Corte di Cassazione, Sez. Unite Penali, sentenza 23 ottobre 2020 n. 29541
PRINCIPI DI DIRITTO
I reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni hanno natura di reato proprio non esclusivo.
Il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione si differenziano tra loro in relazione all’elemento psicologico, da accertarsi secondo le ordinarie regole probatorie.
Il concorso del terzo nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone è configurabile nei soli casi in cui questi si limiti ad offrire un contributo alla pretesa del creditore, senza perseguire alcuna diversa ed ulteriore finalità.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Il ricorso è stato rimesso a queste Sezioni Unite in ordine alle seguenti questioni di diritto:
“se il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone e quello di estorsione si differenzino tra loro in relazione all’elemento oggettivo, in particolare con riferimento al livello di gravità della violenza o della minaccia esercitate, o, invece, in relazione al mero elemento psicologico, e, in tale seconda ipotesi, come debba essere accertato tale elemento”;
“se il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni debba essere qualificato come reato proprio esclusivo e, conseguentemente, in quali termini si possa configurare il concorso del terzo non titolare della pretesa giuridicamente tutela bi le”.
- L’ordinanza di rimessione ha rilevato l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine ai rapporti tra i reati di cui agli artt. 629 e 393 c.p., peraltro circoscritto soltanto ai casi “in cui l’aggressione alla persona è funzionale alla soddisfazione di un diritto tutelabile innanzi all’autorità giudiziaria”, tra i quali rientrerebbe quello in esame, ritenendo pacificamente configurabili come estorsioni le condotte funzionali a soddisfare pretese sfornite di tutela; sarebbero, in proposito, emersi due macro-orientamenti:
(a) il primo distingue i predetti reati valorizzando le differenze esistenti sotto il profilo della materialità;
(b) l’altro li distingue valorizzando le differenze esistenti sotto il profilo dell’elemento psicologico.
Nell’ambito di quest’ultimo orientamento, alcune decisioni valorizzano come elemento distintivo soltanto la direzione della volontà dell’agente alla soddisfazione del credito, altre ritengono che le modalità della condotta, e dunque l’intensità della violenza e della minaccia, rilevino ai fini della prova del dolo dell’estorsione.
Entrambi gli orientamenti presuppongono l’esistenza di un concorso apparente di norme e, dunque, di un reato “con capacità assorbente”, senza prendere in esame la possibilità del concorso formale tra i reati, che potrebbe trovare plausibile legittimazione, secondo l’ordinanza di rimessione, “nella diversa collocazione sistematica delle norme che prevedono i reati di estorsione e di esercizio arbitrario e nella diversità dei beni giuridici tutelati”.
Inoltre, considerato che, nel caso di specie, la minaccia estorsiva sarebbe stata profferita dal creditore G. , confermata dal F. (terzo estraneo) e ribadita dal P. (anch’egli terzo estraneo), la Seconda sezione ha rilevato l’esistenza di un ulteriore contrasto giurisprudenziale, riguardante la configurabilità del concorso di persone nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (artt. 392 e 393 c.p.), che l’ultimo approdo della giurisprudenza di legittimità colloca tra i cc.dd. reati propri esclusivi o di mano propria, con la conseguenza che, se la condotta tipica sia posta in essere da un terzo estraneo al rapporto obbligatorio fondato sulla pretesa civilistica asseritamente vantata nei confronti della persona offesa, agente su mandato del creditore, essa non potrà mai integrare il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ma soltanto altra fattispecie; nei casi in cui la condotta tipica sia invece posta in essere da chi intenda “farsi ragione da sé medesimo” sarebbe, al contrario, configurabile il concorso (“per agevolazione”, od anche “morale”) dei terzi estranei alla pretesa civilistica vantata dall’agente nei confronti della persona offesa nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
Questo orientamento, che “indirizza chiaramente verso la qualificazione del fatto come estorsione ogni volta che la condotta violenta sia posta in essere da un terzo, sebbene su mandato del titolare del diritto che si intende soddisfare”, non è condiviso dal collegio rimettente, essenzialmente perché l’art. 393 c.p. (come d’altro canto l’art. 392 stesso codice) indica il soggetto attivo del reato con il termine “chiunque”, e ciò indicherebbe “che ci si trov(i) al cospetto di un “reato comune”, come risulta confermato dal fatto che gli elementi costitutivi del reato (pretesa giuridicamente tutelabile in sede giudiziaria; violenza o minaccia) non riguardano, nè richiamano la qualifica o la qualità del soggetto agente”.
- Per ragioni di ordine logico, è opportuno esaminare per prima la questione controversa riguardante l’individuazione del soggetto attivo dei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
- La dottrina ha osservato cheil reato proprio“trova la propria genesi storica e ragione politica in una struttura sociale evoluta, in cui siano differenziate le funzioni spettanti ai singoli e, quindi, attribuiti particolari doveri e responsabilità” e si caratterizza perché il soggetto che ha una particolare qualifica acquisisce la c.d. legittimazione al reato in quanto la sua qualifica, alternativamente:
– lo pone in rapporto col bene protetto, consentendogli di arrecarvi l’offesa incriminata;
– gli conferisce la possibilità di porre in essere la condotta offensiva incriminata;
– rende opportuna l’incriminazione di fatti altrimenti non ritenuti meritevoli di pena;
– limita la meritevolezza di un trattamento sanzionatorio di favore (come accade in favore della sola madre in relazione al reato d’infanticidio).
Esso non si pone in contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza (art. 3 Cost.) se ed in quanto trovi ragionevole giustificazione nella tutela di interessi tali da legittimare, a seconda dei casi, il trattamento deteriore o di favore.
- L’incriminazione dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni risponde ad una esigenza istintivamente avvertita dalle coscienze dei popoli sin dai primordi del diritto penale: ildiritto romanoincriminava l’impossessamento delle cose del proprio debitore contro la volontà di quest’ultimo e la sottrazione violenta della propria res posseduta da terzi; il diritto intermedio puniva, in linea di principio, l’impossessamento violento della cosa propria posseduta, anche se illegittimamente, da terzi e l’uso delle armi per farsi giustizia, pur tollerando talora l’impiego delle armi per la rivendicazione dei propri diritti.
Si trattava, peraltro, di fattispecie non paragonabili al tipo del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni inteso nel senso moderno.
5.1. Il precedente immediato degli artt. 392 e 393 c.p. è costituito dall’art. 235 c.p. Zanardelli del 1889, a sua volta promanante dall’art. 146 del codice toscano del 1853 e dall’art. 286 e segg. del codice penale sardo-italiano del 1859.
5.2. Con riguardo all’individuazione del soggetto attivo del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (con violenza sulle cose oppure alle persone), la dottrina è divisa.
La dottrina tradizionale qualificava i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni come reati comuni, che potevano essere commessi da “chiunque” agisse come privato (e non come pubblico ufficiale et c.) e non avesse il possesso della res oggetto di contesa, e precisava che “insieme con colui che agisce per esercitare un preteso diritto possono concorrere persone che non abbiano alcun preteso diritto da far valere. Costoro, nondimeno, rispondono dello stesso titolo delittuoso, in base alle norme generali sulla compartecipazione criminosa”.
Parte minoritaria della dottrina più recente ha ribadito l’orientamento, essenzialmente valorizzando il termine “chiunque” con il quale gli artt. 392 e 393 c.p. indicano il soggetto attivo dei predetti reati; analoga argomentazione è posta dall’ordinanza di rimessione a fondamento del manifestato convincimento che i reati in oggetto siano “comuni” e non propri”.
L’orientamento senz’altro dominante in seno alla dottrina più recente ritiene, al contrario, che i reati in oggetto abbiano natura di reato proprio, potendo essere commessi unicamente dal titolare del preteso diritto, dal soggetto che eserciti legittimamente in sua vece il predetto diritto e dal negotiorum gestor; si è, talora, precisato che il terzo non titolare del preteso diritto che ne reclami arbitrariamente soddisfazione deve avere un particolare legame con il creditore ed essere assolutamente privo di un interesse proprio.
5.3. La prime decisioni giurisprudenziali intervenute in argomento (Cass. 25 luglio 1934, Landinia, Giust. pen., 1935, II, 799; Cass. 17 giugno 1936, Rainieri, Giust. pen., 1936, II, 1068) avevano ritenuto che “il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni è configurabile anche se il soggetto attivo abbia usato violenza per esercitare una pretesa giuridica accampata da altri, se ciò sia, però, avvenuto in nome e vece del titolare, come nel caso di mandatari, congiunti o dipendenti, e nell’interesse esclusivo di lui”.
Questo orientamento, che richiede sempre e comunque il coinvolgimento nel reato di cui agli artt. 392 e 393 c.p. del soggetto “qualificato”, ovvero il titolare del preteso diritto azionato, è stato in seguito costantemente ribadito.
È stata ammessa la configurabilità dei reati in oggetto anche nei casi in cui il preteso diritto appartenga a soggetto diverso dall’agente, a condizione che quest’ultimo non sia animato da finalità proprie: in particolare, Sez. 6, n. 8434 del 30/04/1985, Chiacchiera, Rv. 170533 riconobbe che soggetto attivo del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni può essere anche colui che eserciti un diritto pur non avendone la titolarità, ma agendo per conto dell’effettivo titolare (nel caso esaminato, l’imputata aveva consumato il delitto esercitando, nella sua qualità di coniuge, una pretesa di natura reale vantata dal consorte e nell’interesse di questo ultimo); secondo Sez. 2, n. 8778 del 09/04/1987, Schiera, Rv. 176469, “ai fini della sussistenza del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, di cui all’art. 393 c.p., riconosciuto che l’agente può operare anche a vantaggio di un terzo, non è necessario che l’interessato abbia conferito mandato o dato informale incarico al soggetto di operare per suo conto, nè che la ragione vantata sia effettivamente realizzabile in giudizio (è sufficiente, infatti, il convincimento della legittimità della pretesa), nè è richiesta l’impossibilità per l’interessato di far valere personalmente il proprio diritto”; nel medesimo senso, si è anche ritenuto che “il reato di “ragion fattasi” di cui all’art. 393 c.p. non è escluso dalla circostanza che il preteso diritto appartenga a soggetto diverso dall’agente, se questi, nella qualità di negotiorum gestor e senza la necessità di investiture formali, operi nel di lui interesse, concorrendo, così, nella commissione del reato” (Sez. 2, n. 8836 del 05/02/1991, Paiano, Rv. 188123; conformi, Sez. 6, n. 14335 del 16/03/2001, Federici, Rv. 218728: fattispecie relativa all’arbitrario esercizio di un diritto del quale era titolare il coniuge del soggetto agente; Sez. 6, n. 15972 del 05/04/2001, Corieri, Rv. 218668; Sez. 6, n. 1257 del 03/11/2003, dep. 2004, Paoli, Rv. 228415: fattispecie in cui la violenza sulle cose era stata attuata per esercitare il presunto diritto di proprietà di un figlio dell’agente).
