Corte di Cassazione, Sez. Unite Penali, sentenza 24 dicembre 2021 n. 47127
PRINCIPIO DI DIRITTO
Ove riconosca la continuazione tra reati, ai sensi dell’art. 81 cod. pen., il giudice, nel determinare la pena complessiva, oltre ad individuare il reato più grave e stabilire la pena base per tale reato, deve anche calcolare e motivare l’aumento di pena in modo distinto per ognuno dei reati satellite.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- La questione sottoposta a queste Sezioni Unite è stata così formulata: “Se, in tema di reato continuato, il giudice, nel determinare la pena complessiva, oltre ad individuare il reato più grave e stabilire la pena base per tale reato, debba anche calcolare e motivare l’aumento di pena in modo distinto per ognuno dei reati satellite o possa determinarlo unitariamente”.
- La censura proposta dal ricorrente Pizzone richiede la preliminare soluzione del quesito interpretativo posto alle Sezioni Unite; infatti, egli si è doluto che non sia stata resa motivazione in merito ai singoli aumenti della pena base conseguenti al riconoscimento della continuazione tra i reati. I temi della modalità di definizione dell’aumento per la continuazione e quello della motivazione che deve rendere il giudice sulla pena del reato continuato non sono coincidenti ma – lo rileva la stessa sezione remittente – sono tra loro connessi.
Infatti, si tratta di definire l’oggetto dell’obbligo motivazionale, che a seconda delle opzioni risulta essere, oltre alla pena stabilita per il reato più grave tra quelli in continuazione, la pena unitariamente stabilita per tutti i reati satellite o, piuttosto, le pene partitamente stabilite per ciascuno di questi. Pertanto, giova alla maggiore chiarezza della presente decisione riformulare il quesito proposto, nel senso che occorre dare risposta ai seguenti interrogativi: a) se in caso di reato continuato il giudice debba stabilire (e quindi evidenziare), oltre che la pena per il reato più grave, quelle relative ai singoli reatisatellite o se possa stabilire ed indicare un unitario; b) se, nel primo caso, l’obbligo di motivazione richieda di giustificare l’entità di ciascun aumento.
- Ariguardo del primo interrogativo si registrano due orientamenti contrapposti. Secondo un primo, nel caso di reato continuato non vi è necessità di determinare i singoli aumenti di pena, potendo essere operato un solo complessivo aumento della pena base. Si tratta di un indirizzo che ha radici risalenti, atteso che già Sez. 5, n. 2590 del 14/12/1978, dep. 1979, Massa, Rv. 141415 affermava che «mentre nel cumulo materiale la pena unica da applicare ai sensi dell’art 73 cod. pen. è costituita dalla somma aritmetica delle pene che si dovrebbero infliggere per i singoli reati, nella continuazione l’aumento di pena si riferisce complessivamente a tutti i reati cosiddetti satelliti, sicché detto aumento non deve analiticamente essere determinato per ciascuno di essi».
Pur riconoscendo che il giudice ha l’obbligo di specificare la pena base inflitta per il reato più grave e il conseguente aumento per la continuazione (Sez. 2, n. 3603 del 13/01/1981, Bertocchi, Rv. 148465; Sez. 2, n. 5930 del 06/03/1984, Di Carlo, Rv. 164954), si sosteneva in talune decisioni che il giudice non ha eguale dovere a riguardo dell’aumento apportato alla pena base per ciascuna violazione e ciò in quanto «la continuazione costituisce una unità reale e non fittizia dei singoli reati; la pena, quindi, va determinata globalmente con un inasprimento unico» (Sez. 2, n. 8748 del 24/05/1984, Rv. 166178). Si riteneva, altresì, che «la distinta indicazione dei singoli aumenti di pena per i reati satelliti non è prevista né richiesta dalla legge, sicché l’indicazione, in maniera unitaria e complessiva, dell’aumento di pena per i reati satelliti non cagiona irregolarità nè nullità di alcun genere» (Sez. 1, n. 8073 del 16/10/1986, dep. 1987, Albesano, Rv. 176330).
In seno al medesimo orientamento altri poneva l’accento sulla modalità di determinazione della pena del reato continuato, ritenendo che, avendo la stessa «carattere unitario, … il giudice di merito non è tenuto ad indicare gli aumenti ritenuti per ciascun reato, essendo sufficiente, stabilita la pena base, determinare su di essa l’aumento, nei limiti fissati dallo stesso art. 81 cod. pen.» (Sez. 1, n. 1731 del 22/12/1981, dep. 1982, Masala, Rv. 152353).
La perdita di autonoma evidenza delle pene per i reati satellite costituiva un principio tanto recepito da rendere necessaria la puntualizzazione che «anche se é esatto che, in ogni caso di continuazione sia tra reati omogenei che tra reati eterogenei, il giudice deve procedere ad un aumento unitario della pena fissata per la violazione più grave, non può tuttavia avere effetti invalidanti sulla decisione il fatto che il giudice proceda ad aumenti di pena separati per ciascuno dei reati satelliti, uniti in continuazione con quello più grave, senza naturalmente superare, nel complesso, il triplo della pena base».
Infatti, si rimarcava, il procedimento frazionato dell’aumento di pena che in tal modo si segue non conduce a risultati diversi da quelli che si sarebbero avuti, con un aumento unitario, ma anzi meglio evidenzia, attraverso l’indicazione delle singole frazioni di pena per i vari reati satellite, le ragioni che hanno determinato l’aumento complessivo di pena (Sez. 1, n. 9692 del 09/04/1980, Frater, Rv. 146024; conformi Sez. 3, n. 3 del 12/06/1981, dep. 1982, Papa, Rv. 151445; Sez. 5, n. 1768 del 08/02/1983, dep. 1984, Dono, Rv. 162864; Sez. 3, n. 1913 del 28/01/1986, Bertolone, Rv. 172047; Sez. 3, n. 3051 del 27/10/1987, dep. 1988, Di Torna, Rv. 177830; Sez. 6, n. 9609 del 27/06/1988, Araniti, Rv. 179286).
Simili argomentazioni sono giunte sino a tempi più recenti. Si legge in Sez. 5, n. 7164 del 13/01/2011, De Felice, Rv. 249710 che «l’aumento per continuazione operato sul reato più grave (e quindi sulla pena base) può anche essere determinato in maniera cumulativa, vale a dire, senza la necessità di indicare il quantum di pena per ciascun reato satellite». Il principio è stato ribadito da Sez. 5, n. 29829 del 13/03/2015, Pedercini, Rv. 265141, la quale ha puntualizzato che non dà luogo a nullità l’aumento di pena per i reati satellite determinato in termini unitari e complessivi, e non distintamente, in relazione a ciascuna delle violazioni. Precisazione già operata da Sez. 2, n. 4984 del 21/01/2015, Giannone, Rv. 262290, in consonanza con Sez. 5, n. 17081 del 26/11/2014, dep. 2015, Bruni, Rv. 263700; Sez. 2, n. 32586 del 03/06/2010, Ben Alì, Rv. 247978; Sez. 1, n. 3100 del 27/11/2009, dep. 2010, Amatrice, Rv. 245958. In particolare, la sentenza n. 4984/2015 prende atto che sul punto erano intervenute le Sezioni Unite affermando il principio per il quale «è nulla “in parte qua”, perché non consente il controllo sul buon uso fatto dal giudice del suo potere discrezionale, la sentenza con cui il giudice di merito, nel pronunciare condanna per più reati, determini la pena complessiva senza alcuna indicazione della pena stabilita per ciascun reato, di quello ritenuto più grave e dell’aumento per la continuazione» (Sez. U, n. 7930 del 21/04/1995, Zouine, Rv. 201549).
Ma, ad avviso della Seconda Sezione, tale principio è strettamente correlato al caso esaminato dal massimo consesso, nel quale il Giudice aveva determinato la pena complessiva senza alcuna indicazione della pena stabilita per ciascun reato, di quello ritenuto più grave e dell’aumento per la continuazione.
- Quanto all’opposto orientamento, a stretto rigore ad esso non possono essere ricondotte quelle decisioni nelle quali si sostiene che il giudice ha la facoltà di apportare distinti aumenti di pena a quella stabilita per il reato più grave; per quanto vi si sottolinei che un simile metodo di computo «lungi dall’essere contrario alla legge penale, è ad essa perfettamente aderente» (Sez. 3, n. 1913/1986, cit.; similmente Sez. 1, n. 6204 del 11/03/1991, Controsceri, Rv. 188024), non si giunge a rinvenire un qualche vizio della decisione quando l’aumento venga fatto unitariamente. Occorre quindi guardare alle pronunce nelle quali viene sostenuto che nel determinare la pena complessiva per il reato continuato il giudice non solo deve individuare il reato più grave, stabilendo la pena base applicabile per tale reato, ma ha anche il dovere di calcolare l’aumento di pena per la continuazione in modo distinto per i singoli reati satellite anziché unitariamente.
Di esse l’ordinanza di rimessione ha operato una ricognizione, ponendo correttamente in evidenza come il convergente orientamento formatosi riguardo ai doveri del giudice dell’esecuzione, pur presupponendo il peculiare vincolo allo stesso imposto di attenersi alla valutazione del giudice della cognizione in merito alla quantificazione della pena base onde individuare il reato base, rappresenti una pertinente presa di posizione almeno quando, come nel caso che occupa, il giudice della cognizione debba operare l’aumento per la continuazione ‘esterna’, prendendo come pena base quella già fissata in altra sentenza di condanna divenuta irrevocabile.
