Tar Campania, sez. I, sentenza 21 gennaio 2022, n. 429
MASSIMA
Nel periodo intercorrente tra la scadenza della concessione e l’individuazione del concessionario subentrante, deve ritenersi che, a fronte dell’evento sopravvenuto, rappresentato dalla lunga proroga del rapporto concessorio, le parti siano avvinte da un reciproco obbligo di collaborazione, fondato sulla buona fede, teso ad individuare la disciplina concretamente applicabile durante tale periodo. Tale obbligo impone alle parti di rinegoziare il contratto secondo la clausola generale di buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.), tenuto conto della necessità di ridefinire i rapporti economici già esistenti tra le parti e dell’intervenuto mutamento dei compiti del concessionario, obbligato a proseguire solo nell’ordinaria amministrazione. L’obbligo di rinegoziazione del contratto impone alle parti di intavolare nuove trattative e di condurle correttamente, ma non anche di concludere il contratto modificativo.
I principi di buona fede e di leale collaborazione, in un’ottica evolutiva e costituzionalmente orientata, non riguardano solo il versante privatistico dell’azione delle Amministrazioni pubbliche, ma hanno oramai assunto il rango di parametri di legittimità dell’agere pubblico, come conferma oltretutto l’art. 1, comma 2 bis, della l. n. 241 del 1990, secondo il quale i rapporti tra il cittadino e la p.a. sono improntati ai principi della collaborazione e della buona fede. Tale disposizione ha positivizzato una regola di carattere generale dell’agire pubblicistico dell’amministrazione, che trae fondamento nei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento, sanciti dall’art. 97, comma 2, Cost..
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
Con ricorso notificato in data 3 maggio 2021 e depositato il successivo 17 maggio la Società Autostrade Meridionali (SAM) ha premesso di essere concessionaria dal 1925 per la progettazione, la costruzione e l’esercizio dell’autostrada A3 Napoli-Salerno in forza di successive convenzioni, l’ultima delle quali sottoscritta nel 1999, da ultimo sostituita dalla Convenzione Unica sottoscritta il 28 luglio 2009 con Anas S.p.A. e con scadenza fissata al 31 dicembre 2012. Nell’agosto del 2012, a ridosso della scadenza della Convenzione Unica, l’allora concedente ANAS S.p.A., sostituito poi dal Ministero delle Infrastrutture e Trasporti (MIT) nel ruolo di concedente (quest’ultimo a partire dal mese di ottobre 2012 ha assunto il ruolo di concedente, ai sensi dell’art. 36 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, e dell’art. 11, comma 5, del decreto-legge 29 dicembre 2011, n. 216, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 febbraio 2012, n. 14), avviava la procedura per il nuovo affidamento.
La prima gara per l’individuazione del nuovo concessionario subentrante si concludeva con l’esclusione di tutti i concorrenti, di modo che veniva bandita una nuova procedura di affidamento in data 9 luglio 2019, conclusasi con l’aggiudicazione nel febbraio 2020 alla quale tuttavia non faceva seguito la sottoscrizione del relativo contratto a causa dell’impugnazione degli atti di gara.
Ciò considerato, la SAM svolge tuttora in regime di proroga l’attività di concessionaria dell’autostrada A3 Napoli-Salerno, continuando in tale qualità ad adempiere gli obblighi derivanti dal rapporto concessorio e realizzando anche gli investimenti necessari a garantire la sicurezza e i livelli di servizio della rete autostradale gestita. Ed infatti, con nota del dicembre 2012 l’Amministrazione concedente richiedeva alla SAM “di proseguire, a far data dal 1° gennaio 2013, nella gestione della Concessione secondo i termini e le modalità previste dalla Convenzione vigente” e “di porre in essere tutte le azioni necessarie al mantenimento del livello di servizio, con particolare riferimento alla messa in sicurezza, per l’utenza, della struttura autostradale”, con la precisazione che avrebbe comunicato “con un congruo preavviso la data dell’effettivo subentro della Concessione”. La richiesta è stata formulata dal Concedente in applicazione di quanto previsto dall’art. 5.1. della Convenzione Unica, secondo cui il concessionario, anche dopo la scadenza della Convenzione, “resta obbligato a proseguire nell’ordinaria amministrazione dell’esercizio dell’autostrada assentita in concessione e delle relative pertinenze fino al trasferimento della gestione stessa che avrà luogo contestualmente alla corresponsione dell’indennizzo di cui al successivo comma 2” e, cioè, fino al subentro del nuovo concessionario e alla corresponsione del c.d. indennizzo di subentro (cfr. l’art. 5.1).
