Corte costituzionale, sentenza 27 febbraio 2019, n. 26
La giurisprudenza di legittimità ha stabilito che il divieto, stabilito (in tema di confisca di prevenzione)dall’art. 1, comma 194, della legge n. 228 del 2012, di iniziare o proseguire azioni esecutive sui beni confiscati all’esito di procedimenti di prevenzione conclusi o ancora pendenti alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136) non comporta altresì il divieto per il creditore di proporre istanza di fallimento nei confronti dell’impresa i cui beni siano stati integralmente sottoposti a confisca di prevenzione (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 17 ottobre 2013, n. 49821). Cionondimeno, anche laddove si ipotizzasse che nel caso concreto l’impresa debitrice – i cui beni sono stati nel frattempo confiscati nella loro totalità – ancora esista a tutt’oggi, e che essa sia assoggettabile a fallimento nonostante la relativa natura di impresa artigiana, con conseguente possibilità per il creditore ricorrente di presentare istanza di fallimento nei relativi confronti, le chances di soddisfacimento (anche solo parziali) delle ragioni creditorie resterebbero condizionate all’effettiva apertura di una procedura concorsuale, a propria volta subordinata a una situazione di insolvenza dell’impresa che potrebbe, evidentemente, non sussistere nel caso concreto. Di qui l’interesse concreto e attuale del creditore a essere, invece, ammesso – previa dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata – alla speciale procedura di liquidazione dei crediti disciplinata dall’art. 1, commi 194 e seguenti, della legge n. 228 del 2012, a prescindere dalla relativa, eventuale facoltà di presentare istanza di fallimento dell’impresa debitrice.
Le questioni di legittimità sollevate ripropongono, nel caso di specie, la tematica della tutela dei terzi creditori rispetto al sequestro e alla confisca di prevenzione: tematica già ampiamente analizzata dalla sentenza n. 94 del 2015, alla cui dettagliata ricostruzione storica conviene qui semplicemente rinviare; mette conto rammentare che la disciplina in questa sede censurata è stata introdotta dal legislatore successivamente all’emanazione del d.lgs. n. 159 del 2011, che regola in modo organico le modalità di tutela dei diritti dei terzi suscettibili di essere pregiudicati dall’esecuzione dei provvedimenti di prevenzione, con riferimento esclusivo – però – ai procedimenti di prevenzione avviati successivamente alla relativa entrata in vigore; la disciplina di cui ai commi 194 e seguenti dell’art. 1 della legge n. 228 del 2012, che viene ora in considerazione, è stata dunque adottata al fine di regolare la tutela dei diritti dei terzi in relazione a tutti i procedimenti ai quali ancora non si applica, ratione temporis, il predetto d.lgs. n. 159 del 2011.
Con la sentenza n. 94 del 2015, la disposizione oggi all’esame – l’art. 1, comma 198, della legge n. 228 del 2012 – era già stata dichiarata costituzionalmente illegittima, per contrasto con l’art. 36 Cost., «nella parte in cui non include tra i creditori che sono soddisfatti nei limiti e con le modalità ivi indicati anche i titolari di crediti da lavoro subordinato», avendo la Corte ritenuto che la disposizione censurata, escludendo i crediti da lavoro da ogni possibilità di soddisfazione sui beni confiscati del debitore, comportasse un radicale e irreparabile sacrificio dell’interesse dei lavoratori, non giustificato dall’esigenza di assicurare la tutela del contrapposto interesse sotteso alle misure patrimoniali, ricollegabile a esigenze di ordine e sicurezza pubblica, pure anch’esse – in astratto – costituzionalmente rilevanti; e ciò, in particolare, «nell’ipotesi di confisca “totalizzante”, la quale investa, cioè […] l’intero patrimonio del datore di lavoro […]. In simili evenienze, il lavoratore perde, in pratica, ogni prospettiva di ottenere il pagamento dei propri crediti tanto dal debitore (che non ha più mezzi), quanto dallo Stato, cui sono devoluti i beni confiscati» (sentenza n. 94 del 2015). In quell’occasione, la Corte aveva altresì rilevato che «[l]a disciplina censurata non può essere […] giustificata in una prospettiva di bilanciamento con l’interesse sotteso alle misure di prevenzione patrimoniali, ricollegabile ad esigenze di ordine e sicurezza pubblica anch’esse costituzionalmente rilevanti. Nella specie, in effetti, non di bilanciamento si tratta, “ma di un sacrificio puro e semplice” dell’interesse contrapposto (sentenza n. 317 del 2009)»; aggiungendo che «[i]l bilanciamento – come detto – è quello espresso, nell’ambito della normativa “a regime”, dalle previsioni limitative recate dall’art. 52 del d.lgs. n. 159 del 2011, volte ad impedire che la tutela si estenda a soggetti lato sensu “conniventi” con l’attività illecita del proposto o di reimpiego dei suoi proventi, o a crediti simulati o artificiosamente creati, ovvero ancora a casi nei quali è possibile aggredire utilmente il residuo patrimonio del debitore: previsioni peraltro valevoli – in virtù dello specifico richiamo operato dall’art. 1, comma 200, primo periodo, della legge n. 228 del 2012 (da ritenere comprensivo del requisito della certa anteriorità del credito rispetto al sequestro) – anche nell’ambito della disciplina transitoria relativa ai procedimenti di prevenzione pendenti, che qui interessa».
