Massima
Può accadere che si commetta reato per giungere ad un contratto, ovvero che si giunga ad un contratto che è reato: sono le due fattispecie, ormai di comune acquisizione dottrinale e giurisprudenziale, del reato “in contratto” e del reato “contratto”, in cui il regime penalistico e quello civilistico (portatori di esigenze non del tutto sovrapponibili) si intersecano lasciando affiorare problemi ermeneutici non sempre di agevole soluzione, specie in tema di truffa, di circonvenzione di incapace e di usura.
Crono-articolo
Nel diritto romano non si riscontra – come è evidente – una piena consapevolezza di tutte le possibili interferenze tra le figure negoziali e quelle a rilevanza penale; nondimeno, specie con riguardo a talune fattispecie che oggi definiamo “tipiche” di reato, la ridetta interferenza appare evidente, muovendo in specie dall’elemento soggettivo del dolo, laddove esso viene nel Digesto definito quale “machinationem quandam alteris decipiendi causa, cum aliud simulatur et aliud agitur” (D. 4,3,1,2); in queste ipotesi il dolo ridetto è fondamentalmente simulazione ed inganno, ed ha dunque una valenza specifica, come tale non generale e non estensibile al dolo “civilistico”. Esso identifica proprio un particolare delitto, il crimen doli o crimen stellionatus, che corrisponde all’attuale truffa e che nel contesto ordinamentale romanistico addita una fattispecie di natura “aperta”, a valenza operativa ampia e non specificamente definibile, rimessa all’accertamento e al trattamento sanzionatorio discrezionale del giudice. Ferma questa ampia latitudine del crimen stellionatus, esso si configura tuttavia per certo – oltre che quale crimine sussidiario, e dunque operante solo laddove non si riscontri una fattispecie più specifica – quale crimine a condotta commissiva compendiantesi in un’azione fraudolenta consapevole ed intenzionale architettata nei confronti di un terzo e comportante, nella sostanza, la lesione della relativa aspettativa alla correttezza proprio nei negozi giuridici a contenuto patrimoniale; da tale azione dolosa ed ingannatoria deriva (o è probabile che derivi) un vantaggio economico per il soggetto agente ed un danno (o pericolo di danno) per il terzo che la subisce, attraverso il negozio che a valle di essa viene posto in essere dalle parti. Analogo discorso di natura specifica, seppure con differenti coordinate di riferimento, potrebbe essere fatto con riguardo al regime giuridico romanistico della corruzione.
1889
La codificazione liberale Zanardelli non ha piena consapevolezza della distinzione tra reati-contratto e reati in contratto, e tuttavia configura una serie di fattispecie in cui la commissione del reato intercetta l’ambito negoziale, come nelle ipotesi di truffa (art.413) e circonvenzione di incapace (art.415), in cui il reato si colloca a monte del negozio giuridico (e dunque prima ed in vista della relativa conclusione), e di frode assicurativa (art.414), di frode in forniture in tempo di guerra (art.252) e di inadempimento di contratti di forniture in tempo di guerra (art.251), in cui invece si colloca a valle (dopo la conclusione, e nell’ambito della relativa esecuzione). Il codice Zanardelli non prevede invece il delitto di usura. Per quanto concerne i reati contratto, e dunque le fattispecie negoziali che configurano reato, un esempio si riscontra nell’art.248 in tema di somministrazioni al nemico di provvigioni in tempo di guerra e, più in generale, nell’art.250, che punisce il commercio col nemico in tempo di guerra. Impossibile infine non richiamare le norme sulla corruzione di cui agli articoli 171 e seguenti del codice.
1930
Nel codice penale Rocco si riscontrano diverse figure di reato contratto e, soprattutto, di reato in contratto. Oltre alla truffa, alla insolvenza fraudolenta, alla circonvenzione di incapace, alla frode assicurativa, si assiste alla reintroduzione del delitto di usura (in ottica moralizzante), che era assente nel codice del 1889, configurato tuttavia come reato in contratto poiché viene realizzato approfittando dello stato di bisogno della vittima e, dunque, carpendone il consenso con procedimento viziato di formazione della volontà contrattuale (tipico il caso della truffa ex art.640 c.p.), ovvero carpendone il comsenso giusta abuso di qualità e poteri pubblici (tipico il caso della concussione, ex art.317 c.p.). Per quanto concerne i reati-contratto, oltre alla cospirazione politica mediante accordo di cui all’art.304 c.p., vanno richiamati i reati-contratto associativi e, in particolare, l’associazione a delinquere semplice e di stampo mafioso di cui agli articoli 416 e 416.bis c.p., e quelli commutativi, tra i quali spicca ancora una volta la corruzione (ex art.318 e seguenti c.p.).
1948
Viene varata la Costituzione che prevede la natura personale della responsabilità penale, cui è connessa la funzione tendenzialmente rieducativa della pena (art.27): il condannato deve percepire la pena come tendenzialmente rieducativa per la commissione di un fatto penalmente rilevante che gli viene rimproverato, circostanza che può anche in qualche modo interferire con la spendita dell’autonomia privata. Quest’ultima peraltro è costituzionalmente presidiata dall’art. 41 della Carta, onde l’iniziativa economica privata viene dichiarata al comma 1 libera, non potendosi tuttavia (comma 2) svolgere in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, in ciò prefigurandosi un limite coinvolgente anche (e proprio) le condotte negoziali compendianti di per sé reato o in qualche modo connesse ex ante (nella fase delle trattative e della formazione della volontà) o ex post (nella fase dell’esecuzione) alla conclusione di un contratto (o comunque di un negozio).
1992
L’8 giugno viene varato il decreto legge n.306, recante modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalita’ mafiosa.
Il 7 agosto viene varata la legge n.356, che converte in legge il decreto legge n.306 con rilevanti modificazioni, introducendovi l’art.11.ter e, con esso, la nuova figura del c.d. “patto elettorale politico-mafioso” di cui all’art. 416.ter c.p., onde la pena stabilita dal primo comma dell’articolo 416-bis si applica anche a chi ottiene la promessa di voti prevista dal terzo comma del medesimo articolo 416-bis in cambio della erogazione di denaro. In sostanza, chi paga la mafia per essere eletto subisce la medesima pena di chi partecipa ad una associazione mafiosa: allorché si verifichi un accordo sulla cui scorta all’impegno elettorale del clan mafioso fanno da contraltare i denari del candidato che cerca di essere eletto, si configura la fattispecie tipica di cui al nuovo art.416.ter c.p. e ciò esclude di per sé la possibilità di configurare un concorso esterno ed “atipico” del candidato in “mafia” ai sensi degli articoli 416.bis e 110 c.p. La nuova fattispecie appare tutt’affatto peculiare, qualificandosi come plurisoggettiva impropria, giacché naturalisticamente plurisoggettiva (per configurarla occorre sempre un candidato ed un esponente di clan) e normativamente monosoggettiva (dal momento che non viene punito anche l’appartenente al clan che garantisce i voti, ma solo il candidato che li chiede in cambio dell’erogazione da parte sua di denaro). E’ inoltre, nella interpretazione che ne fornirà la giurisprudenza, un reato di mera condotta e di pericolo astratto, dacché è il solo fatto della stipulazione del patto (reato-contratto) a consumare il reato, senza che possa assumersi rilevante quanto – solo eventualmente – ne costituisca scaturigine in termini di consolidamento o rafforzamento della compagine mafiosa; l’oggetto è poi limitato, dacché l’unica contropartita per la mobilitazione elettorale garantita dal clan è l’erogazione di una somma di denaro.
1996
Il 7 marzo viene varata la legge n.108, attraverso la quale si riforma il delitto di usura ex art.644 c.p. che, da reato in contratto, diviene reato contratto, in quanto già semplicemente stipulare un contratto usurario (con interessi al di sopra del tasso soglia) configura reato, mentre l’approfittamento dello stato di bisogno della vittima diviene mera circostanza aggravante di un delitto già consumato. Il legislatore incide anche sull’art.1815, comma 2, c.c. in tema di mutuo, onde in caso di mutuo usurario, non sono dovuti interessi e dunque il mutuo si trasforma in mutuo gratuito. Resta invece reato “in contratto” la fattispecie prevista dal comma 3 dell’art.644 c.p., in tema di usura pecuniaria c.d. “a vantaggi” (e non ad interessi), e di c.d. usura “reale” (in cui la prestazione dell’usuraio non consiste in una datio pecuniae), laddove si fa riferimento alle condizioni di difficoltà economica e finanziaria della vittima, della quale viene dunque carpito il consenso.
