Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Spoleto e dal Tribunale ordinario di Palermo.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
2.– Le due ordinanze di rimessione sollevano questioni sostanzialmente identiche, sicché i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.
3.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in entrambi i giudizi a mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, ha eccepito l’inammissibilità delle questioni sollevate dal Tribunale di Palermo per difetto di motivazione, sia sulla rilevanza, sia sulla non manifesta infondatezza.
Nel proporre i quesiti, il giudice a quo si sarebbe limitato, infatti, a richiamare la precedente ordinanza di rimessione del Tribunale di Spoleto, accompagnando tale richiamo con una succinta motivazione esclusivamente in punto di non manifesta infondatezza: motivazione che non espliciterebbe in modo adeguato le ragioni del ritenuto contrasto della norma con i parametri costituzionali evocati. Il rimettente non avrebbe speso, d’altra parte, neppure una parola a dimostrazione della rilevanza delle questioni.
L’eccezione non è fondata.
Pur in assenza di affermazioni espresse sul punto da parte del giudice rimettente, la rilevanza delle questioni emerge in modo immediato dalla descrizione della vicenda concreta contenuta nell’ordinanza di rimessione, ove si riferisce che il giudice a quo ha rigettato la richiesta dell’imputato di sospensione del procedimento con messa alla prova per ragioni non meramente formali e che si trova ora di fronte all’eccezione del difensore di incompatibilità a proseguire la trattazione del giudizio nelle forme ordinarie.
Quanto, poi, alla motivazione sulla non manifesta infondatezza, non si è nella specie al cospetto di un’ipotesi di motivazione per relationem ad altra ordinanza di rimessione, inammissibile secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, sentenza n. 170 del 2015, ordinanze n. 64 e n. 19 del 2018).
Il giudice a quo richiama, a tal riguardo, l’ordinanza di rimessione del Tribunale di Spoleto e ripercorre poi – sinteticamente, ma in termini, comunque sia, di sufficiente comprensibilità – le argomentazioni da essa poste a fondamento dei dubbi di legittimità costituzionale, mostrando con ciò di condividerle e di farle proprie: il che basta a rendere le questioni ammissibili (ex plurimis, con riguardo a fattispecie analoghe, sentenze n. 92 del 2021, n. 214 del 2019 e n. 88 del 2018).
4.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha eccepito, per altro verso, l’inammissibilità delle questioni sollevate da entrambi i rimettenti per erroneo presupposto interpretativo e omessa sperimentazione dell’interpretazione conforme a Costituzione.
Rileva la difesa dello Stato che i dubbi di legittimità costituzionale prospettati poggiano sull’assunto per cui il giudice, nel decidere sulla richiesta di ammissione alla prova, opererebbe valutazioni di merito sulla fondatezza dell’ipotesi di accusa: opzione interpretativa, questa, che non troverebbe, tuttavia, conforto nella giurisprudenza di legittimità, espressasi in senso contrario.
Anche tale eccezione non è fondata.
Il Tribunale di Spoleto (la cui impostatura è fatta propria dal Tribunale di Palermo) ha motivato infatti ampiamente, sulla scorta di ripetuti riferimenti al dato normativo e a pronunce di questa Corte, il proprio assunto per cui, con il rigetto della richiesta di messa alla prova, il giudice esprimerebbe un apprezzamento di merito in ordine alla responsabilità dell’imputato. A fronte di ciò – e salvo quanto si osserverà tra breve, riguardo al fatto che non è questo, in realtà, il profilo decisivo ai fini della risoluzione degli odierni incidenti di legittimità costituzionale – la condivisibilità del presupposto interpretativo dei rimettenti è questione che attiene, comunque sia, al merito, e non all’ammissibilità (ex plurimis, sentenze n. 230, n. 158 e n. 50 del 2020).
5.– Se pure dunque ammissibili, nel merito le questioni non sono tuttavia fondate.
5.1.– Per costante giurisprudenza di questa Corte, le norme sulla incompatibilità del giudice, derivante da atti compiuti nel procedimento, sono poste a tutela dei valori della terzietà e della imparzialità della giurisdizione, presidiati dagli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost., risultando finalizzate a evitare che la decisione sul merito della causa possa essere o apparire condizionata dalla forza della prevenzione – ossia dalla naturale tendenza a confermare una decisione già presa o a mantenere un atteggiamento già assunto – scaturente da valutazioni cui il giudice sia stato precedentemente chiamato in ordine alla medesima res iudicanda (ex plurimis, sentenze n. 16 e n. 7 del 2022, n. 183 del 2013, n. 153 del 2012, n. 177 del 2010 e n. 224 del 2001).
