Massima
Commettere un fatto (illecito) “inadempimento reato” può talvolta non rivelarsi scaturigine di una scelta consapevole del soggetto agente, il quale ultimo finisce con l’essere mero strumento di forze alle quali non può resistere, ovvero “complice” di elementi che imprevedibilmente lo sospingono alla commissione del ridetto illecito a foggia criminale; ciò tanto nelle ipotesi di c.d. forza maggiore quanto in quelle (se davvero diverse) di c.d. caso fortuito; quanto, ancora, in quelle (per lo più di scuola) di c.d. costringimento fisico. Ne risulta esclusa la punibilità di chi opera: e tuttavia, sinusoidalmente, ora per recisione del nesso eziologico, ora – piuttosto – per difetto di colpevole rimproverabilità del pertinente fatto criminoso, anche a seconda della declinazione (meramente civile, o anche penalmente rilevante) che connota l’inadempimento da esso compendiato.
Crono-articolo
Il diritto penale – come del resto quello amministrativo – costituisce precipitato immediato e diretto del diritto civile romanistico: quando i Romani si avvedono che un “fatto-inadempimento”, rispetto ad un obbligo precostituito ex ante, ovvero ad un obbligo che rappresenti concretizzazione del generale dovere di neminem laedere, vulnera non già solo l’interesse del “creditore” danneggiato, ma anche – ed in qualche misura – l’interesse collettivo, il delictum del “”debitore” danneggiante, da mero fatto interprivato, trasfigura in “crimen” a rilevanza pubblicistica che merita, come tale, di essere perseguito anche dallo Stato, oltre che dalla controparte privata lesa.
Proprio per questo, figure come il caso fortuito, la forza maggiore ed il costringimento fisico – quest’ultimo sub specie di violenza fisica – vanno ricercate ab ovo nell’ambito del ius civile e del ius honorarium, con riguardo alla sfera privatistica; in simili casi, l’inadempimento non ha responsabile proprio a cagione di una vis maior, ovvero di un casus fortuitus, quali fattispecie di obiettivo impedimento che si frappone all’adempimento dell’obbligazione da parte del debitore ed al conseguente soddisfacimento dell’interesse creditorio. Sono i casi che le fonti identificano nella sopravvenuta incommerciabilità della res dovuta al creditore, ovvero del relativo perimento fortuito senza che possa annettervisi alcuna responsabilità, per l’appunto, del debitore.
Particolarmente interessante la fattispecie della dovuta “custodia” di una data res (c.d. custodiam praestare), da qualificarsi in epoca classica quale ipotesi di responsabilità oggettiva pura, onde il debitore della cosa custodita risponde della mancata restituzione al creditore anche nel caso in cui la cosa da restituirsi sia stata rubata da terzi (furto), si sia “dileguata” (come nel caso dello schiavo fuggito), ovvero sia stata da terzi danneggiata (damnum iniuria datum), in quest’ultimo caso, almeno secondo l’opinione maggioritaria dei giuristi Marcello ed Ulpiano (mentre il giurista Giuliano opta per la tesi dell’esclusione di responsabilità).
Proprio nelle ipotesi di custodia si affaccia tuttavia tra i giuristi del I secolo d.C. una emblematica rilevanza della c.d. vis maior in ottica di esenzione del debitore da responsabilità: sono le fattispecie di sottrazione violenta della res da restituirsi, ovvero di pertinente danneggiamento o perimento per eventi naturali imprevedibili.
Per quanto riguarda il c.d. costringimento fisico, esso rileva in particolare con riferimento alla imputabilità di dichiarazioni negoziali “documentate” (ovvero, nella sostanza, scritte) non volontarie, perché appunto “fisicamente imposte”, al relativo autore apparente: si parla in tali casi di violenza assoluta, ricondotta generalmente alla violenza c.d. “fisica” che tuttavia – a differenza della violenza “relativa” o morale, quale vizio della volontà che, come tale, non impedisce il formarsi di una volontà conforme alla dichiarazione negoziale, ma ne vizia il processo formativo: “coactus tamen volui”, ovvero “seppur costretto, volli” – resta fondamentalmente un caso di scuola massime nel diritto romano, in cui la documentazione negoziale assume per moltissimo tempo un rilievo marginale, se non tutt’affatto inconsistente.
1889
Il 30 giugno viene varato il R.D. n.6133, codice Zanardelli, di impianto liberale, che non annovera norme generali su caso fortuito, forza maggiore e costringimento fisico; il codice pare considerare tuttavia implicito che tanto la forza maggiore quanto il caso fortuito escludano la punibilità del soggetto agente.
Un accenno si trova all’art.48, laddove si dispone che quanto previsto dagli articoli 46 e 47 (non punibilità o punibilità ridotta) si applica anche a colui che, nel momento in cui ha commesso il fatto, si trovava nello stato ivi previsto (difetto di coscienza e libertà dei propri atti per infermità di mente: art.46; imputabilità grandemente scemata, ma non esclusa: art.47) a cagione di ubriachezza “accidentale” e, dunque, fortuita.
Quanto alla parte speciale, in tema di appropriazione indebita rileva l’art.420 alla cui stregua è punito a querela di parte con la detenzione sino ad un anno o con la multa da lire 50 a 1000, tra gli altri, chiunque si appropria di cose altrui delle quali sia venuto in possesso in conseguenza di un errore o di un “caso fortuito” che dunque, nel caso di specie, rientra tra i presupposti della pertinente fattispecie criminosa, omissiva laddove riguardata nell’ottica della mancata restituzione delle res di cui si sia venuti in possesso.
1930
Il 19 ottobre viene varato il R.D. n.1398, nuovo codice penale, secondo il cui art.45, stavolta in via generale, non è punibile chi ha commesso il fatto per caso fortuito o per forza maggiore.
Alla stregua del successivo art.46, del pari in via generale non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato da altri costretto, mediante violenza fisica alla quale non poteva resistere o comunque sottrarsi (comma 1: c.d. costringimento fisico); in tal caso nondimeno, che configura un concorso di persone nel reato, del fatto commesso dalla persona costretta risponde l’autore della violenza (comma 2).
Sul versante di chi perpetra una coazione fisica, ai sensi dell’art.53 in tema di c.d. uso legittimo delle armi, ferme le disposizioni contenute nei due articoli precedenti (art.51: esercizio del diritto e adempimento del dovere; art.52: legittima difesa), non e’ punibile il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di far uso delle armi o di un altro mezzo – per l’appunto – di coazione fisica, quando vi e’ costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’Autorità (comma 1), disposizione che si applica anche a qualsiasi persona che, legalmente richiesta dal pubblico ufficiale, gli presti assistenza (comma 2); la legge determina gli altri casi, nei quali è autorizzato l’uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica (comma 3).
Stando poi al successivo art.91, non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva la capacità d’intendere o di volere, a cagione di piena ubriachezza derivata da caso fortuito o da forza maggiore (comma 1); se l’ubriachezza non era piena, ma era tuttavia tale da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità d’intendere o di volere, la pena e’ invece diminuita (comma 2).
Infine, alla stregua dell’art.647, viene punito, a querela della persona offesa (sulla scia del codice Zanardelli) con la reclusione fino ad un anno e con la multa da lire 300 a 3000 chiunque, tra gli altri, si appropria cose delle quali sia venuto in possesso per errore altrui o per caso fortuito.
Su di un piano più generale, importante l’art.41, alla cui stregua il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l’azione od omissione e l’evento (comma 1); le (sole) cause sopravvenute escludono nondimeno il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento e in tal caso, se l’azione od omissione precedentemente commessa costituisce per sé un reato, si applica la pena per questo stabilita (comma 2); infine, le disposizioni precedenti si applicano anche quando la causa preesistente o simultanea o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui (comma 3).
Ancora, per il successivo art.42, comma 1, nessuno può essere punito per un’azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà (c.d. suitas della condotta).
Con riguardo alla parte speciale, un rilievo significativo ha anche l’art.611 c.p., onde chiunque usa violenza o minaccia “per” costringere o determinare altri a commettere un fatto costituente reato è punito con la reclusione fino a 5 anni (comma 1), con pena aumentata se concorrono le circostanze aggravanti di cui all’articolo 339.
1942
Il 16 marzo viene varato il R.D. n.262, nuovo codice civile, secondo il cui art.2051 ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito.
Del pari, ai sensi del successivo art.2052 il proprietario di un animale o chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso, è responsabile dei danni cagionati dall’animale, sia che fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito, salvo che provi il caso fortuito.
Il fortuito e la forza maggiore rilevano talvolta anche in ambito contrattuale, in primo luogo – ed in via generale – all’art.1218, onde il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da “causa a lui non imputabile”: qui il ridetto elemento pare escludere il nesso di causalità tra condotta del debitore ed inadempimento, quantunque possa essere anche ricondotto ad uno sforzo diligente, ma comunque improduttivo, in tal caso escludendo la colpa del debitore medesimo.
Sempre il fortuito rileva poi in ambito “speciale” contrattuale, come nel caso del trasporto: ai sensi dell’art.1693, comma 1, il vettore è responsabile della perdita e dell’avaria delle cose consegnategli per il trasporto, dal momento in cui le riceve a quello in cui le riconsegna al destinatario, se non prova che la perdita o l’avaria è derivata da caso fortuito (ovvero, dalla natura o dai vizi delle cose stesse o dal loro imballaggio, o dal fatto del mittente o da quello del destinatario). Sono peraltro valide, per il successivo art.1694, le clausole che stabiliscono presunzioni di caso fortuito per eventi che normalmente, in relazione ai mezzi e alle condizioni del trasporto, dipendono appunto da esso.
Ai sensi dell’art.1787, i magazzini generali sono responsabili della conservazione delle merci depositate, a meno che si provi che la perdita, il calo o l’avaria è derivata da caso fortuito, dalla natura delle merci ovvero da vizi di esse o dell’imballaggio; ancora, ai sensi del successivo art.1805 il comodatario è responsabile se la cosa perisce per un caso fortuito a cui poteva sottrarla sostituendola con la cosa propria, o se, potendo salvare una delle due cose, ha preferito la propria (comma 1); qualora poi impieghi la cosa comodata per un uso diverso o per un tempo più lungo di quello a lui consentito, è responsabile della perdita avvenuta per causa a lui non imputabile, qualora non provi che la cosa sarebbe perita anche se non l’avesse impiegata per l’uso diverso o l’avesse restituita a tempo debito.
In forza poi del successivo art.1839, nel servizio delle cassette di sicurezza la banca risponde verso l’utente per l’idoneità e la custodia dei locali e per l’integrità della cassetta, salvo ancora una volta il caso fortuito.
Interessante la distinzione tra caso fortuito “ordinario” e “straordinario” prevista in tema di contratto di affitto di fondo rustico: ai sensi dell’art.1637 l’affittuario può, con patto espresso, assumere il rischio dei casi fortuiti ordinari, venendo reputati tali i fortuiti che, avuto riguardo ai luoghi e a ogni altra circostanza, le parti potevano ragionevolmente ritenere probabili (comma 1), ma è nullo il patto col quale l’affittuario si assoggetta ai casi fortuiti straordinari (comma 2); nondimeno, ai sensi dell’art. 1643 il rischio della perdita del bestiame è a carico (sempre e comunque: fortuito straordinario) dell’affittuario dal momento in cui tale bestiame ha ricevuto, se non è stato diversamente pattuito.
Sempre il caso fortuito rileva anche in tema di diritti reali di godimento parziari: ai sensi dell’art.1007 nel caso in cui, per vetustà o caso fortuito, rovini soltanto in parte l’edificio che formava accessorio necessario del fondo soggetto a usufrutto, l’usufrutturario può esercitare i poteri per lui previsti nei due articoli precedenti; nonché in tema di diritti reali di garanzia: ai sensi dell’art.2743, qualora la cosa data in pegno o sottoposta a ipoteca perisca o si deteriori, anche per caso fortuito, in modo da essere insufficiente alla sicurezza del creditore, questi può chiedere che gli sia prestata idonea garanzia su altri beni e, in mancanza, può chiedere l’immediato pagamento del proprio credito.
Con l’avvento del codice civile si pone allora il problema di capire se il fortuito “civile” sia o meno sovrapponibile a quello “penale” di cui all’art.45 c.p. e, nella eventualità positiva, fino a che punto.
Anche la forza maggiore trova menzione nel codice civile, all’art.132 onde (comma 2) quando vi sono indizi che per dolo o per colpa del pubblico ufficiale o per un caso di forza maggiore l’atto di matrimonio non è stato inserito nei registri a ciò destinati, la prova dell’esistenza del matrimonio è ammessa, sempre che risulti in modo non dubbio un conforme possesso di stato.
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Il 30 marzo viene varato il R.D. n.327, recante testo definitivo del codice della navigazione, secondo il cui art.965 l’esercente di un aeromobile risponde dei danni cagionati dall’aeromobile medesimo a persone ed a beni sulla superficie, anche per causa di forza maggiore, dall’inizio delle manovre per l’involo al termine di quelle di approdo (comma 1): viene configurata dunque una ipotesi di responsabilità oggettiva assoluta.
Tuttavia la responsabilità e’ esclusa: a) quando l’esercente provi che i danni sono stati volontariamente prodotti, senza connessione con l’esercizio dell’aeromobile, da persone estranee all’equipaggio, che si trovano a bordo, e che egli medesimo e i suoi dipendenti e preposti non hanno potuto impedirli; b) quando l’esercente provi che i danni sono stati causati da colpa del danneggiato (comma 2): interessante come, osservando le due fattispecie, tanto la colpa del danneggiato (sul crinale soggettivo) quanto il fatto cagionato da terzi (sul crinale oggettivo) in qualche modo escludano la stessa “forza maggiore” e, con essa, la responsabilità “oggettiva” dell’esercente, all’evidenza interrompendo il pertinente nesso di causalità.
1948
Viene varata la Costituzione che prevede la natura personale della responsabilità penale, cui è connessa la funzione tendenzialmente rieducativa della pena (art.27): il condannato deve percepire la pena come tendenzialmente rieducativa per la commissione di un fatto penalmente rilevante che gli viene rimproverato.
Tale circostanza pare da escludersi in presenza di fattispecie in cui il fatto inadempimento reato ascrittogli dipende da forze che, estranee da sé ovvero imprevedibili, ne coartano la consapevole volontà ed impediscono che l’azione o l’omissione che genera reato sia a lui (in qualche modo “imputabile” e, dunque) riconducibile.
1970
Il 19 ottobre esce la sentenza della Sezione IV della Cassazione n. 1776, Montanari, che si colloca nel solco giurisprudenziale alla cui stregua il caso fortuito di cui all’art.45 c.p. esclude, dal punto di vista oggettivo, il nesso di causalità tra condotta del soggetto agente ed evento.
1972
Il 19 ottobre esce la sentenza della Sezione IV della Cassazione n.646, Gallino, che si colloca nel solco giurisprudenziale alla cui stregua il caso fortuito di cui all’art.45 c.p. esclude, dal punto di vista soggettivo, la colpevolezza del soggetto agente rispetto all’evento cagionato, ed in particolare la relativa colpa.
Esso non può dunque essere invocato in caso di reato cui si sia fatto luogo in presenza di una strada sdrucciolevole, non potendosi in simili casi assumere esclusa la colpa del soggetto agente.
1973
*Il 18 giugno esce la sentenza della Sezione IV della Cassazione n.143, Casarotto, che si colloca nel solco giurisprudenziale alla cui stregua il caso fortuito di cui all’art.45 c.p. esclude, dal punto di vista oggettivo, il nesso di causalità tra condotta del soggetto agente ed evento.
1975
Il 22 maggio viene varata la legge n.152, recante disposizioni a tutela dell’ordine pubblico, il cui art.14, comma 1 – in piena emergenza terroristica – modifica l’art.53 c.p. in tema di c.d. uso legittimo delle armi, onde la pertinente non punibilità scatta anche quando la necessità dell’uso delle armi (o di altri mezzi di coazione fisica) sia comunque destinata ad impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona.
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*Il 30 giugno esce la sentenza della Sezione IV della Cassazione n.261, Nardini, che si colloca nel solco giurisprudenziale alla cui stregua il caso fortuito di cui all’art.45 c.p. esclude, dal punto di vista soggettivo, la colpevolezza del soggetto agente rispetto all’evento cagionato, ed in particolare la relativa colpa.
Esso non può dunque essere invocato in caso di reato cui si sia fatto luogo a causa del difetto di manutenzione del motore, non potendosi in simili casi assumere esclusa la colpa del soggetto agente.
1981
Il 3 marzo esce la sentenza della Sezione IV della Cassazione n.5866, Secci, che si colloca nel solco giurisprudenziale alla cui stregua il caso fortuito esclude, dal punto di vista soggettivo, la colpevolezza del soggetto agente rispetto all’evento cagionato, ed in particolare la relativa colpa.
Esso non può dunque essere invocato in caso di reato cui si sia fatto luogo per inefficienza dell’apparato frenante, non potendosi in simili casi assumere esclusa la colpa del soggetto agente.
1984
*Il 12 ottobre esce la sentenza della Sezione III della Cassazione n.10974, Pifferi, che si colloca nel solco giurisprudenziale alla cui stregua il caso fortuito esclude, dal punto di vista soggettivo, la colpevolezza del soggetto agente.