Analoghe considerazioni possono ripetersi, sotto il diverso angolo visuale dell’art. 3 Cost. che qui viene in considerazione, per la generalità dei crediti non compresi nell’elenco tassativo contenuto nella disposizione censurata, e diversi da quelli aventi origine in un contratto di lavoro subordinato, ai quali unicamente fa riferimento la sentenza n. 94 del 2015, non sussistendo alcuna ragione plausibile per sancire l’irreparabile sacrificio dei diritti della generalità dei creditori di buona fede, a fronte di provvedimenti di sequestro o di confisca che abbiano attinto il loro debitore; né di discriminare la loro posizione rispetto a quelle sole oggi salvaguardate dalla disposizione censurata. Ciò vale, in particolare, per il requisito alternativo stabilito dal comma 198, a tenore del quale il soddisfacimento dei creditori non ipotecari è subordinato alla circostanza che essi abbiano trascritto un pignoramento, ovvero che siano intervenuti nell’esecuzione iniziata da altro creditore, nell’uno e nell’altro caso in data anteriore alla trascrizione del sequestro di prevenzione; disciplina che fa discendere un effetto radicalmente preclusivo della possibilità di ottenere il soddisfacimento del proprio credito dal mancato esperimento di un’azione esecutiva che un creditore effettivamente in buona fede potrebbe, in relazione al momento di insorgenza del credito, non aver avuto ancora la possibilità di promuovere o, comunque, non avendo ragione di sospettare l’imminente apertura di un procedimento di prevenzione a carico del proprio debitore, potrebbe non avere ancora promosso; la giusta esigenza di evitare manovre collusive con il debitore sottoposto a procedimento di prevenzione – manovre in ipotesi finalizzate a porre in salvo una parte dei propri beni dalla prospettiva del sequestro e della successiva confisca – può infatti essere soddisfatta attraverso la verifica, espressamente richiesta al tribunale dal successivo comma 200 dell’art. 1 censurato, delle condizioni già imposte in via generale dall’art. 52 del d.lgs. n. 159 del 2011 per il soddisfacimento dei diritti di credito dei terzi. Fra tali condizioni spiccano, in particolare, la necessità che il credito, o il diritto reale di garanzia, abbiano data certa anteriore al sequestro, che l’escussione del restante patrimonio sia risultata insufficiente al soddisfacimento del credito (salvo per i crediti assistiti da cause legittime di prelazione sui beni sequestrati), e che il credito non sia strumentale all’attività illecita o a quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego, a meno che il creditore dimostri di avere ignorato in buona fede il nesso di strumentalità; buona fede che, ai sensi dell’art. 52, comma 3, del decreto legislativo medesimo, dovrà essere valutata dal tribunale tenendo conto «delle condizioni delle parti, dei rapporti personali e patrimoniali tra le stesse e del tipo di attività svolta dal creditore, anche con riferimento al ramo di attività, alla sussistenza di particolari obblighi di diligenza nella fase precontrattuale nonché, in caso di enti, alle dimensioni degli stessi». Se tali condizioni sono state considerate dal legislatore del 2011 sufficienti a evitare il rischio di manovre collusive in relazione a qualsiasi tipologia di credito, non si vede perché, con riferimento ai soli procedimenti di prevenzione iniziati anteriormente all’entrata in vigore del decreto legislativo n. 159 del 2011, il legislatore del 2012 abbia invece fissato criteri più restrittivi, tali da escludere la grande maggioranza dei creditori in buona fede da ogni effettiva possibilità di soddisfacimento dei propri diritti: conseguenza, quest’ultima, direttamente discendente dal generale divieto, posto dall’art. 1, comma 194, della legge n. 228 del 2012, di iniziare o proseguire azioni esecutive sui beni confiscati all’esito di procedimenti di prevenzione; il radicale sacrificio dell’interesse di un creditore che abbia acquisito il proprio diritto confidando, in buona fede, nel futuro adempimento da parte del debitore, pur in presenza delle condizioni ritenute idonee a evitare condotte collusive dall’art. 52 del d.lgs. n. 159 del 2011, si risolve, allora, in una restrizione sproporzionata – in quanto eccessiva rispetto al pur legittimo scopo antielusivo perseguito – del diritto patrimoniale del creditore medesimo, in violazione dell’art. 3 Cost. Garanzia costituzionale, quest’ultima, posta in causa altresì – sotto differente profilo – dalla segnalata irragionevole disparità di trattamento tra i creditori ai quali il comma 198 offre allo stato tutela, e tutte le restanti categorie di creditori, che da tale tutela restano escluse senza ragione plausibile. L’art. 1, comma 198, della legge n. 228 del 2012 deve, conseguentemente, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui limita alle specifiche categorie di creditori ivi menzionati la possibilità di ottenere soddisfacimento dei propri crediti sui beni del proprio debitore che siano stati attinti da confisca di prevenzione, risultato che può essere conseguito mediante l’ablazione dalla disposizione censurata di tutti gli incisi che limitano le categorie dei creditori legittimati ad accedere allo speciale procedimento disciplinato dai commi da 194 a 206, e la conservazione della sola parte della disposizione che recita: «[i] creditori […] sono soddisfatti nei limiti e con le modalità di cui ai commi da 194 a 206», rimanendo ferma, in particolare, la necessità di verificare caso per caso, ai sensi del comma 200, la presenza di tutte le condizioni previste dall’art. 52 del d.lgs. n. 159 del 2011 ai fini del soddisfacimento del diritto vantato da ciascun creditore.
Va dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 198, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2013)», limitatamente alle parole «muniti di ipoteca iscritta sui beni di cui al comma 194 anteriormente alla trascrizione del sequestro di prevenzione,» e «Allo stesso modo sono soddisfatti i creditori che: a) prima della trascrizione del sequestro di prevenzione hanno trascritto un pignoramento sul bene; b) alla data di entrata in vigore della presente legge sono intervenuti nell’esecuzione iniziata con il pignoramento di cui alla lettera a).».