<p style="font-weight: 400; text-align: justify;"></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong>Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 22 luglio 2019 n. 19681</strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong><em>PRINCIPIO DI DIRITTO</em></strong><em>: in tema di rapporti tra il diritto alla riservatezza (nella relativa, particolare connotazione del c.d. diritto all’oblio) e il diritto alla rievocazione storica di fatti e vicende concernenti eventi del passato, il giudice di merito - ferma restando la libertà della scelta editoriale in ordine a tale rievocazione, che è espressione della libertà di stampa e di informazione protetta e garantita dall’art. 21 Cost. - ha il compito di valutare l’interesse pubblico, concreto ed attuale alla menzione degli elementi identificativi delle persone che di quei fatti e di quelle vicende furono protagonisti. Tale menzione deve ritenersi lecita solo nell’ipotesi in cui si riferisca a personaggi che destino nel momento presente l’interesse della collettività, sia per ragioni di notorietà che per il ruolo pubblico rivestito; in caso contrario, prevale il diritto degli interessati alla riservatezza rispetto ad avvenimenti del passato che li feriscano nella dignità e nell’onore e dei quali si sia ormai spenta la memoria collettiva (nella specie, un omicidio avvenuto ventisette anni prima, il cui responsabile aveva scontato la relativa pena detentiva, reinserendosi poi positivamente nel contesto sociale).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>L’ordinanza interlocutoria chiarisce, innanzitutto, che l’esame dei motivi di ricorso impone di affrontare il problema del bilanciamento tra il diritto di cronaca, posto al servizio dell’interesse pubblico all’informazione, e il diritto all’oblio, finalizzato alla tutela della riservatezza della persona; ed aggiunge che, in considerazione della specifica concreta vicenda, non viene in esame il problema del diritto all’oblio connesso con la realizzazione di archivi di notizie digitalizzati e fruibili direttamente </em>on line<em>. Tanto premesso, l’ordinanza rammenta che il diritto di cronaca, per pacifica e risalente acquisizione della giurisprudenza sia civile che penale, è un diritto pubblico soggettivo fondato sulla previsione dell’art. 21 Cost., che sancisce il principio della libera manifestazione del pensiero e della libertà di stampa. Tale diritto non è, peraltro, senza limiti, come la giurisprudenza ha da tempo riconosciuto, indicando la necessità della sussistenza di tre condizioni, costituite dall’utilità sociale dell’informazione, della verità oggettiva o anche solo putativa dei fatti e della forma civile dell’esposizione, che deve essere sempre rispettosa della dignità della persona. Il diritto all’oblio "</em>è collegato, in coppia dialettica, al diritto di cronaca<em>", posto che esso sussiste quando "</em>non vi sia più un’apprezzabile utilità sociale ad informare il pubblico; ovvero la notizia sia diventata "falsa" in quanto non aggiornata o, infine, quando l’esposizione dei fatti non sia stata commisurata all’esigenza informativa ed abbia arrecato un vulnus alla dignità dell’interessato<em>". Richiamate alcune pronunce della Terza Sezione Civile, l’ordinanza interlocutoria osserva che il diritto all’oblio è stato oggetto di alcune recenti pronunce della Prima Sezione Civile le quali hanno riconosciuto, a determinate condizioni, la prevalenza del medesimo sul diritto all’informazione. In particolare, l’ordinanza interlocutoria si sofferma sui principi enunciati dall’ordinanza 20 marzo 2018, n. 6919, la quale ha affermato che il diritto all’oblio può essere recessivo, rispetto al diritto di cronaca, solo in presenza di determinate condizioni, fra le quali il contributo arrecato dalla diffusione della notizia ad un dibattito di interesse pubblico, l’interesse effettivo ed attuale alla diffusione, la grande notorietà del soggetto rappresentato, le modalità in concreto impiegate e la preventiva informazione dell’interessato