Gli argomenti valorizzati dalle decisioni che danno vita all’indirizzo in esame si incentrano sulla necessità di permettere il controllo sull’uso del potere discrezionale attribuito al giudice e la rideterminazione della sanzione negli ulteriori gradi di giudizio (così Sez. 5, n. 16015 del 18/2/2015, Nuzzo, Rv. 263591 e Sez. 1, n. 27198 del 28/5/2013, Margherito, Rv. 256616); oppure sulla necessità di garantire le altre specifiche finalità espressamente previste dalla legge e collegate ad una valutazione autonoma dei singoli reati che compongono l’unicità del disegno criminoso (Sez. 3, n. 1446 del 13/09/2017, dep. 2018, S., Rv. 271830). Altre si richiamano essenzialmente all’insegnamento delle Sezioni Unite che ravvisa una causa di nullità nella mancata indicazione delle pene stabilite per ciascun reato (così Sez. 6, n. 48009 del 28/09/2016, Cocomazzi, Rv. 268131).
- Ritengono queste Sezioni Unite che, diversamente da quanto è stato sostenuto in alcune pronunce che militano per la tesi dell’aumento unitario, il dato normativo impone al giudice di individuare in modo distinto e specifico le pene che ritiene congrue per ciascuno dei reati avvinti dal nesso di continuazione. L’art. 533, comma 2, cod. proc. pen. è al riguardo di piana lettura. Dapprima il giudice stabilisce la pena che infliggerebbe per ciascun reato; quindi, determina la pena complessiva secondo le regole descritte all’art. 81 cod. pen. (si può tralasciare, in questa sede, il riferimento alle norme sul concorso di reati e di pene).
Per quanto l’osservanza della prescrizione non sia sorvegliata da una qualche sanzione processuale e la prassi giudiziaria sia quella di omettere l’indicazione della pena ‘stabilita’, pure non c’è dubbio che lo schema legale scomponga in due distinte operazioni il procedimento di determinazione della pena per il reato continuato. L’art. 483, secondo comma, del codice di procedura penale del 1930 prevedeva che nel caso di condanna pronunciata per più reati il giudice dovesse stabilire, anche nelle ipotesi di concorso di reati o di pene, la pena che sarebbe stata applicabile per ciascuna delle violazioni. Sez. U, n. 1 del 23/01/1971, Urbinati, Rv. 118011 ritennero la nullità della sentenza che, nel pronunciare condanna per più reati, infligga una pena unica, senza stabilire, appunto in violazione dell’art. 483 cod. proc. pen., la pena per ciascuno dei reati stessi.
Ad avviso della Suprema Corte in tal modo risulta rimossa la autonomia giuridica di ciascun reato e si rende impossibile il controllo sulla corretta applicazione delle regole relative al cumulo delle pene e al buon uso del potere discrezionale del giudice in ordine alla irrogazione della pena. La necessità che il giudice osservasse la menzionata previsione anche nello specifico caso di reati riuniti dalla continuazione venne rimarcata da Sez. U, n. 6300 del 26/05/1984, Falato, Rv. 165179.
Ritenendo che «il principio di favore nei confronti dell’autore di più reati in concorso formale o avvinti nella continuazione si esprime normativamente nella scelta del trattamento ispirato al cumulo giuridico; e se ne verifica il rispetto mediante il raffronto con il risultato sanzionatorio cui si sarebbe pervenuti con il sistema del cumulo materiale, come è prescritto dalla disposizione di sbarramento dell’ultimo comma dell’art. 81», il Supremo Collegio scandì che ciò «postula il dovere del giudice del merito, del resto imposto in termini generali dall’art. 483 cod. proc. pen. , secondo comma, per ogni condanna pronunciata per più reati, di stabilire anche nelle ipotesi di concorso formale o in continuazione, specie se eterogeneo, la pena che sarebbe stata applicabile per ciascuna delle violazioni, al fine di procedere alla comparazione in concreto tra i risultati del cumulo giuridico e di quello materiale».
Questa operazione, aggiunsero le Sezioni Unite, è però dovuta anche in vista della necessaria individuazione della violazione più grave «e consentirà altresì il recupero dell’autonomia dei singoli reati quante volte si porrà il problema dello scioglimento del cumulo per l’applicazione di disposizioni (ad esempio in materia di cause estintive, di misure di sicurezza, o di pene accessorie) che siano riferibili a pene e reati singolarmente considerati». Mutato il diritto processuale la prescrizione dell’art. 483, secondo comma del codice Rocco ha trovato una rimodulazione nell’art. 533, comma 2 del codice Vassalli, ed il principio formulato dalle Sez. U. Urbinati è stato ribadito da Sez. U, n. 7930 del 21/04/1995, Zouine, Rv. 201549, che in un caso nel quale, nel pronunciare condanna per più reati, il giudice di merito aveva determinato la pena complessiva senza alcuna indicazione della pena stabilita per ciascun reato, di quello ritenuto più grave e dell’aumento per la continuazione, ritenne nulla “in parte qua” la sentenza, per l’impossibilità di operare il controllo sul buon uso fatto dal giudice del suo potere discrezionale.
La successiva giurisprudenza ha progressivamente accentuato l’indicazione di un vizio della motivazione (cfr. Sez. 4, n. 13075 del 18/1/1994, Mascolo, Rv. 200738; Sez. 3, n. 15098 del 11/03/2010, P., Rv. 246615, secondo la quale è affetta da vizio di motivazione, e quindi annullabile all’esito del giudizio di legittimità, la sentenza di condanna per più reati che non indichi la pena base stabilita per il reato più grave nonché quella irrogata a titolo di aumento per la continuazione; Sez. 3, n. 16200 del 12/3/2013, Gentile, non mass.).
Soprattutto, è stato ancora ripetuto dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 25939 del 28/02/2013, Ciabotti, Rv. 255347, sul punto non massimata) che, se anche la pena del reato continuato deve essere il risultato di una operazione unitaria, «occorre tuttavia che sia individuabile la pena stabilita dal giudice in aumento per ciascun reatosatellite».
In tal ultima pronuncia è stato evidenziato che la ripartita indicazione dei diversi aumenti di pena permette di verificare l’osservanza del limite posto dal comma terzo dell’art. 81 cod. pen. e di tener conto della circostanza che a taluni effetti il cumulo giuridico si scioglie, sì che ai fini dell’applicazione di istituti quali la prescrizione, l’indulto, l’estinzione delle misure cautelari personali, la sostituzione delle pene detentive brevi, è necessario far riferimento alle pene inflitte per ciascuno dei reati unificati dalla continuazione. Successivamente Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263717 hanno considerato che «la realtà normativa costituita dall’istituto della continuazione è di carattere duttile, che può prestarsi, a seconda delle esigenze, a una lettura unitaria, ovvero ad una analisi frammentata, a seconda delle prospettive che si intendono perseguire. In sintesi: in vista del perseguimento dell’obiettivo del favor rei, coesistono nella figura del reato continuato profili giuridici, tanto di unitarietà, quanto di pluralità».
L’unificazione delle pene voluta dal legislatore importa che «una volta identificato il reato più grave, i reati-satellite assumono il ruolo di semplici elementi dell’incremento sanzionatorio ed in ciò consiste la perdita della loro individualità». Ma «una cosa è la perdita dell’autonomia sanzionatoria del reato-satellite, altro è la conservazione (o se si vuole, la mancata perdita) dell’incidenza ponderale del singolo reato-satellite nel momento (necessariamente antecedente rispetto a quello della determinazione della “pena complessiva”) in cui il giudice si pone a valutare la misura dell’incremento da apportare – in relazione a ciascun reato “minore” – alla pena-base». Su tali premesse, rafforzate dalla evocazione del disposto dell’art. 533, comma 2, cod. proc. pen., anche la sentenza Sebbar è giunta alla conclusione che deve essere individuabile la pena stabilita dal giudice, in aumento, per ciascun reatosatellite.
La “visione multifocale” descritta dalle Sezioni Unite è stata poi richiamata da Sez. U, n. 40983 del 21/06/2018, Giglia, Rv. 273750, che una volta ancora hanno rimarcato la necessità della individuazione delle pene per i singoli reati satellite. Ponendosi in linea di continuità con i precedenti qui citati, la sentenza Giglia ha nuovamente ribadito come «la perdita della autonomia sanzionatoria dei reati satellite nell’ambito del reato continuato non comporti affatto la irrilevanza della valutazione della gravità dei predetti reati singolarmente considerati, come confermato dalla lettera del comma 2 dell’art. 533 del codice di rito, che impone la procedura bifasica per la quale il giudicante, prima, “stabilisce” la pena per ciascun reato, poi, “determina” la pena da applicare per il reato unitariamente considerato, così ridefinendo, in vista della unitaria risposta repressiva, la pena “complessiva” da applicare.