Giova rammentare che il rapporto tra concedente e concessionario è disciplinato dal Piano Economico Finanziario (PEF) che definisce le modalità e gli strumenti per assicurare l’equilibrio economico e finanziario del rapporto concessorio, individuando l’ammontare degli investimenti effettuati e da effettuare e la loro collocazione nel tempo di vigenza della concessione, la remunerazione del capitale investito, oltre ai costi di manutenzione ed esercizio rapportati ai ricavi attesi dalla gestione (attraverso gli incassi dei pedaggi nel periodo di durata della concessione stessa).
Con nota n. 24242 del 14 giugno 2019 il MIT chiedeva al «Nucleo di consulenza per l’attuazione delle linee guida per la regolazione dei servizi di pubblica utilità» (NARS) di esaminare una possibile deliberazione del CIPE avente per oggetto l’introduzione di criteri generali «per l’accertamento e la definizione dei rapporti economici riferibili alle società concessionarie autostradali limitatamente al periodo intercorrente tra la data di scadenza della concessione e la data di effettivo subentro del nuovo concessionario». All’esito dell’istruttoria, con delibera 24 luglio 2019, n. 38, il CIPE ha approvato due sistemi di remunerazione relativamente al periodo transitorio: – una remunerazione pari al tasso BCE, incrementato dell’1%, per il capitale investito netto (CIN) rilevato alla scadenza della gestione; – una remunerazione pari al costo medio ponderato del capitale (WACC), di cui alla delibera CIPE n. 39/2007, per i nuovi investimenti assentiti dall’amministrazione concedente ed eseguiti nel periodo transitorio.
La società concessionaria, nello stesso arco temporale in cui si è svolto il procedimento sopra descritto, aveva a sua volta trasmesso la nota (datata 24 maggio 2019) con la quale aveva inviato al MIT una proposta di PEF per il periodo transitorio 2013-2022.
In mancanza di un espresso riscontro da parte del MIT, la SAM aveva proposto ricorso innanzi al TAR Lazio, chiedendo l’accertamento dell’illegittimità del silenzio serbato sull’istanza e la condanna del Ministero ad approvare il PEF proposto e chiedendo altresì, con motivi aggiunti, l’annullamento delle note con le quali il MIT l’aveva sollecitata a presentare un PEF per il periodo transitorio conforme ai criteri generali approvati con la delibera del CIPE 24 luglio 2019, n. 38 nonché l’annullamento anche di tale delibera.
Con la sentenza 2 febbraio 2021, n. 1354, il TAR Lazio accoglieva il ricorso della SAM, annullando le note ministeriali impugnate e la deliberazione del CIPE 24 luglio 2019, n. 38, sul presupposto che detta delibera non fosse applicabile retroattivamente alla concessione in essere con la società Autostrade Meridionali scaduta il 31 dicembre 2012 e prorogata secondo i termini della convenzione tra le parti. Conseguentemente ordinava al MIT di adottare la determinazione conclusiva del procedimento per l’esame del PEF proposto con l’istanza della concessionaria, entro trenta giorni dalla notificazione o comunicazione della sentenza.
A seguito della pubblicazione della sentenza appena citata, con nota del 2 marzo 2021, il MIT («anche in esecuzione della sentenza TAR Lazio n. 1354/2021», come si legge nella nota) ha concluso il procedimento, rigettando la proposta di PEF della concessionaria, in quanto non conforme alle delibere del CIPE n. 39/2007 e n. 38/2019. In particolare il MIT ha rilevato che la proposta di Piano Economico Finanziario formulata dalla SAM risulterebbe non coerente con la delibera CIPE n. 39/2007 perché contemplerebbe “parametri unilateralmente assunti che non trovano riscontro nella normativa di riferimento”, in quanto: a) il Piano Economico Finanziario è scomposto in due fasi per le quali si è fatto ricorso a differenti logiche di redazione. In particolare nel periodo 2013 – 2017 sono stati assunti valori consuntivi mentre nel periodo 2018 – 2022 vengono indicati valori previsionali; b) l’imputazione di dati a consuntivi costituisce una deroga alla delibera CIPE n. 39/2007 e determina da parte del concessionario l’esclusione del rischio operativo; c) l’invarianza del capitale investito netto e la sospensione del processo di ammortamento determina, a parità di condizioni, il riconoscimento di una maggiore remunerazione sul capitale che applicando la regolazione vigente si riduce progressivamente con l’incremento dell’ammortamento; d) con riferimento alla procedura di calcolo del tasso di congrua remunerazione (wacc) la relazione al Piano finanziario non fornisce evidenza del costo effettivo del debito; e) con riferimento alla procedura di calcolo del tasso di congrua remunerazione (wacc) la relazione al Piano finanziario non giustifica i parametri assunti per il calcolo del coefficiente beta.
Avverso tale nota, la SAM ha proposto il ricorso introduttivo del presente giudizio chiedendone l’annullamento, previa sospensione cautelare degli effetti sulla base dei seguenti motivi.