L’orientamento è stato più recentemente ribadito da Sez. 6, n. 23322 del 08/03/2013, Anzalone, Rv. 256623, per la quale “soggetto attivo del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose può essere anche chi esercita il preteso diritto pur non avendone la titolarità, in quanto, ai fini della configurabilità del delitto, rileva che l’agente si comporti come se fosse il titolare della situazione giuridica e ne eserciti le tipiche facoltà” (principio affermato con riferimento ad un caso nel quale l’imputato, al fine di assicurare la somministrazione di energia elettrica al fondo del padre, aveva collocato nel fondo di un vicino dei pali perché l’Enel potesse esercitare la servitù di elettrodotto).
- Queste Sezioni Unite ritengono che i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni abbianonatura giuridica di reati propri.
6.1. La dottrina è pressoché concorde nel ritenere che attraverso l’incriminazione dei fatti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni è stato perseguito “lo scopo di impedire la violenta sostituzione dell’attività individuale all’attività degli organi giudiziari”, onde evitare “che il privato si faccia ragione con le proprie mani, compromettendo la pubblica pace”; coerentemente con tale ratio dell’incriminazione, “l’oggetto della tutela è stato ravvisato in un interesse pubblico, e precisamente nell’interesse dell’Autorità giudiziaria all’esercizio esclusivo dei suoi poteri”, e le relative norme incriminatrici sono state collocate nel titolo del codice penale relativo ai delitti contro l’amministrazione della giustizia.
6.2. L’esercizio arbitrario delle proprie ragioni assume rilevanza penale se commesso con violenza sulle cose o con violenza o minaccia alle persone.
Come pure evidenziato dalla dottrina, e come già emerso in seno alla giurisprudenza di questa Corte (Sez. 6, n. 15972 del 05/04/2001, Corieri, in motivazione), nel reato previsto dall’art. 392 c.p. ricorrono sempre o quasi gli estremi del fatto di danneggiamento (art. 635 c.p.), mentre in quello previsto dal successivo art. 393 sono configurabili in ogni caso gli estremi del delitto di violenza privata (art. 610 c.p.): l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni è, tuttavia, punito meno gravemente dei delitti che in esso sono necessariamente contenuti (salvo che nel caso del danneggiamento non aggravato, trasformato in illecito civile dal D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, art. 4, comma 1), nonostante il fatto che, rispetto al danneggiamento previsto dal testo attualmente vigente dell’art. 635 c.p. ed alla violenza privata, in esso, alla lesione, rispettivamente, del patrimonio o della persona, si aggiunga l’offesa dell’interesse all’amministrazione della giustizia; inoltre, nonostante comporti anche la lesione di un interesse pubblico, esso è perseguibile non d’ufficio, ma a querela di parte, il che comporta che il danneggiamento e la violenza privata, ordinariamente procedibili d’ufficio, quando ledono una prerogativa dell’Autorità giudiziaria, oltre ad essere puniti meno gravemente, diventano procedibili a querela di parte.
Può, pertanto, convenirsi con la dottrina che questa disciplina trova l’unica plausibile giustificazione nella considerazione che “il fatto di agire col convincimento di esercitare un diritto è sentito dalla coscienza sociale come un motivo di attenuazione della pena”; in proposito, un pur risalente precedente di questa Corte (Sez. 6, n. 1835 del 15/10/1969, Zarba, Rv. 113341) aveva osservato che, nei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, l’agente opera con il convincimento di esercitare un suo diritto, il che è avvertito dalla coscienza sociale come motivo di attenuazione della pena ed importa che i delitti in oggetto vengano considerati dalla legge, nella loro essenza unitaria, come una forma attenuata di danneggiamento, nell’ipotesi di cui all’art. 392 c.p., o di violenza privata, in quella di cui all’art. 393.
La medesima ratio può ritenersi suscettibile anche di affievolire l’interesse statale all’esercizio della pretesa punitiva, destinato ad insorgere soltanto a seguito della tempestiva iniziativa del presunto debitore/querelante.
I reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni si caratterizzano, quindi, per il fatto che il soggetto che vanta la titolarità di un preteso diritto, e per tale ragione potrebbe “ricorrere al giudice”, acquisisce la c.d. legittimazione al reato in quanto la sua qualifica limita la meritevolezza di un trattamento processuale e sanzionatorio indiscutibilmente di favore; detto trattamento di favore non si pone in contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza (art. 3 Cost.), trovando ragionevole giustificazione nella tutela di un interesse che lo legittima.
6.3. Non costituisce apprezzabile ostacolo alla qualificazione dei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni come reati propri, l’indicazione, negli artt. 392 e 393 c.p., del soggetto attivo come “chiunque”, al contrario sic et simpliciter valorizzata da parte minoritaria della dottrina più recente e dalla stessa ordinanza di rimessione.
Per confutare l’assunto appare sufficiente ricordare che in numerosi reati pacificamente “propri”, il soggetto attivo è normativamente indicato in “chiunque”: si pensi, per tutti, alla falsa testimonianza (art. 372 c.p.) ed addirittura all’incesto (art. 564 c.p.).
Il “chiunque” indicato dagli artt. 392 e 393 c.p. è, dunque, soltanto il soggetto che potrebbe ricorrere al giudice al fine di esercitare un preteso diritto.
6.4. Secondo il tradizionale e consolidato insegnamento della giurisprudenza civile, l’istituto della negotiorum gestio, previsto e disciplinato dall’art. 2028 c.c. ss., postula lo svolgimento di un’attività, da parte del gestore, diretta al conseguimento dell’esclusivo interesse di un altro soggetto, caratterizzato dall’assoluta spontaneità dell’intervento del gestore, e quindi dalla mancanza di un qualsivoglia rapporto giuridico in forza del quale egli sia tenuto ad intervenire nella sfera giuridica altrui (Sez. 3, n. 23823 del 22/12/2004, Rv. 579141; Sez. 1, n. 16888 del 24/07/2006, Rv. 591617).
Sempre sotto il profilo civilistico, la legittimazione ad esercitare nel processo un diritto altrui è eccezionale (cfr. art. 81 c.p.c., a norma del quale, “Fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui”).
6.4.1. Nella giurisprudenza penale di legittimità è talora emersa la preoccupazione che, legittimando incondizionatamente il terzo ad attivarsi in luogo del reale creditore, il debitore/vittima possa trovarsi esposto a danni ulteriori rispetto a quelli connaturali alle fattispecie di reato tipiche, perché “costretto a versare denaro nelle mani di un soggetto estraneo al rapporto obbligatorio, senza alcuna garanzia di effetto liberatorio” (Sez. 5, n. 5193 del 27/02/1998, P.G., Lentini ed altri, Rv. 211492), potendo in tali casi ingenerarsi una situazione “che non avrebbe permesso alla vittima di ottenere garanzie dell’estinzione del proprio debito con il versamento sollecitato” (Sez. 6, n. 41329 del 19/10/2011, Di Salvatore, n. m., in motivazione).
6.4.2. Tutto ciò premesso, osserva il collegio che la qualificazione come esercizio arbitrario delle proprie ragioni (a seconda dei casi, con violenza sulle cose oppure con violenza o minaccia alle persone) delle condotte poste in essere sponte da terzi non appartenenti al nucleo familiare del creditore (coniuge, figlio, genitore, come emerso nella casistica giurisprudenziale innanzi riepilogata), che si siano attivati di propria iniziativa, senza previo concerto o comunque non d’intesa con il creditore, comporterebbe l’immotivata applicazione del previsto regime favorable, che trova giustificazione, anche quanto al rispetto del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost., proprio e soltanto nella contrapposizione tra un presunto creditore ed un presunto debitore, che risolvono la propria controversa senza adire le vie legali, pur potendo farlo (il creditore ricorrendo al giudice civile, il debitore sporgendo querela).
Nel caso in cui il presunto creditore sia del tutto estraneo all’iniziativa del terzo negotiorum gestor, non potrà, quindi, essere configurato un reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ma ricorreranno quanto meno (e salvo quello che si osserverà in seguito con riguardo ai rapporti tra esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione) gli estremi dei corrispondenti reati comuni (danneggiamento o violenza privata).
- Una volta affermata la natura di reato proprio dei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, va affrontata la questione accessoria e consequenziale, ovvero se si tratti, o meno, diun reato proprio esclusivo, odi mano propria.
7.1. L’orientamento attualmente dominante nella giurisprudenza di questa Corte, premesso che l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni può essere commesso, ai sensi degli artt. 392 e 393 c.p. unicamente da “chiunque… si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo”, ritiene che quest’ultima espressione induca a ritenere che i predetti reati rientrino tra i cc.dd. reati propri esclusivi, o di mano propria, che si caratterizzano in quanto richiedono che la condotta tipica deve essere posta in essere dal soggetto “qualificato”, ovvero, nel caso di specie, dal presunto creditore: di conseguenza, quando la condotta tipica di violenza o minaccia prevista dagli artt. 392 e 393 c.p. sia posta in essere da un soggetto diverso dal creditore, ovvero estraneo al rapporto obbligatorio che fonderebbe la pretesa azionata, non potrebbe ritenersi integrato l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
L’assunto sarebbe corroborato dalla particolare oggettività giuridica dei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, posti a tutela anche dell’interesse statuale al ricorso obbligatorio alla giurisdizione (il c.d. monopolio giurisdizionale) nella risoluzione delle controversie, in riferimento al quale, se può – in determinati casi (ovvero in difetto della presentazione della querela da parte del soggetto a ciò legittimato) – essere tollerato che chi ne ha diritto si faccia ragione “da sé medesimo”, non può mai essere tollerata l’intromissione del terzo estraneo che si sostituisca allo Stato, esercitandone le inalienabili prerogative nell’amministrazione della giustizia (Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268360 ss.; nel medesimo senso, pur implicitamente, Sez. 5, n. 5241 del 20/06/2014, D’Ambrosio, Rv. 261381; Sez. 2, n. 41433 del 27/04/2016, Bifulco, Rv. 268630; Sez. 2, n. 20/12/2017, dep. 2018, Gatto, Rv. 272017; Sez. 1, n. 6968 del 20/07/2017, dep. 2018, P.G. in proc. Rottino, Rv. 272285).
All’orientamento mostrano di aderire anche Sez. 2, n. 51013 del 21/10/2016, Arcidiacono, n. m., e Sez. 2, n. 31725 del 05/04/2017, P.M. in proc. Arnone, Rv. 271760, che ha configurato il reato di cui all’art. 393 c.p. con riferimento ad una fattispecie nella quale l’imputato (un avvocato nell’esercizio del proprio mandato professionale) aveva inviato una missiva con richieste di rilevanti somme di denaro per chiudere la controversia, minacciando altrimenti denunce che avrebbero portato l’emissione di provvedimenti applicativi di misure cautelari nei confronti della controparte e del suo difensore, osservando che “il professionista che agisca nell’interesse di un cliente non può considerarsi “estraneo” alla contesa che opponga il proprio patrocinato ad un terzo (…): l’avvocato è una parte tecnica che si affianca alla parte sostanziale della contesa, nella conclusiva unitarietà di una parte complessa”.
7.2. Il riferimento al farsi ragione “da sé medesimo”, mai valorizzato dalla giurisprudenza tradizionale, è stato generalmente interpretato dalla dottrina come pleonastico.