2008
Il 7 febbraio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.2860 che si pronuncia in tema di circonvenzione di incapace ex art.643 c.p., quale peculiare figura di reato in contratto. Mentre la giurisprudenza maggioritaria è orientata a considerare il contratto a valle di un reato (in contratto) annullabile, e non già nullo per violazione di norme imperative, nel caso della circonvenzione di incapace per la Corte occorre predicare invece proprio l’applicazione dell’art.1418 c.c., con conseguente nullità del contratto “a valle”. Nella fattispecie, un soggetto si fa autore di una circonvenzione di incapace, ottenendo dall’incapace medesimo una procura e quindi, “a valle”, stipulando due contratti di compravendita: per la Corte, si tratta di contratti nulli ex art.1418 c.c., e non già meramente annullabili, pur al cospetto di un c.d. reato in contratto, dovendosi assumere violata la norma imperativa penale di cui all’art.643 c.p. che è norma di ordine pubblico posta per esigenze di interesse collettivo – connesse alla indefettibile tutela del soggetto incapace – raccolte e presidiate dal legislatore penale, con conseguente recessività dei meri interessi di salvaguardia patrimoniale dei contraenti che sottendono le regole sulla annullabilità del contratto.
Il 2 luglio esce la sentenza delle SSUU n.26654, che si occupa di come la configurabilità di un reato si rifrange sulla validità del contratto che entra nella pertinente fattispecie penale. Lo spunto la Corte lo ritrae da una fattispecie di responsabilità degli enti ex legge 231.01, con particolare riguardo alla confiscabilità del profitto che dipende, per l’appunto, dalla distinzione tra reato contratto e reato in contratto, con riguardo al reato presupposto commesso da chi opera per l’ente; ove quest’ultimo abbia posto in essere un reato contratto, poiché la stipulazione del contratto integra reato, detto contratto va assunto nullo per contrarietà a norme imperative ex art.1418, comma 1, c.c., onde il reato è da intendersi immedesimato e integramente sovrapponibile al contratto concluso che è affetto, come tale, da grave illiceità, onde dall’esecuzione del reato contratto discende un profitto che, essendone conseguenza immediata e diretta, va assunto confiscabile all’ente; al contrario, quando chi opera per l’ente pone in essere un reato in contratto, non è la stipulazione in sé del contratto ad essere reato, quanto piuttosto il procedimento formativo della volontà negoziale (della controparte) ovvero l’esecuzione del piano contrattuale divisato, onde il contratto intervenuto tra le parti è lecito e valido, seppure annullabile su istanza della controparte, con la conseguenza onde la controparte medesima potrebbe decidere di non agire (per motivazioni soggettive) a fini di annullamento, con l’ulteriore precipitato onde il profitto non appare in questi casi direttamente ed immediatamente ricollegabile al reato, alla condotta, penalmente sanzionata, che lo compendia e, in ultima analisi, al contratto. Le SSUU portano ad esempio il caso della truffa, laddove il reato non coincide con il contratto, ma semmai con il procedimento formativo della volontà della controparte, che potrebbe avere interesse a mantenerlo in vita e quest’ultima circostanza è capace di incidere sulla entità del vero e proprio profitto illecito ritratto da chi opera per l’ente e, in ultima analisi, dall’ente. Su di un piano più generale, la Corte avalla la tesi seguita dalla giurisprudenza maggioritaria onde proprio la differente impronta del sistema civile rispetto a quello penale impone di verificare, caso per caso, se e quando la presenza di un reato incida sul contratto in modo tale da renderlo nullo, sicché può predicarsi la nullità di un contratto solo quando – alla stregua della giurisprudenza civilistica – siano violate regole di validità del contratto medesimo (da assumersi illecito), e non già anche quando siano violate regole di comportamento imposte alle parti nella formazione del contratto in parola, presidiate da rimedi di tipo diverso rispetto alla nullità e, in particolare, dalle regole sulla responsabilità del debitore nei confronti del creditore in caso di inadempimento ad obblighi di condotta (tesi più accreditata, di stampo “autonomistico”); commesso un reato – primo fra tutti la truffa – e derivatone un reato (in contratto, appunto), il contratto “a valle” deve intendersi allora non già nullo ex art.1418 c.c., quanto piuttosto annullabile per dolo determinante ai sensi dell’art.1439 c.c., mentre laddove si tratti di dolo “incidente” ex art.1440 c.c. il contraente leso potrà chiedere il risarcimento del danno alla controparte, che si compendia in un pregiudizio maturato a cagione della induzione in errore, durante il processo di formazione del contratto e dunque in un danno precontrattuale, normalmente collegato ad un contratto che non è stato mai stipulato (art.1337 c.c.), ovvero ad un contratto invalidato (art.1338 c.c.), ma che secondo la giurisprudenza più recente è predicabile anche laddove il contratto sia stato stipulato e resti validamente in vita (come nell’ipotesi appunto del dolo incidente ex art.1440 c.c.), attraverso una applicazione estensiva dell’art.1337 c.c.
2012
Il 6 novembre viene varata la legge n.190, il cui articolo 1 introduce nel codice penale l’art.319.quater c.p.; vi viene disciplinata una nuova figura di reato-contratto, l’induzione indebita, a metà strada tra la concussione (in cui il concusso non è punito, venendone solo carpito il consenso) e la corruzione (in cui sono puniti tanto il corrotto quanto il corruttore), onde – salvo che il fatto costituisca più grave reato – il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità è punito con la reclusione da sei anni a dieci anni e sei mesi e, in questi casi, chi dà o promette denaro o altra utilità è a propria volta punito con la reclusione fino a tre anni.
2016
Il 20 aprile esce la sentenza della III sezione della Cassazione civile n.7785 alla cui stregua laddove un contratto sia stato concluso sulla scorta di una condotta integrante la fattispecie penalmente rilevante della circonvenzione di incapace ex art.643 c.p., esso è nullo per violazione di una norma imperativa di ordine pubblico, e ciò atteso come – giusta tale delitto – la legge penale tuteli un interesse di ordine pubblico compendiantesi nella libertà di autodeterminazione dell’incapace in ordine agli interessi patrimoniali e dunque, in ultima analisi, l’interesse alla libertà negoziale dei soggetti deboli e svantaggiati (che è dunque un interesse della persona, seppure legato al patrimonio). Nel caso di specie alcuni eredi della parte venditrice di un immobile hanno adito il giudice per far dichiarare la nullità del contratto di vendita in quanto stipulato da un procuratore generale che (ancora una volta) aveva approfittato delle condizioni di incapacità del soggetto rappresentato. Il reato di circonvenzione di incapace, ex art. 643 c.p. per la Corte, così come la truffa, è un delitto che si consuma con la cooperazione artificiosa della vittima, e si consuma sospingendola alla conclusione di un contratto vantaggioso per il reo e dannoso per la vittima medesima contraente (o per i terzi); si tratta di una fattispecie criminosa in cui si pone in particolare evidenza l’elemento costitutivo dell’incapacità, legale o naturale, del soggetto passivo, come tale appunto vittima dell’altrui condotta delittuosa di approfittamento, la quale a prima vista rileva, nell’ambito civilistico del contratto, come causa di annullabilità, ex artt. 428 e 1425 c.c.; nondimeno, il bene (interesse) giuridico tutelato dalla norma che incrimina la circonvenzione di incapace, un tempo e tradizionalmente additato nel patrimonio dell’incapace, si compendia ormai nella libera autodeterminazione del soggetto passivo in ordine ai propri interessi patrimoniali, la cui tutela si fonda su ragioni di ordine pubblico, onde – offendendosi un interesse di ordine pubblico – affiora la violazione di una norma imperativa che ridonda in nullità contrattuale ex art.1418 c.c.. Per la Corte, la peculiarità della fattispecie penale non si rinviene nello stato di incapacità in cui versa la vittima, quanto piuttosto nella induzione e nell’abuso che si materializzano nell’approfittamento che il reo consuma ai danni della vittima incapace; tale approfittamento si traduce in una forma particolarmente grave di abuso contrattuale, lesiva dell’altrui libertà negoziale quale valore fondamentale riconosciuto dall’ordinamento, con conseguente nullità del contratto “a valle”. La Corte conclude allora ribadendo che in ipotesi di stipulazione di un negozio giuridico che costituisca effetto diretto della consumazione del reato di circonvenzione di incapace, trovandosi al cospetto della palese violazione di una norma di ordine pubblico, l’atto deve essere considerato radicalmente nullo per violazione di norme imperative.