- Violazione dei principi di buona fede, legittimo affidamento, correttezza e leale collaborazione. Contraddittorietà dell’azione amministrativa.
La ricorrente deduce illegittimità del provvedimento impugnato perché adottato in contrasto con i principi di buona fede, legittimo affidamento, correttezza e leale collaborazione nell’esercizio dell’attività amministrativa, che avrebbero imposto all’amministrazione concedente, in questi anni, di prospettare alla società eventuali profili di contrasto tra le proposte di PEF di volta in volta elaborate e la delibera CIPE n.39 del 2007.
- Violazione e falsa applicazione dell’art. 11 della Convenzione. Violazione e falsa applicazione del punto 2.14 e 7 dell’allegato A della delibera CIPE n. 39/2007. Violazione dei canoni di logica e ragionevolezza.
Sulla correttezza delle logiche di redazione e dei dati a consuntivo indicati da SAM ai fini della predisposizione del PEF. Non sarebbe configurabile alcuna violazione della delibera CIPE n. 39/2007 nella parte in cui il PEF proposto dalla ricorrente contiene sia dati a consuntivo che dati previsionali, atteso che tale diversa impostazione deriverebbe dal fatto che esso è stato predisposto su richiesta del MIT con riferimento anche al periodo 2018-2022 successivo rispetto alla concreta predisposizione del documento. Sulla scorta di questi rilievi la ricorrente osserva che, contrariamente a quanto statuito dal Ministero, la sospensione del processo di ammortamento operata dal 2009 si pone in osservanza delle previsioni della Convenzione e non già in contrasto con la delibera CIPE 39/2007. SAM rileva inoltre, per quanto riguarda l’asserita invarianza del capitale investito netto che essa rappresenta una logica conseguenza della sospensione del regime degli ammortamenti concordata dalle parti con la Convenzione Unica. Con la sottoscrizione della Convenzione Unica del 2009 è stato stabilito che: (i) con riferimento agli investimenti assentiti in concessione antecedentemente al PEF del 1999, la società continuasse ad operare i relativi ammortamenti fino al 31.12.2012 (ii) per quanto attiene agli investimenti assentiti con la convenzione del 1999, è stato previsto, invece, che la quota non ammortizzata degli investimenti già eseguiti alla data del 31.12.2008 e gli investimenti da eseguirsi nel periodo 1.1.2009 – 31.12.2012 non fossero più ammortizzati, al fine di contenere la variazione annuale della tariffa. È stato al contempo previsto che i valori relativi ai mancati ammortamenti confluissero in un credito (c.d. valore di subentro) in favore di SAM a carico del nuovo concessionario subentrante da selezionare con gara (cfr. p. 3 dell’allegato E alla Convenzione).
- Violazione e falsa applicazione dell’allegato E della Convezione Unica. Violazione e falsa applicazione della delibera CIPE n. 39/2007. Carenza di motivazione. Violazione dei principi di buona fede e leale collaborazione.
Sulla correttezza del regime di ammortamento dei beni operato da SAM. La statuizione dell’amministrazione relativa al calcolo del costo del debito sarebbe carente dal punto di vista motivazionale e illegittima per violazione dei principi di buona fede e leale collaborazione, considerato che la Concedente non fornirebbe nel provvedimento alcuna indicazione alla società circa il presunto diverso criterio di calcolo del costo del debito che la società stessa avrebbe dovuto applicare; in buona sostanza l’Amministrazione si sarebbe limitata a bocciare i criteri impiegati dalla ricorrente senza indicarne di alternativi.
- Violazione e falsa applicazione dell’art. 15 della Convenzione. Violazione e falsa applicazione della delibera CIPE n. 39/2007, della delibera n. 38/2009 e della delibera 68/2017. Carenza di istruttoria e di motivazione. Violazione dei principi di buona fede e leale collaborazione.
Sulla correttezza del calcolo del tasso di congrua remunerazione (wacc), con riferimento al calcolo del coefficiente beta. Parte ricorrente contesta poi la statuizione dell’Amministrazione secondo cui la Relazione al PEF presentata da Sam non giustificherebbe “i parametri assunti per il calcolo del coefficiente beta”. Con particolare riferimento al coefficiente Beta per il periodo 2013-2017, SAM adduce di aver fatto riferimento, in particolare, alla metodologia di cui alla Delibera CIPE n. 38/2007, cui rinvia l’art. 15 della Convenzione, ai sensi del quale “la determinazione della congrua remunerazione del Capitale investito è stata calcolata nell’Allegato B applicando la metodologia di cui alla Delibera CIPE n. 38/2007”. In ogni caso l’eventuale mancata indicazione da parte di Sam dei giustificativi relativi ai parametri assunti per il calcolo del coefficiente Beta non sarebbe stata idonea a giustificare un provvedimento di rigetto secco della proposta di PEF, ma avrebbe dovuto comportare, al più, una mera richiesta di chiarimenti da parte del Concedente.