Secondo la dottrina tradizionale, l’espressione “farsi ragione da sé medesimo” significa unicamente “realizzare con le proprie forze quella pretesa che l’agente ritiene giusta in sé: per rendersi, insomma, giustizia da sé stesso”; essa evocherebbe, quindi, “null’altro che la realizzazione dello scopo (di regola economico) al cui soddisfacimento è preordinato il diritto che si vanta”.
Nell’ambito della dottrina più recente, si è ritenuto che l’espressione integri la materialità dei reati in oggetto, evocando o l’arbitraria realizzazione di una situazione di fatto corrispondente al preteso diritto, oppure l’impiego della forza privata per realizzare la pretesa; talora essa è stata interpretata in duplice accezione, “in un’ottica oggettivistica non è niente altro che il momento realizzativo dello scopo economico del diritto esercitato; in chiave soggettivistica l’autosoddisfazione è invece la affermazione unilaterale ed autoritaria di una situazione attualmente o potenzialmente favorevole al reo, tale da mostrarsi soltanto “congrua” rispetto al diritto al fine dell’esercizio del quale essa è realizzata”.
- L’orientamento che considera i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni come reati propri esclusivi, o di mano propria,non può essere condiviso.
8.1. Il riferimento, per integrare la descrizione della fattispecie tipica di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, alla necessità che il soggetto che vanta il preteso diritto si faccia ragione “da sé medesimo”, già esistente nell’art. 235 c.p. Zanardelli del 1889, è stato mutuato dall’art. 146 del codice toscano del 1853, in relazione al quale esso era stato pacificamente interpretato dalla dottrina come meramente descrittivo: “quando chi crede di avere una pretesa giuridica sostituisce la sua forza al potere del giudice, si fa ragione da sé medesimo. Perciò i giureconsulti toscani denominarono l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni: ragion fattasi”.
I lavori preparatori del codice penale del 1889 non attribuiscono all’espressione un diverso significato: i verbali della Commissione istituita con R.D. 13 dicembre 1888 (cfr. intervento del relatore Auriti) confermano, anzi, che l’espressione “da sé medesimo” esprime unicamente “la surrogazione dell’arbitrio individuale al potere della pubblica Autorità, in che il reato consiste”. I lavori preparatori del codice penale del 1930 sono, sul punto, assolutamente silenti.
Tali rilievi, che consentono di confermare il significato meramente pleonastico tradizionalmente attribuito all’espressione in oggetto, mai messo in discussione, unitamente alla genericità di essa, di per sé considerata, non consentono di avvalorare l’orientamento che la valorizza per argomentare la natura giuridica di reati propri esclusivi, o di mano propria, dei reati de quibus.
- Vanno ora esaminati i rapporti tra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quellodi estorsione.
9.1. Sin da epoca risalente, la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto che il criterio differenziale tra i delitti di cui agli artt. 629 e 393 c.p. consista nell’elemento intenzionale, in quanto nel primo l’intenzione dell’agente è di procurarsi un ingiusto profitto, mentre nel secondo il reo agisce per conseguire un’utilità che ritiene spettargli, nonostante che il suo diritto sia contestato o contestabile, senza adire l’Autorità giudiziaria (Cass. 21 gennaio 1941, Clocchiatti, Giust. pen., 1941, II, 810, 1078; Cass. 27 marzo 1950, Paoli, Riv. pen., 1950, 679).
Ponendosi sulla scia di questo pur risalente insegnamento, in epoca successiva l’orientamento prevalente di questa Corte ha distinto i delitti di cui agli artt. 393 e 629 c.p. essenzialmente in relazione all’elemento psicologico: nel primo, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione ragionevole, anche se in ipotesi infondata, di esercitare un suo diritto giudizialmente azionabile; nell’estorsione, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella consapevolezza di non averne diritto (Sez. 2, n. 56400 del 22/11/2018, Iannuzzi, Rv. 274256; Sez. 1, n. 6968 del 20/07/2017, dep. 2018, P.G. in proc. Rottino, Rv. 272285; Sez. 2, n. 1901 del 20/12/2016, dep. 2017, Di Giovanni, Rv. 268770; Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268360 ss.; Sez. 2, n. 46628 del 03/11/2015, Stradi, Rv. 265214; Sez. 2, n. 44674 del 30/09/2015, Bonaccorso, Rv. 265190; Sez. 2, n. 42734 del 30/09/2015, Capuozzo, Rv. 265410; Sez. 2, n. 23765 del 15/05/2015, P.M. in proc. Pellicori, Rv. 264106; Sez. 2, n. 42940 del 25/09/2014, Conte, Rv. 260474; Sez. 2, n. 31224 del 25/06/2014, Comite, Rv. 259966; Sez. 2, n. 24292 del 29/05/2014, Ciminna, Rv. 259831; Sez. 2, n. 33870 del 06/05/2014, Cacciola, Rv. 260344; Sez. 2, n. 51433 del 04/12/2013, Fusco, Rv. 257375; Sez. 2, n. 705 del 01/10/2013, dep. 2014, Traettino, Rv. 258071; Sez. 2, n. 22935 del 29/05/2012, Di Vuono, Rv. 253192; Sez. 2, n. 12329 del 04/03/2010, Olmastroni, Rv. 247228; Sez. 2, n. 9121 del 19/04/1996, Platania, Rv. 206204; Sez. 2, n. 6445 del 14/02/1989, Stanovich, Rv. 181179; Sez. 2, n. 5589 del 12/11/1982, dep. 1983, Rossetti, Rv. 159513).
Nell’ambito di questo orientamento, va anche collocata Sez. 6, n. 58087 del 13/09/2017, Di Lauro, Rv. 271963, per la quale il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione si distingue da quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alla persona, posto in essere in concorso con il sequestro di persona, non già in base alla intensità della violenza che connota la condotta, bensì in ragione del fine perseguito dal suo autore che, nel primo caso, è volta al conseguimento di un profitto ingiusto, e, nell’altro, alla realizzazione, con modi arbitrari, di una pretesa giuridicamente azionabile: in tal caso, infatti, l’ingiusto profitto sussiste sia nel caso in cui il vantaggio ricercato dal reo coincida con il prezzo della liberazione, sia nel caso in cui detto vantaggio derivi dall’esecuzione di un pregresso rapporto illecito con la vittima del reato, trattandosi di una pretesa non tutelabile dinanzi all’autorità giudiziaria.
9.2. Altro orientamento ha, al contrario, valorizzato, ai fini della distinzione, la materialità del fatto, affermando che, nel delitto di cui all’art. 393 c.p., la condotta violenta o minacciosa non è fine a sé stessa, ma risulta strettamente connessa alla finalità dell’agente di far valere il preteso diritto, rispetto al cui conseguimento si pone come elemento accidentale, per cui non può mai consistere in manifestazioni sproporzionate e gratuite di violenza: di conseguenza, quando la minaccia o la violenza si estrinsechino in forme di forza intimidatoria e sistematica pervicacia tali da eccedere ogni ragionevole intento di far valere un diritto, la coartazione dell’altrui volontà è finalizzata a conseguire un profitto che assume ex se i caratteri dell’ingiustizia ed, in determinate circostanze e situazioni, anche la minaccia dell’esercizio di un diritto, di per sé non ingiusta, può diventare tale, se le modalità in cui essa risulti formulata denotino una prava volontà ricattatoria che le facciano assumere connotazioni estorsive (Sez. 5, n. 35563 del 15/07/2019, Russo, Rv. 277316; Sez. 2, n. 33712 del 08/06/2017, Michelini, Rv. 270425; Sez. 6, n. 11823 del 07/02/2017, P.M. in proc. Maisto, Rv. 270024; Sez. 2, n. 1921 del 18/12/2015, dep. 2016, Li, Rv. 265643; Sez. 2, n. 44657 del 08/10/2015, Lupo, Rv. 265316; Sez. 2, n. 44476 del 03/07/2015, Brudetti, Rv. 265320; Sez. 6, n. 17785 del 25/03/2015, Pipitone, Rv. 263255; Sez. 2, n. 9759 del 10/02/2015, Gargiuolo, Rv. 263298; Sez. 1, n. 32795 del 02/07/2014, P.G. in proc. Caruso, Rv. 262291; Sez. 5, n. 19230 del 06/03/2013, Palazzotto, Rv. 256249; Sez. 5, n. 28539 del 14/04/2010, P.M. in proc. Coppola, Rv. 247882; Sez. 6, n. 41365 del 28/10/2010, Straface, Rv. 248736; Sez. 6, n. 32721 del 21/06/2010, Hamidovic, Rv. 248169; Sez. 2, n. 35610 del 27/06/2007, Della Rocca, Rv. 237992; Sez. 2, n. 14440 del 15/02/2007, Mezzanzanica, Rv. 236457; Sez. 2, n. 47972 del 01/10/2004, Caldara, Rv. 230709; Sez. 1, n. 10336 del 02/12/2003, dep. 2004, Preziosi, Rv. 228156).
9.2.1. Nell’ambito di questo orientamento è enucleabile un sotto-orientamento, ampiamente illustrato nell’ordinanza di rimessione, a parere del quale il delitto di estorsione sarebbe configurabile quando la condotta minacciosa o violenta, anche se finalisticamente orientata al soddisfacimento di un preteso diritto, si estrinsechi nella costrizione della vittima attraverso l’annullamento della sua capacità volitiva; sarebbe, invece, configurabile il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni quando un diritto giudizialmente azionabile venga soddisfatto attraverso attività violente o minatorie che abbiano un epilogo “non costrittivo”, ma “più blandamente persuasivo” (così, più o meno pedissequamente, Sez. 2, n. 11453 del 17/02/2016, Guarnieri, Rv. 267123; Sez. 2, n. 55137 del 03/07/2018, Arcifa, Rv. 274469; Sez. 2, n. 36928 del 04/07/2018, Maspero, Rv. 273837).
9.3. In dottrina, può senza dubbio definirsi unanime il convincimento che i due reati in oggetto si distinguano in relazione al fine perseguito dall’agente.
Le dottrine tradizionali avevano affermato che, nel caso in cui l’agente “non agì per trarre ingiusto profitto dall’azione o dall’omissione imposta al soggetto passivo, ma per uno scopo diverso, potrà ricorrere il titolo di (..) esercizio arbitrario delle proprie ragioni, o altro; ma non quello di estorsione”, precisando che “spesso però l’affermazione di voler esercitare un opinato diritto (…), non è che un pretesto per larvare l’estorsione”, ed ammonendo i giudici quanto all’opportunità di adoperare “molta cautela nell’accertare il vero scopo dell’agente”; naturalmente, “pur mirando l’agente anche a conseguire il profitto relativo a un preteso diritto esistente o supposto, la estorsione sussist(e) quando egli chieda più di ciò che tale diritto comporta”; si ammetteva che l’estorsione presentasse tratti comuni con l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, “ma a stabilirne la diversità basta l’elemento psicologico, che nel secondo consiste nel fine di esercitare un preteso diritto, quando si abbia la possibilità di ricorrere all’autorità giudiziaria”.
