Corte costituzionale, sentenza 31 gennaio 2019, n.14
Ricorre l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale per aberratio ictus quante volte sia erroneamente individuata dal giudice rimettente la norma in riferimento alla quale sono formulate le censure di illegittimità costituzionale, mentre la solo imprecisa indicazione della disposizione indubbiata non inficia di per sé l’ammissibilità della questione stessa, ove questa Corte sia posta in grado di individuare «il contesto normativo effettivamente impugnato (alla stregua del contenuto delle censure formulate nella stessa ordinanza di rinvio)» (sentenza n. 176 del 1992).
Quando la disposizione censurata (come nel caso di specie) pone regole destinate a disciplinare l’esercizio del diritto all’astensione degli avvocati dalle udienze, spiegando pertanto un effetto diretto sull’esercizio dell’attività giurisdizionale, trova applicazione il criterio, più volte affermato dalla Corte, secondo cui «come la giurisprudenza costituzionale ha costantemente affermato, “il principio del buon andamento della pubblica amministrazione, pur essendo riferibile agli organi dell’amministrazione della giustizia, attiene esclusivamente alle leggi concernenti l’ordinamento degli uffici giudiziari ed il loro funzionamento sotto l’aspetto amministrativo; mentre tale principio è estraneo all’esercizio della funzione giurisdizionale” (sentenza n. 174 del 2005; ordinanza n. 44 del 2006)» (sentenza n. 272 del 2008; nello stesso senso, più recentemente, sentenze n. 91 del 2018 e n. 65 del 2014). Non può pertanto essere invocato a parametro di costituzionalità l’art.97 della Costituzione.
Va ribadito (sentenze n. 180 del 2018 e n. 171 del 1996) che «l’astensione dalle udienze degli avvocati e procuratori è manifestazione incisiva della dinamica associativa volta alla tutela di questa forma di lavoro autonomo», in relazione alla quale è identificabile, più che una mera facoltà di rilievo costituzionale, un vero e proprio diritto di libertà, palesandosi nondimeno necessario un bilanciamento con altri valori costituzionali meritevoli di tutela, tenendo conto che l’art. 1, secondo comma, lettera a), della legge 146 del 1990 indica fra i servizi pubblici essenziali «l’amministrazione della giustizia, con particolare riferimento ai provvedimenti restrittivi della libertà personale ed a quelli cautelari ed urgenti nonché ai processi penali con imputati in stato di detenzione». Tale bilanciamento è realizzato, da una parte, quanto alla disciplina primaria, dal censurato art. 2, comma 5, che prescrive che il preavviso di astensione collettiva non può essere inferiore a dieci giorni e che nella relativa comunicazione deve essere indicata altresì una durata compatibile con la tutela dei diritti fondamentali, sì da garantire le prestazioni indispensabili, nonché ben determinata con la fissazione del termine iniziale e finale; d’altra parte, trovano applicazione le ulteriori più specifiche prescrizioni dettate dal codice di autoregolamentazione, che ha natura di normativa subprimaria (sentenza n. 180 del 2018) e che è stato ritenuto idoneo dalla Commissione di garanzia per lo sciopero nei servizi pubblici essenziali con la citata delibera del 13 dicembre 2007; in particolare, l’art. 2, comma 4, del codice di autoregolamentazione prevede innanzi tutto che «[c]iascuna proclamazione deve riguardare un unico periodo di astensione» e deve essere preceduta da un preavviso minimo di dieci giorni; inoltre, il comma 1 dell’art. 4 prescrive che tra la proclamazione e l’effettuazione dell’astensione non può intercorrere un periodo superiore a sessanta giorni; con questa perimetrazione resta tipizzata la fattispecie di legittima astensione collettiva: una singola proclamazione seguita a breve – non prima di dieci giorni e non dopo sessanta giorni – da un unico (e quindi continuativo) periodo di astensione. La circostanza, poi, che distinte proclamazioni di astensione collettiva, in sequenza temporale, siano riferibili a uno stesso stato di agitazione della categoria non rileva di per sé, essendo ben possibile il progressivo aggiustamento dell’azione di contrasto posta in essere dalla categoria per conseguire (dal Governo o dal legislatore) il risultato cui essa mira; la possibile ripetizione dell’astensione collettiva trova comunque un limite nella più articolata modulazione temporale prevista dal codice di autoregolamentazione, il cui art. 2, comma 4, prescrive che l’astensione non può superare otto giorni consecutivi, con l’esclusione dal computo della domenica