- Violazione ed elusione delle statuizioni contenute nella sentenza del TAR Lazio n. 1354/2021. Inefficacia del provvedimento impugnato in parte qua. Illegittimità per genericità e carenza di motivazione.
Il provvedimento sarebbe anche elusivo della sentenza del TAR Lazio n. 1354/2021 laddove ha ritenuto inapplicabile alla fattispecie la delibera CIPE n. 38/2019 invece richiamata nel provvedimento come parametro di riferimento per il calcolo della remunerazione del capitale investito. In ogni caso, prosegue la ricorrente, la deliberazione gravata richiamerebbe genericamente “criteri indicati dalla direzione” che però non sarebbero stati concretamente individuati. La SAM chiede inoltre che questo Tribunale accerti la correttezza: i) dei costi indicati da Sam alle righe “Costi per il personale”, “Costi di manutenzione e rinnovi”, “Canone di concessione”, “Altri costi operativi”, “Proventi da subconcessioni ed attività collaterali” e “Altri proventi” della tabella recante “Piano di riequilibrio” a p. 33 del Piano Economico Finanziario di Riequilibrio; (ii) dei valori indicati alla riga “Capitale Investito Netto Regolatorio” della tabella recante “Piano di riequilibrio” a p. 33 del Piano Economico Finanziario di Riequilibrio; (iii) dei valori indicati alle righe “WACC Lordo (applicato a C.I.N. anno precedente)” e “Costi di remunerazione del capitale investito” della tabella recante “Piano di riequilibrio” a p. 33 del Piano Economico Finanziario di Riequilibrio allegato alla nota di Sam del 24.5.2019 e la correttezza dei valori indicati alle tabelle n. 10, p. 28, e n. 12, p. 30, sempre del Piano Economico Finanziario di Riequilibrio; iv) dei valori indicati alle righe “WACC Lordo (applicato a C.I.N. anno precedente)” e “Costi di remunerazione del capitale investito” della tabella recante “Piano di riequilibrio” a p. 33 del Piano Economico Finanziario di Riequilibrio allegato alla nota di Sam del 24.5.2019 e la correttezza dei valori indicati alle tabelle n. 11, p. 29, e n. 13, p. 31, sempre del Piano Economico Finanziario di Riequilibrio.
La ricorrente conclude, poi, per la condanna del Ministero all’approvazione della propria proposta di PEF. Si sono costituite in resistenza le Amministrazioni dettagliate in epigrafe.
Le resistenti hanno in limine eccepito l’incompetenza territoriale di questo Tribunale venendo in considerazione nel presente giudizio l’impugnativa di un provvedimento che un organo centrale dello Stato ha adottato in applicazione dei criteri generali posti dal CIPE in materia di regolazione economica nel settore autostradale, con la delibera mi. 39/2007 e successive integrazioni. In particolare, l’atto gravato non solo sarebbe stato emanato da un organo centrale dello Stato, ma avrebbe ad oggetto la precitata delibera CIPE n. 39/2007 e s.m.i. che produce i propri effetti su tutto il territorio nazionale. Tale eccezione, proseguono le resistenti, sarebbe avvalorata dalla stessa condotta processuale della ricorrente che ha proposto impugnazione avverso il medesimo provvedimento sia nel presente giudizio che innanzi al TAR Lazio.
Nel merito le Amministrazioni costituite adducono che la gravata delibera sia in linea con la sentenza del TAR Lazio n. 1354 che ha dichiarato l’inapplicabilità della delibera CIPE n. 38/2009 e la motivazione del provvedimento sarebbe rappresentata proprio dal richiamo delle condizioni poste dalla delibera CIPE del 2007, il cui mancato rispetto determinerebbe condizioni in deroga alla regolamentazione con il potenziale rischio di un extraprofitto a favore del concessionario e un pregiudizio all’utenza.
Con ordinanza 10 giugno 2021, n. 1107 questa Sezione ha ritenuto che le esigenze di parte ricorrente fossero “apprezzabili favorevolmente e tutelabili adeguatamente con la sollecita definizione del giudizio nel merito”. Le parti hanno depositato documenti e con memoria depositata ai sensi dell’art. 73 c.p.a. parte ricorrente ha specificamente dedotto sull’eccezione di incompetenza territoriale sollevata dalle Amministrazioni intimate e ha insistito nelle proprie deduzioni. Alla pubblica udienza del 3 novembre 2021 la causa è stata trattenuta in decisione.