Altra dottrina ha successivamente ritenuto che l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni “richiede il fine di esercitare un preteso diritto azionabile e l’estorsione la coscienza e volontà di conseguire un profitto non fondato su alcuna pretesa giuridica”; nel medesimo senso, la dottrina più recente afferma che “il criterio discretivo tra estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni si fonda sulla finalità perseguita dall’agente: nell’esercizio arbitrario il soggetto attivo, supponendo di essere titolare di un diritto, agisce con lo scopo di esercitarlo, mentre nell’estorsione l’agente è consapevole di conseguire un ingiusto profitto”.
- Queste Sezioni Uniteritengono che il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione si differenzino tra loro in relazione all’elemento psicologico.
10.1. La materialità dei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di estorsione non appare esattamente sovrapponibile (così Sez. 2, n. 11453 del 17/02/2016, Guarnieri, Rv. 267123), poiché soltanto ai fini dell’integrazione della fattispecie tipica di estorsione è normativamente richiesto il verificarsi di un effetto di “costrizione” della vittima, conseguente alla violenza o minaccia, queste ultime costituenti elemento costitutivo comune ad entrambi i reati (art. 392 c.p.: “mediante violenza sulle cose”; art. 393 c.p.: “usando violenza o minaccia alle persone”; art. 629 c.p.: “mediante violenza o minaccia”): all’uopo occorre, secondo la dottrina più recente, “che vi sia un nesso causale tra la condotta e la situazione di coazione psicologica che costituisce, a sua volta, l’evento intermedio tra la condotta stessa e l’atto di disposizione patrimoniale che arreca l’ingiusto profitto con altrui danno.
Si tratta di un evento psicologico che deve essere causato direttamente dalla condotta del soggetto attivo del reato: se l’effetto di coazione trovasse nell’azione o nell’omissione dell’autore solo uno dei tanti antecedenti non potrebbe mai parlarsi di estorsione. La coazione psicologica si risolve, essenzialmente, nella compressione della libertà di autodeterminazione suscitata dalla paura del male prospettato”.
Cionondimeno, come già rilevato (Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, in motivazione), la possibile valenza dimostrativa di tale disomogeneità strutturale può agevolmente essere ridimensionata, ove si pensi che l’effetto costrittivo della condotta estorsiva appare consustanziale proprio alla diversa finalità dell’agente, che mira ad ottenere una prestazione non dovuta, dalla quale l’agente trae profitto ingiusto, e la vittima un danno; diversamente, nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni la violenza o minaccia mira ad ottenere dal debitore proprio e soltanto la prestazione dovuta, come in astratto giudizialmente esigibile.
D’altro canto, il riferimento all’effetto “costrittivo” della condotta appare, nella sistematica codicistica, piuttosto finalizzato a distinguere il reato di estorsione, previsto e punito dall’art. 629 c.p., da quello di rapina, previsto e punto dal precedente art. 628: come chiarito dalla stessa Relazione del Guardasigilli al Re sul Libro I del Progetto del codice penale del 1930 (pag. 450), “premesso che in entrambe tali ipotesi delittuose la spogliazione in danno della vittima di consuma mercè violenza o minaccia, il Progetto coglie la nota differenziale dei due delitti negli effetti della coercizione usata, riscontrando la rapina, se l’agente s’impossessa egli stesso della cosa altrui, e l’estorsione, se la persona, a cui la violenza o la minaccia è diretta, è obbligata a consegnare la cosa”.
Il criterio è stato pacificamente accolto dalla giurisprudenza di questa Corte, che distingue correntemente le due fattispecie proprio osservando che, nella rapina, il reo sottrae la res esercitando sulla vittima una violenza od una minaccia diretta e ineludibile, mentre nell’estorsione la coartazione non determina il totale annullamento della capacità del soggetto passivo, che è soltanto “costretto” a determinarsi come gli viene imposto dal soggetto agente, ma potrebbe determinarsi diversamente (così Sez. 2, n. 44954 del 17/10/2013, Barillà, Rv. 257315).
10.2. Come già evidenziato, tra le altre, da Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268360 ss. e Sez. 2, n. 51433 del 04/12/2013, Fusco, Rv. 257375, sia l’art. 393 c.p., comma 3, che l’art. 629 c.p., comma 2, (in quest’ultimo caso, mediante richiamo dell’art. 628 c.p., comma 3, n. 1) prevedono che la pena è aumentata “se la violenza o minaccia è commessa con armi”, senza legittimare distinzioni tra armi bianche ed armi da fuoco: è quindi normativamente prevista la qualificazione come esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone, aggravato dall’uso di un’arma, anche di condotte poste in essere con armi tali da rendere la violenza o la minaccia di particolare gravità, ovvero “costrittiva”, e comunque “sproporzionata”, rispetto al fine perseguito.
Detto riferimento appare decisivo, atteso che, secondo il contrario orientamento, siffatta condotta dovrebbe sempre integrare gli estremi del più grave delitto di estorsione, il che, per espressa previsione di legge, non è.
10.3. La stessa Relazione del Guardasigilli al Re sul progetto del Codice penale, pur in estrema sintesi (pag. 158), osserva che la fattispecie tipica di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone è “comprensiva d’ogni specie di violenza, fisica o morale”, senza attribuire, quindi, alcuna rilevanza al quantum di violenza esercitata oppure alla gravità della minaccia profferita.
10.4. È stato, infine, già evidenziato da questa Corte (Sez. 6, n. 45064 del 12/06/2014, Sevdari, in motivazione) che “le norme sostanziali poste a confronto non contengono alcuna gradazione (nè “verso l’alto” nè “verso il basso”) delle modalità espressive della condotta violenta o minacciosa, e che le fattispecie si distinguono in base al solo finalismo della condotta medesima, che in un caso è mirata al conseguimento di un profitto ingiusto, e nell’altro allo scopo, soggettivamente concepito in modo ragionevole, di realizzare, pur con modi arbitrari, una pretesa giuridicamente azionabile. In questa prospettiva, il livello offensivo della coercizione finisce con l’incidere sulla gradazione della pena, ma non sulla qualificazione del fatto”: risulta, pertanto, evidente la “carenza di tipicità che si connette all’enucleazione, in assenza di qualsiasi segnale linguistico, di una sottofattispecie delle nozioni di violenza e minaccia, così “gravemente intimidatorie” da connotare ex se di ingiustizia qualunque finalismo, e dunque sostanzialmente da annullare la funzione definitoria del corrispondente riferimento alla specifica connotazione del profitto perseguito dall’estorsore”.
10.5. Deve, quindi, concludersi che i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alla persona e di estorsione, pur caratterizzati da una materialità non esattamente sovrapponibile, si distinguono essenzialmente in relazione all’elemento psicologico: nel primo, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione non meramente astratta ed arbitraria, ma ragionevole, anche se in concreto infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nel secondo, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella piena consapevolezza della sua ingiustizia.
10.5.1. Ai fini dell’integrazione del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la pretesa arbitrariamente coltivata dall’agente deve, peraltro, corrispondere esattamente all’oggetto della tutela apprestata in concreto dall’ordinamento giuridico, e non risultare in qualsiasi modo più ampia, atteso che ciò che caratterizza il reato in questione è la sostituzione, operata dall’agente, dello strumento di tutela pubblico con quello privato, e l’agente deve, quindi, essere animato dal fine di esercitare un diritto con la coscienza che l’oggetto della pretesa gli possa competere giuridicamente (Sez. 5, n. 2819 del 24/11/2014, dep. 2015, Angelotti, Rv. 263589; Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268362).
Pur non richiedendosi che si tratti di pretesa fondata, ovvero che il diritto oggetto dell’illegittima tutela privata sia realmente esistente, deve, peraltro, trattarsi di una pretesa non del tutto arbitraria, ovvero del tutto sfornita di una possibile base legale (Sez. 5, n. 23923 del 16/05/2014, Demattè, Rv. 260584; Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268362), poiché il soggetto attivo deve agire nella ragionevole opinione della legittimità della sua pretesa, ovvero ad autotutela di un suo diritto in ipotesi suscettibile di costituire oggetto di una contestazione giudiziale avente, in astratto, apprezzabili possibilità di successo (Sez. 2, n. 24478 del 08/05/2017, Salute, Rv. 269967).
Detta verifica, come pure è stato già osservato, è preliminare: “i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e di estorsione si distinguono in relazione al profilo della tutelabilità dinanzi all’autorità giudiziaria del preteso diritto cui l’azione del reo era diretta, giacché tale requisito – che il giudice è preliminarmente chiamato a verificare – deve ricorrere per la configurabilità del primo, mentre, se manca, determina la qualificazione del fatto alla stregua del secondo” (Sez. 2, n. 52525 del 10/11/2016, D.V., rv. 268764). In applicazione del principio, è già stata, ad esempio, ritenuta la configurabilità del delitto di estorsione, e non dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone, nei confronti del creditore che eserciti una minaccia per ottenere il pagamento di interessi usurari, poiché in tal caso egli è consapevole di porre in essere una condotta per ottenere il soddisfacimento di un profitto ingiusto, in quanto derivante da una pretesa contra ius (Sez. 2, n. 9931 del 09/03/2015, Iovine, Rv. 262566; Sez. 2, n. 26235 del 12/05/2017, Nicosia, Rv. 269968).
10.5.2. Orientamenti risalenti della giurisprudenza di questa Corte (Cass. 23 gennaio 1952, Costa, Riv. it. dir. pen., 1952, 419; Sez. 6, n. 1835 del 15/10/1969, Zarba, Rv. 113338) e parte della dottrina tradizionale, premesso che per la sussistenza del delitto di cui all’art. 393 c.p., la legge richiede soltanto l’uso della violenza o minaccia alla persona, avevano ritenuto non necessario che la persona rimasta vittima della violenza o della minaccia fosse quella in conflitto d’interessi con l’agente, poiché si dovrebbe avere riguardo non tanto e non solo alla persona verso la quale si indirizza la violenza o la minaccia, “ma al nesso di mezzo al fine che tra il fatto violento o la minaccia e il proposito di farsi ragione da sé deve ricorrere”, con l’ulteriore conseguenza che il reato, sempre che un tale nesso sia riscontrabile, sarebbe completo in tutti i suoi elementi anche se la violenza o minaccia siano dirette non contro l’antagonista del soggetto attivo, ma contro altra e diversa persona.
L’orientamento può ritenersi ormai superato, e comunque non condivisibile: proprio in considerazione del fatto che la sussistenza del requisito della tutelabilità dinanzi all’autorità giudiziaria del preteso diritto cui l’azione del reo è diretta va verificata preliminarmente (poiché commette il reato di cui all’art. 393 c.p. “chiunque” possa ricorrere al giudice al fine di esercitare un preteso diritto), risulta evidente che l’agente non potrebbe azionare in giudizio la sua pretesa chiamando in causa, in garanzia, e senza titolo alcuno, i terzi oggetto di viiolenza o minaccia.
