Corte di Cassazione penale, Sez. V, n. 42659/2021
La Suprema Corte di Cassazione penale, Sez. V, con la sentenza indicata in epigrafe, nel disattendere l’orientamento della difesa dell’imputato, secondo cui la sentenza era da considerarsi erronea con riferimento alla ritenuta sussistenza del delitto di cui all’art. 612 bis c.p., anzichè di altro meno grave reato – ha ribadito il principio secondo il quale, ai fini della integrazione del reato di atti persecutori, non si richiede l’accertamento di uno stato patologico, ma è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima, in considerazione del fatto che la fattispecie incriminatrice degli atti persecutori non costituisce una duplicazione del reato di lesioni, il cui evento è configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica. Ciò che la Suprema Corte vuole, dunque, porre in evidenza è la condotta in sé posta in essere dall’imputato e l’automatica conseguenze del suo comportamento senza che vi debba essere un accertamento di natura patologica.
Le puntuali specificazioni fatte dagli Ermellini rilevano non solo rispetto alla distinzione tra le fattispecie summenzionate, ma soprattutto in fatto di configurazione del reato. Pongono in evidenza l’offensività della condotta del reo, e ciò, anche nella giusta osservazione dei fatti che vengono attenzionati dalla cronaca in merito alla violenza nei confronti delle donne.
Il delitto di atti persecutori tutela la libertà morale. Questa è difesa da condotte ripetute che turbano e ledono la libertà di autodeterminazione e spesso sono anticipatorie di reati ben più gravi che offendono la incolumità e mettono a repentaglio la vita stessa della persona offesa. Questa è la disamina che i giudici di legittimità hanno voluto sottolineare nella sentenza in esame. Un’indagine approfondita del reato trattato che elide ogni dubbio sulle modalità di configurazione del delitto di cui all’art. 612 bis c.p.
Sotto il profilo oggettivo è richiesto che le minacce e le molestie siano ripetute nel tempo; trattasi, invero, di un reato abituale.
Ai fini della configurabilità del reato nella sua dimensione oggettiva occorre che le condotte minacciose o moleste provochino uno degli eventi alternativamente previsti dal primo comma dell’articolo in esame: un perdurante stato d’ansia o di paura, il timore per la incolumità della persona offesa o di quella di un prossimo congiunto o di una persona legata da relazione affettiva, ovvero costringa la vittima ad alterare le proprie abitudini di vita.
Il reato si consuma nel momento in cui si verifica, quale effetto delle reiterate condotte minacciose o moleste, uno o più degli eventi tipici previsti dalla norma, proprio perché stanno tra loro in un rapporto di alternatività. L’illecito evoca, come suesposto, pertanto la figura del reato abituale, pur discostandosi da tale modello per la previsione di un evento tipico. In dottrina e giurisprudenza si è giunti all’affermazione che affinchè possa essere integrata l’abitualità debbono realizzarsi quanto meno due episodi di minaccia e molestia nel corso del tempo (ex plurimis, Cass. Sez. V, n. 20993/2012; Cass.sez. V, n. 24135/2012; Cass. Sez. V, n. 46331/2013).
In tal senso Cass., sez. V, n. 20065/2014 e Cass. N. 48391/2014 che hanno affermato che il delitto di atti persecutori, in quanto reato necessariamente abituale, non è configurabile in presenza di un’unica, per quanto grave, condotta di molestie e minaccia e presenta l’ulteriore caratteristica della necessità, ai fini della configurabilità stessa del reato, della reiterazione delle condotte. Nel caso di specie il soggetto agente aveva reiterato le proprie condotte invasive della sfera privata della persona offesa in modo reiterato e soprattutto in un arco temporale breve così potendo anche dedurne un inasprimento della percezione delle stesse condotte da parte della vittima. Infatti, la reiterazione di atti che vengano posti in essere a poca distanza gli uni dagli altri determina un sommarsi delle gravità, che ciascuno di essi apporta, maggiori rispetto ad un eseguirsi degli stessi a distanza di tempo.
Data la natura abituale, l’evento deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso, anche se può manifestarsi solo a seguito della consumazione dell’ennesimo atto persecutorio, in quanto dalla reiterazione degli atti deriva nella vittima un progressivo accumulo di disagio che, solo alla fine della sequenza, degenera in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi in una delle forme previste dalla norma incriminatrice, senza necessariamente giungere all’ultimo estremo gravo di evento descritto dalla norma.
La reiterazione è dunque elemento costitutivo della fattispecie con la conseguenza che i suddetti singoli atti, se posti in essere in un’unica occasione, non integrano il delitto di atti persecutori, bensì altre fattispecie già conosciute dall’ordinamento (es. minaccia, molestie, violenza privata) eventualmente unite al vincolo della continuazione.
