Corte di Cassazione Civile, Sezione lavoro, sentenza 02 aprile 2025 n. 8707
PRINCIPIO DI DIRITTO
I controlli del datore di lavoro, anche a mezzo di agenzia investigativa, sono legittimi ove siano finalizzati a verificare comportamenti del lavoratore che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti od integrare attività fraudolente, fonti di danno per il datore medesimo, non potendo, invece, avere ad oggetto l’adempimento (o inadempimento) della prestazione lavorativa, in ragione del divieto di cui agli artt. 2 e 3 della legge n. 300 del 1970.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Questa Corte ha ripetutamente affermato che le disposizioni degli artt. 2e 3 dello Statuto dei lavoratori, nel limitare la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a tutela del patrimonio aziendale, non precludono a quest’ultimo di ricorrere ad agenzie investigative, purché queste non sconfinino nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria riservata dall’art. 3 dello Statuto direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori e giustificano l’intervento in questione non solo per l’avvenuta prospettazione di illeciti e per l’esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione (cfr. Cass. 14.2.2011 n. 3590; Cass. n. 8373 del 2018); inoltre, il suddetto intervento deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero adempimento dell’obbligazione (Cass. n. 9167 del 2003).
1.1. Invero, i controlli del datore di lavoro, anche a mezzo di agenzia investigativa, sono legittimi ove siano finalizzati a verificare comportamenti del lavoratore che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti od integrare attività fraudolente, fonti di danno per il datore medesimo, non potendo, invece, avere ad oggetto l’adempimento (o inadempimento) della prestazione lavorativa, in ragione del divieto di cui agli artt. 2 e 3 della legge n. 300 del 1970 (ex aliis, Cass. n. 6174 del 2019, Cass n. 8373 del 2018; Cass. nn. 10636 e 26682 del 2017; Cass. n. 9167 del 2023; Cass. nn. 27610 e 30079 del 2024).
1.2. Il controllo tramite agenzie investigative si giustifica “per l’avvenuta perpetrazione di illeciti e l’esigenza di verificarne il contenuto, laddove vi sia un sospetto o la mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione” (Cass. n. 3590 del 2011; Cass. n. 15867 del 2017).
1.3. E’ stato precisato che le norme poste dagli artt. 2 e 3 della legge n. 300 del 1970 delimitano la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei suoi interessi con specifiche attribuzioni nell’ambito dell’azienda (rispettivamente con poteri di polizia giudiziaria e di controllo della prestazione lavorativa), ma non escludono il potere dell’imprenditore, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., di controllare direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica o anche attraverso personale esterno – costituito in ipotesi da dipendenti di una agenzia investigativa – l’adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti già commesse o in corso di esecuzione, e ciò a prescindere dalle modalità del controllo, che può avvenire anche occultamente, senza che vi ostino né il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione dei rapporti né il divieto di cui alla stessa L. n. 300 del 1970, art. 4, riferito esclusivamente all’uso di apparecchiature per il controllo a distanza (Cass. n. 16196 del 2009; Cass. n. 23303 del 2010; Cass. n. 10955 del 2015).
- Più recentemente, questa Corte (Cass. nn. 23985, 27610 e 30079 del 2024) ha precisato come la nozione di “patrimonio aziendale” tutelabile in sede di esercizio del potere di controllo dell’attività dei lavoratori vada intesa in una accezione estesa; si è così riconosciuto “il diritto del datore di lavoro di tutelare il proprio patrimonio, […] costituito non solo dal complesso dei beni aziendali, ma anche dalla propria immagine esterna, così come accreditata presso il pubblico” (Cass. n. 2722 del 2012; sulla tutela dell’immagine aziendale v. pure Cass. n. 13266 del 2018); costantemente, poi, è stata ritenuta lesiva del patrimonio aziendale la condotta di dipendenti potenzialmente integrante un illecito penale, sia ammettendo l’accertamento di fatti disciplinarmente rilevanti mediante filmati di telecamere installate in locali dove si erano verificati furti (Cass. n. 10636 del 2017) o a presidio della cassaforte aziendale (Cass. n. 22662 del 2016), sia in ipotesi di mancata registrazione della vendita da parte dell’addetto alla cassa ed appropriazione delle somme incassate (per tutte v. Cass. n. 18821 del 2008; sul controllo mediante agenzie investigative v., da ultimo, Cass. n. 17004 del 2024); si è quindi ribadito che la tutela del patrimonio aziendale può riguardare la difesa datoriale “dalla lesione all’immagine e al patrimonio reputazionale dell’azienda, non meno rilevanti dell’elemento materiale che compone la medesima” (Cass. n. 23985 del 2024cit.).
3.Questa Corte ha, inoltre, precisato che “l’accertamento circa la riferibilità (o meno) del controllo investigativo allo svolgimento dell’attività lavorativa rappresenta una indagine che compete al giudice del merito, involgendo inevitabilmente apprezzamenti di fatto” (in termini, da ultimo, Cass. n. 22051 del 2024).
- Orbene, nella fattispecie in esame, il convincimento della Corte territoriale si è basato sull’esito di un’attività investigativa, oggetto anche di prova testimoniale degli investigatori, rientrante nei poteri di controllo datoriale, in quanto esercitata in luoghi pubblici, ove è stato accertato che, per alcuni giorni, il lavoratore aveva adottato un comportamento illecito, suscettibile altresì di rilievo penale o, comunque, idoneo a raggirare il datore di lavoro e a ledere non solo il patrimonio aziendale ma anche l’immagine e la reputazione dell’azienda all’esterno.
4.1. Deve, pertanto, ritenersi corretto il riferimento dei giudici di seconde cure al fatto che, nel caso in esame, il controllo non era diretto a verificare le modalità di adempimento dell’obbligazione lavorativa, bensì il compimento di atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione contrattuale.
- Infine, va richiamato il consolidato orientamento di questa Corte (ex plurimis, Cass. n. 22626 del 2003; Cass. n. 13906 del 2013; Cass. n. 6893 del 2018), secondo cui la pubblicizzazione del Codice disciplinare mediante affissione non è condizione indefettibile dell’azione disciplinare, allorquando vi sia violazione del c.d. minimo etico, in quanto la funzione della pregressa previsione in un testo che sia affisso o pubblicato nelle forme del caso non è quella di fondare in assoluto il potere disciplinare (in sé basato sul disposto dell’art. 2106 c.c.e sul richiamo di esso alle norme, di formulazione ampia e generale, di cui agli artt. 2104e 2105 c.c.), ma è invece quella di predisporre e regolare le sanzioni rispetto a fatti di diversa caratura, la cui mancata previsione potrebbe far ritenere che la reazione datoriale risponda a criteri repressivi che inopinatamente valorizzino ex post e strumentalmente taluni comportamenti del lavoratore; detta esigenza non ricorre nei casi in cui la gravità assoluta derivi dal contrasto con il predetto “minimo etico”, proprio perché il lavoratore, come reiteratamente affermato in tali evenienze, non può non percepire ex ante che il proprio comportamento sia illecito e tale da pregiudicare anche il rapporto di lavoro in essere.