Come già correttamente ritenuto, in più occasioni, da questa Corte, è, pertanto, configurabile, il delitto di estorsione nei casi in cui l’agente abbia esercitato la pretesa con violenza e/o minaccia in danno di un terzo assolutamente estraneo al rapporto obbligatorio esistente inter partes, dal quale scaturisce la pretesa azionata, per costringere il debitore ad adempiere (Sez. 2, n. 33870 del 06/05/2014, Cacciola, Rv. 260344: fattispecie in cui il creditore ed i coimputati avevano rivolto nei confronti del debitore gravi minacce in danno del figlio e della moglie; Sez. 2, n. 5092 del 20/12/2017, dep. 2018, Gatto, Rv. 272017), poiché essa non sarebbe tutelabile dinanzi all’Autorità giudiziaria, risultando in concreto diretta a procurarsi un profitto ingiusto, consistente nell’ottenere il pagamento del debito da un soggetto estraneo al sottostante rapporto contrattuale (Sez. 2, n. 16658 del 16/01/2014, D’Errico, Rv. 259555 e Sez. 2, n. 45300 del 28/10/2015, Immordino, Rv. 264967, entrambe in fattispecie nelle quali era stata usata violenza in danno del padre del debitore, per costringerlo ad adempiere il debito del figlio).
10.5.3. Ai fini della distinzione tra i reati di cui agli artt. 393 e 629 c.p. assume, pertanto, decisivo rilievo l’esistenza o meno di una pretesa in astratto ragionevolmente suscettibile di essere giudizialmente tutelata: nel primo, il soggetto agisce con la coscienza e la volontà di attuare un proprio diritto, a nulla rilevando che il diritto stesso sussista o non sussista, purché l’agente, in buona fede e ragionevolmente, ritenga di poterlo legittimamente realizzare; nell’estorsione, invece, l’agente non si rappresenta, quale impulso del suo operare, alcuna facoltà di agire in astratto legittima, ma tende all’ottenimento dell’evento di profitto mosso dal solo fine di compiere un atto che sa essere contra ius, perché privo di giuridica legittimazione, per conseguire un profitto che sa non spettargli.
- L’elemento psicologico del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone e quello del reato di estorsione vanno accertati secondole ordinarie regole probatorie: alla speciale veemenza del comportamento violento o minaccioso potrà, pertanto, riconoscersi valenza di elemento sintomatico del dolo di estorsione.
Questa Corte è, infatti, ferma nel ritenere, in generale, che la prova del dolo, in assenza di esplicite ammissioni da parte dell’imputato, ha natura indiretta, dovendo essere desunta da elementi esterni ed, in particolare, da quei dati della condotta che, per la loro non equivoca potenzialità offensiva, siano i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall’agente (Sez. 1, n. 39293 del 23/09/2008, Di Salvo, Rv. 241339; Sez. 1, n. 35006 del 18/04/2013, Polisi, Rv. 257208; Sez. 1, n. 11928 del 29/11/2018, dep. 2019, Comelli, Rv. 275012); con specifico riferimento al tema in esame, si è inoltre osservato che “il dolo può essere tratto solo da dati esteriori, che ne indicano l’esistenza, e servono necessariamente a ricostruire anche il processo decisionale alla luce di elementi oggettivi, analizzati con un giudizio ex ante”, e, di conseguenza, “le forme esteriori della condotta, e quindi la gravità della violenza e l’intensità dell’intimidazione veicolata con la minaccia, non sono momenti del tutto indifferenti nel qualificare il fatto in termini di estorsione piuttosto che di esercizio arbitrario ai sensi dell’art. 393 c.p.”, ben potendo quindi costituire indici sintomatici di una volontà costrittiva, di sopraffazione, piuttosto che di soddisfazione di un diritto effettivamente esistente ed azionabile (Sez. 2, n. 44476 del 03/07/2015, Brudetti, Rv. 265320).
11.1. Un orientamento ha ritenuto che integra sempre gli estremi dell’estorsione aggravata dal c.d. “metodo mafioso” (già D.L. n. 152 del 1991, art. 7, conv. L. n. 203 del 1991, ora art. 416-bis.1 c.p.), e non dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone ugualmente aggravato, la condotta consistente in minacce di morte o gravi lesioni personali formulate dal presunto creditore e da un terzo estraneo al rapporto obbligatorio in danno della persona offesa, estrinsecatesi nell’evocazione dell’appartenenza di entrambi ad una organizzazione malavitosa di tipo mafioso, per l’estrema incisività della forza intimidatoria esercitata, costituente indice del fine di procurarsi un profitto ingiusto, esorbitante rispetto al fine di recupero di somme di denaro sulla base di un preteso diritto (Sez. 2, n. 34147 del 30/04/2015, P.G. in proc. Agostino, Rv. 264628).
11.1.1. L’orientamento non può essere condiviso, poiché la formulazione dell’art. 416-bis.1 c.p. non consente di affermare che la circostanza aggravante in oggetto sia assolutamente incompatibile con il reato di cui all’art. 393 c.p.; residua al più la possibilità di valorizzare l’impiego del c.d. “metodo mafioso”, unitamente ad altri elementi, quale elemento sintomatico del dolo di estorsione.
- Aben vedere, il denunciato contrasto di orientamenti riguardante la distinzione tra i reati di cui agli artt. 393 e 629 c.p. risulta più apparente che reale.
12.1. Limitando la disamina che segue alle decisioni più recenti e significative, nella fattispecie esaminata da Sez. 5, n. 35563 del 17/07/2019, Russo, Rv. 277316, il creditore, agendo con metodo mafioso, aveva dato alle fiamme una minipala nel giardino di una villa di proprietà della persona offesa, con il rischio che il fuoco si propagasse anche all’immobile, arrecando un danno ben superiore rispetto all’entità del credito vantato: in siffatta situazione, l’impiego del metodo mafioso, che aveva comportato l’attuazione della pretesa in forme che, richiamando alla mente del soggetto passivo il potere di intimidazione dell’associazione criminale e la promessa di passare ad ulteriori e più gravi danneggiamenti, ed il rischio di cagionare al debitore danni sproporzionati rispetto all’entità del debito, senz’altro esorbitanti rispetto al fine di ottenere il pagamento del credito ed idonei ad annichilire le capacità di reazione della persona offesa, integravano certamente il necessario dolo di estorsione.
Nella fattispecie esaminata da Sez. 2, n. 33712 del 08/06/2017, Michelini, Rv. 270425, la stessa decisione dà preliminarmente atto che l’imputato non vantava alcun credito ragionevolmente azionabile nei confronti del debitore, e tale rilievo risultava senz’altro assorbente.
Nella fattispecie esaminata da Sez. 2, n. 1921 del 18/12/2015, dep. 2016, Li, Rv. 265643, si era accertato che l’agente aveva richiesto al proprio debitore “una somma maggiore di quanto dalla stessa in precedenza richiesto perché a suo dire “bisognava pagare i ragazzi” (cioè i concorrenti nel reato da lei chiamati ad agire con violenza e minacce nei confronti della persona offesa)”: a prescindere dal fatto che “le modalità di soddisfacimento del preteso diritto erano travalicate in forme di particolare violenza, sistematicità e pervicacia”, pure valorizzato, in realtà risultava preliminare il rilievo che l’agente ed i terzi incaricati della riscossione avevano perseguito (anche) la soddisfazione di una pretesa giudizialmente non azionabile.
Nella fattispecie esaminata da Sez. 2, n. 44657 del 08/10/2015, Lupo, Rv. 265316, gli imputati avevano posto in essere condotte violente e minacciose nei confronti delle diverse persone offese – per lo più soggetti in situazione di grave crisi finanziaria – finalizzate non solo al recupero di crediti originari, ma anche al perseguimento di un autonomo profitto rappresentato dall’acquisizione della percentuale concordata come “tangente” per la riscossione delle somme, e quindi per la soddisfazione di una pretesa giudizialmente non azionabile.
Nella fattispecie esaminata dalla già citata Sez. 2, n. 44476 del 03/07/2015, Brudetti, Rv. 265320, alla p.o., sottoposta ad una serie continua di gravi minacce da parte di più persone, singolarmente e in gruppo, “fu poi intimato di firmare cambiali in bianco (che effettivamente in seguito firmò a decine sul cruscotto di un’autovettura nei pressi dello stadio di Casal di Principe) e venne anche prospettata (..) la possibilità di lavorare, unitamente ai fratelli, presso un’azienda della zona, onde guadagnare le somme necessarie a ripianare l’esposizione debitoria (prospettiva imposta con la forza dell’intimidazione, e non quale espressione sintomatica di una libera scelta lavorativa)”: i soggetti agenti avevano, quindi, perseguito la soddisfazione di una pretesa giudizialmente non azionabile, non essendo mossi dal ragionevole intento di trovare soddisfazione di un preteso diritto.
Nella fattispecie esaminata da Sez. 6, n. 17785 del 25/03/2015, Pipitone, Rv. 263255, i contratti preliminari rispetto ai quali, con le violenze accertate, si intendeva indurre le pp.oo. a far seguire la stipula un contratto di vendita di quota, “erano stati stipulati nel 1989, non dagli attuali soci della (…) s.r.l. ma dagli originari soci della stessa (…); occorreva, dunque, un formale conferimento della relativa posizione negoziale nella società e di tanto manca agli atti la prova si che, dal punto di vista documentale, come evidenziato dal Tribunale, la pretesa ancorata al citato preliminare risulta comunque riferibile a soggetti diversi dagli odierni indagati (…)”: i soggetti agenti perseguivano, quindi, la soddisfazione di una pretesa giudizialmente non azionabile.
Nella fattispecie esaminata da Sez. 2, 9759 del 10/02/2015, Gargiuolo, Rv. 263298, l’imputato, per riscuotere il suo credito, si era avvalso di due pregiudicati, che avevano minacciato la persona offesa di dare alle fiamme il suo locale e di cagionare gravi lesioni a lui ed ai suoi familiari ove non avesse pagato il debito, ed aveva quindi perseguito la soddisfazione di una pretesa giudizialmente non azionabile, avendo agito anche in danno di terzi estranei al rapporto obbligatorio vantato.
Nella fattispecie esaminata da Sez. 5, n. 19230 del 03/05/2013, Palazzotto, Rv. 256249, ricorreva, con riferimento ad entrambi i tentativi di estorsione contestati e ritenuti, la circostanza aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, convertito dalla L. n. 203 del 1991 (ora art. 416-bis.1 c.p.), “in quanto le modalità della minaccia, la sua stessa indeterminatezza, l’intervento di persona formalmente estranea al rapporto tra S. e T., la vicinanza di P. a personaggi della famiglia F. (ovviamente la separazione legale di questo imputato dalla moglie di per sé non può essere circostanza significativa), la richiesta di versare Euro 15.000 a favore proprio della famiglia mafiosa del quartiere, sono tutte circostanze che militano, come correttamente hanno ritenuto i giudici di appello, nel senso della sussistenza dell’utilizzazione del metodo mafioso. E se, erroneamente, anche il secondo giudice ha escluso, con riferimento al primo episodio estorsivo, la sussistenza della predetta aggravante (e tale errore non può essere corretto in mancanza di una impugnazione sul punto della parte pubblica), non vi è ragione per la quale non si debba riconoscerne la sussistenza e la operatività con riferimento al secondo episodio estorsivo”: l’estrema invasività della forza intimidatoria esercitata costituiva, pertanto, indice del fine di procurarsi un profitto ingiusto, esorbitante rispetto al fine di soddisfazione di una legittima pretesa civilistica.