L’imparzialità del giudice richiede, in specie, che «la funzione del giudicare sia assegnata a un soggetto “terzo”, non solo scevro di interessi propri che possano far velo alla rigorosa applicazione del diritto ma anche sgombro da convinzioni precostituite in ordine alla materia da decidere, formatesi in diverse fasi del giudizio in occasione di funzioni decisorie ch’egli sia stato chiamato a svolgere in precedenza» (sentenza n. 155 del 1996).
In quest’ottica, l’art. 34 cod. proc. pen. – dopo aver regolato, al comma 1, la cosiddetta incompatibilità “verticale”, determinata dall’articolazione e dalla consecutio dei diversi gradi di giudizio – si occupa, al comma 2 (oggi censurato), della cosiddetta incompatibilità “orizzontale”, attinente alla relazione tra la fase del giudizio e quella che immediatamente la precede.
La disposizione, costruita secondo la tecnica della casistica tassativa («[n]on può partecipare al giudizio il giudice che ha emesso il provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare o ha disposto il giudizio immediato o ha emesso decreto penale di condanna o ha deciso sull’impugnazione avverso la sentenza di non luogo a procedere»), è stata notoriamente oggetto, nel corso del tempo, di numerose declaratorie di illegittimità costituzionale di tipo additivo, che hanno dilatato significativamente l’elenco delle ipotesi di operatività dell’istituto.
In tale contesto, questa Corte ha da tempo chiarito come la previsione dell’incompatibilità del giudice debba ritenersi costituzionalmente necessaria nel concorso di quattro condizioni (sentenze n. 16 del 2022, n. 153 del 2012 e n. 131 del 1996).
In primo luogo, presupposto di ogni incompatibilità endoprocessuale è la preesistenza di valutazioni che cadono sulla medesima res iudicanda.
In secondo luogo – benché l’architettura del nuovo rito penale richieda, in linea di principio, che le conoscenze probatorie del giudice si formino nella fase del dibattimento – non basta a generare l’incompatibilità la semplice conoscenza di atti anteriormente compiuti, ma occorre che il giudice sia stato chiamato a compiere una valutazione di essi, strumentale all’assunzione di una decisione.
In terzo luogo, tale decisione deve avere natura non “formale”, ma “di contenuto”: essa deve comportare, cioè, valutazioni che attengono al merito dell’ipotesi di accusa, e non già al mero svolgimento del processo.
Da ultimo (e soprattutto, per quanto qui rileva), affinché insorga l’incompatibilità, è necessario che la precedente valutazione si collochi in una diversa fase del procedimento.
La giurisprudenza di questa Corte è, infatti, costante, a partire almeno dal 1996, nel ritenere del tutto ragionevole che, all’interno di ciascuna delle fasi – intese come sequenze ordinate di atti che possono implicare apprezzamenti incidentali, anche di merito, su quanto in esse risulti, prodromici alla decisione conclusiva –, resti, in ogni caso, preservata l’esigenza di continuità e di globalità, venendosi altrimenti a determinare una assurda frammentazione del procedimento, che implicherebbe la necessità di disporre, per la medesima fase del giudizio, di tanti giudici diversi quanti sono gli atti da compiere (ex plurimis, sentenze n. 7 del 2022, n. 66 del 2019, n. 18 del 2017, n. 153 del 2012, n. 177 e n. 131 del 1996; ordinanze n. 76 del 2007, n. 123 e n. 90 del 2004, n. 370 del 2000, n. 232 del 1999). In questi casi, «il provvedimento non costituisce anticipazione di un giudizio che deve essere instaurato, ma, al contrario, si inserisce nel giudizio del quale il giudice è già correttamente investito senza che ne possa essere spogliato: anzi è la competenza ad adottare il provvedimento dal quale si vorrebbe far derivare l’incompatibilità che presuppone la competenza per il giudizio di merito e si giustifica in ragione di essa» (sentenza n. 177 del 1996).
5.2.– Alla luce dei principi ora ricordati, le censure dei giudici a quibus non possono essere condivise.
Con le questioni sollevate, i rimettenti vorrebbero far sì che il giudice del dibattimento che – prima della dichiarazione di apertura di questo (costituente, ai sensi dell’art. 464-bis, comma 2, cod. proc. pen., il termine ultimo per la richiesta di accesso al rito alternativo nei procedimenti a citazione diretta, quali i giudizi a quibus) – abbia rigettato la richiesta dell’imputato di sospensione del procedimento con messa alla prova, divenga incompatibile a trattare il giudizio che prosegue nelle forme ordinarie.