2017
*Il 27 novembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 53593 che ribadisce il costante orientamento secondo cui in tema di truffa contrattuale, anche il silenzio, maliziosamente serbato su circostanze rilevanti ai fini della valutazione delle reciproche prestazioni da parte di colui che abbia il dovere di farle conoscere, integra l’elemento del raggiro, idoneo ad influire sulla volontà negoziale del soggetto passivo.
2018
Il 7 maggio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 19739 che riprende il costante insegnamento secondo cui il delitto di circonvenzione di incapace non esige che il soggetto passivo versi in stato di incapacità di intendere e di volere, essendo sufficiente anche una minorata capacità psichica, con compromissione del potere di critica ed indebolimento di quello volitivo, tale da rendere possibile l’altrui opera di suggestione e pressione. In particolare, rientra nella nozione di “deficienza psichica” qualsiasi minorazione della sfera volitiva ed intellettiva che agevoli la suggestionabilità della vittima e ne riduca i poteri di difesa contro le altrui insidie; il relativo convincimento circa la prova dell’induzione ben può essere fondato su elementi indiretti e indiziari, cioè risultare da elementi precisi e concordanti come la natura degli atti compiuti e il pregiudizio da essi derivante.
Lo stesso giorno esce altra sentenza della II sezione della Cassazione n. 19741 che riprende consolidati concetti in tema di truffa contrattuale. Tale reato è configurabile allorché l’agente pone in essere artifici e raggiri al momento della conclusione del negozio giuridico, traendo in inganno il soggetto passivo che viene indotto a prestare un consenso che altrimenti non sarebbe stato dato. Quanto all’elemento soggettivo, è costituito dal dolo iniziale, quello cioè che, influendo sulla volontà negoziale di uno dei contraenti (falsandone, quindi, il processo volitivo avendolo determinato alla stipulazione del negozio in virtù dell’errore in lui generato mediante artifici o raggiri) rivela nel contratto la sua intima natura di finalità ingannatoria.
Il 28 maggio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 23896 in tema di profitto confiscabile nei reati in contratto. In tali casi, il profitto assoggettabile a sequestro preventivo finalizzato alla confisca dovrà essere determinato tenendo in considerazione un duplice criterio: da un lato, potranno essere assoggettati ad ablazione tutti i vantaggi di natura economico patrimoniale che costituiscano diretta derivazione causale dell’illecito (c.d. concezione causale del profitto), di tal che la confisca potrà interessare esclusivamente l’effettivo incremento del patrimonio conseguito dall’agire illegale; dall’altro lato, non potranno essere aggrediti i “vantaggi” eventualmente conseguiti in conseguenza di prestazioni lecite effettivamente svolte a favore del contraente nell’ambito del rapporto sinallagmatico, cioè pari alla utilitas di cui si sia giovata la controparte. Precisa la Corte che il punto fermo da cui occorre prendere le mosse è che, nella commisurazione del valore della “utilità conseguita dal danneggiato”, non si può in alcun modo tenere conto del margine di guadagno per l’ente, dell’utile d’impresa che – almeno fisiologicamente – compone il corrispettivo pagato per la prestazione: tenuto conto della ratio dell’istituto, ispirata al principio secondo il quale crimen non lucrat, non è invero ammissibile che la persona giuridica chiamata a rispondere della responsabilità amministrativa possa trarre un qualunque vantaggio economico, un lucro, dall’agire illecito. Ne discende che l’utilitas non può essere commisurata al prezzo indicato nel contratto, in ipotesi viziato dall’attività illecita, nè al valore di mercato della prestazione ivi prevista, in quanto di necessità inglobanti anche un margine di guadagno per l’ente, un utile d’impresa, un quid pluris rispetto al valore “nudo” della prestazione, che non può essere riconosciuto per le ragioni sopra esplicitate. Ciò premesso, la Corte passa ad analizzare il tema della determinazione del valore della utilitas conseguita dalla controparte dalla esecuzione del contratto sinallagmatico, unica voce scomputabile dal complessivo valore del negozio e, quindi, sottratta all’ablazione. Ritiene il Collegio che il valore della prestazione svolta a vantaggio della controparte debba essere commisurato ai soli “costi vivi”, concreti ed effettivi, che l’impresa abbia sostenuto per dare esecuzione all’obbligazione contrattuale. Al fine di determinare i “costi vivi” sostenuti dall’ente per dare adempimento alla prestazione di cui la controparte si sia avvantaggiata, l’Autorità Giudiziaria potrà avvalersi dell’esito degli accertamenti compiuti dalla Polizia Giudiziaria ovvero, se non esaurienti, delle indicazioni di un tecnico, nominato quale consulente o perito, che tengano conto, da un lato, delle risultanze della contabilità e dei bilanci dell’ente, dall’altro lato, del costo di mercato di quella tipologia di prestazione, avuto riguardo ai valori medi del settore, e di qualunque altro dato che possa consentire di correggere eventuali sopravvalutazioni dei costi esposti nei documenti contabili e, dunque, di limare cifre che risultassero essere state artatamente maggiorate, secondo una linea di continuità con le condotte illecite oggetto del procedimento. Sulla base di tali dati, conclude la Corte, il giudice potrà determinare, in modo esatto e giuridicamente corretto, sulla base di dati concreti e non presuntivi, l’ammontare della voce di costo scorporabile dal ricavo lordo percepito dall’ente e, quindi, il quantum di profitto confiscabile. E’ evidente che nel caso in cui l’esecuzione della prestazione sia stata parziale o in parte non conforme a quanto convenuto, dal valore complessivo del contratto potrà essere detratto soltanto il costo pro quota stimato equo per la prestazione in effetti eseguita e di cui la controparte si sia utilmente giovata.
Il 20 agosto esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 20801 che torna sulla questione relativa al tipo di invalidità di un contratto stipulato a seguito di truffa. Ricorda la Corte che non esiste alcun automatismo necessario tra la violazione della norma penale e la nullità del contratto stipulato per effetto o a causa della condotta penalmente rilevante. Se, infatti, la condotta penalmente rilevante sia consistita nella dolosa captazione del consenso altrui alla stipula del contratto, il contratto non sarà nullo ex art. 1418 c.c., ma annullabile ex art. 1439 c.c., dal momento che il dolo costitutivo del delitto di truffa non è ontologicamente diverso da quello che vizia il consenso negoziale, entrambi risolvendosi in artifizi o raggiri adoperati dall’agente e diretti ad indurre in errore l’altra parte e così a viziarne il consenso. Ne consegue che chi acquisti un bene per effetto del consenso viziato del venditore ne diviene effettivo proprietario fino a quando non venga con successo proposta l’azione di annullamento o, ricorrendone i presupposti, quella di risoluzione.
Il 5 novembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 49988 che, risolvendo un conflitto negativo di competenza, rammenta il constante orientamento secondo cui nel delitto di truffa, quando il profitto è conseguito mediante accredito su carta di pagamento ricaricabile, il tempo e il luogo di consumazione del reato sono quelli in cui la persona offesa ha proceduto al versamento del denaro sulla carta, poiché tale operazione ha realizzato contestualmente sia l’effettivo conseguimento del bene da parte dell’agente, che ottiene l’immediata disponibilità della somma versata, e non un mero diritto di credito, sia la definitiva perdita dello stesso bene da parte della vittima.
Il 16 novembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 51908 secondo cui la truffa contrattuale è integrata solo nel caso in cui l’agente abbia taciuto o dissimulato circostanze che, laddove conosciute dalla controparte, avrebbero indotto quest’ultima a non concludere il contratto.
2019
Il 23 ottobre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 43374 onde alla luce delle modifiche apportate agli artt. 473 e 474 cod. pen. dalla legge n. 99 del 2009, non è sufficiente, per la configurabilità del reato, che prima della sua consumazione sia stata depositata la domanda tesa ad ottenere il titolo di privativa, ma è invece necessario che questo sia stato effettivamente e realmente conseguito.