Pena di cui il giudice dovrebbe pure specificare, per quanto la mancanza non sia causa di nullità, l’entità dei singoli aumenti per i reati satellite, evitando quantificazioni forfettarie, in quanto tale specificazione rileva non solo allorché debba procedersi alla scissione delle pene per applicare soltanto ad alcuni dei reati fittiziamente unificati taluni istituti giuridici, ma soprattutto per consentire il controllo dell’esercizio della discrezionalità del giudice nella determinazione della pena, e quindi il rispetto del principio di proporzionalità di essa, dovendo i singoli aumenti corrispondere alla valutazione della gravità degli episodi in continuazione».
- Come già accennato, anche queste Sezioni Unite ritengono che le previsioni normative depongano per l’obbligo del giudice di dare specifica indicazione delle pene che vanno a costituire quella unitaria del reato continuato.
6.1. Viene in rilievo l’art. 533, comma 2, cod. proc. pen., che chiaramente indica al giudice le distinte tappe del percorso richiesto per la determinazione della pena da infliggere a colui che venga condannato per più reati: a) «il giudice stabilisce la pena per ciascuno di essi»; b) «quindi determina la pena che deve essere applicata in osservanza delle norme … sulla continuazione».
Che non si tratti di un relitto storico – status che comunque non sottrarrebbe cogenza alla prescrizione – è dimostrato dal recente intervento operato con la legge n. 103 del 23 giugno 2017, sul corpo dell’art. 546 cod. proc. pen. al fine di “costruire, …, il modello legale della motivazione «in fatto» della decisione, nella quale risulti esplicito il ragionamento probatorio sull’intero spettro dell’oggetto della prova”, come si legge nei lavori preparatori.
Il comma 52 dell’art. 1 della legge, nel sostituire la lettera e) dell’art. 546 cod. proc. pen., ha tra l’altro previsto che la sentenza contiene “la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, con l’indicazione dei risultati acquisiti e dei criteri di valutazione della prova adottati e con l’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie, con riguardo: 2) alla punibilità e alla determinazione della pena, secondo le modalità stabilite dal comma 2 dell’articolo 533, e della misura di sicurezza;”. Pertanto, il legislatore del 2017 ha ribadito la necessità che il giudice dia conto degli elementi considerati per determinare la pena; una pena che va definita attraverso il percorso tratteggiato dall’art. 533, comma 2, cod. proc. pen.
6.2. Come già osservato dalla sentenza Ciabotti, si tratta di una sequenza che assicura il controllo del rispetto del limite posto dal comma 3 dell’art. 81 cod. pen., secondo il quale la pena complessiva non può essere superiore a quella che sarebbe applicabile in caso di cumulo materiale delle pene. Una finalità che non va confusa con quelle soddisfatte dall’obbligo di motivazione, delle quali si scriverà a breve; e che perciò non può essere negata concependo un dovere motivazionale correlato alla sola pena base. All’inverso, proprio la necessità di consentire il controllo dell’esercizio di quella discrezionalità che gli artt. 132, primo comma e 133 cod. pen. attribuiscono al giudice nella determinazione della pena implica la distinta indicazione delle pene che concorrono alla individuazione della pena complessiva, secondo le modalità definite da ultimo dalla sentenza Giglia. Non vi è solo una utilità riflessa alla base della determinazione bifasica delle singole pene; si coglie in essa la diretta correlazione con il controllo della legalità, della congruità e quindi della efficacia rieducativa della pena.
6.3. Ma, oltre alle indicazioni che provengono dalle disposizioni di legge e dalla loro proiezione teleologica, va considerata la infondatezza della premessa teorica che si coglie alla base dell’indirizzo che ritiene legittima la determinazione unitaria dell’aumento di pena conseguente al riconoscimento della continuazione tra reati. Come si è già rammentato, accanto all’affermazione per la quale «la distinta indicazione dei singoli aumenti di pena per i reati satelliti non è prevista né richiesta dalla legge, sicché l’indicazione, in maniera unitaria e complessiva, dell’aumento di pena per i reati satelliti non cagiona irregolarità nè nullità di alcun genere» (Sez. 1, n. 8073 del 16/10/1986, dep. 1987, Albesano, Rv. 176330), vi è la interpretazione del reato continuato come ente unitario: «la continuazione costituisce una unità reale e non fittizia dei singoli reati; la pena, quindi, va determinata globalmente con un inasprimento unico» (Sez. 2, n. 8748 del 24/05/1984, Rv. 166178). Anche siffatta tesi è stata più volte disattesa dalle Sezioni Unite, come peraltro già dovrebbe risultare evidente dai riferimenti sopra operati alle sentenze n. 25939/2013, n. 22471/2015 e n. 40983/2018.
Ancor prima, intervenendo sul tema della applicabilità delle attenuanti di cui ai nn. 4 e 6 dell’art. 62 cod. pen. nell’ipotesi di reato continuato, Sez. U, n. 3286 del 27/11/2008, dep. 2009, Chiodi, Rv. 241755 hanno evidenziato che il contrasto interpretativo all’esame metteva radici nell’opposizione tra la tesi della unitarietà del reato continuato e quella dell’autonomia giuridica delle violazioni in questo confluenti. Infatti, mentre un indirizzo riteneva che per il principio della unitarietà il danno da considerare dovesse essere quello complessivo cagionato dalla somma delle violazioni, per l’opposto orientamento l’unificazione è operata dal legislatore solo quoad poenam e quindi, dovendo considerarsi i diversi reati nelle loro caratteristiche e particolarità in relazione a qualsiasi altro istituto giuridico, il danno deve essere valutato con riferimento a ciascuno dei reati concorrenti.
Le Sezioni Unite hanno rilevato che tale opposizione aveva tratto alimento dalla originaria disciplina dettata dall’art. 81 cod. pen. (poi modificata dal d.l. n. 99 del 1974, convertito dalla legge n. 220 del 1974), giacché non solo per il legislatore del 1930 la disciplina del reato continuato trovava applicazione solo nell’ipotesi che le violazioni risultassero tra loro omogenee, oltre che sorrette dalla identità del disegno criminoso, ma il testo del terzo comma dell’art. 81 cod. pen. espressamente prevedeva che ricorrendo le condizioni della continuazione «… le diverse violazioni si considerano come un solo reato». Rinvenendo conferme della propria ricostruzione in una pluralità di pronunce dalla Corte costituzionale (sentenze n. 115/1987, n. 316/1994 e n. 324/2008) e delle stesse Sezioni Unite (Sez. U, n. 14 del 30/06/1999, Ronga, Rv. 214355 e Sez. U, n. 1 del 26/02/1997, Mammoliti, Rv. 207940), il Supremo Collegio ha escluso l’esistenza di «una struttura unitaria da assumere come punto di partenza di rilievo generale», rilevando, al contrario, che, ove la considerazione unitaria del reato continuato non sia espressamente prevista da apposita disposizione o comunque garantisca un risultato favorevole al reo, «vige e opera la considerazione della pluralità dei reati nella loro autonomia e distinzione che, pertanto, costituisce la regola».
Successivamente le Sezioni Unite si sono confrontate con la disposizione dell’art. 81, primo comma cod. pen., che impone di determinare la pena per il reato continuato aumentando la pena per il reato più grave. Tale regola ha prodotto interpretazioni contrastanti per il caso che a venire in considerazione siano reati puniti con pene eterogenee. La prima questione ha avuto ad oggetto il criterio di individuazione della violazione più grave sulla cui pena apportare l’aumento previsto per il reato continuato.
Questione risolta dalla menzionata sentenza Ciabotti affermando il principio secondo il quale l’individuazione della violazione più grave va operata avendo riguardo alla valutazione compiuta in astratto dal legislatore. Conclusione alla quale le Sezioni Unite sono pervenute a partire dall’assunto secondo il quale «è possibile ritenere ormai superata la concezione unitaria del reato continuato in favore dell’autonomia giuridica delle singole violazioni che confluiscono nel reato continuato, tranne che per gli effetti espressamente previsti dalla legge», come quelli relativi alla determinazione della pena, e sempre che garantisca un risultato favorevole al reo.
Ciò non confligge con il fatto che la pena per il reato continuato è il risultato di una operazione unitaria; espressione il cui senso è che «una volta ritenuta la continuazione tra più reati, il trattamento sanzionatorio originariamente previsto per i reati-satellite perde la sua specificità, proprio per la ragione che, individuata la violazione più grave, essi vanno a comporre una sostanziale unità, disciplinata e sanzionata diversamente mediante le regole dettate all’uopo dal legislatore». Non potrebbe essere diversamente, hanno aggiunto le Sezioni Unite, perché se l’aumento della pena per il reato più grave fosse calcolato sulla base della pena qualitativa edittalmente prevista per il reato satellite verrebbe violata la previsione di legge.
Tuttavia, nella medesima pronuncia si rimarca – lo si è già rammentato – che è comunque necessario che sia individuabile la pena stabilita in aumento per ciascun reato satellite. Una seconda questione ha riguardato la necessità o meno di rivalutazione dell’aumento di pena irrogato a titolo di continuazione per i reati satellite previsti dall’art. 73, d.P.R. n. 309 del 1990 (come modificato dal d.l. n. 272/2005, convertito dalla legge n. 49/2006) aventi ad oggetto ‘droghe leggere’, in conseguenza della reviviscenza della precedente disciplina, determinatasi per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014.