12.2. Anche il riferimento, come criterio per distinguere i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni dall’estorsione, all’effetto “costrittivo” della condotta di estorsione, pur essendo stato in più occasioni enunciato, non è stato mai concretamente e decisivamente valorizzato, poiché, in tutte le sentenze che lo hanno accolto, la pretesa azionata dal presunto creditore non sarebbe stata in realtà azionabile in giudizio:
– nel caso esaminato da Sez. 2, n. 36928 del 04/07/2018, Maspero, Rv. 273837, il credito del quale si pretendeva soddisfazione non era esigibile, “tenuto conto dei vincoli imposti da Equitalia sui beni della vittima”;
– nel caso esaminato da Sez. 2, n. 11453 del 17/02/2016, Guarnieri, Rv. 267123, il terzo incaricato della riscossione aveva agito per la soddisfazione di un credito rispetto al quale era già stata esperita una infruttuosa azione esecutiva, e quindi – attraverso la condotta contestata – pretendeva inammissibilmente di aggredire le cc.dd. res sacra miseris;
– nel caso esaminato da Sez. 2, n. 55137 del 03/07/2018, Arcifa, Rv. 274469, attraverso la condotta contestata, il creditore aveva richiesto la corresponsione di interessi usurari, pretesa certamente non azionabile in giudizio.
- Alla luce della disamina che precede, possono essere esaminatele connotazioni del concorsodi persone nei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di estorsione.
13.1. La giurisprudenza di questa Corte ha tradizionalmente affermato che, per configurare il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in luogo di quello di estorsione, nel caso in cui la condotta tipica sia posta in essere da un terzo a tutela di un diritto altrui, occorre che il terzo abbia commesso il fatto al solo fine di esercitare il preteso diritto per conto del suo effettivo titolare, dal quale abbia ricevuto incarico di attivarsi, e non perché spinto anche da un fine di profitto proprio, ravvisabile ad esempio nella promessa o nel conseguimento di un compenso per sé, anche se di natura non patrimoniale (Sez. 2, n. 11282 del 2/10/1985, Conforti, Rv. 171209); qualora il terzo agente – seppure inizialmente inserito in un rapporto inquadrabile ex art. 110 c.p. nella previsione dell’art. 393 – inizi ad agire in piena autonomia per il perseguimento dei propri interessi, deve ritenersi che tale condotta integri gli estremi del concorso nel reato di estorsione ex artt. 110 e 629 c.p. (Sez. 2, n. 8836 del 05/02/1991, Paiano, Rv. 188123; Sez. 2, n. 4681 del 21/03/1997, Russo, Rv. 207595; Sez. 5, n. 29015 del 12/07/2002, Aligi, Rv. 222292; Sez. 5, n. 22003 del 07/03/2013, Accarino, Rv. 255651).
13.2. Questo orientamento va condiviso e ribadito.
Due sono i punti di partenza di questa ulteriore disamina, necessariamente costituiti dai principi in precedenza affermati:
– il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ha natura di reato proprio non esclusivo;
– il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con minaccia o violenza alle persone e quello di estorsione si differenziano tra loro in relazione all’elemento psicologico.
Di conseguenza, se, ai fini della distinzione tra i reati de quibus, alla partecipazione al reato di terzi concorrenti non creditori (abbiano, o meno, posto in essere la condotta tipica) non è possibile attribuire rilievo decisivo, risulta, al contrario, determinante il fatto che i terzi eventualmente concorrenti ad adiuvandum del preteso creditore abbiano, o meno, perseguito (anche o soltanto) un interesse proprio.
Ove ciò sia accaduto, i terzi (ed il creditore) risponderanno di concorso in estorsione; in caso contrario, ove cioè i concorrenti nel reato abbiano perseguito proprio e soltanto l’interesse del creditore, nei limiti in cui esso sarebbe stato in astratto giudizialmente tutelabile, tutti risponderanno di concorso in esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
13.3. Non appare inopportuno precisare che, di conseguenza, nei casi in cui ricorra la circostanza aggravante della c.d. “finalità mafiosa” (art. 416-bis.1 c.p.: essere “i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo commessi (…) al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste” dall’art. 416-bis c.p.), la finalizzazione della condotta alla soddisfazione di un interesse ulteriore (anche se di per sé di natura non patrimoniale) rispetto a quello di ottenere la mera soddisfazione del diritto arbitrariamente azionato, comporta la sussumibilità della fattispecie sempre e comunque nella sfera di tipicità dell’art. 629 c.p., con il concorso dello stesso creditore, per avere agevolato il perseguimento (anche o soltanto) di una finalità (anche soltanto lato sensu) di profitto di terzi.
D’altro canto, questa Corte ha già chiarito che non è configurabile il reato di ragion fattasi, bensì quello di estorsione (in concorso con quello di partecipazione ad associazione per delinquere), allorché si sia in presenza di una organizzazione specializzata in realizzazione di crediti per conto altrui, la quale operi, in vista del conseguimento anche di un proprio profitto, mediante sistematico ricorso alla violenza o ad altre forme di illecita coartazione nei confronti dei soggetti indicatile come debitori (Sez. 2, n. 1556 del 01/04/1992, Dionigi, Rv. 189943; Sez. 2, n. 12982 del 16/02/2006, Caratozzolo, Rv. 234117).
- Vanno conclusivamente enunciati i seguenti principi di diritto:
“i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni hanno natura di reato proprio non esclusivo”;
“il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione si differenziano tra loro in relazione all’elemento psicologico, da accertarsi secondo le ordinarie regole probatorie”;
“il concorso del terzo nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone è configurabile nei soli casi in cui questi si limiti ad offrire un contributo alla pretesa del creditore, senza perseguire alcuna diversa ed ulteriore finalità”.
- Così focalizzata la distinzione tra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone ed il reato di estorsione, appare evidente che, diversamente da quanto ritenuto nell’ordinanza di rimessione, non residui alcuno spazio per ipotesi di concorso formale, risultando le due fattispecie, proprio in relazione all’elemento psicologico, alternative: nei casi di concorso in estorsione, l’eventuale fine di soddisfazione di un diritto del preteso creditore resta, infatti, assorbito nel concorrente fine di profitto illecito dei terzi concorrenti.
- Può ora procedersi alla disamina dei motivi di ricorso dei ricorrenti, partendo da quelli comuni.
16.1. Con riguardo alla formulazione dei primi due motivi del ricorso F. , e di tutti i motivi dei ricorsi G. e P. , è necessario ribadire che non è consentito il motivo di ricorso che deduca la violazione dell’art. 192 c.p.p., anche se in relazione all’art. 125 e art. 546, comma 1, lett. e), per censurare l’omessa od erronea valutazione degli elementi di prova acquisiti od acquisibili, in quanto i limiti all’ammissibilità delle doglianze connesse alla motivazione, fissati specificamente dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui alla lett. c) della medesima disposizione, nella parte in cui consente di dolersi dell’inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità (Sez. 1, n. 1088 del 26/11/1998, dep. 1999, Condello, Rv. 212248; Sez. 6, n. 45249 del 08/11/2012, Cimini, Rv. 254274; Sez. 2, n. 38676 del 24/05/2019, Onofri, Rv. 277518).
Invero, la specificità del motivo di cui all’art. 606, comma 1, lett. e), dettato in tema di ricorso per cassazione al fine di definirne l’ammissibilità per ragioni connesse alla motivazione, esclude che l’ambito della predetta disposizione possa essere dilatato per effetto delle citate regole processuali concernenti la motivazione, utilizzando la “violazione di legge” di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), e ciò sia perché la deducibilità per cassazione è ammissibile solo per la violazione di norme processuali “stabilite a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza”, sia perché la puntuale indicazione di cui alla lettera e) ricollega a tale limite ogni vizio motivazionale.
D’altro canto, la riconduzione dei vizi di motivazione alla categoria di cui alla lettera c) stravolgerebbe l’assetto normativo delle modalità di deduzione dei predetti vizi, che limita la deduzione ai vizi risultanti “dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame” (lett. e)), laddove, ove se fossero deducibili quali vizi processuali ai sensi della lettera c), in relazione ad essi questa Corte di legittimità sarebbe gravata da un onere non selettivo di accesso agli atti.
Queste Sezioni Unite (Sez. U, n. 42792 del 31/10/2001, Policastro, Rv. 220092) hanno, infatti, da tempo chiarito che, nei casi in cui sia dedotto, mediante ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), un error in procedendo, la Corte di cassazione è giudice anche del fatto e, per risolvere la relativa questione, può procedere all’esame diretto degli atti processuali, che resta, al contrario, precluso dal riferimento al testo del provvedimento impugnato contenuto nella lett. e) del citato articolo (oltre che dal normativamente sopravvenuto riferimento ad altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame), quando risulti denunziata la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione.
Deve conclusivamente ritenersi che il ricorrente che intenda denunciare contestualmente, con riguardo al medesimo capo o punto della decisione impugnata, i tre vizi della motivazione deducibili in sede di legittimità ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), ha l’onere – sanzionato a pena di aspecificità, e quindi di inammissibilità, del ricorso – di indicare su quale profilo la motivazione asseritamente manchi, in quali parti sia contraddittoria, in quali manifestamente illogica, non potendo attribuirsi al giudice di legittimità la funzione di rielaborare l’impugnazione, al fine di estrarre dal coacervo indifferenziato dei motivi quelli suscettibili di un utile scrutinio, in quanto i motivi aventi ad oggetto tutti i vizi della motivazione sono, per espressa previsione di legge, eterogenei ed incompatibili, quindi non suscettibili di sovrapporsi e cumularsi in riferimento ad un medesimo segmento della motivazione.
16.1.1. Con riguardo alla formulazione del primo motivo del ricorso F. , è necessario ribadire che non è consentito il motivo di ricorso che deduca la violazione di norme della Costituzione o della Convenzione EDU (Sez. 2, n. 12623 del 13/12/2019, dep. 2020, Leone, Rv. 279059; Sez. 2, n. 677 del 10/10/2014, dep. 2015, Di Vincenzo, Rv. 261551).
Invero, l’inosservanza di disposizioni della Costituzione, non prevista tra i casi di ricorso dall’art. 606 c.p.p., può soltanto costituire fondamento di questione di legittimità costituzionale, nel caso di specie non proposta.
Analoga sorte incontra la censura riguardante la presunta violazione di disposizioni della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a sua volta proponibile in ricorso unicamente a sostegno di una questione di costituzionalità di una norma interna, poiché le norme della Convenzione EDU, così come interpretate dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, rivestono il rango di fonti interposte, integratrici del precetto di cui all’art. 117 Cost., comma 1, (sempre che siano conformi alla Costituzione e siano compatibili con la tutela degli interessi costituzionalmente protetti). Ma ancora una volta siffatta questione di legittimità costituzionale non risulta proposta in ricorso.
Deve, pertanto, ritenersi non consentito il motivo di ricorso per cassazione con il quale si deduca la violazione di norme della Costituzione o della Convenzione EDU, poiché la loro inosservanza non è prevista tra i casi di ricorso dall’art. 606 c.p.p. e può soltanto costituire fondamento di una questione di legittimità costituzionale.
16.1.2. Con riguardo alla formulazione del primo motivo del ricorso G. , è necessario ribadire che non è consentito il motivo di ricorso che deduca vizi di motivazione con riferimento a questioni di diritto.