Deve preliminarmente scrutinarsi l’eccezione di incompetenza sollevata dalle Amministrazioni convenute. Essa non merita positiva considerazione.
Rilevano ai fini di causa i commi 1 e 4bis dell’art. 13 c.p.a. che regola il riparto di competenza territoriale tra i TAR. Ai sensi del comma 1: “1. Sulle controversie riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti di pubbliche amministrazioni è inderogabilmente competente il tribunale amministrativo regionale nella cui circoscrizione territoriale esse hanno sede. Il tribunale amministrativo regionale è comunque inderogabilmente competente sulle controversie riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti di pubbliche amministrazioni i cui effetti diretti sono limitati all’ambito territoriale della regione in cui il tribunale ha sede”; tale disposizione deve essere letta unitamente a quella di cui al comma 4-bis, a mente della quale: “La competenza territoriale relativa al provvedimento da cui deriva l’interesse a ricorrere attrae a sé anche quella relativa agli atti presupposti dallo stesso provvedimento tranne che si tratti di atti normativi o generali, per la cui impugnazione restano fermi gli ordinari criteri di attribuzione della competenza”.
Nel caso di specie oggetto di impugnazione è unicamente la delibera del 2 marzo 2021 con cui il MIT ha ritenuto non accoglibile la proposta di PEF formulata dalla ricorrente, mentre non è stata impugnata, neppure incidentalmente, alcuna delibera CIPE ovvero alcun atto normativo o generale che avrebbe potuto determinare l’attrazione al TAR Lazio della competenza sulla controversia. Ed infatti, allorché è sorta la questione della delibera CIPE da applicare, la relativa controversia è stata incardinata e definita innanzi al TAR Lazio con la già citata sentenza 1354/2021; laddove nel caso di specie si è impugnato un provvedimento avente effetti limitati alla sola ricorrente e, dunque, pacificamente rientrante nella fattispecie di cui al comma 1 dell’art. 13 con conseguente competenza di questo Tribunale. Le delibere CIPE vengono in rilievo nella presente causa solo ai fini dell’individuazione della disciplina applicabile alla stregua, quindi, di ogni altro atto normativo rilevante ai fini della definizione del giudizio, senza dunque incidere sulla determinazione della competenza, atteso che nel presente giudizio non si fa questione della loro legittimità, ponendosi semmai la questione della relativa applicazione al caso di specie.
Ravvisata la competenza di questo Tribunale, può passarsi allo scrutinio del merito del ricorso.
Oggetto del presente giudizio è la delibera con cui il MIT ha ritenuto non accoglibile la proposta di PEF formulata dalla concessionaria per la disciplina del periodo di proroga che si estende dalla scadenza della Convenzione del 2012 fino alla data di subentro nella concessione del nuovo concessionario che ancora non si è verificato.
Più in particolare, nelle more del perfezionamento delle procedure di gara finalizzate all’individuazione dei nuovi concessionari, l’Amministrazione concedente, nella considerazione che fosse necessario procedere alla regolazione del rapporto concessorio con la ricorrente concessionaria per il periodo intercorrente tra la scadenza della concessione medesima e la data di subentro del nuovo concessionario, richiedeva alla concessionaria “in proroga” la predisposizione di un piano economico finanziario (PEF) transitorio nel quale fossero ricompresi esclusivamente gli interventi non rinviabili connessi all’incremento del livello di sicurezza. Nel contempo il Ministero, con nota n. 24242 del 14 giugno 2019, chiedeva al «Nucleo di consulenza per l’attuazione delle linee guida per la regolazione dei servizi di pubblica utilità» (NARS) di esaminare una possibile deliberazione del CIPE avente per oggetto l’introduzione di criteri generali «per l’accertamento e la definizione dei rapporti economici riferibili alle società concessionarie autostradali limitatamente al periodo intercorrente tra la data di scadenza della concessione e la data di effettivo subentro del nuovo concessionario». L’Amministrazione ha quindi adottato la delibera CIPE n. 38/2019 chiedendo alla ricorrente di elaborare un PEF che tenesse conto dei criteri generali ivi sanciti. La SAM ha quindi impugnato innanzi al TAR Lazio le note con cui il Ministero la sollecitava ad elaborare un nuovo PEF e la predetta delibera CIPE. Con la citata sentenza n. 1354/2021 ha accolto il gravame, annullando le note ministeriali impugnate e la deliberazione del CIPE 38/2019, n. 38, sul presupposto che quest’ultima non fosse applicabile retroattivamente alla concessione in essere, come inteso dal Ministero concedente. Conseguentemente ha ordinato al MIT di adottare la determinazione conclusiva del procedimento per l’esame del PEF proposto con l’istanza della concessionaria, entro trenta giorni dalla notificazione o comunicazione della sentenza. Di qui l’adozione del provvedimento odiernamente impugnato con cui l’Amministrazione intimata, in riscontro alla nota del 24 maggio 2019 della concessionaria, ha ritenuto non accoglibile la proposta di PEF della SAM.
