<p style="font-weight: 400; text-align: justify;"></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong>CORTE COSTITUZIONALE – sentenza 9 marzo 2020 n. 44</strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong><em>Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 22, comma 1, lettera b), della legge della Regione Lombardia 8 luglio 2016, n. 16 (Disciplina regionale dei servizi abitativi), limitatamente alle parole «per almeno cinque anni nel periodo immediatamente precedente la data di presentazione della domanda».</em></strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong><em>TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE</em></strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>2.– Le eccezioni di inammissibilità sollevate dalla Regione Lombardia sono infondate.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Quanto alla prima – che fa leva sull’affermata identità della questione rispetto a quella già decisa dall’ordinanza n. 32 del 2008 – è pacifico che una precedente dichiarazione di infondatezza non è causa di inammissibilità della questione riproposta ma può, eventualmente, condurre a una dichiarazione di manifesta infondatezza (ex multis, sentenze n. 160 del 2019 e n. 99 del 2017).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Con la seconda eccezione la Regione lamenta il difetto di rilevanza derivante dal fatto che, al momento del rigetto della domanda di alloggio di M. K., il regolamento censurato nel giudizio a quo (regolamento regionale 4 agosto 2017, n. 4, recante «Disciplina della programmazione dell’offerta abitativa pubblica e sociale e dell’accesso e della permanenza nei servizi abitativi pubblici») non era ancora vigente. In realtà, il giudice a quo dà conto in modo plausibile dell’interesse ad agire di M. K., la cui domanda di alloggio era stata archiviata per mancanza del requisito in questione, e sottolinea che, a causa del regolamento regionale n. 4 del 2017 e della norma legislativa censurata, M.K. «non potrebbe accedere ai servizi abitativi pubblici»: da ciò consegue la rilevanza della questione concernente l’art. 22, comma 1, lettera b), della legge reg. Lombardia n. 16 del 2016.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La Regione erra poi nell’affermare che l’unica posizione dedotta nel giudizio a quo è la richiesta di alloggio di M. K. Il giudizio stesso è stato promosso infatti anche da due associazioni (ASGI e NAGA), che hanno proposto l’azione collettiva prevista all’art. 5 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215 (Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica), diretta principalmente a far accertare il carattere discriminatorio del regolamento regionale n. 4 del 2017. Il rimettente argomenta dunque in modo plausibile sulla rilevanza – nel giudizio a quo – della questione di costituzionalità relativa all’art. 22, comma 1, lettera b), della legge reg. Lombardia n. 16 del 2016, sottolineando come tale disposizione contempli il requisito di residenza (o occupazione) protratta previsto anche nel regolamento regionale.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Nemmeno la terza eccezione, avente ad oggetto un supposto difetto di rilevanza sotto altri profili, è fondata. In primo luogo non è sostenibile che, come invece afferma la Regione, la questione di costituzionalità sia stata posta in via principale nei confronti di una norma regolamentare. Il giudizio a quo aveva ad oggetto il regolamento regionale e, nel corso di esso, il Tribunale ha sollevato questione di legittimità costituzionale della norma che, del regolamento, costituisce la base legislativa e che, per tale ragione, nel giudizio stesso trova applicazione. Il rimettente ha rispettato, dunque, sia il requisito dell’incidentalità, sia il divieto di sottoporre a questa Corte atti regolamentari.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In secondo luogo, il rimettente ha argomentato in modo plausibile sulla propria giurisdizione, respingendo l’eccezione sollevata dalla Regione nel giudizio a quo. Nell’ordinanza è citata la sentenza della Cassazione civile, sezioni unite, 30 marzo 2011, n. 7186, in base alla quale le norme che vietano le discriminazioni, affidando al giudice ordinario la tutela processuale del divieto, configurano «una specifica posizione di diritto soggettivo, e specificamente un diritto qualificabile come “diritto assoluto” in quanto posto a presidio di una area di libertà e potenzialità del soggetto, rispetto a qualsiasi tipo di violazione della stessa». Gli argomenti contenuti in tale pronuncia, sia pure precedente alle novità introdotte dal decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), conservano la loro validità, perché le modifiche apportate da tale decreto non hanno inciso sulle norme in base alle quali l’azione antidiscriminazione è esperibile anche in relazione ad atti amministrativi (art. 3, comma 1, del medesimo decreto, in base al quale il principio di parità di trattamento si applica anche «nel settore pubblico […] con specifico riferimento alle seguenti aree […]: i) accesso a beni e servizi, incluso l’alloggio»; art. 4, comma 7, del medesimo decreto, che fa «salva la giurisdizione del giudice amministrativo» solo «per il personale di cui all’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165», cioè per il personale in regime di diritto pubblico; art. 44, comma 1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, recante «Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero», in base al quale l’azione antidiscriminazione si può esercitare anche contro le condotte della pubblica amministrazione). Lo stesso art. 28, comma 5, del d. lgs. n. 150 del 2011 (richiamato dall’art. 4, comma 1 del d.lgs. n. 215 del 2003 e dall’art. 44, comma 2, t.u. immigrazione), del resto, conferma che il giudice ordinario può ordinare anche alla pubblica amministrazione la cessazione della condotta discriminatoria.