Nell’affermare il dovere del giudice di procedere a una nuova valutazione, le Sezioni Unite Sebbar hanno sottolineato – ed anche questo è stato riportato in precedenza – che l’unificazione delle pene non va intesa come perdita dell’autonomia del reato-satellite sotto il profilo della sua incidenza ponderale, nel momento in cui il giudice è chiamato a valutare la misura dell’incremento da apportare alla pena-base. Proprio per questo le pene dei singoli reati satellite devono essere specificamente individuate dal giudice. Infine, chiamata a risolvere l’ultimo dei contrasti interpretativi dei quali si è sopra fatto cenno, la sentenza Giglia ha nuovamente ribadito che va distinta l’autonomia sanzionatoria dei reati satellite dalla perdurante individualità che ad essi va riconosciuta ai fini della valutazione della loro gravità.
6.4. Tirando le somme da quanto sin qui esposto, la tesi della legittimità di un aumento unitario della pena per il reato più grave – inteso come aumento che non distingue le pene relative a ciascun reato satellite – risulta infondata in entrambi i suoi presupposti. Il dato normativo milita con sufficiente chiarezza a favore della necessità di una specifica indicazione.
La tesi di una unitarietà del reato continuato che estenda i propri effetti oltre le modalità di calcolo della pena per il reato continuato (ovvero il metodo della progressione per moltiplicazione della pena base) appare ormai affermata in modo tralaticio, senza stabilire un confronto con il percorso delineato dalle Sezioni Unite, che allo stato appare aver conseguito la nitida definizione del limitato perimetro entro il quale può legittimamente parlarsi di unitarietà del reato continuato.
- Con riguardo all’obbligo di motivazione della pena del reato continuato il contrasto interpretativo si registra a proposito dell’oggetto della motivazione; se essa possa limitarsi alla esposizione delle ragioni a base della misura della pena inflitta per il reato più grave, perché esse valgono anche per l’aumento inflitto per i reati satellite; o all’inverso, se tali aumenti debbano essere specificamente motivati. Si coglie, in tale opposizione, l’incidenza della posizione assunta a riguardo dell’alternativa ‘aumento unitario/aumenti distinti’.
Le decisioni che optano per la prima soluzione sono in maggior numero. Si afferma che nel caso in cui il giudice abbia congruamente motivato in ordine alla determinazione della pena, facendo riferimento alla natura dei reati, alla personalità dell’imputato e alle concesse attenuanti generiche, egli non ha l’obbligo di autonoma e specifica motivazione in ordine alla quantificazione dell’aumento per la continuazione, posto che i parametri al riguardo sono identici a quelli valevoli per la pena base (Sez. 5, n. 3021 del 17/12/2020, dep. 2021, Morabito, non mass; Sez. 1, n. 39350 del 19/07/2019, Oliveti, Rv. 276870; Sez. 3, n. 44931 del 2/12/2016, dep. 2017, Portulesi, Rv. 271787; Sez. 4, n. 23074 del 22/11/2016, dep. 2017, Paternoster, Rv. 270197; Sez. 2, n. 50987 del 06/10/2016, Aquila, Rv. 268731; Sez. 2, n. 50699 del 04/10/2016, Chierchiello, Rv. 268908; Sez. 2, n. 43605 del 14/09/2016, Ferracane, Rv. 268451; Sez. 2, n. 34662 del 07/07/2016, Felughi, Rv. 267721; Sez. 5, n. 25751 del 05/02/2015, Bornice, Rv. 264993; Sez. 2, n. 4707 del 21/11/2014, dep. 2015, Di Palma, Rv. 262313; Sez. 2, n. 49007 del 16/09/2014, lussi, Rv. 261424; Sez. 5, n. 27382 del 28/04/2011, Franceschin, Rv. 250465; Sez. 5, n. 11945 del 22/09/1999, De Rosa, Rv. 214857; Sez. 3, n. 3034 del 26/09/1997, Coletta, Rv. 209369).
La tesi è imperniata essenzialmente sulla medesimezza dei criteri che il giudice deve adottare ed adotta per la determinazione della pena per il reato più grave e per l’aumento relativo ai reati satellite. Tuttavia, nella sentenza Di Palma si evidenzia ulteriormente che è il consolidamento della progressione criminosa che viene effettuato con il riconoscimento del vincolo della continuazione a consentire di ritenere giustificati gli aumenti per i reati satellite con i parametri indicati per la determinazione del reato principale.
Mentre nella sentenza Paternoster si osserva, ulteriormente, che «ovviamente la sinteticità della motivazione non deve palesare evidente contraddittorietà con la complessiva motivazione del trattamento sanzionatorio e la pena in aumento non deve distaccarsi sensibilmente dal minimo edittale».
Secondo un diverso indirizzo, il giudice deve fornire indicazione e motivazione non solo in ordine alla individuazione della pena base, ma anche all’entità dell’aumento determinato ai sensi dell’art. 81 cod. pen. (Sez. 3, n. 1446 del 13/09/2017, dep. 2018 S., Rv. 271830; Sez. 6, n. 48009 del 28/09/2016, Cocomazzi, Rv. 268131; Sez. 1, n. 21641 del 08/01/2016, Lendano, Rv. 266885; Sez. 2, n. 51731 del 19/11/2013, Foria, Rv. 258108; Sez. 6, n. 7777 del 29/01/2013, Bardeggia, Rv. 255052). L’indirizzo in parola fa leva su diverse argomentazioni, non del tutto sovrapponibili. Da un canto si rimarca che se l’aumento previsto può raggiungere il triplo della pena base, non è sufficiente per la legalità del calcolo determinare la pena nell’ambito quantitativo previsto dalla legge. Dall’altro, si specifica che la necessità di motivare l’aumento è «naturale corollario del principio fissato dalle Sezioni Unite in tema di commisurazione della pena per la continuazione, là dove hanno dichiarato la nullità della sentenza con cui la pena complessiva sia determinata senza alcuna indicazione della pena stabilita per ciascun reato, sia di quella per il reato più grave, sia dell’aumento per la continuazione per ciascun reato-satellite».
Si osserva che «se sussiste un obbligo per il giudice di specificare gli aumenti applicati per ciascuno dei reati in continuazione, esso non … (può) non presupporre che il giudice dia conto, sia pure sinteticamente, delle decisioni assunte su ogni aspetto dell’esercizio del suo potere discrezionale, ivi compresa la determinazione dell’aumento di pena per i singoli reati satellite: solo garantendo la conoscibilità dei criteri utilizzati e dell’iter seguito dal giudice per determinare gli aumenti per ciascun reato-satellite è, difatti, possibile rendere effettivi la successiva verifica in merito alla congruità della commisurazione della pena da parte del giudice del gravame nonché l’eventuale controllo di legittimità circa la non arbitrarietà o manifesta irragionevolezza della pena inflitta. Onere che diventa ancor più stringente allorquando, in relazione gli aumenti applicati in relazione ai diversi reati in continuazione, si evidenzi — come appunto nella specie – una sperequazione nel trattamento sanzionatorio per medesime fattispecie di reato» (Sez. 6, n. 48009 del 2016, cit.).
Proprio sul profilo della ragionevolezza della dosimetria pone l’accento Sez. 1, n. 21641 del 2016, cit., laddove afferma che «quando riconosce la sussistenza della continuazione fra i diversi reati per i quali afferma la responsabilità dell’imputato, il giudice è tenuto a fornire una congrua motivazione non solo in ordine alla individuazione della pena base, ma anche all’entità dell’aumento ex art. 81, secondo comma cod. pen. e, ai fini della razionalità intrinseca dell’argomentazione, deve valutare i singoli reati e specificare le ragioni di un aumento a titolo di continuazione che, pur se rispettoso del limite massimo stabilito dalla legge, determini una immotivata sperequazione nel trattamento sanzionatorio per le medesime fattispecie di reato».
In altra pronuncia si mette in evidenza il dovere di motivazione che discende dall’art. 533, comma 2, cod. proc. pen. e dall’esercizio di un potere discrezionale; si afferma, infatti, che deve «il giudice, nella motivazione, dare conto delle decisioni assunte su ogni aspetto dell’esercizio del suo potere discrezionale, ivi compresa la determinazione dell’aumento di pena per la continuazione … . Ciò in forza della previsione contenuta nell’art. 533, comma 2, cod. proc. pen. …». Pertanto, «la mancanza di motivazione sulla determinazione dell’aumento di pena per la continuazione, specie quando si tratta come nel caso di specie di un aumento significativo, non essendo previsto nell’art. 81 cod. pen. un aumento minimo di pena, ma solo un massimo quantificato nella misura del triplo della pena base, sottrae all’imputato il controllo sull’uso fatto dal giudice del suo potere discrezionale, integrando, quindi, un vizio di motivazione della sentenza rilevante ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. (Sez. 4 n. 6853 del 27/1/2009, Rv. 242867)» (così, testualmente, Sez. 2, n. 51731 del 2013, Foria, cit.).
Nella sentenza Bardeggia si rimarca che «costituisce un preciso onere del giudicante dare conto delle ragioni delle sue decisioni su ogni aspetto dell’esercizio del suo potere discrezionale»; la discrezionalità fonda il dovere motivazionale, tanto che non solo «non è sufficiente per la legalità del calcolo determinare la pena nell’ambito quantitativo previsto dalla legge, ove, come nella specie, si operi una quantificazione sperequata per le medesime fattispecie di reato, omettendo di indicarne le ragioni»; anche ove tale decisione sia fondata su una diversità sostanziale tra gli episodi, è «necessario evidenziare le difformi caratteristiche, proprio per giustificare tale sperequazione determinativa». Va ricondotta all’orientamento in parola anche Sez. 3, n. 24979 del 22/12/2017, dep. 2018, F., Rv. 273533.