L’elemento della reiterazione delle condotte moleste rileva anche ai fini della procedibilità, pertanto, nell’ipotesi in cui il presupposto della reiterazione venga integrato da condotte poste in essere oltre i sei mesi previsti dalla norma, rispetto alla prima o alle precedenti condotte, occorrerà necessariamente fare riferimento anche a tali pregresse condotte, indipendentemente dal decorso del termine di sei mesi per la proposizione della querela, ai sensi del quarto comma dell’art. 612 bis c.p.
Dunque, si tratta di un reato che ha una struttura evolutiva dell’offensività ed è importante sottolineare che la consumazione del reato non si realizza al massimo livello di offensività descritta dalla norma ma al configurarsi di ogni forma di offensività descritta, in modalità alternativa, anche qualora si tratti della meno lesiva ma comunque descritta. È una norma molto importante, per le ragioni difensive e preventive citate precedentemente.
L’evento non deve essere tale da giungere “all’estrema ed ultima lesione psicologica” della vittima così da meritare e necessitare di una certificazione medica (nel caso di specie la difesa dell’imputato lamentava la mancanza di un certificato medico che rappresentasse lo stato patologico della vittima).
Ciò che, ragionevolmente, viene posto sotto osservazione è la condotta, nonché i suoi segmenti, in un crescendo di gravità, che pesa sulla figura psicologica della persona offesa, senza dover giungere all’estrema ed ultima lesione. La consumazione del reato, sottolineano gli ermellini, è rappresentata dalla natura in sé della condotta e dalle sue caratteristiche caratterizzate dalla reiterazione e dalla natura persecutoria degli atti.
Nel caso di specie il soggetto agente ha avuto una condotta caratterizzata da un progressivo aumento di intensità dei comportamenti, con un grado crescente di invasione della sfera psichica della vittima. La condotta dell’imputato non si è limitato a frasi d’amore o a regali, considerati indesiderati dalla vittima. Il tutto, poi, rinvigorito da appostamenti e da un insistente seguire la persona offesa nei luoghi nei quali ella si doveva recare.
Dunque è il carattere “assillante” della condotta posta in essere, un comportamento atto ad angustiare la vittima, ad importunarla con tormentosa insistenza che determina la consumazione del reato e non una patologia della quale ne venga attestata l’esistenza. Contrariamente, significherebbe sottoporre la persona offesa a soprusi psicologici finché gli stessi non giungessero ad una gravità tale da determinare una patologia. Significherebbe, altresì, che il diritto interverrebbe solo laddove la lesione sarebbe agli estremi massimi delle sue potenzialità. Significherebbe, infine, allo stesso tempo, svilire il significato e il contenuto lesivo degli atti di molestia e “meramente” persecutori precedenti.
Tale comportamento, associato ad altrettanti precedenti, ha avuto degli effetti gravemente destabilizzanti sulla vittima.
La doglianza del ricorrente concerneva la mancata configurazione del reato di atti persecutori per l’assenza di un certificato medico; il reato in esame, si ribadisce, non prevede la necessità di tale documentazione per la sua configurazione perché è sufficiente che gli atti persecutori abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima. A riprova di ciò, i giudici di legittimità specificano che se fosse diversamente, il delitto in esame non sarebbe altro che la duplicazione del delitto di lesioni il quale prevede la sussistenza di un evento nelle forme della malattia fisica ovvero della malattia mentale e psicologica.
Con tale specifica considerazione la Suprema Corte puntualizza un altro aspetto importante riguardante il reato oggetto di imputazione e cioè quello concernente l’ambito probatorio dello stesso. Rileva come le dichiarazioni della persona offesa possano essere oggetto di prova esse stesse. Gli elementi esterni, eventualmente, apportati dalle dichiarazioni dei testimoni non devono necessariamente essere di per sé prove ma, semplicemente, apportare un contributo probatorio di natura confirmatoria delle dichiarazioni della persona offesa. Esse non devono avere autonoma efficacia dimostrativa proprio in ragione del fatto che poca ragionevolezza avrebbe, allora, ritenere le dichiarazioni della persona offesa come capaci, da sole, di dimostrare la responsabilità dell’imputato – previa, ovviamente, indagine della credibilità ed attendibilità delle dichiarazioni medesime e del dichiarante.
Tale ultimo aspetto, che si lega al primo e contenuto centrale della sentenza in esame, non fa altro che confermare il messaggio trasmesso dalla Corte di Cassazione. Non è necessario, infatti, che vi sia un certificato medico che attesti il grave nocumento che la condotta dell’imputato ha causato alla persona offesa, ma rilevano le sue condotte, vere e verificate nonché le dichiarazioni della vittima in sede giurisdizionale in merito alle stesse, proprio come specificato dai giudici.