Invero, come più volte chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte (Sez. 4, n. 4173 del 22/02/1994, Marzola, Rv. 197993; Sez. 2, n. 3706 del 21/01/2009, p.c. in proc. Haggag, Rv. 242634; Sez. 2, n. 19696 del 20/05/2010, Maugeri, Rv. 247123; Sez. 3, n. 6174 del 23/10/2014, dep. 2015, Monai, Rv. 264273; Sez. 1, n. 16372 del 20/03/2015, P.G. in proc. De Gennaro, Rv. 263326; Sez. 5, n. 47575 del 07/10/2016, P.M: in proc. Altoè, Rv. 268404), anche sotto la vigenza dell’abrogato codice di rito (Sez. 4, n. 6243 del 07/03/1988, Tummarello, Rv. 178442), il vizio di motivazione denunciabile nel giudizio di legittimità è soltanto quello attinente alle questioni di fatto, non anche a quelle di diritto, giacché ove queste ultime, anche se in maniera immotivata o contraddittoriamente od illogicamente motivata, siano state comunque esattamente risolte, non può sussistere ragione alcuna di doglianza, mentre, viceversa, ove tale soluzione non sia giuridicamente corretta, poco importa se e quali argomenti la avessero sorretta; d’altro canto, l’interesse all’impugnazione potrebbe nascere solo dall’errata soluzione di una questione giuridica, non dall’eventuale erroneità degli argomenti posti a fondamento giustificativo della soluzione comunque corretta di una siffatta questione.
Ne consegue che, in sede di legittimità, i vizi di motivazione indicati dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), non sono mai denunciabili con riferimento alle questioni di diritto decise dal giudice di merito, non soltanto allorquando la soluzione di esse sia giuridicamente corretta, ma anche nel caso contrario, poiché, ove la soluzione di esse non sia giuridicamente corretta, sarà necessario dedurre come motivo di ricorso l’intervenuta violazione di legge.
Deve, pertanto, concludersi che i vizi di motivazione indicati dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), non sono mai denunciabili con riferimento alle questioni di diritto decise dal giudice di merito, poiché quest’ultimo non ha l’onere di motivare l’interpretazione prescelta, essendo sufficiente che essa sia corretta.
16.1.3. Con riguardo alla formulazione del secondo, del terzo, del quarto e del quinto motivo del ricorso F. , è, infine, necessario ribadire che difetta della specificità richiesta dall’art. 581 c.p.p., comma 1 e art. 591 c.p.p. il motivo che deduca promiscuamente i vizi di motivazione indicati dall’art. 606 c.p.p., commi, lett. e), (Sez. 6, n. 32227 del 16/07/2010, T., Rv. 248037; Sez. 6, n. 800 del 06/12/2011, dep. 2012, Bidognetti, Rv. 251528; Sez. 2, n. 31811 del 08/05/2012, Sardo, Rv. 254329; Sez. 2, n. 19712 del 06/02/2015, Alota, Rv. 263541; Sez. 1, n. 39122 del 22/09/2015, P.G. in proc. Rugiano, Rv. 264535; Sez. 2, n. 38676 del 24/05/2019, Onofri, Rv. 277518).
Invero, l’art. 606, comma 1, lett. e), se letto in combinazione con l’art. 581, comma 1, lett. d), evidenzia che non può ritenersi consentita l’enunciazione perplessa ed alternativa dei motivi di ricorso, essendo onere del ricorrente specificare con precisione se la deduzione di vizio di motivazione sia riferita alla mancanza, alla contraddittorietà od alla manifesta illogicità ovvero a una pluralità di tali vizi, che vanno indicati specificamente in relazione alle varie parti della motivazione censurata.
Il ricorrente che intenda denunciare contestualmente, con riguardo al medesimo capo o punto della decisione impugnata, i tre vizi della motivazione deducibili in sede di legittimità ha quindi l’onere – sanzionato a pena di a-specificità, e quindi, in parte qua, di inammissibilità, del ricorso – di indicare su quale profilo la motivazione asseritamente manchi, in quali parti sia contraddittoria, in quali manifestamente illogica, non potendo attribuirsi al giudice di legittimità la funzione di rielaborare l’impugnazione, al fine di estrarre dal coacervo indifferenziato dei motivi quelli suscettibili di un utile scrutinio, in quanto i motivi aventi ad oggetto tutti i vizi della motivazione sono, per espressa previsione di legge, eterogenei ed incompatibili, quindi non suscettibili di sovrapporsi e cumularsi in riferimento ad un medesimo segmento della motivazione.
Per tali ragioni la censura alternativa ed indifferenziata di mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione risulta priva della necessaria specificità.
Non è, pertanto, consentito il motivo di ricorso con cui si deduca la violazione dell’art. 192 c.p.p., anche se in relazione all’art. 125 c.p.p. e art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), per censurare l’omessa o erronea valutazione degli elementi di prova acquisiti, in quanto i limiti all’ammissibilità delle doglianze connesse alla motivazione, fissati specificamente dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), ed in difetto di una espressa sanzione di inutilizzabilità, nullità, inammissibilità, decadenza.
- Ciò premesso in rito, è possibile passare all’esame delle doglianze comuni inerenti all’accertamento dei fatti contestati (primo e secondo motivo ricorso F. ; primo motivo ricorso G. ; primo motivo ricorso P. ).
17.1. La Corte di appello (come già il primo giudice) ha ritenuto accertato che:
– tra la Al.de.gra. Costruzioni s.r.l. di A.A. e Gr.Gi. e Gr.Ni. era stato stipulato un contratto di permuta, in forza del quale quest’ultimo cedeva alla prima un suolo edificabile libero da vincoli, sul quale la prima avrebbe realizzato un complesso residenziale formato da più villette, obbligandosi a cedere al G. “il 30% da calcolarsi sulla superficie lorda di ingombro del fabbricato” degli immobili edificati sui terreni di sua proprietà alcune delle quali, non appena ultimate;
– Gr.Pi. , sorella dell’imputato Gr.Ni. , aveva agito in sede civile contro la Al.de.gra. Costruzioni s.r.l. di A.A. e Gr.Gi. vantando vari diritti reali sul fondo permutato;
– la Al.de.gra. Costruzioni s.r.l. di A.A. e Gr.Gi. aveva chiamato in causa Gr.Ni. per esserne garantito, ed aveva nelle more non provveduto al trasferimento a quest’ultimo delle villette pattuite, in attesa dell’esito della causa;
– il 12 aprile 2013 Gr.Ni. si era presentato senza preavviso presso il cantiere della Al.de.gra. Costruzioni s.r.l., in compagnia di tali S. e N. (successivamente identificati per gli odierni coimputati P.S. e F.N. ): quest’ultimo riferiva ad A.A. e Gr.Gi. che il G. gli doveva settantamila Euro, e li invitava, pertanto, ad intestare sollecitamente al G. le villette promesse, onde consentirgli di venderle e saldare il debito; il G. confermava l’esistenza del debito, a sua volta insistendo per il trasferimento delle villette. L’A. ed il Gr. replicavano che il trasferimento non avrebbe avuto luogo fino a che la sorella del G. non avesse posto fine al contenzioso pendente, ma il soggetto di nome N. (F. ) insisteva nella pretesa, aggiungendo che, se non avessero adempiuto, “qualcuno si sarebbe fatto male”; nel dire ciò, aveva fatto capire di essere inserito in ambienti malavitosi (evocando una vicenda che lo aveva interessato: per vicende di ‘ndrangheta, aveva subito un sequestro di beni che gli erano poi stati restituiti), e si era offerto di fungere da intermediario con G.P. , conosceva da tempo, aggiungendo, con tono percepito dall’A. e dal Gr. come ironico ed intimidatorio, “che belle villette che state costruendo”.
Dal canto suo, l’altro ignoto visitatore (P.S. ) (non il F. , come erroneamente affermato dalla Corte di appello: cfr. f. 2 della sentenza di primo grado in riferimento alla denuncia delle pp.00.) aveva preso sotto braccio l’A. invitandolo a chiudere subito la faccenda.
Il Gr. aveva fotografato i due a loro insaputa mente discutevano con l’A. ; dopo qualche ora, verso le 14.20, l’A. era stato contattato sulla propria utenza cellulare dal predetto (F.N. ), il quale gli aveva comunicato di aver parlato con G.P. e con i suoi legali, e di avere risolto tutto; i tre odierni coimputati erano poi ritornati in cantiere, dove avevano trovato il solo Gr. , al quale N. (F. ) aveva riferito dell’ultimo colloquio avuto con l’A. ;
– il giorno successivo, l’A. ed il Gr. avevano denunciato l’accaduto alle forze dell’ordine.
17.2. Ciò premesso in fatto, osserva il collegio che l’incontro avvenuto il 12 aprile 2013 non era certamente stato casuale: il F. ed il P. avevano mostrato da subito di essere al corrente dei fatti, di necessità appresi dal G. , ed avevano immediatamente palesato il loro scopo: forzare l’adempimento della controprestazione delle pp.oo. onde trarre soddisfazione di un proprio interesse (l’adempimento di un credito vantato dal F. nei confronto del G. ; alle pp.oo. non era stata manifestata la circostanza menzionata dai ricorrenti – che anche il P. fosse creditore del G. ), formulando all’indirizzo delle pp.oo. espressioni incensurabilmente considerate dai giudici del merito minatorie.
Il G. aveva di necessità informato i complici dei fatti, li aveva accompagnati in cantiere, aveva confermato l’esistenza del proprio debito verso il F. ed era il beneficiario della condotta posta in essere; il P. con la sua presenza aveva necessariamente rafforzato la valenza delle minacce profferite dal F. in danno delle pp.00., attivandosi per parte sua in prima persona attraverso l’invito a risolvere la situazione in fretta.
Del tutto fisiologica è la mancata percezione di un profitto (della quale si duole in ricorso il P., essendo rimasta la condotta allo stadio del tentativo.
Infine, la Corte di appello ha specificamente esaminato i motivi di gravame degli imputati, incensurabilmente rilevandone la carenza di specificità (f. 4 della sentenza impugnata).
I motivi di ricorso sono, pertanto, ad un tempo, privi della necessaria specificità (reiterando doglianze già compiutamente disattese dalla Corte di appello, in difetto del compiuto riferimento alle argomentazioni contenute in proposito nel provvedimento impugnato) e manifestamente infondati.
- I motivi comuni inerenti alla qualificazione giuridica dei fatti accertati (terzo motivo ricorso F. ; secondo motivo ricorso G. ; secondo motivo ricorso P. ) sono infondati.
18.1. Si è premesso (cfr. § 10.5.1 di queste Considerazioni in diritto) che, ai fini della qualificazione di un fatto come esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone oppure come estorsione, è preliminare la verifica della tutelabilità dinanzi all’autorità giudiziaria del preteso diritto alla cui soddisfazione l’azione del reo era diretta, giacché tale requisito deve ricorrere per la configurabilità del primo, mentre, se manca, determina la qualificazione del fatto alla stregua del secondo.
Nel caso di specie, all’esito di questa preliminare verifica emerge con evidenza che la pretesa azionata dal G. non sarebbe stata in alcun modo tutelabile in giudizio: di qui, la correttezza della qualificazione giuridica dei fatti accertati come estorsione.