Nel diverso ma associabile ambito della quantificazione della pena a seguito di applicazione della disciplina del reato continuato in sede esecutiva, si afferma che il giudice – in quanto titolare di un potere discrezionale esercitabile secondo i parametri fissati dagli artt. 132 e 133 cod. pen. – è tenuto a motivare, non solo in ordine all’individuazione della pena-base, ma anche in ordine all’entità dei singoli aumenti per i reati-satellite ex art. 81, secondo comma, cod. pen., in modo da rendere possibile un controllo effettivo del percorso logico e giuridico seguito nella determinazione della pena, non essendo all’uopo sufficiente il semplice rispetto del limite legale del triplo della pena-base (Sez. 1, n. 800 del 07/10/2020, dep. 2021, Bruzzaniti, Rv. 280216; conformemente a quanto già espresso da Sez. 1, n. 17209 del 25/05/2020, Trisciuoglio, Rv. 279316, Sez. 1, n. 52531 del 19/09/2018, Mejri, Rv. 274548 e da Sez. 1, n. 32870 del 10/06/2013, Sardo, Rv. 257000).
In posizione intermedia si colloca Sez. 5, n. 32511 del 14/10/2020, Radosavljevic, Rv. 279770, che ritiene legittima la motivazione della sola pena del reato più grave «quando non è possibile dubitare del rispetto del limite legale del triplo della pena base ex art. 81, primo comma, cod. pen., in considerazione della misura contenuta degli aumenti di pena irrogati, e i reati posti in continuazione siano integrati da condotte criminose seriali ed omogenee». Ad essa si è richiamato un non piccolo nucleo di pronunce, tra le quali si possono ricordare Sez. 3, n. 36922 del 26/11/2020, Presta, non mass. e Sez. 5, n. 1950, del 4/11/2020, dep. 2021, Favret, non mass. Tal ultima decisione prende atto del formarsi di tale terzo orientamento, ritenendolo «più aderente allo statuto del reato continuato delineato negli ultimi anni da più pronunce emesse dalle Sezioni Unite, tutte incentrate sulla necessità – peraltro codificata dall’art. 533, comma 2, cod. proc. pen. – che la pena per il reato continuato, per quanto frutto di una operazione unitaria, renda sempre riconoscibile la pena individuata dal giudice, in aumento, per ciascun reato satellite al fine di garantire le altre specifiche finalità espressamente previste dalla legge e collegate ad una valutazione autonoma dei singoli reati che lo compongono».
Ne trae che se da un verso non è sufficiente esporre le ragioni motivazionali collegate all’entità della pena base al momento dell’operazione di determinazione della quota di sanzione da infliggere in continuazione, dall’altro «l’obbligo argomentativo autonomo relativo ai reati satellite è correttamente assolto con il richiamo ai criteri generali dell’adeguatezza e della congruità o ai parametri contemplati dall’art. 133 cod. pen., quando la valutazione relativa all’aumento per i reati meno gravi non si discosta sensibilmente o comunque in modo significativo dal minimo applicabile ed è comunque contenuta rispetto alla pena determinata dal giudice della cognizione (Sez. 1, n. 8560 del 18/11/2014, dep. 2015, Merenda, Rv. 262552); quando, invece, l’aumento per i reati satellite è determinato in misura distante dal minimo fissato dall’art. 81, primo comma, cod. pen. e, correlativamente, più prossima a quella del giudice della cognizione, è sempre necessario indicare, avuto riguardo ai parametri di cui all’art. 133 cod. pen., le specifiche ragioni poste a fondamento della dosimetria (Sez.1, n. 52531 del 19/09/2018, Mejri Mohamed, Rv. 274548; in parte, cfr. anche Sez. 1, n. 23352 del 14/09/2017, dep. 2018, Manganaro, Rv. 273050)».
A tale indirizzo può essere ricondotta anche Sez. 4, n. 4081 del 15/1/2021, Grama, non mass. per la quale non sussiste l’obbligo di specifica motivazione per ogni singolo aumento, essendo sufficiente indicare le ragioni a sostegno della quantificazione della pena-base, ma poi reputa cogente tale obbligo quando può dubitarsi del rispetto del limite legale del triplo della pena base previsto dall’art. 81, primo comma, cod. pen., in considerazione della misura degli aumenti di pena irrogati e del non essere i reati posti in continuazione integrati da condotte criminose seriali ed omogenee.
- Per quanto diffuso, il primo orientamento non trova adeguata giustificazione giuridica.
Come si è già osservato, richiamando le molteplici affermazioni fatte al riguardo dalle Sezioni Unite, il reato continuato non è strutturalmente un reato unico; l’unificazione rappresenta una determinazione legislativa funzionale alla definizione da parte del giudice di un trattamento sanzionatorio più mite di quanto non risulterebbe dall’applicazione del cumulo materiale delle pene. Per tale motivo essa non può spiegare effetto oltre il perimetro espressamente individuato dal legislatore.
Ne consegue che dal punto di vista della struttura del reato continuato non vi è ragione di ridurre l’obbligo motivazionale ritenendolo cogente unicamente per la pena relativa al reato più grave. Come correttamente colto da Sez. 5, n. 1950 del 2021, Favret, cit., le Sezioni Unite hanno progressivamente chiarito che le particolari modalità di calcolo della pena del reato continuato non alludono ad una ‘unità ontologica’ dello stesso; la pena progressiva per moltiplicazione non contraddice la struttura ‘plurale’ del reato continuato, che diviene recessiva solo ove specifiche disposizioni di legge lo richiedano e sempre che ciò sia funzionale ad un più favorevole trattamento del reo. L’autonomia dei reati satellite si salda all’obbligo di motivazione, che accede all’esercizio del potere discrezionale attribuito al giudice per la determinazione del trattamento sanzionatorio, sì che deve essere giustificato ogni risultato di quell’esercizio (art. 132, primo comma, cod. pen.).
Allo stesso tempo, essa viene a specificare ulteriormente l’oggetto dell’obbligo di motivazione, in ragione dello stretto intreccio che stringe insieme la duplice operazione giudiziale e la discrezionalità che ad essa è sottesa, perché sia nello stabilire la pena che sarebbe da infliggere secondo le norme che precedono l’art. 81 cod. pen. che nel determinarla in forza di quest’ultima disposizione, il giudice esercita un potere discrezionale che deve essere giustificato nei suoi fondamenti razionali per la correlazione che deve esistere tra la pena e quella funzione rieducativa che alla stessa è assegnata dall’art. 27 Cost. Finalità rieducativa che può essere perseguita solo a condizione che la pena abbia una sua intrinseca razionalità e proporzionalità; carattere questo che consente di assicurarle anche il carattere non discriminatorio e quindi la coerenza al principio di uguaglianza.
Invero, in un ordinamento che assegna alla pena una fondamentale funzione rieducativa (cfr. da ultimo, Corte cost., sent. n. 55 del 2021), la ragionevolezza del concreto trattamento sanzionatorio non può che essere data dalla sua proporzionalità rispetto alla meritevolezza e al bisogno di pena del reo. Come scritto dalla Corte costituzionale, «In via di principio, invero, l'”individualizzazione” della pena, in modo da tenere conto dell’effettiva entità e delle specifiche esigenze dei singoli casi, si pone come naturale attuazione e sviluppo di principi costituzionali, tanto di ordine generale (principio d’uguaglianza) quanto attinenti direttamente alla materia penale. Lo stesso principio di “legalità delle pene”, sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., dà forma ad un sistema che trae contenuti ed orientamenti da altri principi sostanziali-come quelli indicati dall’art. 27, primo e terzo comma, Cost.- ed in cui l’attuazione di una riparatrice giustizia distributiva esige la differenziazione più che l’uniformità (sentenza n. 104 del 1968).
Di qui il ruolo centrale, che nei sistemi penali moderni è proprio della discrezionalità giudiziale, nell’ambito e secondo i criteri segnati dalla legge (artt. 132 e 133 cod. pen.; e si veda al riguardo la sentenza n. 118 del 1973). L’adeguamento delle risposte punitive ai casi concreti – in termini di uguaglianza e/o differenziazione di trattamento – contribuisce da un lato, a rendere quanto più possibile personale la responsabilità penale, nella prospettiva segnata dall’art. 27, primo comma, Cost.; e nello stesso tempo è strumento per una determinazione della pena quanto più possibile finalizzata, nella prospettiva dell’art. 27, terzo comma, Cost.
Il principio d’uguaglianza trova in tal modo dei concreti punti di riferimento, in materia penale, nei presupposti e nei fini (e nel collegamento fra gli uni e gli altri) espressamente assegnati alla pena nello stesso sistema costituzionale. L’uguaglianza di fronte alla pena viene a significare, in definitiva, “proporzione” della pena rispetto alle “personali” responsabilità ed alle esigenze di risposta che ne conseguano, svolgendo una funzione che è essenzialmente di giustizia e anche di tutela delle posizioni individuali e di limite della potestà punitiva statuale)» (Corte cost., sent. n. 50 del 1980).