1988
Il 22 settembre viene varato il D.p.R. n.477, nuovo codice di procedura penale, secondo il cui art.530, comma 3, non solo se vi è la prova che il fatto è stato commesso in presenza di una causa di giustificazione o di una causa personale di non punibilità ma anche se vi è il solo dubbio sull’esistenza delle stesse, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione a norma del comma 1.
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Il 13 dicembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.1085, che – abbracciando la tesi c.d. “soggettiva” – dichiara costituzionalmente illegittimo l’art.626, comma 1, n.1, c.p. in tema di furto d’uso laddove non estende la disciplina da esso prevista alla mancata restituzione della cosa sottratta dovuta a caso fortuito o forza maggiore.
Per la Corte, perché l’art. 27, comma 1, Cost. sia pienamente rispettato e la responsabilità penale sia autenticamente personale, è indispensabile che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all’agente, palesandosi altresì indispensabile che tutti e ciascuno dei predetti elementi siano allo stesso agente rimproverabili, e dunque anche soggettivamente disapprovati.
La norma di cui all’art. 626, primo comma, n. 1, c.p. viola, per la Corte, l’art.27, primo comma, Cost., in quanto esclude che, nella specie all’esame del giudice a quo, sia applicabile la disciplina dettata per il furto d’uso. La mancata restituzione, dovuta a caso fortuito o forza maggiore, della cosa sottratta non può esser legittimamente addebitata al soggetto attivo del fatto, con la conseguente sottoposizione dello stesso soggetto alle più gravi sanzioni del furto comune.
Non vi è dubbio alcuno – soggiunge la Corte – sul fatto onde la restituzione della cosa sottratta costituisce elemento essenziale e particolarmente significativo della fattispecie di furto d’uso. Ma, altrettanto essenziale e significativa è, per la Corte, la mancata restituzione della cosa sottratta, tenuto conto dell’eventuale esclusione dell’applicabilità delle ridotte sanzioni previste per il furto d’uso e della conseguente applicazione delle più gravi sanzioni previste per il furto ordinario.
Il comando legislativo, diretto al soggetto attivo del reato, si configura in questi termini: “se hai sottratto la cosa mobile altrui allo scopo di momentaneamente usarla, restituiscila immediatamente“; in altre parole: “opera, attivati a restituirla (nel qual caso otterrai una notevole riduzione di pena ed il delitto sarà perseguito soltanto a querela di parte); se, invece, non la restituirai, immediatamente dopo l’uso, si applicheranno le gravi sanzioni determinate dalla legge per il furto ordinario e non saranno invocabili restrizioni alla perseguibilità del delitto“.
Nella sistematica dei rapporti tra furto comune e furto d’uso, allo stesso modo per il quale l’effettiva restituzione della cosa sottratta (in quanto realizzazione dell’iniziale intenzione del reo) esclude l’ipotesi, e le ridotte sanzioni, del furto comune, la (volontaria) mancata restituzione della predetta cosa – salvo quanto si preciserà fra poco – esclude per la Corte il disposto relativo al furto d’uso e, conseguentemente, rende applicabili le gravi sanzioni previste per il furto comune.
Non resta allora che stabilire i criteri in base ai quali valutare, nel furto d’uso, la mancata restituzione della cosa sottratta. Poiché tale mancata restituzione, nel furto d’uso, risulta essere positivamente valutata dal legislatore, essa va trattata in maniera analoga alle omissioni: la mancata restituzione va considerata, come per l’omissione, soltanto estremo oggettivo. L’analisi deve, pertanto, incentrarsi sull’esistenza del correlativo elemento subiettivo: l’elemento oggettivo della condotta negativa, per esser imputato, va integrato dai corrispondenti requisiti subiettivi e cioè dalla volontà di non restituire la cosa sottratta.
Or nella specie all’esame del giudice a quo – prosegue la Corte – non soltanto non è stata dimostrata, nel soggetto attivo del fatto, la volontà di “non restituire” ma risulta piuttosto provata, secondo l’assunto dello stesso giudice, l’esistenza nel reo, già al momento della sottrazione e dell’impossessamento della cosa, della contraria volontà, mai mutata, d’immediatamente restituire, dopo l’uso momentaneo, la cosa sottratta.
La giurisprudenza e la dottrina che sono dell’avviso che sia applicabile la normativa del furto comune anche all’ipotesi di mancata restituzione per caso fortuito o forza maggiore della cosa sottratta – soggiunge la Consulta – interpretano l’art. 626, primo comma, n. 1, c.p. alla luce del sistema del vigente codice penale, nel quale non soltanto è prevista la responsabilità oggettiva ma vige il principio: qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu.
Ed infatti, la dottrina esplicitamente afferma che, in caso di mancata restituzione per caso fortuito o forza maggiore della cosa sottratta, risponde di furto comune anche chi ha sottratto la cosa allo scopo di farne uso momentaneo e con l’intenzione d’immediatamente restituirla, a cagione della vigenza, nel codice penale del 1930, del principio ora ricordato. Senonché, chiosa ormai la Corte, tale principio contrasta con l’art. 27, primo comma, Cost.
La recente sentenza n. 364 del 1988, nell’interpretare, alla luce dell’intero sistema costituzionale, il parametro ora richiamato, ha sancito che dal medesimo risulta richiesto, quale essenziale requisito subiettivo d’imputazione, oltre alla coscienza e volontà dell’azione od omissione, almeno la colpa quale collegamento subiettivo tra l’autore del fatto ed il dato significativo (sia esso evento oppur no) addebitato. Ed innanzi si è sottolineato che, se l’intenzione di restituire la cosa e l’effettiva, relativa restituzione sono altamente significativi e caratterizzanti la fattispecie tipica di furto d’uso, anche la mancata restituzione della cosa sottratta non può che essere particolarmente significativa ai fini d’escludere l’applicabilità delle ridotte sanzioni di cui all’art. 626, primo comma, n. 1, c.p. e di rendere conseguentemente applicabili le gravi sanzioni previste per il furto ordinario.
Non può tacersi – prosegue la Corte – che ben a ragione, quasi unanimemente, dottrina e giurisprudenza concludono nel senso che, per l’applicazione del disposto relativo al furto d’uso, l’effettiva restituzione della cosa sottratta deve, in concreto, costituire realizzazione della particolare intenzione di restituire, già presente al momento dell’impossessamento, nell’autore del reato e non “oggettivo” evento dovuto al caso: or non si comprende perché mai la restituzione della cosa sottratta non operata, direttamente od indirettamente, dallo stesso reo si ritiene integrare l’estremo dell’effettiva restituzione richiesto dall’art. 626, primo comma, n. 1, c.p. ed invece la mancata restituzione per caso fortuito o forza maggiore, del tutto estranea alla volontà del reo, debba aver rilevanza, ai fini dell’esclusione dell’applicabilità delle disposizioni relative al furto d’uso.
Con l’assurda conseguenza – precisa ancora la Corte – che il soggetto agente che fortunatamente fosse riuscito a restituire la cosa sottratta verrebbe perseguito soltanto a querela di parte e sanzionato con le pene ridotte di cui all’art. 626, primo comma, n. 1, c.p. mentre altro soggetto, con la stessa intenzione del primo in ordine alla restituzione della cosa, sol perché impedito sfortunatamente a riconsegnare la cosa sottratta, dovrebbe essere più gravemente punito per furto ordinario.
È ben vero, prosegue la Corte, che la massima: qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu implica già, almeno solitamente, un collegamento subiettivo tra il reo ed un dato (di regola) evento senza del qual collegamento non si avrebbe il versari in re illicita: così, nella specie all’esame del giudice a quo, il dolo della sottrazione e dell’impossessamento della cosa mobile altrui. Ma non per tal ragione è costituzionalmente legittimo addebitare all’agente anche gli ulteriori eventi (nella specie, mancata restituzione della cosa per caso fortuito o forza maggiore) nella produzione dei quali la volontà del reo è rimasta totalmente estranea e che, pertanto, non sono rimproverabili allo stesso reo.
Dal primo comma dell’art. 27 Cost., chiosa ancora il Collegio, come è stato chiarito nella citata sentenza n. 364 del 1988, non soltanto risulta indispensabile, ai fini dell’incriminabilità, il collegamento (almeno nella forma della colpa) tra soggetto agente e fatto (o, nella specie, tra soggetto ed elemento significativo della fattispecie) ma risulta altresì necessaria la rimproverabilità dello stesso soggettivo collegamento.
È ben vero che la fattispecie di furto d’uso è unitaria ed unitariamente valutata dal legislatore: in essa, oltre all’effettiva restituzione della cosa sottratta, il dolo dell’impossessamento per lo scopo di momentaneamente usare della cosa altrui e l’intenzione di restituirla immediatamente dopo l’uso sono elementi costitutivi della tipica, attenuata illiceità del furto d’uso, prima ancora di divenire, in sede di colpevolezza, elementi indispensabili per il rimprovero da muovere all’autore del delitto.
L’unitarietà e la valutazione unitaria, in sede d’illiceità, di tutti gli elementi oggettivi e soggettivi della fattispecie tipica di furto d’uso, non esclude, tuttavia, che, in sede di colpevolezza, si analizzino i diversi dati, i singoli elementi che contribuiscono a contrassegnare il disvalore oggettivo del tipo: ed è in relazione a ciascuno di tali elementi che va ravvisata la rimproverabilità dell’autore del fatto perché possa concludersi per la relativa, personale responsabilità penale.
Soltanto gli elementi estranei alla materia del divieto (come le condizioni estrinseche di punibilità che, restringendo l’area del divieto, condizionano, appunto, quest’ultimo o la sanzione alla presenza di determinati elementi oggettivi) si sottraggono alla regola della rimproverabilità ex art. 27, primo comma, Cost.
Si è già notato che le due condotte della fattispecie tipica di furto d’uso (sottrarre e restituire) sono diversamente (l’una negativamente e l’altra positivamente) valutate dal legislatore. L’ipotesi della sottrazione e della mancata restituzione della cosa sottratta prospetta, pertanto, due condotte, entrambe negativamente valutate e fra loro strutturalmente distinte. Poiché entrambe contribuiscono ad integrare quella illiceità che, nell’escludere il furto d’uso, riconduce la medesima a quella del furto comune, per determinare se questo ultimo effetto debba prodursi è indispensabile ravvisare, in relazione a ciascuna delle due condotte (sottrazione e mancata restituzione) gli elementi subiettivi idonei a generare il rimprovero di cui all’art. 27, primo comma, Cost.
L’elemento subiettivo attinente alla sottrazione od all’impossessamento della cosa altrui, ed il conseguente rimprovero relativo ai medesimi, non può estendersi alla condotta di mancata restituzione della cosa: il dolo della sottrazione e dell’impossessamento non è estensibile alla mancata restituzione, così come il rimprovero, la disapprovazione etico-sociale attinente alla sottrazione ed all’impossessamento non può esser arbitrariamente esteso alla mancata restituzione della cosa sottratta.
Detta mancata restituzione, se dovuta a caso fortuito o forza maggiore, non è addebitabile al soggetto agente: il caso fortuito e la forza maggiore – non consentendo il rimprovero di colpevolezza, attinente all’oggettiva mancata restituzione della cosa sottratta, non consentendo, cioè, l’addebitabilità d’uno degli elementi che contribuiscono ad integrare la singolare illiceità (che caratterizza l’ipotesi in esame) – impediscono, di conseguenza, il rimprovero, a titolo di furto comune, dell’unitaria predetta ipotesi. Rimanendo, peraltro, dolosi e addebitabili gli altri elementi della fattispecie concreta, va applicato l’art. 626, primo comma, n. 1, c.p.
Perché l’art. 27, primo comma, Cost, sia pienamente rispettato e la responsabilità penale sia autenticamente personale, è indispensabile che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all’agente (siano, cioè, investiti dal dolo o dalla colpa) ed è altresì indispensabile che tutti e ciascuno dei predetti elementi siano allo stesso agente rimproverabili e cioè anche soggettivamente disapprovati.
Dalla illegittimità costituzionale dell’art. 626, primo comma, n. 1, c.p., consegue che soltanto un mutamento di volontà del soggetto attivo del fatto in ordine alla restituzione della cosa sottratta può rendere applicabile la disciplina del furto ordinario. Se il reo, sottratta la cosa con lo scopo di momentaneo uso e con l’intenzione, dopo l’uso, d’immediatamente restituirla, successivamente decidesse di non restituirla, all’iniziale contenuto volitivo caratterizzatore del furto d’uso si sostituirebbe altra intenzione, almeno parzialmente contrastante con la prima.
Solo in tal caso, tenuto conto della progressione criminosa (da una fattispecie meno grave, peraltro ancora non compiutamente attuata, si passerebbe, in un unico contesto d’azione, alla realizzazione d’una fattispecie più grave) determinata dal mutamento dell’iniziale intenzione del reo, risulterebbero applicabili le sanzioni previste per il furto ordinario.
Valutando, da un diverso punto di vista, unitariamente, dato l’unico contesto d’azione, l’ipotesi della mancata restituzione della cosa sottratta dovuta al mutamento dell’iniziale intenzione del soggetto attivo del fatto, dovrebbe osservarsi che – avendo il reo, successivamente al realizzato impossessamento della cosa mobile altrui con il dolo generico del furto ordinario (che coincide con il dolo generico del furto d’uso) integrato il dolo specifico (se di dolo specifico si tratta) del furto ordinario – sarebbe stata completata la realizzazione di quest’ultimo e che, pertanto, l’iniziale intenzione del furto d’uso (scopo di momentaneo uso della cosa sottratta ed intenzione di restituire la medesima immediatamente dopo l’uso) verrebbe assorbito dalla contraria intenzione, successivamente insorta, di non restituire la cosa.
È, invece, di certo costituzionalmente illegittimo, per la Corte, nell’ipotesi di mancata restituzione per caso fortuito o forza maggiore della cosa sottratta, chiamare a rispondere di furto ordinario il reo del quale è rimasto intatto il dolo, generico e specifico, del furto d’uso, senza che si siano aggiunti diversi, rilevanti contenuti intenzionali.
Una volta verificato che l’art. 626, primo comma, n. 1, c.p., nel sistema delle leggi ordinarie e nel diritto vivente, contrasta con il primo comma dell’art. 27 Cost., si rende superflua l’indagine sull’eventuale contrasto della norma impugnata con gli altri parametri indicati nell’ordinanza di rimessione; tanto più – conclude la Corte – che la violazione dell’art. 27, primo comma, Cost. già di per sé comporta disparità di trattamento di soggetti in identica posizione.
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*Il 19 dicembre esce la sentenza della Sezione IV della Cassazione n.4220, Savelli, che si colloca nel solco giurisprudenziale alla cui stregua il caso fortuito esclude, dal punto di vista soggettivo, la colpevolezza del soggetto agente.
1990
Il 21 marzo esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.4131 alla cui stregua il delitto previsto dall’art. 611 c.p. (violenza o minaccia per costringere a commettere un reato) è reato di pericolo che si consuma nel momento stesso dell’uso della violenza o della minaccia, indipendentemente dal realizzarsi del reato-fine.
Se però – precisa il Collegio – quest’ultimo reato poi si realizza, per effetto dell’azione o della compartecipazione del soggetto passivo della coazione, anche tale soggetto ne risponde in base alle norme sul concorso nel reato, a meno che non sia configurabile a relativo favore una causa di esclusione della punibilità, come ad esempio quelle previste dagli artt. 46, 54, 86 c.p. (costringimento fisico, stato di necessità, determinazione dello stato di incapacità).
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Il 23 maggio esce la sentenza della Corte d’Appello di Torino, Ginatta, onde – sulla base dell’art.530, comma 2, c.p.p. in tema di sentenza di assoluzione – se dall’incarto processuale o dalla relazioni peritali emergono quantomeno seri dubbi sull’esistenza del caso fortuito ex art. 45 c.p., l’imputato va assolto perché il fatto non costituisce reato.
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*Il 25 settembre esce la sentenza della Sezione IV della Cassazione n.15224, Baldo, che si colloca nel solco giurisprudenziale alla cui stregua il caso fortuito esclude, dal punto di vista soggettivo, la colpevolezza del soggetto agente.
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Il 21 dicembre esce la sentenza della Sezione IV della Cassazione n.16840, Lo Nigro, alla cui stregua – inserendosi nel solco della giurisprudenza intesa ad assegnare al caso fortuito valore “soggettivo” di esclusione della colpevolezza – in terna di responsabilità per reato colposo commesso in ambito di circolazione stradale, l’incidente causato da sonno fisiologico, prevedibile per il caldo o per precedente consumazione dei pasti o per stanchezza, è sempre addebitabile al conducente a titolo di colpa, mentre il sonno dovuto a cause patologiche, improvviso e imprevedibile, può costituite ipotesi di caso fortuito, ma, in tale ipotesi, esso deve essere rigorosamente provato dall’imputato che lo invoca.
1992
Il 28 gennaio esce la sentenza della Sezione IV della Cassazione n.2983, Teodori, che si colloca nel solco giurisprudenziale alla cui stregua il caso fortuito esclude, dal punto di vista soggettivo, la colpevolezza del soggetto agente rispetto all’evento cagionato, ed in particolare la relativa colpa.