finalizzata a consentirgli il diritto di replica prima della divulgazione. D’altra parte, la materia è stata oggetto anche di un recente intervento della legislazione Europea, con il Regolamento UE n. 2016/679, il cui art. 17 prevede che, a determinate condizioni, l’interessato abbia diritto a chiedere la rimozione dei dati personali che lo riguardano e che siano stati resi pubblici. Rileva l’ordinanza, in conclusione, come paia "</em>ormai indifferibile l’individuazione di univoci criteri di riferimento che consentano agli operatori del diritto (ed ai consociati) di conoscere preventivamente i presupposti in presenza dei quali un soggetto ha diritto di chiedere che una notizia, a sé relativa, pur legittimamente diffusa in passato, non resti esposta a tempo indeterminato alla possibilità di nuova divulgazione<em>".</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La materia in questione, come rileva l’ordinanza interlocutoria, viene ad intrecciarsi con un complesso quadro normativo che involge sia la normativa nazionale che quella Europea. Imprescindibile punto di partenza sono le disposizioni della nostra Costituzione e, in particolare, gli artt. 2, 3 e 21 della medesima, che hanno ad oggetto i diritti inviolabili, la tutela della persona, il principio di uguaglianza e il diritto di cronaca inteso, secondo la formula costituzionale, come "</em>diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero<em>". Deve poi essere richiamata, anche solo nei relativi punti essenziali, la normativa interna contenuta nella legislazione ordinaria: la L. 8 febbraio 1948, n. 47, sulla stampa, le norme del codice penale sulla diffamazione e quelle sulla tutela della riservatezza (originariamente contenute nella L. 31 dicembre 1996, n. 675, e oggi trasfuse nel codice in materia di dati personali di cui al D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196); così come vanno menzionate altre fonti che hanno una grande importanza nel caso odierno, e cioè il codice di deontologia relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica (emanato per la prima volta in data 29 luglio 1998 con provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali e poi in ultimo ribadito con il recente provvedimento del 29 novembre 2018 della medesima Autorità, sulla scia delle numerose modifiche introdotte dal D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101). Deve essere poi citato anche il Testo unico dei doveri del giornalista che il Consiglio nazionale dell’ordine ha approvato in data 27 gennaio 2016, il quale contiene una serie di preziose indicazioni sulle quali in seguito si tornerà. La normativa interna va poi letta in coordinamento con quella sovranazionale. In particolare, l’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata nel nostro Paese con la L. 4 agosto 1955, n. 848, dispone che ogni persona "</em>ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza<em>"; l’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nel ribadire la formula del citato art. 8, sostituisce al termine "</em>corrispondenza<em>" quello più moderno di "</em>comunicazioni<em>", mentre l’art. 8 della medesima Carta prevede il diritto di ogni persona "</em>alla protezione dei dati di carattere personale che la riguardano<em>" e dispone che tali dati siano trattati "</em>secondo il principio di lealtà<em>", sotto il controllo di un’autorità indipendente. Ed anche l’art. 16 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, nella versione consolidata risultante dal Trattato di Lisbona, prevede il diritto di ogni persona "</em>alla protezione dei dati di carattere personale che la riguardano<em>". Assai di recente, infine, l’Unione Europea è tornata ad occuparsi della materia emanando il Regolamento 2016/679/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio, che ha ad oggetto la "</em>protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati<em>", atto che abroga la precedente direttiva 95/46/CE e che contiene, nel suo art. 17, un preciso riferimento al diritto alla "</em>cancellazione<em>" (tra parentesi definito come "</em>diritto all’oblio<em>"). Tale Regolamento ha reso necessaria l’emanazione del citato D.Lgs. n. 101 del 2018.