Secondo quanto accertato, ed in difetto di contestazioni degli imputati sul punto, tra la Al.de.gra. Costruzioni s.r.l., facente capo alle pp.oo., ed il G. era stato stipulato un contratto di permuta, in forza del quale quest’ultimo cedeva alla prima un suolo edificabile libero da vincoli, sul quale la prima avrebbe realizzato un complesso residenziale formato da più villette, obbligandosi a cedere al G. “il 30% da calcolarsi sulla superficie lorda di ingombro del fabbricato” degli immobili edificati sui terreni di sua proprietà alcune delle quali, non appena ultimate; G.P. , sorella dell’imputato, aveva agito in sede civile contro la Al.de.gra. Costruzioni s.r.l. vantando vari diritti reali sul fondo permutato, e le odierne pp.00. avevano chiamato in causa il G. per esserne garantito, non provvedendo, in attesa dell’esito della causa, al trasferimento a quest’ultimo delle villette pattuite.
In proposito, l’ordinanza di rimessione (f. 5) afferma che il G. aveva “una pretesa giudizialmente tutelabile dato che avrebbe potuto agire ex art. 2932 c.c. per ottenere l’adempimento del preliminare che obbligava la società ALDe.Gra. a cedergli “il 30% da calcolarsi sulla superficie lorda di ingombro del fabbricato” degli immobili edificati sui terreni di sua proprietà”, dimenticando di avere correttamente premesso a f. 2 che “la sorella del G. promuoveva un contenzioso civile che investiva la validità della permuta”.
La stessa Corte di appello (f. 4 della sentenza impugnata) aveva correttamente valorizzato il fatto che la sorella del G. avesse promosso contro la società facente capo alle pp.00. un contenzioso civile che investiva la validità della permuta, confermato dal tenore dei relativi atti allegati dagli stessi ricorrenti ai rispettivi ricorsi.
Ciò premesso, ritiene il collegio che, in presenza di un potenziale inadempimento del G. , che avrebbe dovuto cedere in permuta alle pp.oo. un fondo libero da vincoli, sul quale tuttavia la sorella P. vantava, al contrario, diritti reali di varia natura, era del tutto legittima la pretesa delle pp.oo. (documentalmente avvalorata dall’operata chiamata in causa) di non adempiere la propria controprestazione (inadimplenti non est adimplendum); al contrario, il G. non avrebbe avuto la possibilità di agire giudizialmente, con ragionevoli probabilità di successo, per ottenere dalle pp.oo. l’adempimento della pattuita controprestazione, fino a che il giudizio intentato dalla sorella P. in loro danno non si fosse concluso con la soccombenza dell’attrice.
Del tutto illegittima, perché neppure astrattamente tutelabile dinanzi all’autorità giudiziaria, era, quindi, la pretesa del G. di ottenere l’adempimento della controprestazione da parte delle pp.oo., intimidendole al fine di impedir loro di far valere l’inadempimento di controparte.
Si aggiunga, per completezza, che la condotta accertata avrebbe in ogni caso integrato gli estremi del concorso in estorsione, poiché i terzi F. e P. si erano arbitrariamente attivati, profferendo le accertate minacce, non nell’esclusivo interesse del creditore G. , bensì perseguendo anche un proprio ulteriore interesse (il soddisfacimento del credito vantato nei confronti del predetto coimputato G. ).
- Il quarto motivo del ricorso F. , il terzo motivo del ricorso G. ed il quarto motivo del ricorso P. , riguardanti la circostanza aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, convertito dalla L. n. 203 del 1991 (ora art. 416-bis.1 c.p.) sono, ad un tempo, privi della necessaria specificità (reiterando doglianze già compiutamente disattese dalla Corte di appello, in difetto del compiuto riferimento alle argomentazioni contenute in proposito nel provvedimento impugnato) e manifestamente infondati.
Richiamando quanto già evidenziato dal Tribunale (come è fisiologico in presenza di una doppia conforme affermazione di responsabilità), la Corte di appello – con argomentazioni giuridicamente corrette, nonché esaurienti, logiche e non contraddittorie, e, pertanto, esenti da vizi rilevabili in questa sede – ha argomentato la contestata statuizione valorizzando l’intervenuta formulazione di minacce allusive di chiaro stampo mafioso, formulate dal F. , ma alla presenza dei coimputati che mostravano all’evidenza di aderirvi (il G. anche quale beneficiario non dissenziente, il P. invitando le pp.oo. a far presto) da parte di persone sconosciute alle pp.oo., che avevano senza motivo evocato la propria provenienza geografica da luoghi nei quali operano notoriamente clan malavitosi, oltre che (attraverso il riferimento a pregresse vicende giudiziarie) la vicinanza ad essi.
La giustificazione fornita dal F. (e sostenuta dai coimputati) per aver evocato proprie pregresse vicende giudiziarie (a causa del sequestro di beni subito, la sua attività era bloccata ed aveva quindi tempo libero da dedicare alla vicenda Al.de.gra – G. ) è documentalmente smentita da quanto dalle pp.oo. immediatamente sin dal momento della denuncia, sporta il giorno dopo i fatti, e nella quale è precisato che lo stesso F. aveva detto loro che i beni gli erano già stati restituiti; ciò conferma, piuttosto, la valenza intimidatoria tipicamente “mafiosa” del riferimento, atto ad ingenerare nelle pp.00. il convincimento dell’impunità dello sconosciuto interlocutore proveniente da territori di ‘ndrangheta.
A fronte di tali rilievi, gli imputati si sono limitati a reiterare le doglianze già incensurabilmente disattese dalla Corte di appello e riproporre la propria diversa “lettura” delle risultanze probatorie acquisite, fondata su mere ed indimostrate congetture, senza documentare nei modi di rito eventuali travisamenti delle prove valorizzate.
- Privi della necessaria specificità (reiterando doglianze già compiutamente disattese dalla Corte di appello, in difetto del compiuto riferimento alle argomentazioni contenute in proposito nel provvedimento impugnato) e manifestamente infondati sono i motivi degli imputati G. (secondo) e P. (terzo) concernenti la mancata configurazione della desistenza, essendo stata la condotta minatoria portata a compimento.
Questa Corte ha, infatti, già chiarito che, nei reati di danno a forma libera, la desistenza volontaria, che presuppone un tentativo incompiuto, non è configurabile una volta che siano posti in essere gli atti da cui origina il meccanismo causale capace di produrre l’evento (Sez. 2, n. 24551 del 08/05/2015, supino, Rv. 264226, specificamente in tema di estorsione; conformi, Sez. 2, n. 16054 del 20/03/2018, Natalizio, Rv. 272677; Sez. 5, n. 50079 del 15/05/2017, Mayer, Rv. 271435).
- Ugualmente privi della necessaria specificità (reiterando doglianze già compiutamente disattese dalla Corte di appello, in difetto del compiuto riferimento alle argomentazioni contenute in proposito nel provvedimento impugnato) e manifestamente infondati sono i motivi degli imputati concernenti il diniego delle circostanze attenuanti generiche ed il complessivo trattamento sanzionatorio (quinto motivo ricorso F. ; quarto motivo ricorso G. ; quinto motivo ricorso P. ), in considerazione dei rilievi con i quali la Corte di appello – con argomentazioni giuridicamente corrette, nonché esaurienti, logiche e non contraddittorie, e, pertanto, esenti da vizi rilevabili in questa sede – ha motivato le contestate statuizioni, valorizzando la premessa estrema gravità del reato, nonché l’assenza di decisivi elementi sintomatici della necessaria meritevolezza, che:
– il ricorso F. trae da elementi al contrario irrilevanti (l’incensuratezza lo è, dal 2009, per legge; la mancata pervicacia nel perseguire il fine di profitto è dovuta alla tenacia delle pp.oo., che sporsero prontamente denuncia);
– il ricorso G. ed il ricorso P. non indicano convincentemente. Questa Corte ha, infine, già chiarito che l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche non può fondarsi sulla scelta da parte dell’imputato di definire il processo nelle forme del rito abbreviato, che implica ex lege l’applicazione di una predeterminata riduzione della pena, poiché in caso contrario la stessa circostanza comporterebbe due distinte determinazioni favorevoli all’imputato (Sez. 3, n. 46463 del 17/09/2019, Di Puccio, Rv. 277271; Sez. 2, n. 24312 del 25/03/2014, Diana, Rv. 260012).
Nel complesso, si è comunque pervenuti per tutti all’irrogazione di pene estremamente miti, perché ben lontane dai possibili limiti edittali massimi, ed anzi prossime a quelli minimi.
- Vanno ora esaminati gli ulteriori motivi dedotti dagli imputati.
22.1. Il primo motivo del ricorso F. , con il quale il ricorrente lamenta violazione dell’art. 2, Prot. 7, Conv. EDU (poiché la Corte di appello, richiamando le argomentazioni della sentenza di primo grado, assseritamente senza tener conto dei motivi di gravame, gli avrebbe negato il diritto ad un doppio grado di giudizio convenzionalmente garantito) è manifestamente infondato.
In realtà, secondo l’univoco orientamento della Corte EDU, l’invocata garanzia è soddisfatta anche dall’esistenza nell’ordinamento interno di un mero rimedio di legittimità: si afferma, infatti, che “gli Stati contraenti hanno in linea di principio un potere discrezionale di decidere sulle modalità di esercizio del diritto previsto dall’art. 2 del Protocollo n. 7. Quindi, l’esame di una condanna da parte di un tribunale superiore può riguardare sia questioni di fatto che di diritto, oppure essere limitato alle sole questioni di diritto” (in tal senso, conformemente, Corte EDU, Sez. 3, 13/02/2001, caso Krombach c. Francia, § 96; Corte EDU, Sez. 1, 08/01/2009, caso Panou c. Grecia, § 32; Corte EDU, Sez. 1, 08/01/2009, caso Patsouris c. Grecia, § 35).
22.2. Deve aggiungersi che, come premesso, la Corte di appello ha in realtà esaminato e puntualmente disatteso le obiezioni difensive.
22.3. Il quarto motivo del ricorso G. , con il quale il ricorrente si duole del mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 114 c.p., non è consentito.
È pur vero che la Corte di appello non disattende espressamente il corrispondente motivo di gravame; deve, peraltro, evidenziarsi che lo stesso era carente della necessaria specificità, perché formulato in modo del tutto assertivo (f. 10 dell’atto di appello: “in ragione della minima importanza della condotta del G. nel fatto addebitato in concorso, si invoca la concessione dell’attenuante di cui all’art. 144 c.p. (rectius, art. 114)”), senza alcuna argomentazione a sostegno, come sarebbe stato ancor più necessario ove si consideri che l’imputato era il creditore beneficiario della condotta concorsualmente posta in essere, e risultava quindi affetto da una insanabile causa d’inammissibilità, dichiarabile anche in questa sede a norma dell’art. 591 c.p.p., comma 4.
- Il rigetto dei ricorsi comporta, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento, ciascuno per sé, delle spese processuali, essendo stato abrogato, per effetto della L. n. 69 del 2009, art. 67, il vincolo di solidarietà fra coimputati nell’obbligo di pagamento delle spese processuali.