Esso non può dunque essere invocato in caso di reato cui si sia fatto luogo in presenza dello scoppio di un pneumatico, non potendosi in simili casi assumere esclusa la colpa del soggetto agente.
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Il 16 giugno esce la sentenza della Sezione IV della Cassazione n.8928, Barlati, che si colloca nel solco giurisprudenziale alla cui stregua il caso fortuito esclude, dal punto di vista soggettivo, la colpevolezza del soggetto agente rispetto all’evento cagionato, ed in particolare la relativa colpa.
Esso non può dunque essere invocato in caso di reato cui si sia fatto luogo per abbagliamento da raggi solari, non potendosi in simili casi assumere esclusa la colpa del soggetto agente.
1998
Il 20 maggio esce la sentenza della III sezione della Cassazione civile n.5031 onde:
– quanto al fondamento della responsabilità, l’art. 2051 cod. civ. prevede un’ipotesi di responsabilità oggettiva, il cui unico presupposto è l’esistenza di un rapporto di custodia; del tutto irrilevante, per contro, è accertare se il custode sia stato o meno diligente nell’esercizio della vigilanza sulla cosa;
– quanto all’onere della prova, ove sia applicabile l’art. 2051 cod. civ., il danneggiato ha il solo onere di provare l’esistenza di un valido nesso causale tra la cosa ed il danno, mentre il custode ha l’onere di provare che il danno non è stato causato dalla cosa, ma dal caso fortuito, ivi compreso il fatto dello stesso danneggiato o del terzo;
– quanto all’ambito di applicazione, la norma in esame trova applicazione in tutti i casi in cui il danno è stato arrecato dalla cosa, direttamente o indirettamente; non è applicabile solamente quando la cosa ha avuto un ruolo meramente passivo nella produzione del danno.
2000
Il 10 marzo viene varato il decreto legislativo n.74, recante nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205.
2004
Il 30 dicembre viene varata la legge n.311 che introduce nel decreto legislativo 74.00 in materia di reati tributari l’art.10 bis in tema di omesso versamento di ritenute.
2006
Il 15 marzo viene varato il decreto legislativo n.151, recante disposizioni correttive ed integrative al decreto legislativo 9 maggio 2005, n. 96, recante la revisione della parte aeronautica del codice della navigazione.
Il relativo art.15, comma 1, modifica l’art.965 c.n., onde la responsabilità dell’esercente per i danni causati dall’aeromobile a persone ed a cose sulla superficie e’ ormai regolata dalle norme internazionali in vigore nella Repubblica, che si applicano anche ai danni provocati sul territorio nazionale da aeromobili immatricolati in Italia (comma 1); la stessa disciplina si applica anche agli aeromobili di Stato e a quelli equiparati, di cui agli articoli 744 e 746 (comma 2) c.n..
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Il 4 luglio viene varato il decreto legge n.223 che introduce nel decreto legislativo 74.00 in materia di reati tributari l’art.10.ter in tema di omesso versamento dell’Iva.
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Il 4 luglio viene varata la legge n.248 che converte, con modificazioni, il decreto legge n.223.
2013
Il 28 marzo esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.37425 in tema di omissione di versamenti fiscali onde il mancato adempimento, da parte dell’imputato “contribuente”, al dovere – prodromico a quello di versamento in senso stretto – di organizzare le proprie risorse giusta accantonamento delle somme dovute al Fisco rende del tutto irrilevante la successiva crisi di liquidità, maturata al tempo della scadenza del pertinente obbligo di pagamento.
Sono fatti salvi i casi in cui il mancato accantonamento dipenda non da una libera scelta dell’agente ma da fattori che sfuggano al relativo controllo, come può accadere – con riguardo all’Iva – allorché sul contribuente permanga l’obbligo di pertinente versamento anche laddove egli non abbia effettivamente ricevuto il relativo ammontare dall’acquirente del bene ceduto o dal fruitore del servizio reso.
2014
L’8 aprile esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.20266 che, in tema di omesso versamento fiscale, assume (sulla scia della più tollerante giurisprudenza di merito) un atteggiamento meno rigido nei confronti del contribuente rispetto alle SSUU del 2013, attribuendo – almeno in linea teorica – maggiore rilievo scusante alla c.d. crisi di liquidità sofferta dal contribuente medesimo.
Per il Collegio, più in specie, la crisi di liquidità esclude la volizione del fatto-reato, purché ricorrano indicatori puntuali in ordine alla impossibilità, incolpevole per il contribuente, di adempiere alle pertinenti obbligazioni tributarie: l’imputato può per la Corte invocare la assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta, quale causa di esclusione della responsabilità penale, a condizione che provveda ad assolvere gli oneri di allegazione concernenti sia il profilo della non imputabilità a lui medesimo della crisi economica che ha investito l’azienda, sia l’aspetto della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure idonee da valutatsi in concreto, palesandosi necessaria, ai fini dell’esclusione del dolo, una dimostrazione precisa della indipendenza della crisi rispetto a scelte del contribuente e della inidoneità delle misure, diverse dalla (e alternative alla) violazione del precetto penale allo scopo di fronteggiarla altrimenti.
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Il 28 aprile viene varata la legge n.67, recante deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio e disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili.
Il provvedimento prevede all’art.2, comma 3, l’abrogazione tra gli altri del reato di cui all’art.647 c.p. e l’introduzione, in luogo della relativa sanzione penale, di una sanzione pecuniaria civile.
2015
Il 25 febbraio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.8352 alla cui stregua, in tema di omissioni del contribuente e crisi di liquidità, quest’ultima può avere efficacia scusante in forza della inesigibilità da parte del contribuente di una diversa condotta, ovvero della forza maggiore, a condizione che l’omissione tributaria derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla relativa volontà e che sfuggono al relativo dominio finalistico.
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Il 22 ottobre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.43599 alla cui stregua, in tema di omissioni del contribuente e crisi di liquidità, non può invocarsi quale causa di forza maggiore per il legale rappresentante di un’impresa lo stato di dissesto imputabile alla precedente gestione, quando risulti che l’agente al momento del relativo subentro nella carica aveva la consapevolezza della crisi di liquidità medesima e non era nell’impossibilità – a lui non ascrivibile – di intraprendere veruna iniziativa per fronteggiare tale situazione.
2016
Il 15 gennaio viene varato il decreto legislativo n.7, recante disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67, il cui art.1 abroga, tra gli altri, l’art.647 c.p.
Stando al successivo art.4, comma 1, soggiace alla sanzione pecuniaria civile da euro 100 a euro 8000, tra gli altri, chi si appropria di cose delle quali sia venuto in possesso per errore altrui o per caso fortuito (lettera f).
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Il 15 settembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 41697 onde – in tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare – l’indisponibilità da parte dell’obbligato dei mezzi economici necessari ad adempiere si configura come scriminante soltanto se perdura per tutto il periodo di tempo in cui sono maturate le inadempienze e non è dovuta, anche solo parzialmente, a colpa dell’obbligato.
Nel caso di specie, il Collegio esclude che lo stato di detenzione dell’obbligato integri una causa di forza maggiore idonea a scriminarne l’inadempimento agli obblighi di assistenza familiare, avendo accertato come tale condizione sia a questi imputabile e, comunque, come lo stato detentivo si sia protratto per pochi mesi in relazione alla durata di oltre 5 anni che connota l’inadempimento (penalmente rilevante) pertinente.
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Il 25 novembre esce l’ordinanza della VII sezione della Cassazione n. 10083 onde, nelle contravvenzioni in materia di sicurezza e di igiene del lavoro, ricorre un’ipotesi di forza maggiore – capace di scusare l’inosservanza degli adempimenti cui è condizionata l’estinzione del reato ad esito della procedura di cui all’art. 24 d.leg. 19 dicembre 1994 n. 758 – esclusivamente nel caso in cui l’interessato versi in uno stato patologico di tale gravità da determinarne, per tutta la durata, un’assoluta incapacità di intendere e di volere, in grado di impedirgli anche solo di dare disposizioni ad altri per l’adempimento pertinente.
Nel caso di specie, per il Collegio va assunta insufficiente ad integrare l’invocata causa di forza maggiore, impediente il versamento della somma dovuta in sede amministrativa ex art. 21, 2° comma, e 24, 1° comma, d.leg. cit., la mera deduzione della diagnosi di una periartrite con deficit motori, senza allegazione e prova dell’incidenza della stessa sulla capacità di intendere e di volere dell’imputato.
2017
Il 3 aprile esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 23026, alla cui stregua l’esimente della forza maggiore di cui all’art. 45 c.p. sussiste in tutte le ipotesi in cui l’agente abbia fatto quanto era in proprio potere per uniformarsi alla legge e, per cause indipendenti dalla relativa volontà, non vi era comunque la possibilità di impedire l’evento o la condotta antigiuridica.
Per il Collegio, nel caso di specie va dunque rigettato il ricorso dell’imputato, condannato per l’allaccio abusivo alla rete di distribuzione dell’energia elettrica, il quale abbia eccepito la forza maggiore, da lui individuata nel fatto che non è riuscito ad ottenere un regolare contratto di fornitura elettrica, malgrado i plurimi solleciti, avendo in precedenza subìto un guasto al generatore di cui si era munito per far fronte alle esigenze del proprio locale a vocazione commerciale.
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Il 12 luglio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 3647 alla cui stregua, in tema di reati tributari, il delitto di omesso versamento di ritenute dovute o certificate di cui all’art. 10-bis d.leg. 10 marzo 2000 n. 74 differisce da quello previsto dall’art. 10-ter medesimo decreto legislativo (omesso versamento Iva) per l’oggetto, che solo nel primo caso (e non anche nel secondo) è costituito da somme già nella disponibilità del debitore.
Ne consegue che, in caso di carenza di liquidità di impresa, se l’omesso versamento dell’Iva può astrattamente derivare dall’inadempimento altrui, al contrario l’impossibilità di adempiere all’obbligazione di versamento delle ritenute non può essere giustificata, ai sensi dell’art. 45 c.p., dalla insolvenza dei debitori, essendo di pertinenza del sostituto d’imposta la decisione di distrarre a scopi diversi le somme di denaro dovute all’erario e che egli ha nella propria disponibilità.
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Il 31 ottobre esce l’ordinanza della III sezione della Cassazione civile n. 25837, in tema di danni da cose in custodia ex art.2051 c.c., che premette come il caso fortuito sia ciò che non può prevedersi, mentre la forza maggiore si atteggia a ciò che non può evitarsi.
Sotto altro profilo, il Collegio giunge – dopo un’accurata disamina del ruolo della condotta del danneggiato – alla conclusione che anche questa può integrare il caso fortuito ed escludere integralmente la responsabilità del custode ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., ma solo purché abbia due caratteristiche: sia stata colposa; sia stata non prevedibile da parte del custode.
2018
Il 23 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 38593 alla cui stregua il principio della non esigibilità di una condotta diversa – sia che lo si voglia ricollegare alla ratio della colpevolezza riferendolo ai casi in cui l’agente operi in condizioni soggettive tali da non potersi da lui «umanamente» pretendere un comportamento diverso, sia che lo si voglia ricollegare alla ratio dell’antigiuridicità, così riferendolo a situazioni in cui non sembri coerente ravvisare un dovere giuridico dell’agente di uniformare la condotta al precetto penale – non può trovare collocazione e spazio al di fuori delle cause di giustificazione e delle cause di esclusione della colpevolezza espressamente codificate.
Ciò in quanto per il Collegio – che scandaglia una fattispecie in tema di omesso versamento dell’Iva giustificata dal ricorrente con la crisi del mercato immobiliare e con i problemi finanziari della società da lui rappresentata – le condizioni e i limiti di applicazione delle norme penali sono posti dalle norme stesse senza che sia consentito al giudice di ricercare cause ultralegali di esclusione della punibilità attraverso l’analogia iuris.
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Il 01 febbraio esce l’importante sentenza della III sezione della Cassazione civile n.2482, che si impegna in un completo excursus sulla responsabilità per i danni da cose in custodia, ex art. 2051 c.c., affrontando tutte le problematiche ad esso connesse, nonché le differenze ontologiche tra tale azione di responsabilità e quella da fatto illecito, ex art. 2043 c.c., affrontando anche la questione del caso fortuito e della relativa significatività in ambito civilistico, con particolare riguardo all’illecito aquiliano, che assieme a quello “contrattuale” rappresenta sempre – come il più contiene il meno – il “minimum” rispetto ad un illecito che sia “anche” penalmente rilevante.
Le conclusioni cui giunge la Corte sono interessanti in specie laddove – pur ribadendo il “caso fortuito civile” recidere oggettivamente il nesso eziologico che avvince la condotta del danneggiante (custode della res) al danno inferto al danneggiato – assegnano alla stessa soggettiva “colpa” del danneggiato un ruolo significativo in termini di interruzione del ridetto nesso causale e, assieme, di configurabilità del fortuito medesimo a beneficio del danneggiante.
Ritiene infatti il Collegio nel relativo incipit motivazionale come la fattispecie sottopostale offra l’occasione per una puntualizzazione dei principi in materia di responsabilità per danni da cose in custodia, come via via espressi dalla giurisprudenza della Corte, con attenzione specifica – poi – alla custodia dei beni demaniali e, tra questi, di quelli di grande estensione, come strade e loro accessori e pertinenze: all’intera riflessione premettendosi che incombe al danneggiato l’onere di un’opzione chiara – benché anche solo di alternatività o reciproca subordinazione, ma espressa in tal senso – tra l’azione generale di responsabilità extracontrattuale, ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., e quella della responsabilità – oggettiva – per fatto della cosa, ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., visto che le due domande presentano tratti caratteristici, presupposti, funzioni ed oneri processuali assai diversificati (tra molte: Cass. 05/08/2013, n. 18609; Cass. 21/09/2015 n. 18463).
Occorre prendere le mosse – chiosa il Collegio – dalla conclusione, definita come tradizionale, della giurisprudenza di legittimità nel senso che «la responsabilità ex art. 2051 cod. civ. postula la sussistenza di un rapporto di custodia della cosa ed una relazione di fatto tra un soggetto e la cosa stessa, tale da consentire il potere di controllarla, di eliminare le situazioni di pericolo che siano insorte e di escludere i terzi dal contatto con la cosa; detta norma non dispensa il danneggiato dall’onere di provare il nesso causale tra cosa in custodia e danno, ossia di dimostrare che l’evento si è prodotto come conseguenza normale della particolare condizione, potenzialmente lesiva, posseduta dalla cosa, mentre resta a carico del custode, offrire la prova contraria alla presunzione iuris tantum della sua responsabilità, mediante la dimostrazione positiva del caso fortuito, cioè del fatto estraneo alla sua sfera di custodia, avente impulso causale autonomo e carattere di imprevedibilità e di assoluta eccezionalità» (tra molte: Cass. 29/07/2016, n. 15761).
Si tratta di una conclusione che risale almeno a Cass.20/05/1998, n. 5031, in base alla quale:
– quanto al fondamento della responsabilità, l’art. 2051 cod. civ. prevede un’ipotesi di responsabilità oggettiva, il cui unico presupposto è l’esistenza di un rapporto di custodia; del tutto irrilevante, per contro, è accertare se il custode sia stato o meno diligente nell’esercizio della vigilanza sulla cosa;
– quanto all’onere della prova, ove sia applicabile l’art. 2051 cod. civ., il danneggiato ha il solo onere di provare l’esistenza di un valido nesso causale tra la cosa ed il danno, mentre il custode ha l’onere di provare che il danno non è stato causato dalla cosa, ma dal caso fortuito, ivi compreso il fatto dello stesso danneggiato o del terzo;
– quanto all’ambito di applicazione, la norma in esame trova applicazione in tutti i casi in cui il danno è stato arrecato dalla cosa, direttamente o indirettamente; non è applicabile solamente quando la cosa ha avuto un ruolo meramente passivo nella produzione del danno.
In primo luogo, prosegue ormai la Corte, è prevalente in dottrina e dominante nella giurisprudenza di legittimità la tesi della qualificazione della responsabilità in esame come responsabilità oggettiva, nella quale non gioca alcun ruolo la negligenza o, in generale, la colpa del custode: e tanto in consapevole meditata accettazione delle teoriche sulla configurabilità di una responsabilità senza colpa, se non altro in casi particolari e non in linea di principio.
In sostanza, per alcune fattispecie particolari, a partire dall’elaborazione dogmatica del sistema francese – soprattutto con riguardo al relativo art. 1384 dell’originario code civil, oggi corrispondente all’art. 1242 dopo l’ordonnance 2016-131 del 10/02/2016, in vigore dal 1° ottobre 2016, sulla reforme du droit des contrats – cui il sistema codicistico nazionale si è in origine ispirato, è apportata deroga al principio, imperniantesi sulla “colpa”, noto come ohne Schuld keine Haftung, che permea:
- sia l’altro ordinamento cardine dei sistemi romanisti (come quello tedesco relativamente al Deliktsrecht, ma nel quale si assiste ad un superamento graduale, benché solo in determinati settori, in forza di obblighi derivanti direttamente, prima della riforma del 2002, dalla norma sulla buona fede e, poi, dalla previsione della novellata previsione del BGB sulla sussistenza di obblighi di protezione più generali ed ampi rispetto a quelli di prestazione, idonei a riverberare i loro effetti anche a favore di chi non è parte del contratto);
- sia il sistema originario di common law (in cui la Tort Law presuppone appunto la colpa, quanto meno sotto il profilo della Due Diligence).