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Tutto quanto esposto è sufficiente a respingere l’eccezione della Regione, dal momento che, «secondo la giurisprudenza costituzionale, la <strong>sussistenza della giurisdizione</strong> costituisce un <strong>presupposto</strong> della <strong>legittima instaurazione del processo principale</strong>, la cui valutazione <strong>è rimessa al giudice a quo</strong>, rispetto al quale spetta a questa Corte una verifica esterna e strumentale al riscontro della rilevanza della questione» (sentenza n. 52 del 2018; si veda anche, ex multis, la sentenza n. 128 del 2019), e dunque solo una valutazione di non implausibilità.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Non è fondata, infine, nemmeno la quarta eccezione, con cui la Regione ha contestato la legittimazione delle due associazioni, ASGI e NAGA, attrici nel giudizio a quo. In realtà, il giudice rimettente ha riferito che esse avevano agito ai sensi dell’art. 5 del d. lgs. n. 215 del 2003, in base al quale «[l]e associazioni e gli enti inseriti nell’elenco di cui al comma 1 sono, altresì, legittimati ad agire ai sensi degli articoli 4 e 4-bis nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione». Motivazione che risulta sufficiente e plausibile, ai fini della verifica della rilevanza delle questioni, considerato anche il fatto che nel giudizio a quo la Regione non aveva contestato la legittimazione di ASGI e NAGA, ma solo quella della CGIL Lombardia.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Né si può affermare che le questioni siano ictu oculi irrilevanti in applicazione dell’art. 3, comma 2, del d. lgs. n. 215 del 2003 («Il presente decreto legislativo non riguarda le differenze di trattamento basate sulla nazionalità […]»), che impedirebbe alle associazioni di censurare (come hanno fatto) una discriminazione indiretta degli stranieri, in quanto si tratterebbe di una differenza di trattamento basata sulla nazionalità. Infatti, sulla base di un’interpretazione sistematica delle disposizioni vigenti in materia, la Cassazione ha statuito che «[n]elle discriminazioni collettive in ragione del fattore della nazionalità (D.Lgs. n. 215 del 2003, ex artt. 2 e 4, e art. 43 TU 286/1998) sussiste la legittimazione ad agire in capo alle associazioni ed agli enti previsti nel D.Lgs. n. 215 del 2003, art. 5» (Cassazione, sezione lavoro, n. 11165 del 2017, ribadita da Cassazione, sezione lavoro, n. 28745 del 2019).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La quinta eccezione – secondo cui il giudice a quo avrebbe dovuto censurare anche il decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3, recante «Attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo», in quanto esso sarebbe «il presupposto della normativa regionale» – e la sesta – con cui è invocata la «competenza esclusiva della Corte di giustizia dell’Ue sull’interpretazione delle fonti del diritto Ue» – attengono specificamente alla terza questione sollevata dal rimettente (violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 11 della direttiva 2003/109/CE) e saranno dunque esaminate in seguito, insieme alla questione cui si collegano.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>3.– Nel merito, la prima questione – posta con riferimento all’art. 3, primo e secondo comma, Cost. – è fondata.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Come questa Corte ha affermato da lungo tempo e costantemente, il <strong>diritto all’abitazione</strong> «rientra fra i <strong>requisiti essenziali caratterizzanti la socialità</strong> cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione» ed è compito dello Stato garantirlo, contribuendo così «a che la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto <strong>l’immagine universale della dignità umana</strong>» (sentenza n. 217 del 1988; nello stesso senso sentenze n. 106 del 2018, n. 168 del 2014, n. 209 del 2009 e n. 404 del 1988). Benché non espressamente previsto dalla Costituzione, tale diritto deve dunque ritenersi <strong>incluso nel catalogo dei diritti inviolabili</strong> (fra le altre, sentenze n. 161 del 2013, n. 61 del 2011 e n. 404 del 1988 e ordinanza n. 76 del 2010) e il suo oggetto, l’abitazione, deve considerarsi «bene di primaria importanza» (sentenza n. 166 del 2018; si vedano anche le sentenze n. 38 del 2016, n. 168 del 2014 e n. 209 del 2009).