È infatti compito del giudice penale decidere in via incidentale sulla validità o meno della registrazione del modello, accertando, quindi, l’esistenza e la validità anche sostanziale del presupposto del reato stabilito dalle disposizioni interne e sovranazionali in punto di tutela della proprietà industriale ed intellettuale.
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Il 29 ottobre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 43909 che ribadisce come nel delitto di truffa contrattuale, il momento di consumazione non può essere individuato in via preventiva ed astratta, essendo indispensabile muovere dalla peculiarità del singolo accordo, dalla valorizzazione della specifica volontà contrattuale, dalle peculiari modalità delle condotte e dei loro tempi, al fine di individuare quale sia stato in concreto l’effettivo pregiudizio correlato al vantaggio e quale il momento del loro prodursi.
Più in particolare, si è chiarito che nei contratti ad esecuzione istantanea, configurano il reato di truffa gli artifici e raggiri che siano posti in essere al momento della trattativa e della conclusione del negozio giuridico, traendo in inganno il soggetto passivo, che viene indotto a prestare un consenso che altrimenti non avrebbe prestato, sicché, nel caso di contratto stipulato senza alcun artificio o raggiro, l’attività decettiva commessa successivamente alla stipula e durante l’esecuzione contrattuale è penalmente irrilevante, a meno che non determini, da parte della vittima, un’ulteriore attività giuridica che non sarebbe stata compiuta senza quella condotta decettiva.
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Il 6 novembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 45115 che ribadisce l’orientamento secondo cui integra il reato di truffa contrattuale la mancata consegna della merce acquistata e pagata, nel caso in cui siano stati indicati un “prezzo conveniente” di vendita sul “web” e un falso luogo di residenza del venditore, posto che tale circostanza, rendendo difficile il rintraccio, evidenzia sintomaticamente la presenza del dolo iniziale del reato, da ravvisarsi nella volontà di non adempiere all’esecuzione del contratto sin dal momento dell’offerta on-line; ed in altra ipotesi in cui l’imputato che, dopo essersi accreditato sul sito “ebay.it ” ed aver messo in vendita un bene, aveva riscosso il prezzo richiesto senza consegnare il bene all’acquirente, provvedendo – dopo la transazione – a far cancellare il proprio “account” dal predetto sito, in modo da ostacolare le operazioni dirette alla sua identificazione, si è affermato che il mancato rispetto da parte di uno dei contraenti delle modalità di esecuzione del contratto, rispetto a quelle inizialmente concordate con l’altra parte, unito a condotte artificiose idonee a generare un danno con correlativo ingiusto profitto, integra l’elemento degli artifici e raggiri richiesti per la sussistenza del reato di cui all’art. 640 cod. pen..
E del resto la vendita on line è fondata sull’affidamento del compratore nella offerta del venditore che viene pubblicizzata esclusivamente attraverso un portale internet. Ne deriva che il venditore non può vedere la merce che acquista e si affida integralmente per l’indicazione delle caratteristiche, le qualità del prodotto ed il prezzo di vendita alle indicazioni che vengono pubblicizzate dal venditore. Proprio tale particolare caratteristica delle vendite on line determina la natura di artificio e raggiro della messa in vendita di un oggetto ad un prezzo estremamente conveniente in assenza dello stesso, ovvero, senza che la successiva mancata consegna sia dovuta a specifici fattori intervenuti ed adeguatamente esposti dal venditore, ove lo stesso ometta anche la dovuta restituzione del prezzo. Tale condotta, infatti, stigmatizza la presenza del dolo iniziale di truffa poiché manifesta chiaramente l’assenza di reale volontà di procedere alla vendita da parte del soggetto che, incamerato il prezzo, ometta la spedizione, rifiuti la restituzione della somma ed altresì ometta di indicare qualsiasi circostanza giustificativa tale doloso comportamento. E sotto il profilo oggettivo, gli artifici e raggiri vanno individuati nella registrazione presso un portale di vendite on line, nella pubblicazione dell’annuncio unito alla descrizione del bene, nella indicazione di un conveniente prezzo di vendita che sono tutti fattori tesi a carpire la buona fede dell’acquirente ed a trarre in inganno il medesimo.
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Il 27 novembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 48159 che ribadisce il consolidato orientamento secondo cui il giuoco dei tre campanelli – e quelli similari delle tre tavolette o delle tre carte – di per sé non concretano il reato di truffa posto che la condotta di chi dirige il giuoco non realizza alcun artificio o raggiro, bensì “una realtà” ed una regolare continuità di movimenti, che, per essere l’effetto della estrema abilità di chi dirige il giuoco, inducono, da ultimo, il giocatore a confidare nel “caso”.
Naturalmente, a diversa soluzione si deve giungere nel caso in cui all’abilità ed alla destrezza di chi esegue il giuoco si aggiunga una fraudolenta attività del medesimo.
La presenza di una induzione della persona offesa a giocare con il miraggio di una facile vincita non costituisce – di per sé – né artifizio né raggiro perché tale l’affermato inganno riguardava una caratteristica del gioco (la sproporzione a favore del “banco” in conseguenza dell’uso da parte dei “tenutari del gioco” di abilità o destrezza che potrebbero e possono essere rese inefficaci solo dall’eventuale superiorità della prontezza di riflessi e dello spirito di osservazione di chi vi partecipa) che rientra nell’ambito dei fatti notori e perché – sulla base di tali presupposti – la parte offesa rimaneva libera di partecipare o meno al gioco medesimo.
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Il 4 dicembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 49195 onde nel delitto di truffa, quando il profitto è conseguito mediante accredito su carta di pagamento ricaricabile (nella specie “postepay”), il tempo e il luogo di consumazione del reato sono quelli in cui la persona offesa ha proceduto al versamento del denaro sulla carta, poiché tale operazione ha realizzato contestualmente sia l’effettivo conseguimento del bene da parte dell’agente, che ottiene l’immediata disponibilità della somma versata, e non un mero diritto di credito, sia la definitiva perdita dello stesso bene da parte della vittima.
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Il 5 dicembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 49519 che ribadisce i principi secondo cui “integra il reato di truffa aggravata il comportamento di colui che, sfruttando la fama di mago, chiromante, occultista o guaritore, ingeneri nelle persone offese la convinzione dell’esistenza di gravi pericoli gravanti su di esse o sui loro familiari e, facendo loro credere di poter scongiurare i prospettati pericoli con i rituali magici da lui praticati, le induca in errore, così procurandosi l’ingiusto profitto consistente nell’incameramento delle somme di denaro elargitegli con correlativo danno per le medesime” (Sez. 2, n. 42445 del 19/10/2012, Aloise, Rv. 253647) e “integra il reato di truffa aggravata, e non il reato di abuso della credulità popolare il cui elemento costitutivo e differenziato si individua nel turbamento dell’ordine pubblico e nell’azione rivolta nei confronti di un numero indeterminato di persone, il comportamento di colui che, sfruttando la fama di mago o di guaritore, ingeneri nelle persone offese il pericolo immaginario di gravi malattie e le induca in errore, procurandosi un ingiusto profitto con loro danno, facendo credere di poterle guarire o di poterle preservare con esorcismi o pratiche magiche o con la somministrazione e prescrizione di sostanze asseritamente terapeutiche” (Sez. 2, n. 1862 del 19/12/2005, dep. 2006, Locaputo, Rv. 233361).
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Il 20 dicembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 51551 che si pone in continuità con l’indirizzo secondo cui, in materia di truffa contrattuale, il mancato rispetto da parte di uno dei contraenti delle modalità di esecuzione del contratto, rispetto a quelle inizialmente concordate con l’altra parte, con condotte artificiose idonee a generare un danno con correlativo ingiusto profitto, integra l’elemento degli artifici e raggiri richiesti per la sussistenza del reato di cui all’art. 640 c.p..
Si è precisato infatti che l’elemento, che imprime al fatto dell’inadempienza il carattere di reato, è costituito dal dolo iniziale, che, influendo sulla volontà negoziale di uno dei due contraenti – determinandolo alla stipulazione del contratto in virtù di artifici e raggiri e, quindi, falsandone il processo volitivo – rivela nel contratto la sua intima natura di finalità ingannatoria.