Il tenore testuale dell’art. 2051 cod. civ., analogo al vecchio testo dell’art. 1384, co. 1, code civil (ora art. 1242, secondo il cui primo comma “on est responsable non seulement du dommage que l’on cause par son propre fait, mais encore de celui qui est causé par le fait des personnes dont on doit répondre, ou des choses que l’on a sous sa garde”), prevede invero che «ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito».
Va così osservato – prosegue il Collegio – che, purché si tratti di un danno «cagionato» da una cosa e che questa sia una cosa che si «ha in custodia», null’altro è richiesto: basti allora in questa sede, per l’impossibilità di altri approfondimenti dogmatici, da un lato accettare quale ragione giustificatrice di tale peculiare responsabilità la relativa natura e funzione di contrappeso al riconoscimento di una signoria, quale la «custodia», sulla cosa che entra o può entrare a contatto con la generalità dei consociati, signoria che l’ordinamento riconosce ad un soggetto evidentemente affinché egli ne tragga o possa trarre beneficio o in dipendenza di peculiari situazioni doverose; e, dall’altro lato, rilevare come il danno, di cui si è chiamati a rispondere, deve essere causato dalla cosa (per il code civil, ancora più icasticamente e stando alla lettera della disposizione, dal «fatto della cosa»: dommage … qui est causé par le fait des choses que l’on a sous sa garde).
Sotto il primo profilo il potere sulla cosa, per assurgere ad idoneo fondamento di responsabilità, deve manifestarsi come effetto di una situazione giuridicamente rilevante rispetto alla res, tale da rendere attuale e diretto l’anzidetto potere attraverso una signoria di fatto sulla cosa stessa, di cui se ne abbia la disponibilità materiale (Cass. 29/09/2017, n. 22839): verosimilmente in considerazione del fatto che solo questa può attivare, ovvero rendere materialmente estrinsecabile, il dovere di precauzione normalmente connesso alla disponibilità di una cosa che entra in contatto con altri consociati; ovvero, che può consentire l’adozione di condotte specifiche per impedire, per quanto possibile, che le cause ragionevolmente prevedibili dei danni derivabili dalla cosa custodita siano poi in grado di estrinsecare la loro potenzialità efficiente.
Sotto il secondo profilo, quello della causazione del danno da parte della cosa, non ci si può esimere per la Corte da una sommaria premessa alla problematica della causalità in diritto civile.
A questo riguardo, è noto che, con la fondamentale elaborazione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenze del dì 11/01/2008, nn. 576 ss., alla cui amplissima ed esauriente elaborazione deve qui bastare un richiamo), ai fini della causalità materiale nell’ambito della responsabilità extracontrattuale va fatta applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., sicché un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non).
Tuttavia, il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 cod. pen., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il proprio temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dal capoverso della medesima disposizione, in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto.
Al contempo, neppure è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che appaiano ex ante idonee a determinare l’evento secondo il principio della c.d. causalità adeguata, o quello similare della c.d. regolarità causale.
Quest’ultima a propria volta, prosegue la Corte, individua come conseguenza normale imputabile quella che – secondo l’id quod plerumque accidit e quindi in base alla regolarità statistica o ad una probabilità apprezzabile ex ante (se non di vera e propria prognosi postuma) – integra gli estremi di una sequenza costante dello stato di cose originatosi da un evento (sia esso una condotta umana oppure no) originario, che ne costituisce l’antecedente necessario.
E, sempre secondo i citati precedenti delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, la sequenza costante deve essere prevedibile non da un punto di vista soggettivo, cioè da quello dell’agente, ma in base alle regole statistiche o scientifiche e quindi per così dire oggettivizzate in base alla loro preponderanza o comune accettazione, da cui inferire un giudizio di non improbabilità dell’evento in base a criteri di ragionevolezza: il principio della regolarità causale, rapportato ad una valutazione ex ante, diviene la misura della relazione probabilistica in astratto (e svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra evento generatore del danno ed evento dannoso (nesso causale) da ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma violata, mentre tutto ciò che attiene alla sfera dei doveri di avvedutezza comportamentale andrà più propriamente ad iscriversi entro l’elemento soggettivo (la colpevolezza) dell’illecito, ove questi (doveri di avvedutezza comportamentale) dall’ordinamento – benché tanto avvenga di norma – siano in concreto richiesti.
Tali principi – chiosa ancora il Collegio – portano a concludere che tutto ciò che non è prevedibile oggettivamente ovvero tutto ciò che rappresenta un’eccezione alla normale sequenza causale, ma appunto e per quanto detto rapportato ad una valutazione ex ante o in astratto, integra il caso fortuito, quale causa non prevedibile: da tanto derivando che l’imprevedibilità, da un punto di vista oggettivizzato, comporta pure la non evitabilità dell’evento.
Queste conclusioni vanno poi applicate alla peculiare fattispecie del «danno cagionato dalle cose in custodia»; e l’assenza di specificazioni di sorta comporta che il danno rilevante – di cui cioè il custode è responsabile – prescinde dalle caratteristiche della cosa custodita, sia quindi essa o meno pericolosa, c.d. “seagente” (ovvero dotata di intrinseco dinamismo) oppure no; e la fattispecie può allora comprendere, sempre dando luogo alla responsabilità ai sensi dell’art.2051 cod. civ., una gamma potenzialmente indefinita di situazioni sotto i relativi profili:
– quanto al ruolo nella sequenza causale, cioè alla partecipazione della cosa custodita alla produzione materiale dell’evento dannoso: a partire dai casi in cui la cosa è del tutto inerte ed in cui l’interazione del danneggiato è indispensabile per la produzione dell’evento, via via fino a quelle in cui essa, per il relativo intrinseco dinamismo, viene a svolgere un ruolo sempre maggiore di attiva interazione con la condotta umana, fino a diventare preponderante od esclusiva, in cui cioè l’apporto concausale della condotta dell’uomo è persino assente;
– quanto alle caratteristiche intrinseche della cosa custodita, cioè alla relativa idoneità a cagionare situazioni di probabile danno (pericolosità): a partire dalle fattispecie in cui essa non presenta rischi derivanti dall’interazione con l’uomo, via via fino a quelle in cui il funzionamento o il relativo modo stesso di essere comporti per sé solo, per le modalità ad esso normali, il rischio (cioè, la probabilità ragionevole) di una conseguenza dannosa con chi viene in contatto con la cosa custodita.
In questo complessivo contesto – prosegue la Corte – va calata la conclusione, tradizionale nella giurisprudenza di legittimità, dell’accollo al danneggiato della sola prova del nesso causale tra la cosa e il danno: ove la cosa oggetto di custodia abbia avuto un ruolo nella produzione, a tanto deve limitarsi l’allegazione e la prova da parte del danneggiato; incombe poi al custode o negare la riferibilità causale dell’evento dannoso alla cosa, ciò che esclude in radice l’operatività della norma, cioè dare la prova dell’inesistenza del nesso causale, oppure dare la prova della circostanza, che solo a prima vista potrebbe coincidere con la prima, che il nesso causale sussiste tra l’evento ed un fatto che non era né prevedibile, né evitabile.
Su quest’ultimo punto, precisa il Collegio, la recente Cass. ord. 31/10/2017, n. 25837, ha puntualizzato che il caso fortuito è ciò che non può prevedersi (mentre la forza maggiore è ciò che non può evitarsi), per poi giungere, dopo un’accurata disamina del ruolo della condotta del danneggiato, alla conclusione che anche questa può integrare il caso fortuito ed escludere integralmente la responsabilità del custode ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., ma solo purché abbia due caratteristiche: sia stata colposa, e non fosse prevedibile da parte del custode.
Tale conclusione richiede tuttavia per la Corte talune puntualizzazioni.
In effetti, può senz’altro convenirsi che, per «caso fortuito» idoneo a recidere il nesso causale tra la cosa e il danno, ai fini della peculiare responsabilità disegnata dall’art. 2051 cod. civ., vada generalmente inteso quel fattore causale, estraneo alla sfera soggettiva, che presenta i caratteri dell’imprevedibilità e dell’eccezionalità (fattore causale comprensivo anche del fatto del terzo o, in via descrittiva ed a seconda dei casi, della colpa del danneggiato): purché esso abbia, in applicazione dei principi generali in tema di causalità nel diritto civile, efficacia determinante dell’evento dannoso.
Pertanto, anche il caso fortuito (oggettivo e valutato ex ante) va allora inquadrato in questo contesto: e l’imprevedibilità va intesa come obiettiva inverosimiglianza dell’evento, benché non anche come relativa impossibilità, mentre l’eccezionalità è qualcosa di più pregnante dell’improbabilità (quest’ultima in genere intesa come probabilità inferiore alle 50 probabilità su 100), dovendo identificarsi come una sensibile deviazione (ed appunto eccezione) rispetto alla frequenza statistica accettata come «normale», vale a dire entro margini di oscillazione – anche ampi – intorno alla media statistica, che escludano i picchi estremi, se isolati, per identificare valori comunemente accettati come di ricorrenza ordinaria o tollerabile e, in quanto tali, definibili come ragionevoli.
Su queste premesse, prospettato e provato dal danneggiato il nesso causale tra cosa custodita ed evento dannoso, la colpa o l’assenza di colpa del custode resta del tutto irrilevante ai fini della pertinente responsabilità ai sensi dell’art. 2051 cod. civ.
È chiaro che non si esclude certo che un’eventuale colpa sia fatta specificamente valere dal danneggiato, ma tanto deve aver luogo allora ai fini – ed accollandosi quegli i ben più gravosi oneri assertivi e probatori – della generale fattispecie dell’art. 2043 cod. civ., in cui egli deve dare la prova, prima di ogni altra cosa, di una colpa del danneggiante e non solamente del nesso causale tra presupposto della responsabilità ed evento dannoso; quando, però, l’azione è proposta ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., la deduzione di omissioni, violazione di obblighi di legge, di regole tecniche o di criteri di comune prudenza da parte del custode può essere diretta soltanto a rafforzare la prova dello stato della cosa e della relativa attitudine a recare danno, sempre ai fini dell’allegazione e della prova del rapporto causale tra l’una e l’altro.
Può concludersi quindi per il Collegio che l’imprevedibilità – idonea ad esonerare il custode dalla responsabilità – deve essere oggettiva, dal punto di vista probabilistico o della causalità adeguata, senza alcun rilievo dell’assenza o meno di colpa del custode medesimo; tuttavia, l’imprevedibilità è comunque di per sé un concetto relativo, necessariamente influenzato dalle condizioni della cosa, di più o meno intrinseca pericolosità in rapporto alle caratteristiche degli eventi in grado di modificare tali condizioni ed alla stessa interazione coi potenziali danneggiati.
Sotto il primo profilo, chiosa ancora il Collegio, può rilevarsi come l’oggettiva imprevedibilità si esaurisca nel tempo: una modifica improvvisa delle condizioni della cosa, a mano a mano che il tempo trascorre dal relativo accadimento in rapporto alle concrete possibilità di estrinsecazione della signoria di fatto su quella, comporta che la modifica finisca con il fare corpo con la cosa stessa, sicché è a questa, come in effetti modificata anche dall’evento originariamente improvviso, che correttamente si ascrive il fatto dannoso che ne deriva.
Sotto il secondo profilo, può rilevarsi come la prevedibilità deve riferirsi alla normalità – ovvero alla non radicale eccezionalità, per estraneità al novero delle possibilità ragionevoli secondo quel criterio di ordinaria rapportabilità causale da valutarsi ex ante ed idoneo ad oggettivizzarsi – del fattore causale.
L’operazione logica da compiersi è allora quella di identificazione del nesso causale, sulla base dei fatti prospettati dalle parti ed acquisiti in causa: ma occorre distinguere a seconda che con la relazione causale tra cosa e danno interferisca una diversa relazione causale tra la condotta umana del danneggiato ed il danno stesso, oppur no.
Nella seconda ipotesi, effettivamente deve trattarsi di un evento obiettivamente imprevedibile (ovvero, a seconda dell’elaborazione di volta in volta accettata, che talvolta comprende nella nozione di caso fortuito anche la causa di forza maggiore, inevitabile), secondo la rigorosa ricostruzione di cui alla già richiamata Cass. ord. 25837/17; nel primo caso, cioè di compresenza di una condotta del danneggiato, occorre osservare che, una volta delibato come sussistente il nesso causale tra cosa e danno, subentra, siccome applicabile anche alla responsabilità extracontrattuale in virtù del richiamo di cui all’art. 2056 cod. civ., la regola generale del primo comma dell’art. 1227 cod. civ., in ordine al concorso del fatto colposo del danneggiato.
Va sottolineato al riguardo, chiosa ancora la Corte, che la ricostruzione del nesso causale tra il criterio di imputazione della responsabilità e l’evento dannoso va operata dal giudice anche di ufficio (Cass.22/03/2011, n. 6529: anche quando il danneggiante o il responsabile si limiti a contestare in toto la propria responsabilità): pertanto, in tema di responsabilità per i danni cagionati da una cosa in custodia ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., l’allegazione del fatto del terzo o dello stesso danneggiato, idonea ad integrare l’esimente del caso fortuito, deve essere esaminata e verificata anche d’ufficio dal giudice, attraverso le opportune indagini sull’eventuale incidenza causale del fatto del terzo o del comportamento colposo del danneggiato nella produzione dell’evento dannoso, indipendentemente dalle argomentazioni e richieste formulate dalla parte, purché risultino prospettati gli elementi di fatto sui quali si fonda l’allegazione del fortuito (integrando così una mera difesa la fattispecie di cui al primo comma dell’art. 1227 cod. civ.: per tutte, Cass. 30/09/2014, n. 20619; Cass. Sez. U. 03/06/2013, n. 13902).
A queste condizioni può allora rilevare il fatto del danneggiato, oggetto anche di una mera allegazione – e, in caso di contestazione, di prova – da parte del danneggiante, perfino implicita nel relativo impianto difensivo.
Tanto in ipotesi di responsabilità per cose in custodia ex art. 2051 cod. civ., quanto in ipotesi di responsabilità ex art. 2043 cod. civ., il comportamento colposo del danneggiato (che sussiste quando egli abbia usato un bene senza la normale diligenza o con affidamento soggettivo anomalo) può – in base ad un ordine crescente di gravità – o atteggiarsi a concorso causale colposo (valutabile ai sensi dell’art. 1227 cod. civ., comma 1), ovvero escludere il nesso causale tra cosa e danno e, con esso, la responsabilità del custode (integrando gli estremi del caso fortuito rilevante a norma dell’art. 2051 cod. civ.).
In particolare, per il Collegio quanto più la situazione di possibile pericolo è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione delle normali cautele da parte dello stesso danneggiato, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso (espressamente in tali termini: Cass. 06/05/2015, n. 9009; in precedenza, peraltro, già Cass. 10300/07).
In altri termini, se è vero che il riconoscimento della natura oggettiva del criterio di imputazione della responsabilità si fonda sul dovere di precauzione imposto al titolare della signoria sulla cosa custodita in funzione di prevenzione dei danni prevedibili a chi con quella entri in contatto (Cass. 17/10/2013, n. 23584), è altrettanto vero che l’imposizione di un dovere di cautela in capo a chi entri in contatto con la cosa risponde anch’essa a criteri di ragionevole probabilità e quindi di causalità adeguata.
Tale dovere di cautela corrisponde già alla previsione codicistica della limitazione del risarcimento in ragione di un concorso del proprio fatto colposo e può ricondursi – se non all’ormai non più in auge principio di autoresponsabilità – almeno ad un dovere di solidarietà, imposto dall’art. 2 Cost., di adozione di condotte idonee a limitare entro limiti di ragionevolezza gli aggravi per gli altri in nome della reciprocità degli obblighi derivanti dalla convivenza civile, in adeguata regolazione della propria condotta in rapporto alle diverse contingenze nelle quali si venga a contatto con la cosa.
In tal senso, del resto, già si è statuito che la responsabilità civile per omissione può scaturire non solo dalla violazione di un preciso obbligo giuridico di impedire l’evento dannoso, ma anche dalla violazione di regole di comune prudenza, le quali impongano il compimento di una determinata attività a tutela di un diritto altrui: principio affermato sia quando si tratti di valutare se sussista la colpa dell’autore dell’illecito, sia quando si tratti di stabilire se sussista un concorso di colpa della vittima nella produzione del danno, ex art. 1227, comma primo, cod. civ. (Cass. Sez. U.21/11/2011, n. 24406).
Un tale contemperamento risponde anche al canone di proporzionalità imposto dalla CEDU (firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata – in uno al protocollo aggiuntivo firmato a Parigi il 20 marzo 1952 – con legge 4 agosto 1955, n. 848, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 221 del 24 settembre 1955 ed entrata in vigore il 10 ottobre 1955) allorquando si coinvolga uno di tali diritti, quale quello alla vita (di cui all’art. 2) o alla salute (di cui, sia pure in maniera indiretta, all’art. 8, co. 1 e 2,): come già affermato dal Collegio in tema di tutela del diritto alla vita (Cass. ord. 22/09/2016, n. 18619), supera il controllo di conformità alla detta Convenzione il principio di diritto (affermato da Cass. 23/05/2014, n. 11532) secondo cui «la persona che, pur capace di intendere e di volere, si esponga volontariamente ad un rischio grave e percepibile con l’uso dell’ordinaria diligenza, tiene una condotta che costituisce causa esclusiva dei danni eventualmente derivati, e rende irrilevante la condotta di chi, essendo obbligato a segnalare il pericolo, non vi abbia provveduto».