e degli altri giorni festivi; Inoltre, con riferimento a ciascun mese solare, non può comunque essere superata la durata di otto giorni, anche se si tratta di astensioni aventi a oggetto questioni e temi diversi; in ogni caso tra il termine finale di un’astensione e l’inizio di quella successiva deve intercorrere un intervallo di almeno quindici giorni. Il limite mensile massimo di otto giorni e l’intervallo minimo di quindici giorni riguardano appunto la possibile sequenza di altrettante distinte proclamazioni riferite a singoli intervalli di astensione collettiva. La circostanza che una singola proclamazione (come quella che in concreto rileva nel giudizio a quo), risulti preceduta da altre, nel contesto di uno stesso stato di agitazione della categoria, e possa essere seguita da altre analoghe comporta che, oltre al limite del preavviso minimo di dieci giorni (e massimo di sessanta), devono essere rispettati anche gli altri due limiti concorrenti: la durata complessiva (per sommatoria) non superiore a otto giorni nel mese e l’intervallo non inferiore a quindici giorni tra il termine finale di un’astensione e l’inizio di quella successiva. Inoltre, l’art. 4, comma 4-quater, della legge n. 146 del 1990 – disposizione espressamente applicabile anche nei casi di astensione collettiva di cui all’art. 2-bis e quindi anche a quella degli avvocati – prevede, innanzi alla Commissione di garanzia, l’attivazione del «procedimento di valutazione del comportamento delle organizzazioni sindacali» che proclamano lo sciopero o vi aderiscono; l’intervento della Commissione può inoltre essere sollecitato dalla «richiesta delle parti interessate, delle associazioni degli utenti rappresentative ai sensi della legge 30 luglio 1998, n. 281, delle autorità nazionali o locali che vi abbiano interesse», ma può altresì essere promosso a iniziativa della Commissione stessa, in ipotesi anche a seguito di segnalazione dello stesso giudice che abbia fissato il processo per un giorno poi risultato ricadente nel periodo di astensione collettiva; disposizione questa che può venire in rilievo proprio nell’evenienza estrema di una sequenza molto prolungata di ripetute astensioni collettive, come temuto dalla Corte d’appello rimettente, che prefigura, in astratto, la possibilità che in un anno potrebbero esserci plurimi periodi di astensione collettiva fino a oltre un terzo di tutte le giornate lavorative; la Commissione sarebbe così chiamata a valutare – o rivalutare – l’idoneità delle prescrizioni del codice di autoregolamentazione con riferimento a una fattispecie siffatta, ove mai in ipotesi ricorrente (art. 13 della legge n. 146 del 1990); rimane, infine, come clausola di chiusura, l’attivazione, anche su segnalazione della Commissione, del potere pubblico di ordinanza, ai sensi dell’art. 8 della legge n. 146 del 1990 – di cui parimenti è prevista espressamente l’applicazione a forme di astensione collettiva di lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori –, «[q]uando sussista il fondato pericolo di un pregiudizio grave e imminente ai diritti della persona costituzionalmente tutelati di cui all’articolo 1». Questa complessiva rete di protezione – da una parte, i limiti (di legge e autoregolamentari), che valgono in generale, e, dall’altra, anche il possibile intervento della Commissione di garanzia e, nei casi estremi, del potere pubblico – assicura la congruità del bilanciamento, in riferimento agli evocati parametri, tra il diritto degli avvocati di astensione collettiva e la tutela dei diritti costituzionalmente garantiti, di cui all’art. 1 della legge n. 146 del 1990, per la protezione dei quali devono essere erogate in ogni caso le prestazioni indispensabili.
Va dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 1, 2 e 5, della legge 12 giugno 1990, n. 146 (Norme sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge), come modificata dalla legge 11 aprile 2000, n. 83 (Modifiche ed integrazioni della legge 12 giugno 1990, n. 146, in materia di esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e di salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati), sollevate, in riferimento all’art. 97 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Venezia con l’ordinanza indicata in epigrafe; vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 1, 2 e 5, della legge n. 146 del 1990, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., quest’ultimo anche in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Corte d’appello di Venezia con l’ordinanza pertinente.