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Giova premettere, nelle relative linee essenziali, una rapida panoramica dell’evoluzione della giurisprudenza sull’argomento. È opportuno considerare che i limiti al corretto esercizio del diritto di cronaca sono stati fissati, almeno nelle linee fondamentali, già in un’epoca ormai lontana (v., tra tutte, la nota sentenza 18 ottobre 1984, n. 5259, contenente il c.d. decalogo del giornalista). Il diritto all’oblio, invece, che aveva dato luogo ad alcune famose pronunce in altri Stati (</em>leading cases<em>) e che era stato affrontato, sia pure per una vicenda molto particolare, nella sentenza 13 maggio 1958, n. 1563 (per il caso del Questore di Roma coinvolto nella strage delle Fosse Ardeatine), ha fatto la propria comparsa "</em>ufficiale<em>", se così può dirsi, nella sentenza 9 aprile 1998, n. 3679. In quell’occasione la Corte - richiamando la propria precedente elaborazione sul diritto di cronaca e, in particolare, sottolineando l’importanza rivestita dalla "</em>attualità della notizia<em>" - ebbe ad evidenziare l’emergere di un "</em>nuovo profilo del diritto alla riservatezza, recentemente definito anche come diritto all’oblio, inteso come giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente divulgata<em>"; e già in quel caso la sentenza aggiunse che "</em>quando il fatto precedente per altri eventi sopravvenuti ritorna di attualità, rinasce un nuovo interesse pubblico all’informazione, non strettamente legato alla contemporaneità tra divulgazione e fatto pubblico<em>". La sentenza qui richiamata, quindi, nel far rientrare il diritto all’oblio nell’ambito della più vasta categoria del diritto alla riservatezza (già individuato dalla giurisprudenza di questa Corte a partire dal noto caso di cui alla sentenza 27 maggio 1975, n. 2129), fece comprendere che il primo si differenzia dal secondo perché ha ad oggetto il diritto della persona a che certe notizie, già a suo tempo diffuse, non vengano ulteriormente diffuse a distanza di tempo. La giurisprudenza successiva è tornata più volte sul rapporto esistente tra il diritto di cronaca e il diritto alla riservatezza, anche senza fare riferimento al diritto all’oblio. La sentenza 9 giugno 1998, n. 5658, dopo aver riconosciuto il fondamento costituzionale del diritto alla riservatezza (art. 2 Cost.), osservò che esso ha un contenuto più ampio del diritto alla reputazione e che, nel bilanciamento con il diritto di cronaca, è recessivo a condizione che ricorrano tre condizioni, costituite dalla utilità sociale della notizia, dalla verità dei fatti divulgati e dalla forma civile dell’espressione. In tempi più recenti, la sentenza 24 aprile 2008, n. 10690, ha ricordato che "</em>il diritto alla riservatezza, il quale tutela l’esigenza della persona a che i fatti della sua vita privata non siano pubblicamente divulgati, è confluito nel diritto alla protezione dei dati personali a seguito della disciplina contenuta nella L. 31 dicembre 1996, n. 675<em>"; dopo aver chiarito che la relativa violazione è fonte di illecito civile ai sensi dell’art. 2 Cost., la sentenza ha aggiunto che "</em>la libertà di stampa prevale sul diritto alla riservatezza e all’onore, purché la pubblicazione sia giustificata dalla funzione dell’informazione e sia conforme ai canoni della correttezza professionale<em>". In particolare, deve sussistere "</em>un apprezzabile interesse del pubblico alla conoscenza dei fatti privati<em>", in considerazione di finalità culturali o didattiche e, comunque, di una rilevanza sociale dei fatti stessi. In continuità con i menzionati precedenti, la Corte ha stabilito che al giornalista è consentito divulgare dati sensibili senza il consenso del titolare né l’autorizzazione del Garante per la tutela dei dati personali, a condizione che la divulgazione sia "</em>essenziale<em>" ai