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>L’edilizia residenziale pubblica è diretta ad assicurare in concreto il soddisfacimento di questo bisogno primario, perché serve a «“garantire un’abitazione a soggetti economicamente deboli nel luogo ove è la sede dei loro interessi” (sentenza n. 176 del 2000), al fine di assicurare <strong>un’esistenza dignitosa</strong> a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti (art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), mediante un <strong>servizio pubblico</strong> deputato alla “provvista di alloggi per i lavoratori e le famiglie meno abbienti”» (sentenza n. 168 del 2014). L’edilizia residenziale pubblica rientra dunque nell’ambito dei «<strong>servizi sociali</strong>» di cui all’art. 1, comma 2, della legge 8 novembre 2000, n. 328 (Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali), e all’art. 128, comma 2, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La stessa legge regionale lombarda censurata, del resto, dispone che il sistema regionale dei servizi abitativi ha il «fine di soddisfare il fabbisogno abitativo primario e di ridurre il disagio abitativo dei nuclei familiari, nonché di particolari categorie sociali in condizioni di svantaggio» (art. 1, comma 1, della legge reg. Lombardia n. 16 del 2016) e richiama (all’art. 1, comma 3) gli «alloggi sociali» di cui al decreto del Ministero delle Infrastrutture 22 aprile 2008 (Definizione di alloggio sociale ai fini dell’esenzione dall’obbligo di notifica degli aiuti di Stato, ai sensi degli articoli 87 e 88 del Trattato istitutivo della Comunità europea).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>3.1.– Ciò premesso, si può passare ad esaminare l’art. 22, comma 1, lettera b), della legge reg. Lombardia n. 16 del 2016, il quale stabilisce che tutti i potenziali beneficiari dell’edilizia residenziale pubblica (di seguito, ERP), indicati nella lettera a) (cittadini italiani o di uno Stato dell’Unione europea ovvero stranieri titolari di permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo o stranieri regolarmente soggiornanti in possesso di permesso di soggiorno almeno biennale e che esercitano una regolare attività di lavoro subordinato o di lavoro autonomo ai sensi dell’articolo 40, comma 6, t.u. immigrazione), devono soddisfare il seguente requisito: «<strong>residenza anagrafica</strong> o <strong>svolgimento di attività lavorativa</strong> in Regione Lombardia per almeno cinque anni nel periodo immediatamente precedente la data di presentazione della domanda».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Questa Corte ha più volte affermato che i criteri adottati dal legislatore per la selezione dei beneficiari dei servizi sociali devono presentare <strong>un collegamento con la funzione del servizio</strong> (ex plurimis, sentenze n. 166 e n. 107 del 2018, n. 168 del 2014, n. 172 e n. 133 del 2013 e n. 40 del 2011). Il giudizio sulla sussistenza e sull’adeguatezza di tale collegamento – fra finalità del servizio da erogare e caratteristiche soggettive richieste ai suoi potenziali beneficiari – è operato da questa Corte secondo la struttura tipica del sindacato svolto ai sensi dell’art. 3, primo comma, Cost., che muove dall’identificazione della ratio della norma di riferimento e passa poi alla verifica della coerenza con tale ratio del filtro selettivo introdotto.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Nel caso in esame, l’esito di tale verifica conduce a <strong>conclusioni di irragionevolezza</strong> del requisito della residenza ultraquinquennale previsto dalla norma censurata come condizione di accesso al beneficio dell’alloggio ERP. Se infatti non vi è dubbio che la ratio del servizio è il soddisfacimento del bisogno abitativo, è agevole constatare che la condizione di previa residenza protratta dei suoi destinatari non presenta con esso alcuna ragionevole connessione (sentenze n. 166 del 2018 e n. 168 del 2014). Parallelamente, l’esclusione di coloro che non soddisfano il requisito della previa residenza quinquennale nella regione determina conseguenze incoerenti con quella stessa funzione.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Mentre si possono immaginare requisiti di accesso sicuramente coerenti con la funzione – l’esclusione dal servizio, ad esempio, dei soggetti che <strong>dispongono già di un proprio alloggio idoneo</strong> si pone in linea con la sua ratio, che è appunto quella di dotare di un alloggio chi ne è privo – risulta con essa incongrua l’esclusione di coloro che <strong>non abbiano risieduto nella regione nei cinque anni precedenti</strong> la domanda di alloggio, non essendo tale requisito rivelatore di alcuna condizione rilevante in funzione del bisogno che il servizio tende a soddisfare. Il requisito stesso si risolve così semplicemente in una soglia rigida che porta a negare l’accesso all’ERP a prescindere da qualsiasi valutazione attinente alla situazione di bisogno o di disagio del richiedente (quali ad esempio condizioni economiche, presenza di disabili o di anziani nel nucleo familiare, numero dei figli). Ciò è incompatibile con il concetto stesso di <strong>servizio sociale</strong>, come servizio <strong>destinato prioritariamente ai soggetti economicamente deboli</strong> (sentenza n. 107 del 2018, che cita l’art. 2, comma 3, della legge n. 328 del 2000).