Con i motivi 1 e 3 del ricorso, che per la loro obiettiva connessione possono esaminarsi congiuntamente, la SAM contesta la violazione dei principi di leale cooperazione e buona fede oltre al vizio di motivazione per non avere l’Amministrazione intimata indicato le modifiche necessarie a rendere accoglibile il PEF esaminato.
I rilievi sono fondati alla stregua e nei limiti delle seguenti considerazioni. La questione posta dalla ricorrente implica la necessità di verificare la sussistenza di un obbligo dell’Amministrazione di cooperare con il concessionario al fine di individuare la disciplina applicabile al periodo di proroga. Come affermato dal Consiglio di Stato con la sentenza 10 novembre 2021, n. 7478 adottata dopo il passaggio in decisione del presente giudizio, sull’appello avverso la ripetuta sentenza del TAR n. 1354/2021, << Scaduto il termine di efficacia della convenzione, si è aperta, infatti, una nuova fase che si può definire post-contrattuale in cui le parti continuano a essere in rapporto tra loro poiché permangono reciproci interessi (derivanti dal contratto scaduto ma il cui assetto non è direttamente regolato da questo), la cui realizzazione è possibile solo mediante la reciproca collaborazione. Detta fase, destinata a durare dalla scadenza della concessione e fino alla individuazione del concessionario subentrante, è disciplinata, anzitutto, dalla clausola racchiusa nell’art. 5.1 della convenzione, secondo cui «[a]lla scadenza del periodo di durata della concessione, il Concessionario uscente resta obbligato a proseguire nell’ordinaria amministrazione dell’esercizio dell’autostrada assentita in concessione e delle relative pertinenze fino al trasferimento della gestione stessa»; ribadita dalla nota del 20 dicembre 2012 con la quale il MIT – nelle more della procedura per l’affidamento della concessione – ha richiesto a SAM «di proseguire, a far data dal 1° gennaio 2013, nella gestione della Concessione secondo i termini e le modalità previste dalla Convenzione vigente» e «di porre in essere tutte le azioni necessarie al mantenimento del livello di servizio, con particolare riferimento alla messa in sicurezza, per l’utenza, della struttura autostradale>>. Come affermato nella pronuncia appena citata, deve quindi ritenersi che a fronte dell’evento sopravvenuto, rappresentato dalla lunga proroga del rapporto concessorio, le parti siano avvinte da un reciproco obbligo di collaborazione, fondato sulla buona fede, per individuare la disciplina concretamente applicabile in tale periodo. Lo stesso obbligo del concessionario di proseguire nell’ordinaria amministrazione fino al subentro del nuovo concessionario non si riscontra nel testo della Convenzione Unica, ma trova la propria declinazione nell’art. 178 del Codice dei contratti pubblici (di cui al d.lgs. n. 50 del 2016), il quale – fissato il principio che per le concessioni autostradali scadute alla data di entrata in vigore della Parte III del codice [tra le quali rientra la concessione alla SAM] è vietata la proroga e si deve procedere al nuovo affidamento (comma 1) – al comma 2 dispone: «I reciproci obblighi, per il periodo necessario al perfezionamento della procedura di cui al comma 1, sono regolati, sulla base delle condizioni contrattuali vigenti» ed è principio già enunciato in precedente giudizio tra le medesime parti (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30 novembre 2016, n. 5032).