2020
Il 7 gennaio esce la sentenza della II sezione Penale della Cassazione n. 198 onde porre un bene in vendita su di un sito internet, pubblicizzandone le caratteristiche ed ingenerando la legittima aspettativa del compratore circa l’esistenza dello stesso e la validità dell’offerta, è condotta anche da sola idonea a configurare gli artifici ed i raggiri richiesti dalla norma.
La circostanza che nel corso della trattativa vi siano stati dei contatti (telefonici nel primo caso ed a mezzo mail nel secondo) nei quali il sedicente venditore ha rassicurato il compratore della bontà dell’affare, infatti, conferma la sussistenza sia dell’elemento materiale che di quello psicologico, tipici del reato di truffa.
Il delitto di truffa, d’altro canto, si distingue da quello di insolvenza fraudolenta perché nella truffa la frode è attuata mediante la simulazione di circostanze e di condizioni non vere, artificiosamente create per indurre altri in errore, mentre nell’insolvenza fraudolenta la frode è attuata con la dissimulazione esclusivamente del reale stato di insolvenza dell’agente.
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Il 29 gennaio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 3790 che richiama il consolidato orientamento secondo cui in tema di truffa contrattuale il reato è configurabile non soltanto nella fase di conclusione del contratto, ma anche in quella della esecuzione allorché una delle parti, nel contesto di un rapporto lecito, induca in errore l’altra parte con artifizi e raggiri, conseguendo un ingiusto profitto con altrui danno.
Nello stesso solco ermeneutico si è più volte ricordato che, in tema di truffa contrattuale, il mancato rispetto da parte di uno dei contraenti delle modalità di esecuzione del contratto, rispetto a quelle inizialmente concordate con l’altra parte, unito a condotte artificiose idonee a generare un danno con correlativo ingiusto profitto, integra l’elemento degli artifici e raggiri richiesti per la sussistenza del reato di cui all’art. 640 cod. pen..
Naturalmente, l’elemento che imprime al fatto dell’inadempienza il carattere di reato è costituito dal dolo iniziale, che, influendo sulla volontà negoziale di uno dei due contraenti – determinandolo alla stipulazione del contratto in virtù di artifici e raggiri e, quindi, falsandone il processo volitivo – rivela nel contratto la sua intima natura di finalità ingannatoria.
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Il 27 febbraio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 7802 che si allinea all’orientamento secondo cui l’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 ha natura giuridica di norma a più fattispecie, con la conseguenza che, da un lato, il reato è configurabile allorché il soggetto abbia posto in essere anche una sola delle condotte ivi previste, dall’altro, deve escludersi il concorso formale di reati quando un unico fatto concreto integri contestualmente più azioni tipiche alternative previste dalla norma, poste in essere senza apprezzabile soluzione di continuità dallo stesso soggetto ed aventi come oggetto materiale la medesima sostanza stupefacente: pertanto, quando unico è il fatto concreto che integra contestualmente più azioni tipiche alternative, le condotte illecite minori perdono la loro individualità e vengono assorbite nell’ipotesi più grave; quando invece le differenti azioni tipiche sono distinte sul piano ontologico, cronologico e psicologico, esse costituiscono in distinti reati concorrenti materialmente.
Fuori da questa ipotesi, è in generale pacifica anche l’autonomia di ciascuna condotta tipica. Invero, con la previsione normativa degli artt. 73 ed 80 d. P.R. n. 309 del 1990 il legislatore ha voluto punire tutte le attività che concretano il traffico (quali che ne siano le effettive dimensioni, dall’importazione di massicci quantitativi al piccolo spaccio al minuto) di sostanze stupefacenti o psicotrope, enucleando una serie di condotte tipiche (tra le quali anche acquisto e vendita o cessione), tutte punite allo stesso modo e costituenti, perciò, ipotesi crirninose distinte, autonome, ma equivalenti, che si pongono in rapporto di alternatività formale; le diverse condotte dalle norme previste perdono la loro individualità se costituiscono manifestazione del potere di disposizione della medesima sostanza, il che può comportarne l’assorbimento, e la conseguente esclusione del concorso di reati, sempre che si tratti della stessa sostanza stupefacente e che le condotte siano state poste in essere contestualmente, ossia indirizzate ad un unico fine e senza apprezzabile soluzione di continuità.
È, pertanto, evidente che, in presenza di un rapporto contrattuale contra legem tra due soggetti, l’uno cedente (a titolo gratuito) o venditore (a titolo oneroso), l’altro acquirente (in ipotesi a sua volta al fine di future cessioni o vendite), il primo risponda di “cessione” o di “vendita” illecita di sostanze stupefacenti, il secondo di “acquisto” illecito delle medesime sostanze stupefacenti, e che si sia fuori dal concorso nel medesimo reato, poiché distinte soro le condotte tipiche a ciascuno ascrivibili.
A ritenere il contrario (come fatto da una sola isolata pronuncia di legittimità), dovrebbe, infatti, inammissibilmente ritenersi non soltanto il secondo soggetto responsabile di concorso nella cessione o vendita illecita posta in essere dal primo soggetto, ma a ben vedere anche il primo soggetto responsabile di concorso nella condotta di acquisto illecito posta in essere dal secondo soggetto: condotte entrambe da assorbire – data la loro contestualità, considerato che ne costituirebbe oggetto la medesima sostanza stupefacente, e dovendosi quindi evitare un’indebita duplicazione di titoli di responsabilità penale – in una sola più grave condotta.
Tuttavia, in siffatta situazione, non appare correttamente invocabile l’istituto del concorso di persone, la cui funzione è pacificamente quella di attrarre nell’area del “penalmente rilevante” condotte atipiche causalmente collegate alla condotta tipica, altrimenti penalmente irrilevanti e quindi non sanzionabili, laddove ciascuno dei soggetti interessati pone in essere una diversa condotta tipica (vendita/acquisto), della quale può quindi autonomamente e monosoggettivamente essere chiamato a rispondere.
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Il 16 marzo esce la sentenza della III sezione penale della Cassazione n. 10093 che richiama l’orientamento per cui si ha il reato di truffa contrattuale quando l’inganno sia stato determinante per la conclusione del contratto e, invece, la frode in commercio quando si consegna una cosa diversa da quella dichiarata o pattuita ma con un contratto liberamente intervenuto, senza alcun raggiro o artificio: La fattispecie della truffa contrattuale si distingue da quella della frode in commercio perché l’una si concretizza quando l’inganno perpetrato nei confronti della parte offesa sia stato determinante per la conclusione del contratto, mentre l’altra si perfeziona nel caso di consegna di una cosa diversa da quella dichiarata o pattuita, ma sul presupposto di un vincolo contrattuale costituito liberamente senza il concorso di raggiri o artifici.
Viene peraltro richiamato altresì altro precedente conforme secondo cui il delitto di truffa si distingue da quello di frode in commercio per l’esistenza del raggiro o dell’artificio, che costituisce un plus rispetto alla frode in commercio e può realizzarsi anche nella fase di esecuzione del contratto. Pertanto, risponde del delitto di truffa il venditore che, in sede di esecuzione del contratto, avvalendosi di artifici e raggiri, induca l’altra parte ad accettare condizioni diverse da quelle pattuite.
Viene quindi enunciato il seguente principio di diritto “La fattispecie della truffa contrattuale si distingue da quella della frode in commercio perché l’una si concretizza quando l’inganno perpetrato nei confronti della parte offesa sia stato determinante per la conclusione del contratto, mentre l’altra si perfeziona nel caso di consegna di una cosa diversa da quella dichiarata o pattuita, ma sul presupposto di un vincolo contrattuale costituito liberamente senza il concorso di raggiri o artifici; la truffa contrattuale ha, quindi, un plus costituito dall’artificio o dal raggiro non presente nella frode in commercio”.
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Il 1 aprile esce la sentenza della III sezione della Cassazione Penale n. 11030, alla stregua della quale integra il reato di truffa la condotta dell’avvocato che, approfittando del rapporto fiduciario e dell’estraneità alle questioni giuridiche della persona offesa, proponga e faccia sottoscrivere al proprio assistito il patto di quota lite, tacendone l’entità sproporzionata dell’importo derivante a titolo di compenso delle prestazioni professionali.