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Non è idoneo a superare la descritta incoerenza l’argomento speso dalla Regione a difesa della norma, secondo cui il requisito della residenza protratta per più di cinque anni servirebbe «a garantire un’adeguata stabilità nell’ambito della regione prima della concessione dell’alloggio» di edilizia residenziale pubblica, cioè di un «beneficio di carattere continuativo». La previa residenza ultraquinquennale non è di per sé indice di un’elevata probabilità di permanenza in un determinato ambito territoriale, mentre a tali fini risulterebbero ben più significativi altri elementi sui quali si può ragionevolmente fondare una prognosi di stanzialità. In altri termini, la rilevanza conferita a una condizione del passato, quale è la residenza nei cinque anni precedenti, non sarebbe comunque oggettivamente idonea a evitare il “rischio di instabilità” del beneficiario dell’alloggio di edilizia residenziale pubblica, obiettivo che dovrebbe invece essere perseguito avendo riguardo agli indici di probabilità di permanenza per il futuro.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In ogni caso, si deve osservare che lo stesso “radicamento” territoriale, quand’anche fosse adeguatamente valutato (non con riferimento alla previa residenza protratta), non potrebbe comunque assumere importanza tale da escludere qualsiasi rilievo del bisogno. Data la funzione sociale del servizio di edilizia residenziale pubblica, è irragionevole che anche i soggetti più bisognosi siano esclusi a priori dall’assegnazione degli alloggi solo perché non offrirebbero sufficienti garanzie di stabilità. La prospettiva della stabilità <strong>può rientrare tra gli elementi da valutare</strong> in sede di <strong>formazione della graduatoria</strong> – e del resto la stessa legge regionale censurata dà rilievo, ai fini della graduatoria, al «periodo di residenza nel comune dove è localizzata l’unità abitativa da assegnare» e alla «durata del periodo di residenza in Regione» (art. 23, comma 10, lettera d) – ma non può costituire una <strong>condizione di generalizzata esclusione</strong> dall’accesso al servizio, giacché ne risulterebbe negata in radice la funzione sociale dell’edilizia residenziale pubblica.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Questa Corte ha già osservato che, «a differenza del requisito della residenza tout court (che serve a identificare l’ente pubblico competente a erogare una certa prestazione ed è un requisito che ciascun soggetto può soddisfare in ogni momento), quello della residenza protratta integra una condizione che può precludere in concreto a un determinato soggetto l’accesso alle prestazioni pubbliche sia nella regione di attuale residenza sia in quella di provenienza (nella quale non è più residente)», con la conseguenza che le norme che introducono tale requisito vanno «vagliate con particolare attenzione, in quanto implicano il rischio di <strong>privare certi soggetti dell’accesso alle prestazioni pubbliche</strong> solo per il fatto di aver esercitato il proprio diritto di circolazione o di aver dovuto mutare regione di residenza» (sentenza n. 107 del 2018).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>3.2.– Le considerazioni svolte sopra con riferimento al requisito della residenza protratta valgono in larga parte anche per l’altro requisito previsto dalla norma censurata («svolgimento di attività lavorativa in Regione Lombardia per almeno cinque anni nel periodo immediatamente precedente la data di presentazione della domanda») in alternativa a quello della residenza ultraquinquennale.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Nemmeno la condizione di previa occupazione protratta presenta infatti alcuna ragionevole connessione con la ratio dell’ERP. Inoltre, se è vero che l’attuale svolgimento di attività lavorativa nella regione può essere considerato un ragionevole indice di collegamento con il territorio, è innegabile che configurare l’occupazione ultraquinquennale come soglia rigida di accesso significa negare qualsiasi rilievo al bisogno nella concessione del beneficio, e anzi comporta la sua negazione proprio ai soggetti economicamente più deboli, in contraddizione con la funzione sociale del servizio.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>3.3.– In conclusione, l’art. 22, comma 1, lettera b), della legge reg. Lombardia n. 16 del 2016, nella parte in cui fissa il requisito della residenza (o dell’occupazione) ultraquinquennale in regione come condizione di accesso al beneficio dell’alloggio di edilizia residenziale pubblica, contrasta sia con i principi di eguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3, primo comma, Cost., perché produce una irragionevole disparità di trattamento a danno di chi, cittadino o straniero, non ne sia in possesso, sia con il principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, Cost., perché tale requisito contraddice la funzione sociale dell’edilizia residenziale pubblica.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>4.– A seguito dell’accoglimento della prima censura, le questioni poste con riferimento all’art. 10, terzo comma, e all’art. 117, primo comma, Cost. restano assorbite, unitamente alle relative eccezioni di inammissibilità.</em></p>