Neppure definita è la remunerazione dovuta al concessionario per la prosecuzione della gestione nel periodo successivo alla scadenza della convenzione. Sul punto con la predetta sentenza n. 7478/2021, il Consiglio di Stato ha stabilito che: <>. Tuttavia, la medesima pronuncia ha chiarito che la conclamata lacuna della convenzione sul periodo di proroga “non comporta il riconoscimento in capo all’amministrazione concedente del potere di determinare unilateralmente la retribuzione di tali obbligazioni post-contrattuali o comunque di modificare unilateralmente la disciplina della convenzione unica che (per la continuità di gestione imposta dall’art. 5.1 cit.) trova applicazione nelle more del subentro del nuovo concessionario”. Nondimeno, in mancanza nella convenzione unica di una specifica disciplina applicabile al periodo successivo alla scadenza della convenzione appare necessario e corretto calibrare il contenuto del PEF dedicato al periodo transitorio, in relazione alle diverse funzioni, compiti gestori, investimenti assentiti che gravano (o siano gravati) sul concessionario. In altre parole “pur se il rapporto concessorio è ancora fondamentalmente disciplinato dalla convenzione unica, non è possibile applicare pedissequamente, nelle more dell’affidamento della concessione, le regole che la convenzione scaduta prevede in punto di condizioni economiche e di contenuto del piano economico-finanziario del periodo transitorio, per essere in questo periodo in parte mutati i compiti del concessionario, come si desume proprio dal citato art. 5.1 della convenzione unica, il quale delimita gli obblighi a carico del concessionario uscente a quelli concernenti l’ordinaria amministrazione” (Cons. Stato n. 7478/2021). Ne consegue, conclude il Consiglio di Stato, che nessuna delle due parti del rapporto concessorio possa imporre all’altra, indipendentemente dalla forma assunta, alcuno specifico obbligo contrattuale relativo al periodo di proroga. Ciò posto, secondo la giurisprudenza, invece, lo strumento principale attraverso il quale la concessionaria può far valere le proprie ragioni economiche, in relazione alle corrispondenti variazioni delle condizioni della concessione, è costituito proprio «dalla revisione del PEF, con le sue specifiche procedure e modalità […] e con i corrispondenti rimedi e soluzioni – convenzionali e di legge – in caso di mancata soddisfazione in tale sede delle legittime aspirazioni della concessionaria (anche per mancato accordo sull’adeguamento), incluse, al ricorrere dei presupposti, le soluzioni estreme dello scioglimento del rapporto […] e fatti salvi i rimedi avverso l’inerzia dell’ente concedente in relazione alla revisione […] ed eventualmente quelli di natura risarcitoria in presenza dei corrispondenti presupposti» (Cons. Stato, sez. V, 20 luglio 2020, n. 4636, punto 1.1.5 del “diritto”). La predisposizione di un nuovo PEF concretizza, quindi, l’obbligo di negoziazione incombente sulle parti e presuppone che le parti cooperino fra loro per l’individuazione di una soluzione per la gestione delle sopravvenienze che consenta loro di identificare la soluzione più soddisfacente per la realizzazione dei propri obiettivi. Sul piano generale tale obbligo trova la propria fonte nell’art. 1374 c.c. che tratteggia l’intervento diretto sul contratto da parte del giudice, in ossequio ad un principio di eterointegrazione correttiva del contratto secondo equità. L’esigenza di rinegoziazione è gradualmente affiorata in alcune pronunce della Suprema Corte (cfr. Cass. 20 aprile 1994, n. 3775), anzi, proprio la portata sistematica della buona fede oggettiva nella fase esecutiva del contratto ex art. 1375 c.c. assume assoluta centralità, postulando la rinegoziazione come cammino necessitato di adattamento del contratto alle circostanze ed esigenze sopravvenute. Vero è che nel caso di specie non si è verificata una sopravvenienza fattuale esterna al contratto che ne abbia alterato l’equilibrio (si pensi agli squilibri conseguenti all’avvento della pandemia e all’adozione delle misure pubbliche di contrasto all’epidemia), ma è anche vero che il lungo periodo di proroga della concessione costituisce l’effetto di eventi (come il mancato perfezionamento delle procedure di evidenza pubblica), evidentemente indipendenti dalla volontà delle parti e che possono quindi essere considerati alla stregua di sopravvenienze, fondando così luogo all’obbligo di rinegoziazione ravvisato dal Giudice di appello. Quanto al contenuto di tale obbligo, può sostenersi che “rinegoziare” vuol dire impegnarsi a porre in essere tutti quegli atti che, in relazione alle circostanze, possono concretamente consentire alle parti di accordarsi sulle condizioni dell’adeguamento del contratto, alla luce delle modificazioni intervenute. I criteri dai quali desumere il comportamento delle parti, nel corso delle trattative destinate alla rinegoziazione del contratto, devono ritenersi anche in quest’occasione offerti dalla clausola generale di buona fede (art. 1175 e 1375 c.c.), che non è regola sul contenuto ma giustappunto sulla condotta. Sennonché l’obbligo di rinegoziare impone di intavolare nuove trattative e di condurle correttamente, ma non anche di concludere il contratto modificativo. Pertanto, la parte tenuta alla rinegoziazione è adempiente se, in presenza dei presupposti che richiedono la revisione del contratto, promuove una trattativa o raccoglie positivamente l’invito di rinegoziare rivoltole dalla controparte e se propone soluzioni riequilibrative che possano ritenersi eque e accettabili alla luce dell’economia del contratto; di sicuro non può