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Il 18 maggio esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione Civile n. 9066 onde non sussiste rapporto di pregiudizialità tra il processo penale avente ad oggetto i reati di falso e truffa ed il processo civile volto ad ottenere una pronuncia ex art. 2932 c.c.. Difatti, per rendere dipendente la decisione civile dalla definizione del giudizio penale, non basta che nei due processi rilevino gli stessi fatti, ma occorre che l’effetto giuridico dedotto nel processo civile sia collegato normativamente alla commissione del reato che è oggetto di imputazione nel giudizio penale e, quindi, che presupposto per l’accoglimento della domanda in sede civile sia l’accertamento della sussistenza del reato, in relazione al fatto illecito dedotto, in sede penale.
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Il 4 settembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione Penale n. 25045, secondo cui, in materia di cessione di sostanze stupefacenti, va riconosciuta la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto in caso di quantitativo minimo della sostanza ceduta.
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Il 16 settembre esce la sentenza della Cassazione Penale n. 26100, alla stregua della quale, in caso di occultamento della crisi irreversibile di società attraverso l’utilizzo di assegni scoperti, può dirsi integrato il reato di truffa, potendo dirsi sussistente, nel caso di specie, l’elemento soggettivo del dolo, posto che i compratori non solo hanno pagato con assegni scoperti, ma hanno anche omesso di rendere noto al venditore che la loro società era prossima al fallimento.
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Il 19 ottobre esce la sentenza della II sezione della Cassazione Penale n. 28886 onde, in caso di intrattenimento di rapporti vantaggiosi con un soggetto particolarmente suggestionabile e affetto da un disturbo psichico, qualora la condizione di vulnerabilità di quest’ultimo sia facilmente percepibile da coloro che instaurano con lui un rapporto non occasionale, anche in considerazione del suo aspetto fisico e della stranezza puerile di ragionamento, può dirsi integrato il reato di circonvenzione di incapaci.
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Il 10 dicembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione Penale n. 35183, secondo cui, in caso di rinvenimento di mascherine con dicitura ambigua in un deposito, potrebbe dirsi integrato il reato di tentata frode in commercio ai sensi degli artt.56 e 515 c.p..
2021
L’11 gennaio esce la sentenza della I sezione del Tribunale Penale di Catania n. 3562, circa la c.d. truffa romantica. Siffatta peculiare forma di truffa si caratterizza, in particolare, per la simulazione di sentimenti romantici nei confronti della vittima, che, operando sulla psiche di quest’ultima, la induce a compiere, in conseguenza dell’inganno, atti di disposizione patrimoniale a favore del soggetto attivo del reato.
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Il 13 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione Penale n. 1178 onde, in caso di scambio delle monete delle offerte parrocchiali con banconote false, può dirsi integrato il reato di truffa con il riconoscimento dell’aggravante prevista per avere compiuto il fatto ai danni di un ministro del culto cattolico.
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Il 2 febbraio esce la sentenza della II sezione della Cassazione Penale n. 4039 onde la proposta in malafede di cambiare caldaia rivolta al cliente, senza che ne sia l’effettiva necessità comporta l’integrazione del reato di truffa.
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Il 24 febbraio esce la sentenza della II sezione della Cassazione Penale n. 7163, alla stregua della quale, in relazione al reato di truffa contrattuale, la malafede (o dolo) originaria in capo agli imputati era emersa “retrospettivamente”, ovvero alla luce di quanto accaduto successivamente, dalla falsa ed artefatta magnificazione delle proprie capacità professionali quanto al recupero dei crediti “incagliati” e, come tale, risultava evidenziata dalla consegna di titoli di credito del tutto inidonei ad essere azionati in giudizio nei confronti dei debitori “ceduti”.
Ad avviso del Collegio, difatti, l’elemento che nella truffa contrattuale imprime al fatto dell’inadempienza il carattere di illecito penale è costituito dal dolo iniziale, che, influendo sulla volontà negoziale di uno dei due contraenti – determinandolo alla stipulazione del contratto in virtù di artifici e raggiri e, quindi, falsandone il processo volitivo – rivela nel contratto la sua intima natura di finalità ingannatoria.
Per altro verso, è evidente che la prova del dolo “iniziale” non può che provenire ed essere fondata sulla valorizzazione di elementi fattuali che possono essere di più varia indole e che possono attingere la fase antecedente come anche quella successiva al perfezionamento dell’accordo purché tali da rivelare l’iniziale proposito dell’agente.
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Il 5 marzo esce la sentenza della II sezione della Cassazione Penale n. 9105, alla stregua della quale, nel caso in cui un uomo si spacci per padre spirituale nei confronti di una donna anziana fortemente religiosa, così convincendola a versare in suo favore ingenti somme di denaro, formalmente destinati a progetti benefici e invece da lui utilizzati a scopo personale, può dirsi integrato il reato di circonvenzione di incapace
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L’11 novembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione Penale n. 40765 onde, in tema di sequestro preventivo nei rapporti contrattuali viziati, l’identificazione del profitto deve essere valutato tenendo distinti i casi in cui il contratto sia “in sé” illecito, identificato nell’intera prestazione fornita dall’offeso, da quelli in cui il contratto non sia “in sé” illecito, ma sia viziato da condotte fraudolente poste in essere da una delle parti nella fase delle trattative o in quella dell’esecuzione.
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Il 18 novembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione Penale n. 42407, secondo cui, qualora un venditore concluda un contratto di compravendita con la consapevolezza di non poterlo rispettare, così ingenerando nella controparte l’erronea convinzione della propria affidabilità, potranno dirsi integrati i reati di truffa e di insolvenza fraudolenta.
Questioni intriganti
Cosa contraddistingue il diritto civile da un lato e il diritto penale dall’altro in termini di volontà e dolo?
- diritto penale: la volontà consapevole, attraverso la forma del dolo, è connessa al canone fondamentale della responsabilità penale personale, ed ha la funzione di fondare quest’ultima in via generale giusta imputazione soggettiva del reato inadempimento al soggetto agente (fatti salvi i casi in cui detta responsabilità si fonda sulla colpa o sulla responsabilità oggettiva da mero nesso di causalità); si può parlare di funzione della volontà consapevole fondativa-patologica della responsabilità penale;
- diritto civile: la volontà consapevole è connessa alla validità ed efficacia del contratto, onde laddove tale volontà difetti o si sia mal formata, al contratto può essere per l’appunto sottratta efficacia (ove mai ne abbia alcuna) attraverso i rimedi che il sistema civilistico predispone all’uopo; si può parlare di funzione della volontà consapevole fondativa-fisiologica della efficacia negoziale.
Cosa accomuna le due categorie dei reati-contratto e dei reati in contratto?
- in entrambi i casi si tratta di fattispecie necessariamente plurisoggettive, dal momento che coinvolgono almeno due soggetti;
- in entrambi i casi la fattispecie penale (reato-inadempimento) si intreccia con quella negoziale, e più precisamente con quella contrattuale, in quanto si configura sempre un reato ed un contratto;
- in entrambi i casi si pone il problema di capire come la presenza – sul crinale penale – del reato incida sul regime civilistico del contratto e con quali specifiche ricadute in termini di validità e di efficacia.
Cosa compendia un reato-contratto e che problemi pone?