In particolare, un detto principio, nella relativa astrattezza, deve dirsi contemperare adeguatamente l’esigenza di tutela del diritto alla vita da parte dello Stato e dei pubblici poteri (con conclusione che si estende agevolmente alla tutela del diritto alla salute od all’incolumità in genere e, per di più, ai rapporti tra privati, anche a questi applicandosi la Convenzione: da ultimo, Corte EDU 20/12/2016, Ljaskaj c/ Croazia), con quella – altrettanto imperiosa e dettata da elementari esigenze di ragionevolezza – di non accollare alla collettività – o comunque immotivatamente al prossimo – le conseguenze dannose, soprattutto di natura economica (e quindi tutelate dall’art. 1 del primo protocollo aggiunto alla richiamata Convenzione europea), che derivino da condotte che siano qualificate come assurte in via esclusiva a volontaria e consapevole esposizione al rischio serio o grave per la vita da parte della potenziale vittima e quindi unica causa del danno da questa patito, quand’anche al bene primario della vita stessa.
E si è concluso che, per il margine di apprezzamento normalmente riconosciuto al singolo Stato nell’assicurare la salvaguardia dei diritti fondamentali, la tutela del diritto alla vita – e quindi anche di quello all’incolumità e alla salute – da parte dei pubblici poteri – e nei rapporti ìnterprivati – non può spingersi al risarcimento dei danni derivanti dalla condotta volontaria, qualificata unica causa della lesione a quel diritto, del titolare di quel diritto.
Ne consegue per il Collegio che, quando il comportamento del danneggiato sia apprezzabile come ragionevolmente incauto, lo stabilire se il danno sia stato cagionato dalla cosa o dal comportamento della stessa vittima o se vi sia concorso causale tra i due fattori costituisce valutazione (squisitamente di merito), che va compiuta sul piano del nesso eziologico ma che comunque sottende sempre un bilanciamento fra i detti doveri di precauzione e cautela: e quando manchi l’intrinseca pericolosità della cosa e le esatte condizioni di queste siano percepibili in quanto tale, ove la situazione comunque ingeneratasi sia superabile mediante l’adozione di un comportamento ordinariamente cauto da parte dello stesso danneggiato, va allora escluso che il danno sia stato cagionato dalla cosa, ridotta al rango di mera occasione dell’evento, e ritenuto integrato il caso fortuito (in termini sostanzialmente analoghi: Cass.05/12/2013, n. 28616).
Pertanto, ove la condotta del danneggiato assurga, per l’intensità del rapporto con la produzione dell’evento, al rango di causa esclusiva dell’evento medesimo e del quale la cosa abbia costituito la mera occasione, viene meno appunto il nesso causale tra la cosa custodita e quest’ultimo e la fattispecie non può più essere sussunta entro il paradigma dell’art. 2051 cod. civ., anche quando la condotta possa essere stata prevista o sia stata comunque prevedibile, ma esclusa come evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale.
In caso di rapporto via via meno intenso, ferma allora la responsabilità del custode in ragione della sussistenza (nel senso di non riuscita elisione) del nesso causale tra cosa custodita ed evento dannoso, la colpa del danneggiato rileverà ai fini del primo comma dell’art. 1227 cod. civ., sulla base di una valutazione anche ufficiosa.
Già in tale senso del resto, prosegue la Corte, la richiamata Cass.29/07/2016, n. 15761, ha ribadito il principio (di cui a Cass.22/03/2011, n. 6550) che il custode si presume responsabile, ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., dei danni riconducibili alle situazioni di pericolo immanentemente connesse alla struttura ed alla conformazione stessa della cosa custodita e delle relative pertinenze, potendo su tale responsabilità influire la condotta della vittima, la quale, però, assume efficacia causale esclusiva soltanto ove possa qualificarsi come estranea al novero delle possibilità fattuali congruamente prevedibili in relazione al contesto, salvo in caso contrario rilevare ai fini del concorso nella causazione dell’evento, ai sensi dell’art. 1227, primo comma, cod. civ.; e, se la disattenzione è sempre prevedibile come evenienza, la stessa cessa di esserlo – ed elide il nesso causale con la cosa custodita – quando risponde alla inottemperanza ad un invece prevedibile dovere di cautela da parte del danneggiato in rapporto alle circostanze del caso concreto.
In definitiva, per la Corte i principi di diritto da applicare alla fattispecie possono così ricostruirsi:
- a) l’art. 2051 cod. civ., nel qualificare responsabile chi ha in custodia la cosa per i danni da questa cagionati, individua un criterio di imputazione della responsabilità che prescinde da qualunque connotato di colpa, sicché incombe al danneggiato allegare, dandone la prova, il rapporto causale tra la cosa e l’evento dannoso, indipendentemente dalla pericolosità o meno o dalle caratteristiche intrinseche della prima;
- b) la deduzione di omissioni, violazioni di obblighi di legge di regole tecniche o di criteri di comune prudenza da parte del custode rileva ai fini della sola fattispecie dell’art. 2043 cod. civ., salvo che la deduzione non sia diretta soltanto a dimostrare lo stato della cosa e la relativa capacità di recare danno, a sostenere allegazione e prova del rapporto causale tra quella e l’evento dannoso;
- c) il caso fortuito, rappresentato da fatto naturale o del terzo, è connotato da imprevedibilità ed inevitabilità, da intendersi però da un punto di vista oggettivo e della regolarità causale (o della causalità adeguata), senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode; peraltro le modifiche improvvise della struttura della cosa incidono in rapporto alle condizioni di tempo e divengono, col trascorrere del tempo dall’accadimento che le ha causate, nuove intrinseche condizioni della cosa stessa, di cui il custode deve rispondere;
- d) il caso fortuito, rappresentato dalla condotta del danneggiato, è connotato dall’esclusiva efficienza causale nella produzione dell’evento; a tal fine, la condotta del danneggiato che entri in interazione con la cosa si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull’evento dannoso, in applicazione – anche ufficiosa – dell’art. 1227 cod. civ., primo comma; e deve essere valutata tenendo anche conto del dovere generale di ragionevole cautela riconducibile al principio di solidarietà espresso dall’art. 2 Cost.
Pertanto, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione da parte dello stesso danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando lo stesso comportamento, benché astrattamente prevedibile, sia da escludere come evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale.
Il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto – chiosa a questo punto la Corte – nella sentenza impugnata non ha fatto buon governo dei principi di diritto testé esplicitati.
La giurisprudenza della Corte, in relazione agli eventi naturali – e, segnatamente, alle precipitazioni atmosferiche – dotati di un’efficacia di tale intensità da costituire la causa da sola sufficiente a determinare l’evento dannoso, ha affermato, già in epoca ormai risalente e con orientamento stabile, che la loro riconducibilità all’ipotesi di “caso fortuito“, di cui (anche, ma non solo) alla fattispecie legale disciplinata dall’art. 2051 cod. civ., è condizionata dal possesso dei caratteri dell’eccezionalità e della imprevedibilità (tra le altre, Cass. 21/01/1987, n. 522; Cass. 11/05/1991, n. 5267; Cass.22/05/1998, n. 5133; Cass. 26/01/1999, n. 674; Cass. 09/03/2010, n. 5658; Cass. 17/12/2014, n. 26545; Cass. 24/09/2015, n. 18877; Cass. 24/03/2016, n. 5877; Cass. 28/07/2017, n. 18856), mentre quello della “inevitabilità” rimane intrinseco al fatto di essere evento atmosferico (cfr. Cass. n. 25837 del 2017, cit.: in sostanza, un evento atmosferico è per definizione inevitabile).
La necessaria compresenza degli anzidetti caratteri del “fortuito“, siccome costituito anche dalle precipitazioni atmosferiche, è ben scolpita dalla citata Cass. n. 5267 del 1991 (richiamata anche da Cass. n. 26545 del 2014, cit.), secondo cui “per caso fortuito deve intendersi un avvenimento imprevedibile, un quid di imponderabile che si inserisce improvvisamente nella serie causale come fattore determinante in modo autonomo dell’evento. Il carattere eccezionale di un fenomeno naturale, nel senso di una sua ricorrenza saltuaria anche se non frequente, non è, quindi sufficiente, di per sé solo, a configurare tale esimente, in quanto non ne esclude la prevedibilità in base alla comune esperienza“.
Il senso delle affermazioni appena rammentate, dunque, si colloca pianamente nel solco tracciato in precedenza, là dove l’imprevedibilità, alla stregua di un’indagine ex ante e di stampo oggettivo in base al principio di regolarità causale, “va intesa come obiettiva inverosimiglianza dell’evento“, mentre l’eccezionalità è da «identificarsi come una sensibile deviazione (ed appunto eccezione) dalla frequenza statistica accettata come “normale”».
Nell’ambito di tale contesto d’indagine e di valutazione circa la ricorrenza del “caso fortuito“, risulta per la Corte del pari armonico il principio per cui, al fine di poter ascrivere le precipitazioni atmosferiche nell’anzidetta ipotesi di esclusione della responsabilità ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., «la distinzione tra “forte temporale“, “nubifragio” o “calamità naturale” non rientra nel novero delle nozioni di comune esperienza ma – in relazione alla intensità ed eccezionalità (in senso statistico) del fenomeno – presuppone un giudizio da formulare soltanto sulla base di elementi di prova concreti e specifici e con riguardo al luogo ove da tali eventi sia derivato un evento dannoso» (Cass. n. 522 del 1987, cit.). In tale ottica, dunque, l’accertamento del “fortuito” rappresentato dall’evento naturale delle precipitazioni atmosferiche deve essere essenzialmente orientato da dati scientifici di stampo statistico (in particolare, i dati c.d. pluviometrici) riferiti al contesto specifico di localizzazione della res oggetto di custodia.
Giova poi – prosegue la Corte – ribadire, nel quadro della fattispecie legale di cui all’art. 2051 cod. civ., l’estraneità all’ambito della predetta indagine, e, quindi, degli accertamenti e valutazioni successivi (riservati tutti al giudice del merito), dei profili inerenti alla colpa del custode nella predisposizione di cautele (specifiche e/o generiche) atte a rendere la res idonea a non arrecare pregiudizio allo scopo. Nella specie, il riferimento è, quindi, al (buon) funzionamento del sistema di smaltimento delle acque meteoriche predisposto dai convenuti, anche attraverso la pulizia e adeguata manutenzione dello stesso.
Sicché, l’allegazione dello “stato” del sistema di smaltimento di dette acque, nella relativa effettiva consistenza attualizzata al momento del sinistro, viene ad assumere rilievo unicamente ai fini della dimostrazione del nesso causale tra la “cosa” medesima e l’evento lesivo.
Ciò precisato, il Tribunale ha fondato il giudizio di eccezionalità ed imprevedibilità delle precipitazioni atmosferiche causative del danno lamentato nel caso di specie dall’attrice – e quindi la riconduzione di esse nel “caso fortuito” ex art. 2051 cod. civ. – sulla scorta delle delibere della Giunta regionale siciliana del 15 febbraio 2010 e del 28 ottobre 2010, che avevano dichiarato lo stato di calamità naturale a seguito, rispettivamente, degli eventi meteorici verificatesi nei territori delle province di Messina e di Palermo nel settembre 2009- febbraio 2010 e, poi, nei giorni 18, 19 e 20 ottobre 2010.
Tuttavia, proprio la portata delle predette delibere (il cui contenuto è precisato in ricorso ed esìbito dalla stessa sentenza impugnata) – nelle quali si fa riferimento a “piogge, talora intense, altre volte con elevati valori cumulati su lunghi periodi” o anche a “piogge prolungate“, in un territorio non certo circoscritto e delimitato puntualmente, quello delle province di Palermo e Messina – dà ragione dell’errore di sussunzione commesso dal giudice del merito (con la riconduzione nell’ambito della fattispecie legale di un fatto ad essa estraneo), non potendosi ravvisare nelle precipitazioni appena descritte i caratteri, innanzi rammentati, della eccezionalità e, tantomeno, della imprevedibilità, connotanti il “caso fortuito” di cui all’art. 2051 cod. civ., da accertarsi, come detto, in base ad elementi concreti e specifici, tenuto conto (anzitutto) dei dati statistici- pluviometrici della zona interessata.
Del resto, concorre a corroborare siffatta conclusione anche la circostanza che, secondo quanto declinato dalle predette delibere giuntali, gli “eventi calamitosi” (fondanti le declaratorie dello stato di “calamità naturale“) non trovano la propria eziologia nel solo fattore atmosferico (le precipitazioni), ma anche nella combinata incidenza del “fragile tessuto geomorfologico, litologico e geostrutturale del territorio della Regione“.
E ciò consente al Collegio di rimarcare, alla stregua di un orientamento ormai consolidato della Corte (Cass. n. 26545 del 2014, Cass. n. 5877 del 2016 e Cass. n. 18856 del 29017, citate), che «il discorso sulla prevedibilità maggiore o minore di una pioggia a carattere alluvionale certamente impone oggi, in considerazione dei noti dissesti idrogeologici che caratterizzano il nostro Paese, criteri di accertamento improntati ad un maggior rigore, poiché è chiaro che non si possono più considerare come eventi imprevedibili alcuni fenomeni atmosferici che stanno diventando sempre più frequenti e, purtroppo, drammaticamente prevedibili».
Nondimeno, occorre per la Corte evidenziare, in una prospettiva collimante con i rilievi che precedono e, segnatamente, con il principio enunciato dalla citata Cass. n. 522 del 1987, che neppure a livello legislativo si rinvengono qualificazioni tali da far coincidere, di per sé, gli eventi naturali pregiudizievoli o le stesse calamità naturali con il “fortuito“, come in precedenza definito secondo i caratteri dell’eccezionalità e imprevedibilità. In tal senso, già la risalente legge 8 dicembre 1970, n. 996 (Norme sul soccorso e l’assistenza alle popolazioni colpite da calamità – Protezione civile) identificava, all’art. 1, la “calamità naturale” (o “catastrofe“) in quella situazione determinativa di “grave danno o pericolo di grave danno alla incolumità delle persone e ai beni e che per la loro natura o estensione debbano essere fronteggiate con interventi tecnici straordinari“; senza, dunque, interferire sul piano della connotazione dell’evento ivi riconducibile siccome eccezionale e, al tempo stesso, imprevedibile.
Del pari, la attuale disciplina in tema di protezione civile, ossia la legge 24 febbraio 1992, n. 225 e successive modificazioni, istitutiva del “Servizio nazionale della protezione civile“, nel definire la tipologia degli eventi suscettibili di intervento e i relativi ambiti di competenze (con suddivisione dei vari livelli ispirata al principio di sussidiarietà, riservando allo Stato le situazioni emergenziali da fronteggiare con mezzi e poteri straordinari), fa riferimento ad “eventi naturali o connessi con l’attività dell’uomo” [art. 2, lett. a) e b)] o (in ragione della loro maggiore intensità ed estensione) a “calamità naturali o connesse con l’attività dell’uomo” [art. 2, lett. c), per le quali è prevista, per l’appunto, la competenza statale, seppur temporanea: Corte cost., sent. n. 8 del 2016], che non trovano ulteriore specificazione in termini di caratteristiche intrinseche agli stessi, ma sono declinati in funzione, eminentemente, delle conseguenze dannose provocate o determinabili (cfr. art. 3 della stessa legge n. 225 del 1992, sui connotati dell’attività di previsione, prevenzione e soccorso).
Del resto, e in modo assai significativo, l’art. 5 della medesima legge n. 225 del 1992 (che regola lo stato di emergenza e il potere di ordinanza, anche in deroga alle leggi vigenti, al verificarsi degli eventi di cui al citato art. 2, comma 1, lettera c), al relativo comma 5-ter (introdotto dal comma 2-quater dell’art. 17 d.l. n. 195 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 26 del 2010), “in relazione ad una dichiarazione dello stato di emergenza“, intesta il diritto alla sospensione o al differimento temporaneo dei termini per gli adempimenti fiscali e previdenziali “esclusivamente” in capo “ai soggetti interessati da eventi eccezionali e imprevedibili che subiscono danni riconducibili all’evento“.
Ciò rende ancora una volta evidente come la “calamità naturale“, in forza della quale è dichiarato lo stato di emergenza, non costituisce di per sé evento eccezionale e imprevedibile, ma può, semmai, essere determinata anche da eventi, specifici, di tale natura.
Né è dato diversamente opinare in ragione delle specifiche attribuzioni (legislative e amministrative) della Regione siciliana, posto che la “dichiarazione dello stato di calamità“, riservato (come già visto) alla competenza della Giunta regionale, è consentita (art. 3 della legge della Regione siciliana 18 maggio 1995, n. 42) proprio “in relazione al verificarsi degli eventi di cui alle lettere a) e b) dell’articolo 2 della legge 24 febbraio 1992, n. 225“, innanzi richiamati.