esserle richiesto di acconsentire ad ogni pretesa dell’altra parte o di addivenire in ogni caso alla conclusione di un (pre)determinato contratto, che, è evidente, presuppone valutazioni di convenienza economica e giuridica che non possono essere sottratte né all’uno né all’altro contraente. Ritiene il Collegio che i principi di buona fede e di leale collaborazione, in un’ottica evolutiva e costituzionalmente orientata, non riguardino solo il versante privatistico dell’azione delle Amministrazioni pubbliche, ma abbiano oramai assunto il rango di parametri per la valutazione della stessa legittimità dell’attività autoritativo/pubblicistica. Ed è proprio con riferimento al profilo eminentemente amministrativo che si ravvisano nella legislazione più recente e nella giurisprudenza i segni della progressiva sussunzione dei principi della buona fede e della leale cooperazione quali parametri di legittimità dell’agere pubblico. Una recente conferma di tale processo di positivizzazione è ritraibile sul piano normativo dall’art. 1, comma 2-bis, della legge 7 agosto 1990, n. 241, così formulato: «(i) rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede” [comma aggiunto dall’art. 12, comma 1, lettera 0a), legge 11 settembre 2020, n. 120; di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, recante «Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitali»]. La disposizione ora richiamata ha positivizzato una regola di carattere generale dell’agire pubblicistico dell’amministrazione, che trae fondamento nei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento (art. 97, comma 2, Cost.) e che porta a compimento la concezione secondo cui il procedimento amministrativo – forma tipica di esercizio della funzione amministrativa – non è più contraddistinto dall’assoluta unilateralità del potere, ma è il luogo di composizione del conflitto tra l’interesse pubblico primario e gli altri interessi, pubblici e privati, coinvolti nell’esercizio del primo. La recente giurisprudenza del Consiglio di Stato ha immediatamente colto lo spunto offerto dal Legislatore affermando che: “La disposizione ora richiamata [d.l. n. 76/2020] ha positivizzato una regola di carattere generale dell’agire pubblicistico dell’amministrazione, che trae fondamento nei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento (art. 97, comma 2, Cost.) e che porta a compimento la concezione secondo cui il procedimento amministrativo – forma tipica di esercizio della funzione amministrativa – non è più contraddistinto dall’assoluta unilateralità del potere, ma è il luogo di composizione del conflitto tra l’interesse pubblico primario e gli altri interessi, pubblici e privati, coinvolti nell’esercizio del primo” (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 29 novembre 2021, n. 20). La crescente rilevanza anche nell’ambito pubblicistico dei principi in parola è stata poi confermata dalla successiva sentenza dell’Adunanza Plenaria ha confermato che “nei rapporti di diritto amministrativo, inerenti al pubblico potere, è configurabile un affidamento del privato sul legittimo esercizio di tale potere e sull’operato dell’amministrazione conforme ai principi di correttezza e buona fede, fonte per quest’ultima di responsabilità non solo per comportamenti contrari ai canoni di origine civilistica ora richiamati, ma anche per il caso di provvedimento favorevole annullato su ricorso di terzi” (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. 29 novembre 2021, n. 21).
Traslando tali coordinate al caso di specie, risulta evidente che il MIT non abbia adempiuto a tale obbligo di leale collaborazione, limitandosi con la nota gravata a respingere le proposte avanzate dalla ricorrente, senza formulare controproposte che potessero far nascere la necessaria interlocuzione negoziale e limitandosi a richiamare le determinazioni adottate dal CIPE. Queste ultime, come invece statuito dal Giudice di appello, possono al più rivestire “il valore di una direttiva rivolta al MIT” quale Amministrazione concedente sulla quale incombe quindi l’obbligo di rinegoziare i termini del piano finanziario.
I rilevati vizi determinano l’assorbimento delle ulteriori censure proposte, atteso che dalla presente pronuncia scaturisce un più ampio obbligo dell’Amministrazione a cui corrisponde quello della concessionaria di instaurare un contraddittorio negoziale ispirato ai predetti canoni di buona fede e correttezza, al fine di regolamentare le rispettive posizioni nel periodo di proroga della concessione.
La ravvisata illegittimità della nota impugnata e la ritenuta sussistenza dell’obbligo delle parti di rinegoziare comporta il rigetto della domanda con cui la ricorrente chiede che venga accertato l’obbligo dell’Amministrazione di adempiere il PEF proposto da SAM, atteso che la pronuncia giurisdizionale non può surrogare l’autonomia contrattuale delle parti, salvo che, in violazione dei canoni di correttezza e buona fede predicati nella presente sentenza, le parti o una di esse adotti comportamenti incompatibili con la definizione concordata di una disciplina transitoria. L’eventuale violazione dell’obbligo di rinegoziazione potrà, eventualmente e successivamente, dare luogo all’esercizio dei rimedi per l’esecuzione delle sentenze, mediante l’instaurazione del giudizio di ottemperanza.
In definitiva il ricorso deve essere accolto in parte, e per i profili sopra precisati, limitatamente alla domanda di annullamento della nota del MIT. La soccombenza, sia pure parziale dell’Amministrazione, ne comporta la condanna al pagamento delle spese del presente giudizio nella misura di cui in dispositivo.