- stipulare un determinato contratto costituisce di per sé reato;
- è la stipula, la conclusione del contratto che configura reato inadempimento;
- sono irrilevanti le trattative ex ante (che possono eventualmente significare ai fini del tentativo) ed è irrilevante l’esecuzione ex post (che può eventualmente significare in termini di aggravamento della fattispecie penale già consumata);
- si tratta normalmente di reati plurisoggettivi propri, in cui sono punite entrambe o comunque tutte le parti contrattuali (un esempio plastico si rinviene nella induzione indebita ex art.319.quaterp., di recente innesto nel codice);
- quando ci si accorda per commettere illeciti, normalmente l’accordo non costituisce reato ex 115 c.p.; vi sono tuttavia delle fattispecie che fanno eccezione, e nel cui contesto l’accordo tra le parti è già reato, come nel caso della cospirazione politica mediante accordo ex art.304 c.p.;
- quando di una res è vietato il commercio in sé, sotto comminatoria di sanzione penale, la vendita e l’acquisto di tale res è reato-contratto (armi, stupefacenti etc.) di tipo sinallagmatico o commutativo;
- quando è vietato promuovere, costituire o comunque dirigere o fare parte di un associazione, associarsi è reato-contratto (o reato-accordo) di tipo associativo (classici gli esempi dell’associazione a delinquere semplice o mafiosa, ex 416 e 416.bis c.p.);
- anche se parte della dottrina le riconduce ai reati-contratto, non sembrano tali le fattispecie in cui si punisce non già la conclusione del contratto, quanto piuttosto l’esecuzione di una delle prestazioni in esso divisate (una singolare ipotesi di adempimento del contratto che costituisce, ad un tempo, evento reato-inadempimento): in questi casi l’evento inadempimento reato cade nel corso dell’esecuzione del contratto, non identificandosi nel contratto medesimo, onde sembra preferibile annoverare la categoria tra i reati in contratto (classici gli esempi del commercio di sostanze alimentari contraffatte o adulterate ex 442 c.p.; del commercio o somministrazione di medicinali guasti ex art.443 c.p.; del commercio di sostanze alimentari nocive ex art.444 c.p.; della introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi ex art.474 c.p.); una spia che si tratti in realtà di reati in contratto, e non già di reati-contratto, si rinviene nel fatto che si tratta di reati plurisoggettivi impropri, nei quali cioè è punito solo chi smercia, e non anche il consumatore che ne è vittima: ciò in quanto non è vietato il commercio in sé di un certo tipo di merce (in sostanza, non è reato ad esempio vendere medicinali), ma è reato la tipizzata, scorretta esecuzione della prestazione che da tali reati discende (è reato consegnare al paziente, che crede di aver acquistato un medicinale buono, un farmaco in realtà guasto);
- per quanto concerne i rapporti tra reato e contratto, con particolare riguardo al come la invalidità del contratto incide sulla configurabilità del reato e viceversa, si contendono il campo 3 opzioni ermeneutiche: i.1) tesi autonomistica: il reato non incide sulla validità del contratto perché, al contrario, la validità del contratto non incide sulla configurazione del reato, che dunque si consuma anche quando il contratto è civilisticamente invalido, potendosi escludere il reato solo laddove il contratto privatistico sia radicalmente inesistente (e non già meramente nullo); si è tuttavia replicato che vi sono ipotesi nelle quali il contratto privatistico, pur non essendo radicalmente inesistente, è in ogni caso gravemente nullo (come nell’ipotesi di inesistenza del relativo oggetto), laddove è difficile predicare la configurabilità in ogni caso del reato; i.2) tesi c.d. pancivilistica: nelle ipotesi più gravi di invalidità negoziale, contratto e reato simul stabunt, simul cadent, onde se il contratto è inesistente o nullo, il reato non si configura, neppure allo stadio preliminare del tentativo (altrimenti dovrebbe assumersi punibile, seppure solo a titolo di tentativo, il contratto che preveda prestazioni illecite ma ab origine impossibili, ovvero il contratto nullo per oggetto inesistente); nelle ipotesi di mera annullabilità (in cui peraltro il contratto è efficace fino a che non ne intervenga l’annullamento ope iudicis) e di inefficacia (che non è invalidità), al contrario nessuna ricaduta interviene sul reato, che dunque si configura pienamente; si tratta di una tesi che è apparsa molto rigida, sia perché non è detto che la nullità del contratto implichi sempre non configurabilità del reato (che si configura invece sia in presenza di condizione meramente potestativa ex art.1355c., sia in presenza di motivo illecito comune alle parti ex art.1345 c.c.); sia perché, parallelamente, non è detto che l’annullabilità del contratto implichi sempre la configurabilità del reato (che non si configura invece quando è viziata la volontà del soggetto agente, piuttosto che della vittima); i.3) tesi mediana: occorre di volta in volta verificare se e come l’invalidità del contratto incide sulla configurabilità del reato-contratto.
Cosa compendia un reato in contratto e che problemi pone?
- la stipulazione del contratto in sé non è reato;
- è reato il modo in cui si giunge a stipulare il contratto; come si tratta e si giunge alla formazione della volontà di una delle parti, che normalmente è la vittima; tipici gli esempi della estorsione, della truffa, della circonvenzione di incapace e della concussione;
- è reato, alternativamente, il modo in cui si esegue il contratto e dunque il modo in cui si eseguono le prestazioni in esso confezionate e che dovrebbero realizzare il programma negoziale divisato dalle parti, a danno della controparte contrattuale che ancora una volta è vittima; tipico l’esempio della frode nelle pubbliche forniture, ma anche le stesse ipotesi di commercio o somministrazione di medicinali guasti e fattispecie simili richiamate supra in tema di reati-contratto, che configurano in realtà, per l’appunto, reati in contratto;
- si tratta allora di reati plurisoggettivi impropri, in cui cioè non vengono punite tutte le parti che necessariamente partecipano alla fattispecie, ma solo una di esse, la cui controparte è appunto vittima del reato, come tale non punita e la cui cooperazione è sovente imprescindibile per giungere alla consumazione dell’illecito penale;
- per quanto concerne i rapporti tra reato e contratto, con particolare riferimento a come la invalidità del contratto incide sulla configurabilità del reato, si contendono il campo ancora una volta 3 opzioni ermeneutiche: e.1) teoria autonomistica: contratto e reato sono del tutto indipendenti, onde tanto che il contratto sia nullo o inesistente, quanto che esso sia meramente annullabile, ciò non incide in alcun modo sulla configurabilità del reato, che è comunque predicabile; seguendo rigidamente questa teoria, nondimeno, anche quando la prestazione chiesta al soggetto passivo sia impossibile, ovvero anche nel caso in cui concretamente non sia stato leso alcun interesse giuridico tutelato, il soggetto agente resterebbe comunque passibile di sanzione penale; e.2) teoria c.d. “pancivilistica”: laddove il contratto sia nullo o addirittura inesistente, il reato non si configura; laddove invece il contratto sia meramente annullabile, dal momento che esso è efficace fino all’annullamento, la circostanza non rileva in alcun modo ai fini della configurabilità del reato, che viene riaffermata; seguendo rigidamente questa teoria, nondimeno, non vi sarebbe reato anche laddove, pur al cospetto di un contratto invalido perché nullo (e non già meramente annullabile), vi sia stato comunque lo spostamento patrimoniale dalla vittima al soggetto agente; e.3) si verifica di volta in volta, a valle dell’accertamento della fattispecie concreta, se e quanto l’invalidità del contratto possa incidere (o meno) sulla configurabilità del reato, tenendo conto da un lato che assai spesso nei reati in contratto, oltre al patrimonio, trova posto anche la tutela della persona, e dall’altro come le ricadute della patologia del contratto sulla configurabilità del reato passano giocoforza attraverso la specifica e concreta disamina in primo luogo del c.d. “mezzo illecito”, ovvero dello strumento utilizzato per carpire il consenso del soggetto passivo (è il caso degli artifizi e raggiri inducenti in errore nella truffa o dell’abuso di potere nella concussione), onde – anche in presenza di un contratto nullo (vendita di res inesistente; vendita da parte di rappresentante di una società inesistente) – il reato deve assumersi in ogni caso configurabile proprio per l’illiceità del mezzo adoperato dal soggetto agente, dovendosi tuttavia escludere le ipotesi in cui, pur al cospetto di un mezzo illecito, esso non sia stato lo strumento per carpire il consenso del soggetto passivo (che, ad esempio, nella truffa già si trovi in errore); in secondo luogo, dell’atto di disposizione patrimoniale compiuto dalla vittima, onde se manca il consenso della vittima stessa, il contratto è nullo e tale nullità si rifrange sul reato facendolo assumere non configurabile (come nel classico esempio della circonvenzione di incapace ex art.643 c.p., non configurabile appunto laddove il contratto stipulato dal soggetto totalmente incapace sia da considerarsi non già annullabile per incapacità, quanto piuttosto nullo per difetto di volontà di una delle parti), quantomeno nella forma consumata, e fatta salva la configurabilità del tentativo, potendo tuttavia a rigore entrare in gioco anche l’art.49 c.p. sul reato impossibile per inidoneità dell’azione del soggetto agente, stante appunto la totale incapacità ed il conseguente difetto assoluto di volontà (consenso) del soggetto passivo all’atto di disposizione patrimoniale; infine, del danno patrimoniale, giacché anche al cospetto di un contratto valido, il reato in contratto non si configura laddove la fattispecie di evento inadempimento reato, nella relativa tassatività descrittiva, richieda appunto il verificarsi di un danno patrimoniale e questo, in concreto, si accerti non essersi verificato perché è mancata la prestazione, perché essa è impossibile o assolutamente indeterminabile (mentre laddove sia determinabile e venga in concreto posta in essere dalla vittima, scatta il danno patrimoniale per la vittima medesima e, con esso, il perfezionamento del reato).