Può dunque per il Collegio enunciarsi, nel solco di quelli innanzi affermati e con specifico riguardo alla fattispecie in esame, il principio di diritto onde le precipitazioni atmosferiche integrano l’ipotesi di caso fortuito, ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., allorquando assumano i caratteri dell’imprevedibilità oggettiva e dell’eccezionalità, da accertarsi con indagine orientata essenzialmente da dati scientifici di tipo statistico (i c.d. dati pluviometrici) riferiti al contesto specifico di localizzazione della res oggetto di custodia, la quale va considerata nello stato in cui si presenta al momento dell’evento atmosferico.
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Il 21 febbraio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 17390 onde, in tema di circolazione stradale, l’abbagliamento da raggi solari del conducente di un automezzo non integra un caso fortuito e, pertanto, non esclude la penale responsabilità per i danni che ne siano derivati alle persone.
In una simile situazione (di abbagliamento), per la Corte il conducente è tenuto a ridurre la velocità e anche ad interrompere la marcia, adottando opportune cautele onde non creare intralcio alla circolazione ovvero l’insorgere di altri pericoli, ed attendere di superare gli effetti del fenomeno impeditivo della visibilità.
2019
Il 19 febbraio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 13124 onde il bisogno fisiologico va inquadrato nel concetto di «malessere» e, come tale, giustifica la sosta sulla corsia di emergenza ai sensi dell’art. 157 cod. strada, 1° comma, lett. d).
Invero, per la Corte il termine «malessere» non può esaurirsi nella nozione di infermità incidente sulla capacità intellettiva e volitiva del soggetto come prevista dall’art. 88 c.p. o nell’ipotesi di caso fortuito di cui all’art. 45 c.p., bensì nel lato concetto di disagio e finanche di incoercibile necessità fisica anche transitoria che non consente di proseguire la guida con il dovuto livello di attenzione e quindi in esso deve necessariamente ricomprendersi l’improvviso bisogno fisiologico (dipendente o meno da malfunzionamento organico) che notoriamente esclude quella condizione di benessere fisico indispensabile per una guida corretta che non ponga in pericolo sia lo stesso conducente ed i terzi trasportati sia gli altri utenti della strada.
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L’8 marzo esce l’ordinanza della III sezione della Cassazione civile n.6737 alla cui stregua il gestore di un maneggio risponde quale esercente di attività pericolosa, ai sensi dell’art. 2050 c.c., dei danni riportati dai soggetti partecipanti alle lezioni di equitazione, qualora gli allievi siano principianti, ed ai sensi dell’art. 2052 c.c., nel caso di allievi esperti.
La conseguenza che ne va ritratta, per il Collegio, è che il danneggiante è onerato, nel primo caso, della prova liberatoria consistente nell’aver fatto tutto il possibile per evitare il danno e, nel secondo caso, della prova del caso fortuito interruttivo del nesso causale, che può derivare anche da comportamento del terzo o dello stesso danneggiato.
Nel caso di specie, per la Corte va confermata la decisione di merito impugnata, pur correggendone la motivazione, tenuto conto che lo stesso giudice di appello erroneamente ha qualificato la fattispecie come una ipotesi di responsabilità derivante da danni cagionati da animali, sebbene abbia posto in rilievo che l’allieva fosse una principiante, con conseguente operatività dell’art.2050 c.c. e non dell’art.2052 c.c..
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Il 25 marzo esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 21133 onde, in tema di maltrattamenti, l’autore del pertinente reato non può invocare, a propria discolpa, l’inesigibilità di un comportamento diverso da quello tenuto siccome coartato dalla volontà di altri, che abbia imposto un proprio modello culturale improntato ad autoritarismo maschilista.
Ciò in quanto, per la Corte, il principio della non esigibilità non trova applicazione al di là delle cause di giustificazione e delle cause di esclusione della colpevolezza espressamente codificate.
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Il 2 maggio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 18271 alla cui stregua va annullata, perché inficiata da vizio motivazionale, la sentenza di merito che abbia condannato per il reato di bancarotta semplice documentale l’amministratore unico di una società fallita, escludendo la ricorrenza della causa di forza maggiore legata alla circostanza che la contestata omissione della tenuta delle scritture contabili si era verificata nel periodo in cui l’imputato era assoggettato a pretese estorsive di matrice mafiosa e aveva perso la disponibilità di accedere ai locali aziendali.
Nel caso di specie, il Collegio rappresenta come il giudice di merito non abbia tenuto conto di altra pronuncia con cui lo stesso soggetto attivo, all’esito di un procedimento relativo a un fatto coevo e parimenti connesso alla gestione dell’impresa dove si configurava un reato tributario, è stato assolto per difetto dell’elemento soggettivo in ragione dello status di vittima di estorsione.
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Il 29 agosto esce l’ordinanza della III sezione della Cassazione civile n. 21772, onde va cassata la sentenza con cui la corte di merito – a fronte di una domanda di risarcimento del danno proposta contro il proprietario di un cane dai prossimi congiunti di una persona morta a seguito della caduta provocata da uno strattonamento da parte del proprio cane tenuto al guinzaglio – abbia affermato l’interruzione del nesso causale, escludendo che il decesso de quo sia ricollegabile al comportamento del cane di parte convenuta che, privo di guinzaglio, abbia aggredito l’altro animale, dando adito a una zuffa canina durante la quale si è verificato l’anzidetto strattonamento con esito letale.
La Corte riconduce il caso fortuito alla interruzione del nesso causale, in una fattispecie quale quella di cui all’art.2052 c.c. connotata da responsabilità oggettiva.
2020
Il 20 aprile esce la sentenza della III sezione civile della Cassazione n. 7969 alla cui stregua la responsabilità per il danno cagionato dalla fauna selvatica ha natura oggettiva, con conseguente onere, in capo al soggetto (pubblico) convenuto nell’azione risarcitoria pertinente, di provare l’intervento del caso fortuito ai fini dell’esclusione della relativa responsabilità.
I danni cagionati dalla fauna selvatica – precisa la Corte – sono risarcibili dalla p.a. a norma dell’art. 2052 c.c., giacché, da un lato, il criterio di imputazione della responsabilità previsto da tale disposizione si fonda non sul dovere di custodia, ma sulla proprietà o, comunque, sull’utilizzazione dell’animale e, dall’altro, le specie selvatiche protette ai sensi della l. n. 157 del 1992 rientrano nel patrimonio indisponibile dello stato e sono affidate alla cura e alla gestione di soggetti pubblici in funzione della tutela generale dell’ambiente e dell’ecosistema.
In materia di danni da fauna selvatica a norma dell’art. 2052 c.c., chiosa ancora la Corte, grava sul danneggiato l’onere di dimostrare il nesso eziologico tra il comportamento dell’animale e l’evento lesivo, mentre spetta, nel caso di specie, alla Regione fornire la prova liberatoria del caso fortuito, dimostrando che la condotta dell’animale si è posta del tutto al di fuori della propria sfera di controllo, come causa autonoma, eccezionale, imprevedibile o, comunque, non evitabile neanche mediante l’adozione delle più adeguate e diligenti misure – concretamente esigibili in relazione alla situazione di fatto e compatibili con la funzione di protezione dell’ambiente e dell’ecosistema – di gestione e controllo del patrimonio faunistico e di cautela per i terzi.
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Il 16 luglio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.21158, che torna ad occuparsi della fattispecie di omesso versamento di ritenute certificate, c.d. “crisi di liquidità” e forza maggiore, dichiarando nella specie inammissibile il ricorso spiccato dal reo, assunto dal giudice di merito responsabile del reato di cui all’art. 10-bis, d Igs. n. 74 del 2000 perché, nella qualità di legale rappresentante della società X, dichiarata fallita con sentenza del 21/03/2013, ha omesso di versare, nel termine previsto per la dichiarazione annuale mod. 770, le ritenute operate, a fini fiscali, sulle retribuzioni corrisposte ai dipendenti nell’anno 2011 per un ammontare pari a 188.022, euro.
I motivi di ricorso di cui al caso di specie, che per il Collegio possono essere esaminati congiuntamente, ripropongono la questione della incidenza della crisi di impresa (o crisi di liquidità) sul dolo del reato, posto che l’inadempimento dell’obbligazione tributaria è per lo più ricondotto a causa di forza di maggiore. La Corte pare ricondurre la forza maggiore a fattore che esclude l’elemento soggettivo del reato (colpevolezza).
Le questioni sollevate con il ricorso trovano per il Collegio risposta negli approdi ermeneutici di Sez. U., n. 37425 del 28/03/2013, Favellato, secondo la quale:
- a) il reato di omesso versamento delle ritenute certificate (art. 10-bis d.lgs n. 74 del 2000), che si consuma con il mancato versamento – per un ammontare superiore ad euro cinquantamila – delle ritenute complessivamente risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti entro la scadenza del termine finale per la presentazione della dichiarazione annuale, non si pone in rapporto di specialità ma di progressione illecita con l’art. 13, comma primo, D.Lgs. n. 471 del 1997, che punisce con la sanzione amministrativa l’omesso versamento periodico delle ritenute alla data delle singole scadenze mensili, con la conseguenza che al trasgressore devono essere applicate entrambe le sanzioni (sia penale che amministrativa);
- b) nell’illecito amministrativo di cui al comma 1 dell’art. 13 d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, infatti, il presupposto è costituito dalla erogazione di somme comportanti l’obbligo di effettuazione della ritenuta alla fonte (artt. 23 ss. d.P.R. n. 600 del 1973) e di versamento della stessa all’Erario con le modalità stabilite (art. 3 d.P.R. n. 602 del 1973), la condotta omissiva si concretizza nel mancato versamento della ritenuta mensile e il termine per l’adempimento è fissato al giorno 15 (poi passato al 16) del mese successivo a quello di effettuazione della ritenuta (art. 8 d.P.R. n. 602 del 1973);
viceversa, nell’illecito penale di cui all’art. 10-bis d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, il presupposto è costituito sia dalla erogazione di somme comportanti l’obbligo di effettuazione deIle ritenute alla fonte (artt. 23 ss. d.P.R. n. 600 del 1973) e di versamento deIle stesse all’Erario con le modalità stabilite dall’art. 3 d.P.R. n. 60 del 1973), sia iI rilascio al soggetto sostituito di un certificazione attestante l’ammontare complessivo delle somme corrisposte e delle ritenute operate nell’anno precedente (v. art. 4, commi 6-ter e 6-q ater, d.P.R. 22 luglio 1998, n. 322); la condotta omissiva si concretizza nel mancato versamento, per un ammontare superiore a Euro cinquantamila, delle ritenute complessivamente operate nell’anno di imposta e risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti; il termine per l’adempimento è individuato in quello previsto (in riferimento all’epoca dei fatti, 30 settembre ovvero 31 ottobre, a seconda dell’utilizzo del Modello 770 semplificato o – come avvenuto nel caso di specie – del Modello 770 ordinario: art. 4 d.P.R. n. 332 del 1998) per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta relativa a l’anno precedente.
Pur nella comunanza di una parte dei presupposti (erogazione di somme comportanti l’obbligo di effettuazione delle ritenute alla fonte e di versamento delle stesse all’Erario con le modalità stabilite) e della condotta (omissione di uno o più dei versamenti mensili dovuti), gli elementi costitutivi dei due illeciti divergono in alcune componenti essenziali, rappresentate in particolare: dal requisito della “certificazione” delle ritenute, richiesto per il solo illecito penale; dalla soglia minima dell’omissione, richiesta per il solo illecito penale; dal termine di riferimento per l’assunzione di rilevanza dell’omissione, fissato, per l’illecito amministrativo, al giorno quindici (poi passato al sedici) del mese successivo a quello di effettuazione delle ritenute, e coincidente, per l’illecito penale, con quello previsto per la presentazione (entro le date del 30 settembre ovvero del 31 ottobre) délla dichiarazione annuale di sostituto di imposta relativa al precedente periodo d’imposta;
- c) la conclusione assunta in ordine al rapporto sussistente, in via generale, fra le diposizioni in discorso non si pone in contrasto con l’art. 4 del Protocollo n. 7 della CEDU, né con l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che sanciscono il principio del ne bis in idem in materia penale.
Anzitutto, nella specie, come si è visto, non si può parlare di identità del fatto; in ogni caso, poi, il principio suddetto si riferisce solo ai procedimenti penali e non può, quindi, riguardare l’ipotesi dell’applicazione congiunta di sanzione penale e sanzione amministrativa tributaria (in tal senso, espressamente, Corte di giustizia U.E., 26/02/2013, Aklagaren c. Hans Akerberg Franssen) (principio ribadito dalla Corte anche successivamente alla pronuncia della Corte E.D.U. nel procedimento Grande Stevens c/Italia; cfr., sul punto, Sez. 3, n. 20266 del 08/04/2014, Zanchi);
- d) il reato in esame è punibile a titolo di dolo generico e consiste nella coscienza e volontà di non versare all’Erario le ritenute effettuate nel periodo considerato, non essendo richiesto che il comportamento illecito sia dettato dallo scopo, specifico, di evadere le imposte; la prova del dolo è insita in genere nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta, e che deve, quindi, essere saldato o almeno contenuto non oltre la soglia, entro il termine lungo previsto;
- f) il debito verso il Fisco è collegato al pagamento delle retribuzioni. Ogni qualvolta il sostituto d’imposta effettua tali pagamenti insorge a suo carico l’obbligo di accantonare le somme dovute all’Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere l’obbligazione tributaria. L’introduzione della norma penale, stabilendo nuove condizioni e un nuovo termine per la propria applicazione, estende evidentemente la detta esigenza di organizzazione su scala annuale.
Non può, quindi, essere invocata, per escludere a colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta (protrattasi, in sede di prima applicazione della norma, nel 2005) di non far debitamente fronte alla esigenza predetta.
Sviluppando e riprendendo – chiosa a questo punto la Corte – il tema della «crisi di liquidità» d’impresa quale fattore in grado di escludere la colpevolezza, tema solo accennato nella citata sentenza delle Sezioni Unite, la Corte medesima ha ulteriormente precisato che è necessario che siano assolti, sul punto, precisi oneri di allegazione che devono investire non solo l’aspetto della non imputabilità al contribuente della crisi economica che improvvisamente avrebbe investito l’azienda, ma anche la circostanza che detta crisi non potesse essere adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso ad idonee misure da valutarsi in concreto.
Occorre cioè la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse economiche e finanziarie necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il proprio patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di un’improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla relativa volontà e ad egli non imputabili (Sez. 3, 9 ottobre 2013, n. 5905/2014; Sez. 3, n. 15416 del 08/01/2014, Tonti Sauro; Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013, Mercutello, Rv. 258055).
Occorre però, per il Collegio, sgombrare definitivamente il campo da un equivoco di fondo che rischia di alterare la corretta impostazione dogmatica del problema: per la sussistenza del reato in questione non è richiesto il fine di evasione, tantomeno l’intima adesione del soggetto alla volontà di violare il precetto.
Quando il legislatore ha voluto attribuire all’elemento soggettivo del reato il compito di concorrere a tipizzare la condotta e/o quello di individuare il bene/valore/interesse con essa leso o messo in pericolo, lo ha fatto in modo espresso, escludendo, per esempio, dall’area della penale rilevanza le condotte solo eventualmente (e dunque non intenzionalmente) volte a cagionare l’evento (art. 323, cod. pen., artt. 2621, 2622, 2634, cod. civ., art. 27, comma 1, d.lgs. 27 gennaio 2010, n. 39), incriminando, invece, quelle ispirate da un’intenzione che va oltre la condotta tipizzata (i reati a dolo specifico).
Il dolo del reato in questione è integrato dunque, per la Corte, dalla condotta omissiva posta in essere nella consapevolezza della relativa illiceità, non richiedendo la norma, quale ulteriore requisito, un atteggiamento antidoveroso di volontario contrasto con il precetto violato.
Gli argomenti utilizzati dal ricorrente a sostegno della fondatezza della oggettiva impossibilità di adempiere appaiono dunque alla Corte, alla luce della considerazioni che precedono, frutto di un’operazione dogmaticamente errata che tende ad attrarre nell’orbita del dolo generico requisiti che, per definizione, non gli appartengono e che si collocano piuttosto nell’ambito dei motivi a delinquere o che ne misurano l’intensità (art. 133 cod. pen.).
La scelta di non pagare – precisa il Collegio – prova (già di per sé) il dolo; i motivi della scelta non lo escludono.
L’oggettiva impossibilità di adempiere può per il Collegio avere riIevanza solo se integra una causa di forza maggiore che, come noto, esclude la suitas della condotta. Secondo l’impostazione tradizionale, è la «vis cui resisti non potest», a causa della quale l’uomo «non agit sed agitur» (Sez.1, n. 900 del 26/ 0/1965, Sacca, Rv. 100042; Sez. 2, n. 3205 del 20/12/1972, Pilla, Rv. 123904; Sez. 4, n. 8826 del 21/04/1980, Ruggieri, Rv. 145855).