Pertanto, se anche nella Carta costituzionale non ricorre letteralmente una previsione quale si legge nell’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adottata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, quindi recepita nel Trattato di Lisbona, (“Le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato”), pure la proporzionalità del trattamento sanzionatorio è requisito indefettibile per poterlo giudicare conforme a Costituzione. Ben consapevoli di ciò, Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, 3azouli, Rv. 264205, interrogandosi sul concetto di pena illegale, hanno posto una chiara correlazione tra questo e il principio di proporzione.
La relazione di proporzione risulta ovviamente tributaria della gravità di ciascun reato coinvolto nel medesimo disegno criminoso. Con precipuo riferimento all’aumento previsto in caso di reato continuato, le Sez. U. Sebbar hanno significativamente rimarcato che esso è sì obbligatorio nell’an, «ma discrezionale con riferimento al quantum, che va determinato – inevitabilmente – non solo in base al numero dei reati-satellite, ma anche in base alla gravità di ciascuno di essi».
Ben si comprende, quindi, la necessità di tener conto anche del corredo circostanziale proprio di ciascun reato satellite, come ritiene la pressocché unanime giurisprudenza di legittimità (Sez. 3, n. 1810 del 02/12/2010, dep. 2011, R., Rv. 249279; Sez. 2, n. 10995 del 13/02/2018, Perez Prado, 272375; Sez. 5, n. 19366 del 08/06/2020, Finizio, Rv. 279107, nonché Sez. 1, n. 20945 del 25/02/2021, Casarano, Rv. 281562, che offre indicazioni non del tutto coincidenti unicamente riguardo alla automaticità dell’estensione a tutti i reati satellite del riconoscimento delle attenuanti generiche operato per uno di essi; tema sul quale va anche ricordato il principio formulato da Sez. U, n. 2780 del 24/01/1996, Panigoni, Rv. 203978, per il quale «nel giudizio sulla concedibilità delle attenuanti generiche nel caso di reato continuato il giudice ha il più ampio potere discrezionale, nell’esercizio del quale può prendere in considerazione le caratteristiche del singolo fatto-reato isolatamente considerato, se si tratti di circostanze di fatto riguardanti specificatamente ed esclusivamente il singolo fatto, ma, in caso contrario, ben può procedere ad una valutazione globale del complesso dei fatti in continuazione, essendo anzi evidente che è tale valutazione globale a consentire di accertare aspetti fondamentali ai fini del menzionato giudizio, come la capacità a delinquere, l’intensità del dolo, la condotta del reo antecedente, contemporanea e susseguente al singolo fatto, e così via dicendo: elementi tutti rilevanti nell’individuazione della congrua pena per il “fatto più grave” ex art. 81, secondo comma, cod. pen. e per i fatti in continuazione».
Principio ribadito, per il caso che il giudice non abbia specificato per quale dei reati in continuazione abbia riconosciuto le attenuanti generiche, dalle già citate Sez. U, n. 25939 del 28/02/2013, Ciabotti, Rv. 255348). E’ utile anche rammentare nuovamente quanto affermato da Sez. U, n. 3286 del 27/11/2008, dei). 2009, Chiodi, Rv. 241755, circa la necessità di valutare ed applicare la circostanza attenuante dell’integrale riparazione del danno in relazione a ogni singolo reato unificato nel medesimo disegno criminoso. In conclusione, il valore ponderale che il giudice attribuisce a ciascun reato satellite concorre a determinare un razionale trattamento sanzionatorio; e, pertanto, devono essere resi conoscibili gli elementi che hanno condotto alla definizione di quel valore.
- Ciò posto va tuttavia chiarito che l’obbligo motivazionale richiede modalità di adempimento diverse a seconda dei casi. Si tratta di un principio che emerge chiaramente dall’ampia giurisprudenza formatasi in materia di vizio di motivazione relativo alle statuizioni concernenti il trattamento sanzionatorio.
Su un piano generale risulta consolidato il principio secondo il quale nel caso in cui venga irrogata una pena di gran lunga più vicina al minimo che al massimo edittale, il mero richiamo ai “criteri di cui all’art. 133 cod. pen.” deve ritenersi motivazione sufficiente per dimostrare l’adeguatezza della pena all’entità del fatto; invero, l’obbligo della motivazione, in ordine alla congruità della pena inflitta, tanto più si attenua quanto maggiormente la pena, in concreto irrogata, si avvicina al minimo edittale (Sez. 1, n. 6677 del 05/05/1995, Brachet, Rv.201537; Sez. 2, n. 28852 del 08/05/2013, Taurasi, Rv. 256464). E, per converso, quanto più il giudice intenda discostarsi dal minimo edittale, tanto più ha il dovere di dare ragione del corretto esercizio del proprio potere discrezionale, indicando specificamente, fra i criteri oggettivi e soggettivi enunciati dall’art. 133 cod. pen., quelli ritenuti rilevanti ai fini di tale giudizio (Sez. 6, n. 35346 del 12/06/2008, Bonarrigo, Rv. 241189; Sez. 5, n. 511 del 26/11/1996, dep. 1997, Curcillo, 207497).
Talune pronunce propendono a definire l’impegno motivazionale adottando quale parametro di riferimento la media edittale; si afferma che, nel caso in cui venga irrogata una pena al di sotto della media edittale, non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del giudice, essendo sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen. (Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015, Scaramozzino, Rv. 265283; Sez. 3, n. 29968 del 22/02/2019, Del Papa, Rv. 276288, la quale precisa che la media edittale deve essere calcolata non dimezzando il massimo edittale previsto per il reato, ma dividendo per due il numero di mesi o anni che separano il minimo dal massimo edittale ed aggiungendo il risultato così ottenuto al minimo).
Mentre l’irrogazione di una pena base pari o superiore al medio edittale richiede una specifica motivazione in ordine ai criteri soggettivi ed oggettivi elencati dall’art. 133 cod. pen., valutati ed apprezzati tenendo conto della funzione rieducativa, retributiva e preventiva della pena (Sez. 3, n. 10095 del 10/01/2013, Monterosso, Rv. 255153; conforme Sez. 5, n. 35100 del 27/06/2019, Torre, Rv. 276932). A fortiori, l’irrogazione della pena in una misura prossima al massimo edittale rende necessaria una specifica e dettagliata motivazione in ordine alla quantità di pena irrogata, non essendo sufficienti a dare conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. le espressioni dei tipo: “pena congrua”, “pena equa” o “congruo aumento”, come pure il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere (Sez. 4, n. 27959 del 18/06/2013, Pasquali, Rv. 258356).
Anche con riguardo alle pene accessorie per le quali è previsto un minimo ed un massimo, ricorre un obbligo di motivazione specifica, dovendo essere esclusa una necessaria correlazione con quella della pena principale (Sez. 3, n. 41061 del 20/06/2019, Paternò, Rv. 277972, in relazione alle pene accessorie di cui all’art. 12 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74). Se la durata della pena accessoria è determinata in misura superiore alla media edittale è necessaria una specifica motivazione in ordine ai criteri soggettivi ed oggettivi di cui all’art. 133 cod. pen., tenendo conto della funzione rieducativa, retributiva e preventiva della pena, ed ancor più ove sussista divaricazione nel trattamento sanzionatorio complessivo tra pena principale, irrogata nel minimo, e pene accessorie fissate nel massimo (Sez. 5, n. 1947 del 03/11/2020, dep. 2021, Maddem, Rv. 280668, in tema di pene accessorie fallimentari).
Principi non dissimili sono stati espressi con precipuo riferimento alle pene determinate per i reati satellite. Sez. 3, n. 24979 del 22/12/2017, dep. 2018, F., non massimata sul punto, ha persuasivamente affermato che «se per i reati satellite è irrogata una pena notevolmente inferiore al minimo edittale della fattispecie legale di reato, l’obbligo di motivazione si riduce, mentre, qualora la pena coincida con il minimo edittale della fattispecie legale di reato o addirittura lo superi, l’obbligo motivazionale si fa più stringente ed il giudice deve dare conto specificamente del criterio adottato, tanto più quando abbia determinato la pena base per il reato ritenuto più grave applicando il minimo edittale e/o quando abbia applicato una misura di pena in aumento sproporzionata, pur in presenza delle medesime fattispecie dì reato».
Secondo la pronuncia, la associazione di una pena base determinata nella misura minima edittale ed un aumento per la continuazione di entità esigua esclude l’abuso del potere discrezionale conferito dall’art. 132 cod. pen. e dimostra, per implicito, che è stata operata la valutazione degli elementi obiettivi e subiettivi del reato risultanti dal contesto complessivo della decisione.
Quando, invece, la pena per il reato più grave è quantificata a livelli prossimi o coincidenti con il minimo edittale ma quella fissata in aumento per la continuazione è di entità tale da configurare, sia pure in astratto, una ipotesi di cumulo materiale dei reati, l’obbligo motivazionale del giudice si fa più stringente, dovendo egli specificare dettagliatamente le ragioni che lo hanno indotto a tale decisione. Nella analitica motivazione della Terza Sezione si coglie il giudizio di una sospetta irragionevolezza di una decisione che determina le pene, quella del reato più grave e quelle dei reati satellite, senza rispettare il criterio di proporzionalità reciproca.
