<p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong>CORTE COSTITUZIONALE – sentenza 9 maggio 2019 n. 109</strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>L’art. 43 del TULPS prevede, al primo comma, che «[o]</em>ltre a quanto è stabilito dall’art. 11 non può essere conceduta la licenza di portare armi: a) a chi ha riportato condanna alla reclusione per delitti non colposi contro le persone commessi con violenza, ovvero per furto, rapina, estorsione, sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione; b) a chi ha riportato condanna a pena restrittiva della libertà personale per violenza o resistenza all’autorità o per delitti contro la personalità dello Stato o contro l’ordine pubblico; c) a chi ha riportato condanna per diserzione in tempo di guerra, anche se amnistiato, o per porto abusivo di armi<em>». Secondo i giudici rimettenti, l’automatismo preclusivo stabilito dalla disposizione censurata – automatismo che, secondo i più recenti orientamenti del Consiglio di Stato, non lascerebbe alcuno spazio a valutazioni discrezionali da parte dell’autorità amministrativa – contrasterebbe con i principi di ragionevolezza e di proporzionalità sanciti dall’art. 3 Cost.; ciò in quanto, in primo luogo, la disposizione censurata non consentirebbe di attribuire alcun rilievo a circostanze successive alla condanna che attestino l’affidabilità dell’interessato, come il lungo tempo trascorso dalla condanna, l’avvenuta riabilitazione, o la stessa ininterrotta concessione della licenza di porto d’armi senza che si sia verificato alcun abuso da parte del suo titolare; in secondo luogo, la disposizione sancirebbe irragionevolmente un automatismo ostativo anche rispetto a fatti di reato di particolare tenuità, che potrebbero oggi non dare luogo ad alcuna condanna ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen.; infine, il meccanismo preclusivo stabilito dalla disposizione censurata darebbe luogo a una disciplina irragionevolmente più severa di quella apprestata da altre disposizioni che – ad esempio in materia di concessione della patente di guida – attribuiscono effetti favorevoli alla riabilitazione intervenuta dopo la condanna.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La Corte ha sottolineato nella sentenza n. 440 del 1993 che «</em>il porto d’armi non costituisce un diritto assoluto, rappresentando, invece, eccezione al normale divieto di portare le armi e che può divenire operante soltanto nei confronti di persone riguardo alle quali esista la perfetta e completa sicurezza circa il “<em>buon uso</em>” delle armi stesse<em>»; e ha osservato, altresì, che «[d]</em>alla eccezionale permissività del porto d’armi e dai rigidi criteri restrittivi regolatori della materia deriva che il controllo dell’autorità amministrativa deve essere più penetrante rispetto al controllo che la stessa autorità è tenuta ad effettuare con riguardo a provvedimenti permissivi di tipo diverso, talora volti a rimuovere ostacoli a situazioni giuridiche soggettive di cui sono titolari i richiedenti<em>». Proprio in ragione dell’inesistenza, nell’ordinamento costituzionale italiano, di un diritto di portare armi, deve riconoscersi in linea di principio un ampio margine di discrezionalità in capo al legislatore nella regolamentazione dei presupposti in presenza dei quali può essere concessa al privato la relativa licenza, nell’ambito di bilanciamenti che – entro il limite della non manifesta irragionevolezza – mirino a contemperare l’interesse dei soggetti che richiedono la licenza di porto d’armi per motivi giudicati leciti dall’ordinamento e il dovere costituzionale di tutelare, da parte dello Stato, la sicurezza e l’incolumità pubblica (su tale dovere, </em>ex plurimis<em>, sentenze n. 115 del 1995, n. 218 del 1988, n. 4 del 1977, n. 31 del 1969 e n. 2 del 1956): beni, questi ultimi, che una diffusione incontrollata di armi presso i privati potrebbe porre in grave pericolo, e che pertanto il legislatore ben può decidere di tutelare anche attraverso la previsione di requisiti soggettivi di affidabilità particolarmente rigorosi per chi intenda chiedere la licenza di portare armi. Non può, di conseguenza, ritenersi manifestamente irragionevole una disciplina, pur particolarmente severa come quella ora all’esame, che sancisce un divieto assoluto di concessione della licenza di porto d’armi anche nei confronti di chi sia stato condannato per furto e abbia ottenuto la riabilitazione, dal momento che tale delitto comporta pur sempre una diretta aggressione ai diritti altrui, che pregiudica in maniera significativa la sicurezza pubblica e al tempo stesso rivela una grave mancanza di rispetto delle regole basilari della convivenza civile da parte del suo autore. Resta naturalmente libero il legislatore, entro il limite della non manifesta irragionevolezza, di declinare diversamente il bilanciamento tra i contrapposti interessi in gioco, ad esempio attraverso previsioni – come quella introdotta con il già citato d.lgs. n. 104 del 2018, della quale i ricorrenti nei giudizi </em>a quibus<em> potranno ora avvalersi reiterando le rispettive domande alle questure competenti – che attenuino la rigidità della preclusione, allorché sia intervenuta la riabilitazione del condannato.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Va dichiarata inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 43, primo comma, lettera a), del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per il Friuli-Venezia Giulia; vanno poi dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 43, primo comma, lettera a), del TULPS, sollevate, in riferimento all’art. 3 Cost., sempre dal Tribunale amministrativo regionale per la Toscana e dal Tribunale amministrativo regionale per il Friuli-Venezia Giulia</em>.</p>