opera in riferimento ad attività tra loro eterogenee, accomunate dal dato del numero dei dipendenti occupati, sprovvisto di per sé di una significativa valenza.
5.3.– In conclusione, un sistema siffatto non attua quell’equilibrato componimento tra i contrapposti interessi, che rappresenta la funzione primaria di un’efficace tutela indennitaria contro i licenziamenti illegittimi.
6.– Si deve riconoscere, pertanto, l’effettiva sussistenza del vulnus denunciato dal rimettente e si deve affermare la necessità che l’ordinamento si doti di rimedi adeguati per i licenziamenti illegittimi intimati dai datori di lavoro che hanno in comune il dato numerico dei dipendenti.
Al vulnus riscontrato, tuttavia, non può porre rimedio questa Corte.
Non si ravvisa, infatti, una soluzione costituzionalmente adeguata, che possa orientare l’intervento correttivo e collocarlo entro un perimetro definito, segnato da grandezze già presenti nel sistema normativo e da punti di riferimento univoci.
6.1.– Si deve rilevare, in primo luogo, che la fattispecie sottoposta allo scrutinio di questa Corte non può essere comparata con quella esaminata nelle sentenze n. 194 del 2018 e n. 150 del 2020.
In quel frangente, i rimettenti hanno chiesto la caducazione di un criterio di computo dell’indennità parametrato sulla sola anzianità di servizio. Peraltro, rimosso il meccanismo individuato dal legislatore, è stato possibile rinvenire nel sistema criteri collaudati, idonei a indirizzare la valutazione del giudice e a supplire all’eliminazione di un parametro fisso e immutabile.
Nel caso di specie, il rimettente non chiede a questa Corte di caducare un meccanismo di determinazione, parte integrante di un sistema che comunque si ricompone secondo linee coerenti. La richiesta concerne piuttosto la ridefinizione – in melius per il lavoratore illegittimamente licenziato – della stessa soglia massima dell’indennità, in difetto di soluzioni predefinite che possano circoscrivere il carattere manipolativo dell’intervento auspicato, ridefinizione che spazia in un intervallo di plurime soluzioni possibili, anche in ragione delle diverse caratteristiche dei datori di lavoro di piccole dimensioni.
6.2.– Le argomentazioni addotte dal rimettente, a sostegno dei dubbi di legittimità costituzionale, prefigurano, quindi, una vasta gamma di alternative e molteplici si rivelano le soluzioni atte a superare le incongruenze censurate.
Nella stessa direzione muovono anche i rilievi della parte, che pure sottendono una molteplicità di opzioni.
6.2.1.– Il legislatore ben potrebbe tratteggiare criteri distintivi più duttili e complessi, che non si appiattiscano sul requisito del numero degli occupati e si raccordino alle differenze tra le varie realtà organizzative e ai contesti economici diversificati in cui esse operano.
Non spetta, dunque, a questa Corte scegliere, tra i molteplici criteri che si possono ipotizzare, quelli più appropriati.
6.2.2.– Il giudice a quo prospetta, quale soluzione idonea, anche l’eliminazione del regime speciale previsto per i piccoli datori di lavoro.
Anche tale soluzione non potrebbe che essere rimessa all’apprezzamento discrezionale del legislatore, per le ragguardevoli implicazioni sistematiche che presenta.
6.2.3.– Tenuto conto dei principi enunciati dalla giurisprudenza di questa Corte e alla luce delle innovazioni legislative intervenute (art. 3 del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87, recante «Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese», convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96), le soglie dell’indennità dovuta potranno essere rimodulate secondo una pluralità di criteri.
Anche da questo punto di vista, trova conferma l’ampio spettro delle soluzioni che il legislatore, nella sua discrezionalità, potrebbe elaborare.
7.– A ognuna delle scelte ipotizzabili corrispondono, infatti, differenti opzioni di politica legislativa. Si profilano, dunque, ineludibili valutazioni discrezionali, che, proprio perché investono il rapporto tra mezzi e fine, non possono competere a questa Corte.
Rientra, infatti, nella prioritaria valutazione del legislatore la scelta dei mezzi più congrui per conseguire un fine costituzionalmente necessario, nel contesto di «una normativa di importanza essenziale» (sentenza n. 150 del 2020), per la sua connessione con i diritti che riguardano la persona del lavoratore, scelta che proietta i suoi effetti sul sistema economico complessivamente inteso.
Come già questa Corte ha segnalato (sentenza n. 150 del 2020, punto 17 del Considerato in diritto), la materia, frutto di interventi normativi stratificati, non può che essere rivista in termini complessivi, che investano sia i criteri distintivi tra i regimi applicabili ai diversi datori di lavoro, sia la funzione dissuasiva dei rimedi previsti per le disparate fattispecie.
Nel dichiarare l’inammissibilità delle odierne questioni, questa Corte non può conclusivamente esimersi dal segnalare che un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe tollerabile e la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente, nonostante le difficoltà qui descritte (sentenza n. 180 del 2022, punto 7 del Considerato in diritto).