Tale sospetto va superato attraverso una motivazione che dia conto delle ragioni per le quali si è pervenuti a simili quantificazioni («nello stabilire l’aumento di pena per la continuazione in ordine al reato meno grave, il giudice non può – almeno che non giustifichi il diverso trattamento – adottare criteri contraddittori rispetto a quelli seguiti nella determinazione della pena base, incorrendo altrimenti nel vizio di motivazione»). L’attitudine di una tendenziale proporzione tra le componenti della pena complessiva del reato continuato a dare dimostrazione di un corretto uso del potere discrezionale emerge da diverse pronunce. Già Sez. 5, n. 1413 del 05/10/1984, dep. 1985, Ottonello, Rv. 167832, reputava debba esserci un rapporto di proporzionalità tra l’entità della pena base e l’aumento dovuto alla continuazione.
Nell’appena citata sentenza n. 24979/2018 si rimarca il più accentuato obbligo motivazionale ove il giudice abbia applicato una misura di pena in aumento sproporzionata, pur in presenza delle medesime fattispecie di reato. Le pronunce che danno corpo a quello che in questa sede si è indicato come terzo orientamento esprimono anch’esse l’idea della necessità di un graduale accrescimento dell’impegno motivazionale, in definitiva rapportato all’obiettivo di determinare una pena che sia ragionevole e rispettosa dei limiti legali. Stabilire relazioni traducibili in formule matematiche non è possibile.
Al riguardo, può essere condiviso il realistico giudizio espresso da Sez. 6, n. 8156 del 12/01/1996, Moscato, Rv. 205540: nella determinazione della pena base per il calcolo del trattamento sanzionatorio il grado di scostamento dal minimo edittale, che progressivamente accentua il dovere per il giudice di specifica motivazione, non può essere fissato in una soglia precisa, ancorché sia ragionevole reputare non bisognevoli di una motivazione particolarmente specifica e dettagliata le pene all’interno dell’intervallo compreso tra il minimo e il medio edittale. Analogamente, nel caso del reato continuato, individuare i valori che indiziano di sproporzione le pene inflitte non risulta possibile; ma è praticabile la via della indicazione di ciò che attraverso la motivazione deve essere assicurato: che risultino rispettati i limiti previsti dall’art. 81 cod. pen.; che non si sia operato surrettiziamente un cumulo materiale di pene; che sia stato rispettato, ove ravvisabile, il rapporto di proporzione tra le pene, riflesso anche della relazione interna agli illeciti accertati.
Di una pena non si può affermare o negare l’esattezza; ma si può riconoscere o criticare la ragionevolezza, intesa come relazione di coerenza tra la specie (si pensi alle pene alternative) e la misura della sanzione individuate e gli elementi che devono essere presi in considerazione per la determinazione della pena.
- Prima di formulare il principio di diritto, sintesi di quanto sin qui ritenuto, occorre ancora dare conto di quel rivo giurisprudenziale secondo il quale è ammissibile il ricorso per cassazione contro la sentenza che non abbia specificato il “quantum” dei singoli aumenti inflitti a titolo di continuazione in relazione a ciascun reato satellite, a condizione che venga dedotto un interesse concreto ed attuale a sostegno della doglianza (Sez. 2, n. 26011 del 11/04/2019, Cuocci, Rv. 276117).
Si è al proposito sostenuto che se il principio devolutivo dell’appello impone al giudice di esaminare e decidere sulle richieste dell’impugnazione, con la quale nella specie si lamentava la mancata motivazione in ordine alla misura dei singoli aumenti di pena applicati a titolo di continuazione, occorre però che l’impugnante vi abbia interesse (Sez. 3, n. 550 del 11/09/2019, dep. 2020, Pettè, Rv 278279). Una simile interpretazione è condivisibile quando la censura si concreti nella sola doglianza della mancata indicazione dei singoli aumenti di pena, venendo tuttavia fatta implicita o esplicita acquiescenza alla pena come determinata nel suo complesso (come nel caso della sentenza Pettè).
Ma quando, all’inverso, il rilievo è strumentale alla contestazione della assenza della motivazione posta a sostegno del giudizio di congruità della pena, o della sua contraddittorietà o manifesta illogicità, non è possibile sostenere che occorre l’esplicitazione da parte dell’impugnante di uno specifico interesse perché all’evidenza quest’interesse ricorre e si concreta nella determinazione di un più favorevole trattamento sanzionatorio.
- La soluzione del contrasto interpretativo sottoposto alle Sezioni Unite va quindi rinvenuta nel principio di diritto così formulato: “ove riconosca la continuazione tra reati, ai sensi dell’art. 81 cod. pen., il giudice, nel determinare la pena complessiva, oltre ad individuare il reato più grave e stabilire la pena base per tale reato, deve anche calcolare e motivare l’aumento di pena in modo distinto per ognuno dei reati satellite”.
- Calando le premesse nel caso che occupa, va rilevato come, nei confronti del Pizzone, la Corte di appello abbia ritenuto la continuazione tra i fatti ascritti nel presente procedimento (capo 2: cessioni di alcune dosi di cocaina a Marco Catrini, il 7.1.2017; capo 3: cessione a Nicola Lucioli di tre dosi di cocaina, 1’11.9.2016; capo 5: concorso nel trasporto in luogo pubblico e detenzione di un’arma comune da sparo, accertati il 12.1.2017; capo 7: concorso nella detenzione di 1,335 kg. di cocaina sino al 12.1.2017; capo 12: concorso nella cessione a Marcello Forti di alcune dosi di cocaina, in data anteriore e prossima al 3.1.2017) e quelli oggetto della sentenza n. 12991/18, divenuta irrevocabile, emessa il 15.11.2018 dalla Corte di appello di Roma. Si tratta di reati che nella pronuncia qui impugnata vengono indicati come “reati dello stesso tipo di quelli per i quali vi è il presente giudizio”, per i quali il Pizzone riportò la pena di anni sei di reclusione.
La Corte di appello non ha indicato quale tra i più reati già giudicati fosse il più grave e si è limitata a indicare l’aumento per i reati ascritti nel presente giudizio, che all’esito dell’applicazione della riduzione prevista per il rito abbreviato, facendo riferimento al “numero e alla gravità dei reati nonché alle condotte poste in essere dal Pizzone”, ha quantificato, ritenendolo “rispondente ai criteri di cui all’art. 133 c.p.”, in tre anni di reclusione e 15.000,00 euro di multa, ridotti per il celebrato rito semplificato a due anni di reclusione e 10.000,00 euro di multa.
Riguardo al criterio di individuazione della violazione più grave allorquando il giudice della cognizione sia chiamato ad applicare la disciplina del reato continuato per reati parte dei quali sono sub judice e parte sono stati definitivamente giudicati si registrano differenti interpretazioni. Alcune pronunce propendono per l’ordinario criterio valevole per il giudizio di cognizione: la violazione più grave va comunque identificata in ragione delle previsioni edittali di ciascun reato.
La posizione è stata indirettamente tratteggiata esaminando l’ipotesi di reati aventi identiche cornici edittali. Si è affermato che in tal caso, non potendosi procedere ad una valutazione in astratto, non si può che procedere ad una valutazione in concreto, individuando quale reato più grave quello per il quale è stata inflitta la sanzione più elevata (Sez. 3, n. 43239 del 04/05/2016, G., Rv. 267927; Sez. 4, n. 19561 del 28/01/2021, Dedej, Rv. 281172), ferme le pene già definitivamente stabilite.
Altre decisioni sostengono «che il giudice della cognizione, che sia chiamato a pronunciarsi sulla continuazione tra uno o più fatti sottoposti al suo giudizio ed altri ormai irrevocabili, ove ritenga di esprimersi positivamente sul punto, ben potrà fare riferimento al criterio della pena – rispettivamente, da irrogarsi e già irrogata – onde apprezzarne e compararne la gravità» (Sez. 6, n. 29404 del 06/06/2018, Assinnata, Rv. 273447). Secondo Sez. 6, n. 36402 del 04/06/2015, Fragnoli, Rv. 264582, la regola ordinaria non trova applicazione nel caso in cui si tratti di reati già giudicati con sentenza irrevocabile, poiché in tale ipotesi va considerata la previsione dell’art. 187 disp. att. cod. proc. pen., per la quale “si considera violazione più grave quella per la quale è stata inflitta la pena più grave anche quando per alcuni dei reati si è proceduto con giudizio abbreviato”.
Pertanto, ove «si tratti di fatti in parte decisi con pronuncia irrevocabile, in parte sub iudice, ferma la duplice necessità di rispettare le valutazioni in punto di determinazione della pena già coperte da giudicato e di confrontare grandezze omogenee, la valutazione circa la maggiore gravità delle violazioni dovrà essere compiuta dal decidente di merito confrontando tra loro, per un verso, la pena irrogata per i fatti già sentenziati in via definitiva, per altro verso, la pena irroganda per i reati sottoposti al proprio vaglio» (conforme Sez. 2, n. 935 del 23/09/2015, dep. 2016, Vella, Rv. 265733).