Per questa ragione, secondo la costante giurisprudenza della Corte di cassazione, la forza maggiore rileva come causa esclusiva dell’evento, mai quale causa concorrente di esso (Sez. 4, n. 1492 del 23/11/1982, Chessa, Rv. 157495; Sez. 4, n. 1966 del 06/12/1966, Incerti, Rv. 104018; Sez. 4 n. 2138 del 05/12/1980, Biagini, Rv. 148018); essa sussiste solo e in tutti quei casi in cui la realizzazione dell’evento stesso o la consumazione della condotta antigiuridica sia dovuta all’assoluta ed incolpevole impossibilità dell’agente di uniformarsi al comando, e mai quando egli si trovi già in condizioni d illegittimità (Sez 4, n. 8089 del 13/0571982, Galasso, Rv. 155131; Sez. 5, n. , 513 del 26/03/1979, ,Geiser, Rv. 14213; Sez. 4, n. 1621 del 19/01/1981, Rv. 17858; Sez. 4 n. 284 deI 18/92/1964, Acchiarld , Rv. 099191).
Poiché la forza maggiore postula la individuazione di un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile, che esula del tutto dalla condotta dell’agente, sì da rendere ineluttabile il verificarsi dell’evento, non potendo ricollegarsi in alcun modo ad un’azione od omissione cosciente e volontaria dell’agente medesimo, la Suprema Corte rammenta di avere sempre escluso, quando la specifica questione è stata posta, che le difficoltà economiche in cui versa il soggetto agente possano integrare la forza maggiore penalmente rilevante. (Sez. 3, n. 4529 del 04/12/2007, Cairone, Rv. 238986; Sez. 1, n. 18402 del 05/04/2013, Giro, Rv. 255880; Sez 3, n. 24410 del 05/04/2011, Bolognini, Rv. 250805; Sez. 3, n. 9041 del 18/09/1997, Chiappa, Rv. 209232; Sez. 3, n. 643 del 22/10/1984, Bottura, Rv. 167495; Sez. i n. 7779 del 07/05/1984, Anderi, Rv. 165822).
Costituisce corollario di queste affermazioni il fatto che nei reati omissivi integra la causa di forza maggiore l’assoluta impossibilità, non la semplice difficoltà di porre in essere il comportamento omesso (Sez. 6, n. 10116 del 23/03/1990, Iannone, Rv. 184856), che deve sussistere al momento della consumazione del reato (che si perfezione con la inutile scadenza del termine), non un attimo prima, né un attimo dopo.
Ne consegue che: a) il margine di scelta esclude sempre la forza maggiore perché non esclude la suitas della condotta; b) la mancanza di provvista necessaria all’adempimento dell’obbligazione tributaria penalmente rilevante non può pertanto essere addotta a sostegno della forza maggiore quando sia comunque il frutto di una scelta/politica imprenditoriale volta a fronteggiare una crisi di liquidità; c) non si può invocare Ia forza maggiore quando l’inadempimento penalmente sanzionato sia stato con-causato dal mancato pagamento alla singole scadenze mensili e dunque da una situazione di illegittimità; d) l’inadempimento tributario penalmente rilevante può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non ha potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla relativa volontà e che sfuggono al relativo dominio finalistico.
Si deve rimarcare peraltro, prosegue la Corte, in linea con quanto già aveva ricordato la sentenza Sez. U, Favellato, che le somme ritenute dal sostituto di imposta e mai versate costituiscono parte integrante della retribuzione lorda o del compenso dovuto al sostituito e, in quanto retribuzione/compenso, voce di costo per l’impresa, deducibile, come spesa o componente negativo di reddito, ai sensi degli artt. 95 e 109, d.P.R. n. 917 del 1986); si tratta di somme che sono nella piena disponibilità del sostituto di imposta che la destina ad altri scopi.
Ne consegue che, nel caso di omesso versamento delle ritenute certificate, l’impossibilità di adempiere è difficilmente giustificabile, ai sensi dell’art. 45 c.p., sia con la decisione di distrarre ad altri scopi il denaro che è di pertinenza dl sostituito, e che tuttavia resta nelle mani del sostituto proprio perché si tratta di somme dovute all’Erario, sia con la mancanza della provvista necessaria al pagamento.
Il meccanismo della sostituzione di imposta è strumentale all’esigenza di garantire allo Stato il pagamento di quanto gli è dovuto; quando il sostituto “tradisce” la relativa funzione di garanzia appropriandosi di fatto del denaro liquido di pertinenza del sostituito ed utilizzandolo ad altri fini, tale scelta esclude la causa di forza maggiore che per esser tale, come detto, agendo dall’esterno, deve essere subìta dall’autore del reato il quale, da “dominus” dell’azione pertinente, si trasforma in inanimata causa fisica dell’evento ineluttabile (e ciò, come detto, senza considerare che la retribuzione lorda costituisce elemento negativo di reddito che concorre a determinare l’imponibile diminuendolo).
Si tratta dunque di una pronuncia assai rigorosa nell’escludere la ricorrenza della forza maggiore al cospetto di reati a struttura omissiva propria, massime se avvinti alla materia tributaria e ai connessi interessi erariali dello Stato.
* * *
Il 31 agosto esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione civile n.18100, alla cui stregua va premesso che il caso fortuito – che ben può essere costituito dal comportamento della vittima, inteso come fattore che, in base ai principi della regolarità o adeguatezza causale, esclude il nesso eziologico tra cosa e danno – è stato sottoposto ad un profondo esame da tre pronunce della Corte medesima, cui va dato seguito: Cass. 01/02/2018, nn. 2478, 2480, 2482.
Tali pronunce, prosegue il Collegio, e quelle successive che vi si sono conformate (da ultimo, cfr., ad esempio, Cass.08/10/2019, n. 25028), hanno messo a fuoco i seguenti caratteri della responsabilità ex art. 2051 cod.civ.:
- a) in primo luogo, integra il caso fortuito, quale fattore estraneo alla sequenza originaria, avente idoneità causale assorbente e tale da interrompere il nesso con quella precedente, tutto ciò che non è prevedibile oggettivamente, ovvero tutto ciò che rappresenta un’eccezione alla normale sequenza causale (imprevedibilità quindi intesa come obiettiva inverosimiglianza dell’evento);
- b) il caso fortuito può essere integrato dalla stessa condotta del danneggiato quando essa si sovrapponga alla cosa al punto da farla recedere a mera “occasione” della vicenda produttiva di danno, assumendo efficacia causale autonoma e sufficiente per la determinazione dell’evento lesivo, così da escludere qualunque rilevanza alla situazione preesistente;
- c) il riconoscimento della natura oggettiva del criterio di imputazione della responsabilità da cose in custodia si fonda sul dovere di precauzione imposto al titolare della signoria sulla cosa custodita, in funzione di prevenzione dei danni che da essa possono derivare; tuttavia, l’imposizione di un dovere di cautela in capo a chi entri in contatto con la cosa risponde a un principio di solidarietà (ex art. 2 Cost.), che comporta la necessità di adottare condotte idonee a limitare entro limiti di ragionevolezza gli aggravi per i terzi, in nome della reciprocità degli obblighi derivanti dalla convivenza civile, di tal modo che, quando il comportamento del danneggiato sia apprezzabile come ragionevolmente incauto, l’indagine eziologica sottende un bilanciamento fra i detti doveri di precauzione e cautela;
- d) quando manchi l’intrinseca pericolosità della cosa e le esatte condizioni di essa siano percepibili in quanto tali, ove la situazione comunque ingeneratasi sia superabile mediante l’adozione di un comportamento ordinariamente cauto da parte dello stesso danneggiato, va allora escluso che il danno sia stato cagionato dalla cosa, ridotta al rango di mera occasione dell’evento, e va considerato ritenuto integrato il caso fortuito.
Applicando tali principi alla vicenda per cui è causa, chiosa a questo punto il Collegio, pur dovendosi premettere che non è compito di questa Corte stabilire se il giudice di merito abbia proposto la migliore ricostruzione possibile dei fatti né di condividerne la giustificazione, dovendo solo verificare se la giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (Cass. 17/06/2009, n.14098), si ritiene che, nel caso di specie, il Tribunale non abbia affatto violato le norme di legge che regolano il regime della responsabilità ex art. 2051 cod.civ. ed abbia fatto buon governo dei principi della giurisprudenza di questa Corte, ritenendo accertata la mancanza di un nesso di causalità tra la presenza del tombino e dell’avvallamento e la caduta, posto che la situazione dei luoghi e l’orario diurno erano prova del fatto che l’uso dell’ordinaria diligenza avrebbe evitato la caduta; il che è conforme ai principi in precedenza richiamati.
Nessuna argomentazione difensiva risulta svolta a supporto della pur dedotta violazione dell’art. 2043 cod.civ. La memoria, depositata dalla ricorrente non offre argomenti per modificare le suesposte conclusioni. Dalle argomentazioni difensive svoltevi si evince in maniera assai evidente che alla loro base è stata assunta una premessa in iure contrastante con la revisione organica cui è stata sottoposta la materia da parte della Corte, e cioè che l’art. 2051 c.c. ponga una presunzione di colpa a carico del custode che deve essere vinta con la prova da parte di quest’ultimo di avere tenuto un comportamento diligente.
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Il 1 ottobre esce la sentenza della III sezione della Cassazione Penale n. 27256 onde, in caso di omesso versamento IVA, la scelta dell’imprenditore, versante in una situazione di crisi di liquidità, di pagare la retribuzione dei dipendenti anziché onorare il debito fiscale non integra una ipotesi di forza maggiore.
Non può, difatti, essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta di non far debitamente fronte alla esigenza predetta.
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Il 20 novembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione civile n. 26524, alla stregua della quale, in ambito di responsabilità da cose in custodia ex art. 2051 c.c., nel caso di caduta di pedone in una buca stradale, non risulta predicabile la ricorrenza del caso fortuito a fronte del mero accertamento di una condotta colposa della vittima (la quale potrà invece assumere rilevanza, ai fini della riduzione o dell’esclusione del risarcimento, ai sensi dell’art. 1227, 2° co., c.c.), richiedendosi, per l’integrazione del fortuito, che detta condotta presenti anche caratteri di imprevedibilità ed eccezionalità tali da interrompere il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno.
2021
Il 3 febbraio esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione civile n. 2525 onde, in materia di responsabilità civile per danno cagionato da cose in custodia, l’ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito risponde, ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., dei sinistri riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti la concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo, giacché, in simili circostanze si richiede l’osservanza di una maggiore prudenza da parte del conducente. Di contro, qualora questi tenga una condotta imprudente, dovrebbe dirsi integrata una ipotesi di caso fortuito, con conseguente interruzione del nesso eziologico tra la condotta attribuibile all’ente e l’evento dannoso.
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L’11 febbraio esce l’ordinanza della III sezione della Cassazione civile n. 3564 onde, in materia di responsabilità civile per danno cagionato da cose in custodia, qualora si verifichi un eccezionale evento atmosferico tale da rendere impossibile qualunque tipo di intervento di messa in sicurezza sui beni comunali, potrebbe dirsi integrata una ipotesi di caso fortuito, con conseguente insussistenza della responsabilità civile del comune per i danni subiti da eventuali soggetti danneggiati.
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Il 16 febbraio esce la sentenza della III sezione della Cassazione civile n. 4035, alla stregua della quale, in materia di responsabilità civile per danno cagionato da cose in custodia, la condotta del danneggiato può rilevare unicamente nella misura in cui valga ad integrare il caso fortuito, ossia presenti caratteri tali da sovrapporsi al modo di essere della cosa e da porsi essa stessa all’origine del danno.
Al riguardo, deve pertanto ritenersi che, ove il danno consegua alla interazione fra il modo di essere della cosa in custodia e l’agire umano, non basti a escludere il nesso causale fra la cosa e il danno la condotta colposa del danneggiato, richiedendosi anche che la stessa si connoti per oggettive caratteristiche di imprevedibilità ed imprevedibilità che valgano a determinare una definitiva cesura nella serie causale riconducibile alla cosa. E, rammenta la Corte, essendosi in presenza di un paradigma di responsabilità oggettiva differente rispetto a quello sotteso all’art. 2043 c.c., il pertinente onere probatorio grava sul danneggiante, dovendo il danneggiato limitarsi a dimostrare l’esistenza (ed entità) del danno nonché la relativa derivazione causale dalla cosa.
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Il 26 febbraio esce la sentenza delle Sezioni Unite Civili n. 5422, alla stregua della quale, affinché un evento meteorologico, anche di notevole intensità, possa assumere rilievo causale esclusivo, e dunque rilievo di caso fortuito ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., occorre potergli riconoscere i caratteri dell’eccezionalità e della imprevedibilità. Ne deriva che il carattere eccezionale di un fenomeno naturale, nel senso di una sua ricorrenza saltuaria anche se non frequente, non è di per sé sufficiente a configurare tale esimente, in quanto non ne esclude la prevedibilità in base alla comune esperienza.
In tal senso, dunque, l’imprevedibilità, alla stregua di un’indagine ex ante e di stampo oggettivo in base al principio di regolarità causale, «va intesa come obiettiva inverosimiglianza dell’evento», mentre l’eccezionalità è da «identificarsi come una sensibile deviazione (ed appunto eccezione) dalla frequenza statistica accettata come “normale”. In tale ottica, dunque, l’accertamento del “fortuito” rappresentato dall’evento naturale delle precipitazioni atmosferiche deve essere essenzialmente orientato da dati scientifici di stampo statistico riferiti al contesto specifico di localizzazione della res oggetto di custodia.
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Il 12 marzo esce la sentenza della IV sezione della Cassazione Penale n. 9832 onde, in tema di incidente stradale, lo stato scivoloso della carreggiata può costituire caso fortuito solo quando si presenti come fatto improvviso ed imprevedibile per il conducente, il quale, in caso contrario, è tenuto a osservare una maggiore prudenza, posto che il fondo bagnato comporta una riduzione della presa sull’asfalto del battistrada della ruota o l’attrito radente dello stesso.
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Il 24 marzo esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione civile n. 8216, alla stregua della quale, in materia di responsabilità civile per danno cagionato da cose in custodia, il caso fortuito, che può essere rappresentato da fatto naturale o del terzo, o dalla stessa condotta del danneggiato, è connotato da imprevedibilità ed inevitabilità, da intendersi però da un punto di vista oggettivo e della regolarità causale (o della causalità adeguata), senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode; peraltro le modifiche improvvise della struttura della cosa incidono in rapporto alle condizioni di tempo e divengono, col trascorrere del tempo dall’accadimento che le ha causate, nuove intrinseche condizioni della cosa stessa, di cui il custode deve rispondere. (Nel caso di specie la Corte ha rilevato la sussistenza di un caso fortuito nella condotta della vittima, caduta nell’inciampo nonostante la piena prevedibilità di quest’ultimo alla luce del luogo ove esso era posto – un’aiuola – di per sé non deputato al transito).
Questioni intriganti
Cosa occorre rammentare in particolare del c.d. caso fortuito, autonomamente ed in rapporto alla c.d. forza maggiore?