A tali fini, i giudici a quibus annettono decisivo rilievo alla circostanza che, a loro avviso, il rigetto della richiesta di messa alla prova implicherebbe, sotto un complesso di profili, una approfondita valutazione sul merito della res iudicanda: assunto contestato dall’Avvocatura generale dello Stato, facendo leva su pronunce della giurisprudenza di legittimità pervenute ad opposta conclusione (Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 9-24 luglio 2019, n. 33260; Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 20 gennaio 2016-11 aprile 2016, n. 14750).
Valida o meno che sia la loro tesi, i rimettenti non tengono conto, tuttavia, di un particolare essenziale: che, cioè, il provvedimento cui intenderebbero annettere efficacia pregiudicante si colloca, non già in una fase processuale precedente e distinta, ma nella stessa fase – quella dibattimentale – rispetto alla quale l’invocato effetto pregiudicante dovrebbe dispiegarsi; il che esclude in radice, alla luce della ricordata, costante giurisprudenza di questa Corte, la configurabilità di una situazione di incompatibilità costituzionalmente necessaria.
Il Tribunale di Spoleto – pur senza fare alcun cenno all’orientamento di questa Corte sul punto – sostiene, in verità, in un passaggio dell’ordinanza di rimessione, che il rigetto della richiesta di messa alla prova assumerebbe il carattere di provvedimento che definisce «una delicata fase […] quale è quella degli atti introduttivi al dibattimento». Quella degli atti introduttivi (artt. 484 e seguenti cod. proc. pen.) non è, però, una autonoma fase processuale, ma una semplice “sub-fase” (al pari di quelle dell’istruzione dibattimentale, della discussione finale e della deliberazione) dell’unitaria fase del dibattimento: onde non può costituire utile termine di riferimento ai fini che qui interessano (con riguardo a distinto contesto, ordinanza n. 90 del 2004).
Del principio di non configurabilità di una incompatibilità “endofasica” questa Corte ha già fatto, d’altra parte, disparate applicazioni, anche rispetto a ipotesi del tutto analoghe a quella oggi in esame: concernenti, cioè, decisioni negative su richieste di ammissione a riti speciali, o a forme alternative di definizione del procedimento, assunte dal giudice del dibattimento in sede di atti introduttivi. Sono state dichiarate, infatti, manifestamente infondate, per la ragione indicata, questioni volte a introdurre l’incompatibilità a esercitare le funzioni di giudice del dibattimento nei confronti del giudice che – in considerazione della permanenza delle conseguenze dannose o pericolose del reato e della ritenuta gravità del fatto – abbia respinto la richiesta di oblazione cosiddetta discrezionale, presentata dall’imputato prima della dichiarazione di apertura del dibattimento ai sensi dell’art. 162-bis del codice penale (ordinanze n. 370 del 2000 e n. 232 del 1999); o l’incompatibilità a partecipare al giudizio del giudice che, prima dell’apertura del dibattimento, si sia pronunciato (negandola) in ordine all’idoneità della condotta riparatoria dedotta dall’imputato ai fini del proscioglimento per estinzione del reato ai sensi dell’art. 35 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468) (ordinanza n. 76 del 2007); ovvero, ancora, l’incompatibilità del giudice dibattimentale che abbia respinto in limine la richiesta di giudizio abbreviato condizionato all’assunzione di determinati mezzi di prova (ordinanza n. 433 del 2006).
Non significativo è l’unico precedente di segno contrario, rappresentato dalla sentenza n. 186 del 1992, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 34, comma 2, cod. proc. pen. nella parte in cui non prevedeva l’incompatibilità a partecipare al giudizio del giudice del dibattimento che abbia rigettato la richiesta di applicazione di pena concordata ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. Tale pronuncia si colloca, infatti, temporalmente a monte delle sentenze n. 177 e n. 131 del 1996, con le quali questa Corte ha puntualizzato in modo definitivo i presupposti dell’incompatibilità costituzionalmente rilevante, e in particolare quello della diversità di fase: tanto che, solo pochi anni dopo, le conclusioni della sentenza relativa al patteggiamento sono state espressamente qualificate come «superate» dalla successiva evoluzione della giurisprudenza costituzionale (ordinanza n. 232 del 1999).
6.– Alla luce delle considerazioni che precedono, le questioni vanno dichiarate, quindi, non fondate.