Quale che sia l’interpretazione preferibile, in ogni caso ne discende l’obbligo per il giudice della cognizione di indicare esplicitamente le grandezze in considerazione, onde assicurare il controllo sull’osservanza della regola adottata, sul rispetto della definitività delle pene inflitte con la decisione passata in giudicato, sulla corretta applicazione delle prescrizioni dell’art. 81 cod. pen. (da quella relativa alla pena complessiva, che non può essere superiore al triplo di quella inflitta per il reato più grave, a quella prevista per il caso di recidiva ex art. 99, quarto comma, cod. pen., insieme a quella che vieta un surrettizio cumulo materiale di pene), sulla ragionevolezza della valutazione del valore ponderale dei reati satellite. La Corte di appello ha omesso qualsivoglia indicazione relativa ai singoli reati avvinti nella ritenuta continuazione, limitandosi a formulare il generico avviso di una omogeneità tipologica; che, almeno, avrebbe dovuto essere maggiormente esplicato, stante la diversa tipologia di reati oggetto del presente procedimento.
Pertanto, la lettura della sentenza impugnata non permette di comprendere se quella già definitiva abbia indicato i singoli aumenti, quali dati abbia assunto per ritenere più grave uno dei reati già giudicati; neppure espone il valore ponderale attribuito a ciascuno dei reati oggetto del presente giudizio. In assenza di tali dati, la motivazione non risulta rispondere alle finalità per le quali è previsto il relativo obbligo. Del che specificamente si è doluto il ricorrente, lamentando di non essere stato posto nella condizione di controllare il corretto uso del potere discrezionale attribuito al giudice per la determinazione della pena e quindi la ragionevolezza della pena.
- Il ricorrente Pizzone ha anche segnalato l’errore nel quale sarebbe incorsa la Corte di appello nell’indicare in sei anni di reclusione la pena inflitta con la sentenza passata in giudicato; infatti, tale pena sarebbe stata rideterminata dal Tribunale di Roma, quale Giudice dell’esecuzione, con provvedimento del 3.12.2019, in cinque anni e due mesi di reclusione. Il principio della immodificabilità del giudicato impone al giudice della cognizione chiamato ad applicare la disciplina del reato continuato tra reati giudicabili e reati già giudicati di tener conto di quanto irrevocabilmente statuito. Nel vigente sistema processuale il giudicato però non è identificabile tout court con il portato dispositivo della sentenza perché sono previsti limitati interventi del giudice dell’esecuzione che incidono sulle statuizioni pur definitive.
Viene in considerazione, in primo luogo, la previsione dell’art. 187 disp. att. cod. proc. pen., e conseguentemente l’intervento che il giudice dell’esecuzione può spiegare per applicare la disciplina del concorso formale di reati e della continuazione in sede esecutiva. Vi sono poi le ipotesi di revoca della condanna per sopraggiunta abolitio criminis, l’applicazione dell’amnistia e dell’indulto (art. 672 cod. proc. pen.), il controllo del rispetto del divieto di bis in idem (art. 669 cod. proc. pen.) e, da ultimo, l’eliminazione della illegalità convenzionale della pena (cfr. Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260696).
E’ ormai emerso nell’ordinamento nazionale che il giudicato è limitatamente cedevole; sul punto è sufficiente rinviare a quanto rammentato da Sez. U, n. 37107 del 26/02/2015, Marcon, Rv. 264858. Nel caso che occupa la prospettazione difensiva evoca un intervento operato dal giudice dell’esecuzione per dare applicazione alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, nella parte in cui prevedeva la pena minima edittale della reclusione nella misura di anni otto anziché di anni sei (Corte costituzionale, sent. n. 40 del 2019).
Effettivamente, la giurisprudenza di legittimità che si è occupata delle ricadute sul giudicato di tale pronuncia appare orientata nel senso che, in caso di condanna irrevocabile per più reati unificati sotto il vincolo della continuazione, il più grave dei quali sia quello previsto dal citato art. 73, comma 1, il giudice dell’esecuzione è chiamato a rideterminare la pena inflitta in relazione a detto reato; peraltro, nel compiere tale operazione egli è tenuto a rideterminare anche gli aumenti di pena inflitti per i reati-satellite, sebbene non incisi dalla decisione di incostituzionalità, in quanto, ai sensi dell’art. 81, comma 2, cod. pen. la porzione di pena relativa a detti reati è commisurata alla violazione più grave, non rilevando più i limiti di pena di cui alle rispettive norme incriminatrici, bensì quelli stabiliti in via generale per il reato continuato, del triplo della pena-base o, se più favorevole, della pena che sarebbe applicabile in ipotesi di cumulo (Sez. 1, n. 23588 del 09/07/2020, Carniti, Rv. 279522).
Non vi è dubbio, quindi, sul fatto che nel rideterminare la pena a seguito del riconoscimento del vincolo della continuazione tra reati già giudicati e reati giudicabili la Corte di appello avrebbe dovuto avere riguardo alle pene che per i primi risultavano ormai stabilite in forza del provvedimento del giudice dell’esecuzione, diversamente infliggendo una pena illegale. Nel caso che occupa risulta dalle annotazioni relative alla posizione giuridica del Pizzone che il Giudice dell’esecuzione, con ordinanza n. 201/2019, ebbe a rideterminare la pena applicata, per i reati aventi ad oggetto le cd. “droghe leggere”, ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. con sentenza n. 15291/17 del 14.12.2017, riformata in parte con la sentenza n. 12991/18 del 15.11.2018 della Corte di appello di Roma, irrevocabile dal 31.12.2018, per ripristinarne la legalità alla stregua della menzionata declaratoria di incostituzionalità dell’art. 73 d.P.R. n. 309/1990 pronunciata dalla Corte costituzionale con sentenza n. 40/2019. In forza di quel provvedimento la pena di sei anni di reclusione è stata ridotta a cinque anni e due mesi di reclusione, ferma la multa di ventimila euro.
Tuttavia la Corte di appello di Roma ha assunto quale pena base sulla quale apportare l’aumento a titolo di continuazione per i reati oggetto del suo giudizio la pena di sei anni di reclusione.
- Inconclusione, relativamente alla posizione di Pizzone Simone la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Roma per nuovo giudizio. Ai sensi dell’art. 624 cod. proc. pen., va formulata la dichiarazione di irrevocabilità dell’affermazione di responsabilità del Pizzone per i reati ascrittigli.
- Il ricorso dello Zingaro è fondato, nei termini di seguito precisati. Con l’atto di appello l’imputato aveva censurato la sentenza di primo grado per aver ritenuto accertato che egli avesse ceduto duecento grammi di sostanza stupefacente del tipo cocaina; infatti, osservava l’appellante, lo stupefacente in questione non era stato rinvenuto; non erano stati acquisiti riscontri nonostante si trattasse di “droga parlata” non potevano essere valorizzati i rapporti di frequentazione con il De Witt perché lo Zingaro aveva una stabile relazione sentimentale con la figliastra dello stesso, dalla quale erano nati dei figli; perché il 12.1.2017 allo Zingaro erano stati sequestrate 1135 gr. di cocaina e 68 grammi di hashish.
La Corte di appello ha affermato, in replica, che dall’intercettazione dell’11.1.2017 intercorsa tra lo Zingaro e De Witt Claudio si evince chiaramente che il primo aveva ceduto a tale Rino due etti di cocaina. In via di premessa generale la Corte di appello ha rimarcato che il linguaggio utilizzato dai conversanti (non solo lo Zingaro ed il De Witt) nelle intercettazioni operate dagli investigatori non era criptico ed era di facile comprensione. Inoltre, che il giorno successivo a quello della comunicazione pertinente una perquisizione a casa dello Zingaro aveva fatto rinvenire la pistola e 1135 gr. di cocaina. Orbene, siffatta motivazione è manifestamente illogica perché nessuno degli elementi valorizzati dalla Corte di appello esprime attitudine dimostrativa della specifica tipologia dello stupefacente oggetto della conversazione captata.
Va ribadito anche in questa sede il principio secondo il quale la sussistenza del reato di cessione di sostanze stupefacenti può essere desunta anche dal contenuto delle conversazioni intercettate qualora il loro tenore sia sintomatico dell’organizzazione di una attività illecita e, nel caso in cui ai dialoghi captati non abbia fatto seguito alcun sequestro, l’identificazione degli acquirenti finali, l’accertamento di trasferimenti in denaro o altra indagine di riscontro e controllo, il giudice di merito, al fine di affermare la responsabilità degli imputati, è gravato da un onere di rigorosa motivazione, in particolare con riferimento alle modalità con le quali è risalito alle diverse qualità e tipologie della droga movimentata (Sez. 4, n. 20129 del 25/06/2020, De Simone, Rv. 279251; Sez. 3, n. 11655 del 11/02/2015, Nava, Rv. 262981).
In termini più generali, ogni qualvolta siano prospettate più ipotesi ricostruttive del fatto, la scelta che conduce alla condanna dell’imputato deve essere fondata in ogni caso su un dato probatorio “al di là di ogni ragionevole dubbio”, caratterizzato da un alto grado di credibilità razionale, con esclusione soltanto delle eventualità più remote (Sez. 6, Sentenza n. 27434 del 14/02/2017, Albano, Rv. 270299).
- Il secondo motivo risulta assorbito, giacché la rinnovazione dell’accertamento in ordine alla tipologia della sostanza stupefacente oggetto materiale del reato attribuibile allo Zingaro potrà imporre di rinnovare il profilo sanzionatorio alla luce del sopraggiunto apprezzamento della gravità del reato.
- Inconclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata nei confronti di Zingaro Francesco, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Roma per nuovo giudizio.