- si tratta di due figure assai controverse dal punto di vista della sistemazione dogmatica, e ciò a partire dall’entrata in vigore del codice penale Rocco, che le ha introdotte ex novo ed in via generale, ambiguamente appaiandole in un’unica norma;
- secondo la teoria c.d. oggettiva, entrambe tali figure escludono il nesso di causalità tra la condotta del soggetto agente e l’evento inadempimento reato;
- secondo la teoria c.d. soggettiva, entrambe tali figure escludono invece la colpevolezza del soggetto agente, talvolta con riguardo allo stesso, relativo fondamento ultimo, in termini di c.d. “suitas” della pertinente condotta (con riguardo alla quale si rinvia al CRONO-PERCORSO specificamente pertinente);
- quanto osservato per entrambe le figure, “in coppia” tra loro, vale anche – singulatim – per ciascuna di esse, e in particolare per il caso fortuito
- per la tesi “oggettiva”, più remota e ormai recessiva, il caso fortuito esclude il nesso di causalità tra condotta del soggetto agente ed evento (inadempimento reato); si distinguono in proposito 2 distinte opzioni ermeneutiche: e.1) l’art.45 c.p. si atteggia a mero doppione dell’art.41, comma 2, c.p., palesandosi il caso fortuito – in ottica puramente “condizionalistica” – quale causa sopravvenuta da sola sufficiente ad impedire l’evento, così recidendo il nesso eziologico ed escludendo la riconducibilità dell’evento al soggetto agente ridetto; e.2) l’art.45 si atteggia a norma “complementare” rispetto all’art.41, comma 2, c.p., palesandosi il caso fortuito – in ottica di c.d. causalità “adeguata” – capace di rendere rilevanti anche (con)cause anteriori o concomitanti (e non già solo sopravvenute) alla condotta del soggetto agente, recidendo comunque il nesso eziologico tra la condotta di costui ed il pertinente evento; la miglior scienza ed esperienza può infatti palesare che un evento del tipo di quello concretamente verificatosi non è conseguenza neppure probabile della condotta posta in essere dal soggetto agente, e che dunque è da ricondursi ad una causa (il caso fortuito appunto) anteriore o concomitante ad essa, alla quale sola è da attribuirsi l’evento in parola; in sostanza, proprio coerentemente con la teoria della causalità adeguata, taluni eventi di regola non si verificano in presenza di una data condotta, palesandosi rispetto ad essa come straordinari ed atipici, tutt’affatto improbabili, onde se essi concretamente si verificano ciò è da ricondursi ad un “caso fortuito” anteriore o concomitante alla condotta del soggetto agente, che ne spezza l’eziogenesi;
- la tesi oggettiva viene criticata con declinazione triplice: f.1) dal punto di vista letterale, poiché l’art.45 c.p. dichiara non punibile chi ha “commesso” il fatto, essa non riguarda il nesso di causalità, che è senz’altro da ricondursi al solo soggetto agente; f.2) dal punto di vista della topografia codicistica, è abbastanza singolare che il legislatore penale disciplini l’”oggettivo” nesso di causalità agli articoli 40 e 41 c.p., per poi occuparsi dell’elemento soggettivo del reato ai successivi articoli 42 e 43 e, infine – dopo la parentesi sulle c.d. “condizioni obiettive di punibilità” – tornare in via “integrativa” (o, addirittura, “pletorica”) sull’elemento oggettivo del reato e, in particolare, sul nesso causale; f.3) dal punto di vista logico-sistematico, l’art.45 c.p. sembra riferirsi ad ogni figura di reato: assumendolo afferente al nesso di causalità, esso vedrebbe limitato il proprio usbergo precettivo ai soli reati di evento (naturalistico): si tratta, con riguardo a quest’ultima, di una critica che prova a nondimeno superare (senza tuttavia riuscire a fare altrettanto con le altre due) chi afferma in dottrina come in presenza di un caso fortuito venga recisa l’“imputazione oggettiva” di una fattispecie criminosa “di mera condotta” al pertinente autore, facendosi luogo ad una fattispecie concreta che si pone “fuori asse” rispetto alla condotta tipizzata dal legislatore: in sostanza, l’intervento del fortuito esclude la “tipicità” della condotta, con riguardo alle fattispecie in cui non è annoverato un evento naturalistico. Se si considera nondimeno come un “evento” giuridicamente inteso – quale inadempimento penalmente rilevante – sia sempre presente in ogni fattispecie penale, quest’ultima tesi appare come una inutile superfetazione che, peraltro, non riesce a superare le critiche di stampo “letterale” e “topografico codicistico” che vengono mosse alla concezione “oggettiva” del fortuito;
- per la tesi soggettiva, di recente maggiormente accreditata soprattutto in giurisprudenza, il caso fortuito “penale” esclude la colpevolezza del soggetto agente; più in specie, esso esclude la colpa, dacché quest’ultima ha al proprio fondamento la violazione di una regola di diligenza, e quest’ultima non può assumersi violata al cospetto di un fatto connotato da imprevedibilità e, dunque, da inevitabilità; in queste fattispecie – come nel caso di scuola del malore improvviso che impedisce al soggetto agente di rispettare le regole che presidiano alla circolazione stradale – l’osservanza del dovere di diligenza si palesa inesigibile, non potendo “esigersi”, per l’appunto, una condotta diversa da quella – antidoverosa – in concreto seguita, con conseguente non rimproverabilità al soggetto agente del fatto inadempimento reato perché non riconducibile alla relativa volontà, intesa come volontà di violare la regola cautelare che è alla base della condotta colposa; si tratta di circostanze concrete al cospetto delle quali neppure dall’uomo “medio” – e dunque dall’”homo eiusdem condicionis et professionis” – potrebbe esigersi un comportamento diverso da quello – antidoveroso – in concreto tenuto, onde si ha ad un tempo violazione accertata della regola cautelare (e, con essa, della diligenza obiettivamente richiesta dalle circostanze medesime) e colpevolezza esclusa per inesigibilità di una condotta diversa; su questo crinale, oggetto dell’accertamento del giudice penale è, accanto all’oggettiva inosservanza della norma cautelare, la relativa rimproverabilità per evitabilità, da predicarsi nel caso in cui l’agente modello, giusta spendita dell’ordinaria diligenza, avrebbe – al cospetto delle medesime condizioni (ad esempio, dopo un pasto molto abbondante) – previsto ed evitato l’evento compendiante il fatto inadempimento reato (colpo di sonno e conseguente vulnus, penalmente rilevante, agli interessi di terzi);
- anche la tesi soggettiva viene criticata, massime da chi ritiene sufficiente lo stesso concetto di colpa a mandare esente da pena, in simili casi, il soggetto agente, dacché si finisce col fare del caso fortuito una “colpa rovesciata”, in tal modo fornendo una sostanziale interpretatio abrogans dell’art.45 c.p., che si palesa inutile laddove – per l’appunto – già la colpa (rectius, il relativo difetto) consente di scongiurare la sanzionabilità penale del soggetto agente (non a caso infatti i fautori della tesi soggettiva invocano l’abrogazione dell’art.45 c.p. ridetto); peraltro, nel peculiare caso della colpa c.d. “specifica”, la prevedibilità dell’evento si palesa “intrinseca”, onde nella pertinente fattispecie non sarebbe mai “ontologicamente” predicabile l’operatività del caso fortuito, laddove appunto inteso come “non rimproverabile” imprevedibilità ed inevitabilità dell’evento in parola; altrettanto è a dirsi delle fattispecie di responsabilità oggettiva al cospetto delle quali, proprio perché il caso fortuito (nell’opzione ermeneutica criticata) esclude il dolo o la colpa in capo al soggetto agente, esso giammai potrebbe profilarsi operativo, quand’anche ci si trovi al cospetto di un crimine scaturito da un fattore del tutto straordinario; proprio quest’ultima circostanza spiega peraltro perché in ambito civilistico – dove le fattispecie di responsabilità oggettiva sono più frequenti (oltre che più compatibili con la Costituzione) – il caso fortuito venga letto normalmente in ottica oggettiva, quale interruzione del nesso causale, rimanendo altrimenti esso, in simili ipotesi, del tutto inoperante;
- per una tesi c.d. “mista”, accreditata soprattutto in dottrina, il caso fortuito (previsto dall’art.45 c.p., da intendersi come “norma di chiusura” del sistema) compendia un istituto proteiforme con foggia polivalente, occorrendo accertare – dinanzi ad un fatto inadempimento reato ed al relativo, dinamico svolgimento – quale ne sia di volta in volta la concreta rilevanza e fattuale significatività; importante su questo crinale l’aspetto diacronico di pertinente insorgenza, onde se il fortuito precede la condotta del soggetto agente e ne inficia la volontà decisionale, che risulti alfine viziata da un errore che il fortuito medesimo lascia affiorare, deve assumersi esclusa la rimproverabilità del contegno al soggetto agente e, dunque, la pertinente colpevolezza; altrettanto va detto – stando a questa peculiare opzione ermeneutica – laddove il caso fortuito si palesi con riguardo a circostanze che siano concomitanti rispetto alla condotta del soggetto agente, come nel classico caso del malore improvviso che, col rendere da lui inosseravabili le regole della circolazione stradale, consente di non rimproverargli il fatto inadempimento reato che ne sia scaturito; già nel caso di circostanze concomitanti alla condotta, nondimeno, può accadere che il “proteiforme” fortuito rilevi piuttosto sul crinale oggettivo, come nel noto caso di scuola dell’operaio che, intento nel proprio lavoro su un’impalcatura, vi venga sbalzato da un colpo di vento e rovini su un terzo passante, infliggendogli lesioni personali; anche nel caso delle circostanze diacronicamente posteriori alla condotta del soggetto agente, il fortuito può rilevare in termini oggettivi di esclusione dell’eziogenesi con riguardo all’evento criminoso in concreto occorso, come nel caso di chi, ferito intenzionalmente dal soggetto agente, muoia durante il relativo trasporto in ospedale a causa, per l’appunto, di un “fortuito” incidente automobilistico, fattispecie nella quale esso assume la foggia di “causa sopravvenuta da sola sufficiente” ex art.41, comma 2, c.p.; secondo questa impostazione dunque il caso fortuito – in funzione della diversa collocazione diacronica che lo vede insorgere – funge da causa escludente l’imputazione penalistica, dovendosi di volta in volta verificare se esso escluda la congiuntura psichica tra soggetto agente ed evento inadempimento reato (con conseguente, “soggettivo” difetto di colpevolezza) ovvero, piuttosto, la congiuntura materiale tra tali due ridetti “poli” (con conseguente, “oggettiva” recisione del nesso di causalità);
- sul crinale processuale,la giurisprudenza è orientata nel senso di assumere a carico dell’imputato la prova del caso fortuito; ciò in quanto qualunque argomento difensivo sui fatti, e dunque sul tema storico, come nelle fattispecie di scriminanti o, appunto, di caso fortuito, viene ricondotto al concetto di esimente, di elemento “impeditivo” del reato o di causa di non punibilità, come tale a carico dell’imputato dal punto di vista probatorio; non manca tuttavia in dottrina chi – facendo perno sulla natura di “risvolto negativo” del nesso di causalità, ovvero della colpa, ovvero di entrambi (a seconda dell’opzione ermeneutica abbracciata) – lo assume come elemento “negativo” per l’appunto (e non già meramente “impeditivo”), della fattispecie tipica, addossando l’onere della prova pertinente in capo al PM; rileva da questo punto di vista anche l’art.530 c.p.p. alla cui stregua (comma 3) il giudice assolve l’imputato non già solo quando abbia accertato la presenza di una causa di non punibilità, ma anche quando vi sia il (mero) dubbio sull’esistenza di essa; si chiosa inoltre che – quand’anche venisse annessa al caso fortuito efficacia “impeditiva” (e non già, più pregnantemente, “negativa”) del reato, si tratterebbe di un impedimento “penale” il cui onore probatorio non potrebbe ricalcare quello, omologo ma non anche sovrapponibile, di ambito “civile”.
Cosa occorre rammentare in particolare della c.d. forza maggiore, autonomamente ed in rapporto alla c.d. caso fortuito?
- non è mancato chi ha ritenuto la forza maggiore un “doppione” del caso fortuito, esprimente lo stesso concetto giuridico, onde sarebbe superfluo tentare di distinguerli tra loro, avendoli il legislatore penale accomunati, quanto ad effetti pertinenti, all’art.45 c.p.;
- chi differenzia la forza maggiore ne fornisce quale predicato imprescindibile la “irresistibilità”, mentre a connotare il caso fortuito sarebbe piuttosto la “imprevedibilità”; la forza maggiore ha foggia di causa cui resisti non potest, atteggiandosi come irresistibile violenza sulla persona la quale passivamente “agitur, non agit” (come nel caso della recluta che, a causa di una frana sulla ferrovia, non può presentarsi in tempo al distretto di appartenenza, così non potendo scongiurare il pertinente reato militare; o nel caso del medico che, subito un sequestro dai banditi, non può trasmettere al destinatario il chiesto referto, così non potendo scongiurare il pertinente reato comune); il caso fortuito connota invece la condotta del soggetto agente, il quale attivamente “agit”, ma con effetti imprevedibili (come nel caso del medico che, a causa di una scossa di terremoto, infila il bisturi nel corpo del paziente procurandogli lesioni personali; o dell’operaio che, come supra visto, viene travolto mentre lavora su un’impalcatura, rovinando su un passante e procurandogli – del pari – lesioni personali);
- una questione particolarmente dibattuta in dottrina e in giurisprudenza è quella della c.d. crisi di liquidità del contribuente, con riguardo ai reati omissivi aventi ad oggetto ritenute certificate, Iva e così via (art.10 bis e 10 ter del decreto legislativo 74.00); c.1) la giurisprudenza di merito si è schierata nel senso di assumere non punibile il contribuente che abbia fatto luogo a tali omissioni penalmente rilevanti: c.1.1) per denegata colpevolezza a cagione di non configurabilità del dolo: quand’anche si sia al cospetto di fattispecie a dolo generico (dove a rigore è sufficiente la coscienza e volontà della mera condotta omissiva), laddove concorrano indizi “positivi” di finalizzazione della condotta del soggetto agente all’adempimento degli obblighi tributari (rinuncia al proprio stipendio; taglio di dipendenti; immissione in azienda di risorse proprie; proposta all’Agenzia delle Entrate di un piano di rateizzazione) e circostanze “negative” di c.d. illiquidità incolpevole (subentro nella carica di amministratore sociale quando sono ormai imminenti le scadenze fiscali; inatteso inadempimento di terzi che avrebbero dovuto far affluire liquidità al contribuente), deve assumersi venire meno la volontà colpevole del contribuente medesimo; c.1.2) per denegata colpevolezza a cagione di forza maggiore: il contribuente si trova in una situazione di carenza di liquidità da assumersi quale forza irresistibile che – senza negare l’elemento volontaristico e, dunque, il dolo – rende inesigibile il comportamento (attivo) preteso dalla norma incriminatrice (omissiva), purché il contribuente alleghi di aver (invano) predisposto contromisure volte a fronteggiare la crisi in parola, ovvero comunque provi la assoluta inidoneità dei mezzi che ha a disposizione per superare tale crisi; c.1.3) per insussistenza del dolo e, assieme, denegata colpevolezza a cagione di forza maggiore: secondo questa tesi intermedia, il contribuente – stante la crisi di liquidità che lo assedia – si trova contemporaneamente in una situazione in cui è difficile provarne la volontà omissiva ed è impossibile esigerne un comportamento alternativo (attivo) lecito, stante la irresistibilità della (omissiva) violazione della legge penale; c.2) la giurisprudenza di legittimità ha vissuto fasi successive: c.2.1) la crisi di liquidità, salvo casi tutt’affatto eccezionali, viene in una prima fase assunta non rilevante al fine di escludere la punibilità del contribuente che abbia “omesso” il versamento di quanto dovuto; c.2.2.) in una seconda fase, la crisi di liquidità ridetta può assumere rilievo a fini scusanti del contribuente allorché ne affiori il difetto di volontà dolosa, purché risulti in concreto che la crisi invocata non sia discesa da scelte del contribuente e non vi siano stati strumenti per fronteggiarla, da parte sua, altrimenti; c.2.3) più oltre, la crisi di liquidità può assumere rilievo a fini scusanti del contribuente in termini di inesigibilità di una diversa condotta, ovvero in termini di forza maggiore, purché le pertinenti cause sfuggano al relativo dominio finalistico e la crisi medesima non sia altrimenti fronteggiabile.
Cosa occorre rammentare in particolare del c.d. costringimento fisico?
- si tratta di una fattispecie di “non punibilità” prevista – in via generale – dall’art.46 c.p. e compendiantesi nella violenza “physica vel absoluta”;
- si applica a chi ha commesso il fatto (inadempimento reato) per esservi stato da altri – un tempo detto “autore mediato” – costretto giusta violenza fisica, alla quale egli (autore “immediato”) non poteva resistere o comunque sottrarsi;
- qui chi commette materialmente il crimine, lungi dall’esserne il vero soggetto agente, funge da mero strumento dell’altrui azione, essendovi fisicamente costretto senza potervi in alcun modo resistere;
- si è al cospetto di un concorso di persone nel reato, nella cui economia ad essere punito è normalmente solo chi ha esercitato violenza fisica per farlo commettere al terzo, che va invece esente da pena;
- quest’ultimo non commette un fatto penalmente rilevante con coscienza e volontà, ma è solo autore di un movimento corporeo indotto, con violenza, da soggetto che lo coarta, onde “non agit, sed agitur”, in veste di soggetto-mezzo rispetto al reato-fine, che è l’obiettivo del soggetto coartante;
- da questo punto di vista, l’art.46 c.p. appare come norma sospetta di ultroneità, esprimendo al “negativo” quanto in positivo afferma l’art.42, comma 1, c.p., alla cui stregua per la punizione occorre la coscienza e volontà della condotta che sta al fondamento del fatto inadempimento reato, nel caso ivi descritto, all’evidenza, facente difetto;
- chi usa violenza fisica per costringere taluno a commettere un reato può peraltro essere punito, laddove lo scopo non venga raggiunto, ai sensi dell’art.611 c.p., che punisce tale condotta (assieme alla minaccia che si prefigga la medesima finalità); con la conseguenza onde, laddove invece il ridetto scopo venga raggiunto e la violenza fisica “faccia” concretamente commettere reato al terzo, il relativo autore risponderà – a titolo di concorso di reati – tanto della fattispecie criminosa di cui all’art.611 c.p. quanto – ex art. 46 c.p. – di quella realizzata avvalendosi fisicamente del terzo in parola;
- diversa è la fattispecie del costringimento (non già fisico, ma) psichico, compendiantesi nella violenza c.d. “moralis vel relativa”, ex art.54, comma 3, c.p.: qui il soggetto agente sul piano materiale “vuole” commettere il fatto inadempimento reato, ancorché sospintovi – nella relativa coscienza e volontà – dalla violenza morale di chi ve lo induce; onde “agit, non agitur”, a differenza di chi subisce costrizione fisica, che è mero strumento materiale di esecuzione del crimine ed “agitur, non agit”; in entrambi i casi si è tuttavia in presenza di un concorso di persone nel reato, con regime di punibilità nondimeno differente, dovendosi distinguere: h.1) il caso della violenza fisica o assoluta ex art.46 c.p., laddove è punito sempre solo chi esercita la ridetta violenza fisica (vis absoluta) costringendo terzi a commettere reato; h.2) il caso della violenza psichica o relativa, laddove campeggia una minaccia che determina altrui a commettere reato, e che rileva in termini di non punibilità del terzo “indotto” – e concretamente agente – solo laddove ad essere minacciato (giusta pericolo “attuale”) sia un pertinente danno grave alla persona, e sempre che sussistano tutti gli altri presupposti che rendono operativa la scriminante dello stato di necessità (si rimanda in proposito al CRONO PERCORSO all’uopo specificamente predisposto), nel cui contesto tale coartazione “relativa” si inserisce.