Qual è la sorte del contratto laddove si consumi una usura ex art.644 c.p.?
- per quanto riguarda l’usura pecuniaria (interessi usurari su somma mutuata o comunque data in prestito), trattandosi ormai, a partire dal 1996, di reato-contratto (e non più di reato in contratto), sarebbe astrattamente applicabile l’art.1418, comma 1, c.c., onde il contratto sarebbe affetto da nullità virtuale per violazione di norme imperative; si tratta infatti della violazione di una norma – l’644, comma 1, c.p. – che incide sulla struttura e sul contenuto della fattispecie contrattuale, atteggiandosi come regola imperativa di validità del contratto e, dunque, come fonte di nullità per il contratto che la viola; senonché l’egida precettiva dell’art.1418 – in quanto norma sussidiaria – scatta solo ove la legge non disponga diversamente, onde nel caso di specie prevale l’art.1815, comma 2, c.c. alla cui stregua non è nullo il mutuo, ma solo gli interessi usurari che non sono dovuti in quanto interessi (in sostanza, il mutuo da oneroso-usurario si trasforma in gratuito);
- per quanto invece riguarda l’usura pecuniaria “a vantaggi” – e dunque non collegata agli interessi, ma ad altri vantaggi innominati che sono pur sempre usurari – e per l’usura c.d. “reale” (che non presuppone una dazione pecuniaria), è l’1448 c.c. sulla sproporzione “ultra dimidium” delle prestazioni contratte in stato di bisogno (una prestazione è meno della metà dell’altra) e sulla conseguente rescindibilità del contratto a fungere da norma speciale prevalente rispetto all’art.1418 c.c. (che, ancora una volta, scatterebbe solo laddove tale previsione non vi fosse). Si pone peraltro il problema della differente formulazione, rispettivamente, degli articoli 644, comma 3, c.p. (in tema di usura residuale o “non pecuniaria”) e 1448 c.c. (in tema di rescissione): quest’ultima norma chiede infatti all’attore in sede civile di provare la sproporzione “ultra dimidium” tra le prestazioni contrattuali e l’approfittamento dello stato di bisogno, mentre per l’usura di che trattasi è sufficiente che chi ha erogato i vantaggi o i compensi all’usuraio (sempre nelle due ipotesi dell’usura “reale” e dell’usura pecuniaria “a vantaggi” e non “ad interessi”) si trovi in condizioni di difficoltà economica e finanziaria, non essendo richiesti i 2 requisiti suddetti previsti in sede civile per accedere alla rescissione, che dunque rappresentano un quid pluris rispetto alla tutela pubblicistica penale; laddove dunque si configuri questo tipo di usura di cui all’art.644, comma 3, c.p. – esclusa l’applicazione dell’art.1815, comma 2, c.c., che si riferisce alla sola usura pecuniaria “ad interessi”, ed esclusa altresì l’applicazione dell’art.1448 c.c. in tema di rescissione per lesione, laddove difettino la sproporzione ultra dimidium e l’approfittamento dello stato di bisogno – si fronteggiano tanto in dottrina quanto in giurisprudenza due opzioni ermeneutiche: b.1) torna ad applicarsi l’art.1418 c.c. in tema di nullità virtuale: una opzione che tuttavia viene criticata sia perché si finisce con l’applicare una sanzione più grave (nullità virtuale in luogo di rescindibilità per lesione) ad una fattispecie meno grave (in cui appunto non si registra né lesione ultra dimidium, né approfittamento dello stato di bisogno); sia anche perché l’art.644, comma 3, c.p. non configura, come l’ipotesi di cui al comma 1, un reato-contratto (in cui la stipula è già reato), quanto piuttosto un reato “in contratto”, con conseguente, criticata praticabilità della tesi che opta sempre e comunque per la nullità del contratto “a valle”; b.2) si applica l’art.1337 c.c., in tema di responsabilità precontrattuale, nella interpretazione giurisprudenziale più moderna ed accreditata onde il regime previsto da tale norma scatta non solo quando non si sia giunti ad alcun contratto (tipica ipotesi, l’interruzione brusca ed ingiustificata delle trattative), ma anche allorché si giunga ad un contratto valido ed efficace, giusta nondimeno violazione – perpetrata da una delle parti – delle regole che impongono un comportamento leale ed in buona fede al (futuro) contraente già nella fase, per l’appunto, delle trattative, come peraltro dimostra l’art.1440 c.c. in tema di dolo incidente, laddove il contratto resta valido ed efficace, ma il contraente decipiens (“in mala fede”) risponde dei danni derivati al deceptus dalla mancata osservanza dell’obbligo di buona fede pre-contrattuale; poiché peraltro in casi simili da un lato le trattative non sono state inutili, atteso che il contratto è stato stipulato e resta valido ed efficace (non entra dunque in gioco il c.d. interesse “negativo”), e dall’altro non vi è inadempimento in quanto la “mala fede” è intervenuta nella fase pre-contrattuale (non entra dunque in gioco neppure il c.d. interesse “positivo” all’adempimento, che resta sempre possibile), il danno dovuto alla controparte svantaggiata si configura proprio – secondo la pertinente giurisprudenza civilistica – come il danno “differenziale” calcolato sulla base della differenza tra il “peggio” concretamente stipulato ed il “meglio” che la controparte svantaggiata avrebbe ottenuto in difetto di “mala fede” della controparte, e dunque proprio il miglior mezzo per tutelare, dal punto di vista civilistico, chi sia stato vittima di un’usura reale o di un’usura pecuniaria “a vantaggi” (cui non è applicabile l’art.1815, comma 2, c.p.).
Quale è la sorte del contratto “a valle” di una truffa ed in genere dei reati in contratto?
- poiché la truffa integra un reato, il contratto che ne discende – anche se reato in contratto e non reato contratto – deve assumersi affettato dalla perpetrata violazione di una norma imperativa, quella che appunto sanziona penalmente la truffa, e dunque nullo ai sensi dell’1418, comma 1, c.c., anche perché il sistema penale tutela interessi pubblici che trascendono, e non possono non trascendere, i meri interessi privati delle parti alla rispettiva integrità patrimoniale (tesi recessiva c.d. “panpenalistica”);
- proprio la differente impronta del sistema civile rispetto a quello penale impone di verificare, caso per caso, se e quando la presenza di un reato incida sul contratto in modo tale da renderlo nullo, sicché può predicarsi la nullità di un contratto solo quando – alla stregua della giurisprudenza civilistica – siano violate regole di validità del contratto medesimo (da assumersi illecito), e non già anche quando siano violate regole di comportamento imposte alle parti nella formazione del contratto in parola, presidiate da rimedi di tipo diverso rispetto alla nullità e, in particolare, dalle regole sulla responsabilità del debitore nei confronti del creditore in caso di inadempimento ad obblighi di condotta (tesi più accreditata, di stampo “autonomistico”); commesso un reato – primo fra tutti la truffa – e derivatone un reato (in contratto, appunto), il contratto “a valle” deve intendersi allora non già nullo ex art.1418c., quanto piuttosto annullabile per dolo determinante ai sensi dell’art.1439 c.c., mentre laddove si tratti di dolo “incidente” ex art.1440 c.c. il contraente leso potrà chiedere il risarcimento del danno alla controparte, che si compendia in un pregiudizio maturato a cagione della induzione in errore, durante il processo di formazione del contratto e dunque in un danno precontrattuale, normalmente collegato ad un contratto che non è stato mai stipulato (art.1337 c.c.), ovvero ad un contratto invalidato (art.1338 c.c.), ma che secondo la giurisprudenza più recente è predicabile anche laddove il contratto sia stato stipulato e resti validamente in vita (come nell’ipotesi appunto del dolo incidente ex art.1440 c.c.), attraverso una applicazione estensiva dell’art.1337 c.c.;
- fa eccezione, almeno in giurisprudenza, la circonvenzione di incapace ex 643 c.p. che, pur essendo reato in contratto, viene assunta far luogo ad un contratto affetto da nullità virtuale per violazione di norme imperative ex art.1418 c.c., stante le peculiari esigenze di tutela della persona incapace, più ed oltre che del relativo patrimonio.