sensi dell’art. 6 del codice deontologico dei giornalisti, e cioè indispensabile in considerazione dell’originalità del fatto o dei modi in cui è avvenuto; valutazione che costituisce accertamento in fatto rimesso al giudice di merito (sentenza 12 ottobre 2012, n. 17408; si trattava, in quel caso, della rivelazione delle abitudini sessuali di una persona divenuta pubblicamente nota a causa di un gravissimo fatto di sangue che l’aveva vista come imputata). Occorre poi ricordare la sentenza 5 aprile 2012, n. 5525, nella quale per la prima volta la Corte è stata chiamata ad affrontare il problema dei rapporti esistenti tra le notizie già pubblicate in passato in quanto attinenti a fatti di interesse pubblico (anche in quel caso di trattava di una vicenda giudiziaria) ed il permanere delle stesse nella rete internet (nella specie, il permanere della notizia nell’archivio informatico di un grande quotidiano di rilevanza nazionale). Nel tracciare i confini di un concreto bilanciamento degli interessi tra valori contrapposti, tutti di rilevanza costituzionale, la sentenza in esame ha ribadito che se "</em>l’interesse pubblico sotteso al diritto all’informazione (art. 21 Cost.) costituisce un limite al diritto fondamentale alla riservatezza (artt. 21 e 2 Cost.), al soggetto cui i dati appartengono è correlativamente attribuito il diritto all’oblio, e cioè a che non vengano ulteriormente divulgate notizie che per il trascorrere del tempo risultino ormai dimenticate o ignote alla generalità dei consociati<em>". In quella pronuncia la Corte ha posto in luce che rispetto all’interesse del soggetto "</em>a non vedere ulteriormente divulgate notizie di cronaca che lo riguardano, si pone peraltro l’ipotesi che sussista o subentri l’interesse pubblico alla relativa conoscenza o divulgazione per particolari esigenze di carattere storico, didattico, culturale<em>"; ciò in quanto un fatto di cronaca può "</em>assumere rilevanza come fatto storico<em>", giustificando in tal modo il permanere dell’interesse della collettività alla fruizione di quel fatto. Il trascorrere del tempo, però, impone che la notizia sia anche aggiornata, posto che la relativa diffusione negli stessi termini in cui aveva avuto luogo in origine potrebbe fare sì che essa risulti "</em>sostanzialmente non vera<em>". La difficoltà di stabilire un’esatta linea di confine tra il diritto di cronaca e quello alla riservatezza inteso come diritto all’oblio è evidente nella sentenza 26 giugno 2013, n. 16111, la cui vicenda, benché molto diversa da quella oggi all’esame delle Sezioni Unite, contiene tuttavia alcuni evidenti punti di contatto. Chiamata ad esaminare il caso della pubblicazione di un articolo di giornale nel quale la vicenda personale di un ex terrorista era stata accostata al ritrovamento di un arsenale di armi in luoghi non lontani dalla residenza dello stesso, la Corte ha osservato che l’ex terrorista essendo stato condannato a pena detentiva ed avendola espiata, con conseguente faticoso reinserimento nel contesto sociale - desiderava soltanto di essere dimenticato, affinché la propria drammatica storia personale, appartenente ormai al passato, non risultasse un macigno così ingombrante da precludergli la ripresa di una vita normale. In quella sentenza la Corte, pur riconoscendo che le vicende relative ai c.d. anni di piombo "</em>appartengono certamente alla memoria storica del nostro Paese<em>", ha spiegato che "</em>ciò non si traduce nell’automatica sussistenza di un interesse pubblico alla conoscenza di eventi che non hanno più, se non in via del tutto ipotetica e non dimostrata, alcun oggettivo collegamento con quei fatti e con quell’epoca<em>". Ragione per cui "</em>la diffusione di notizie personali in una determinata epoca ed in un determinato contesto non legittima, di per sé, che le medesime vengano utilizzate molti anni dopo, in una situazione del tutto diversa e priva di ogni collegamento col passato<em>". La giurisprudenza più recente ha ulteriormente consolidato gli approdi raggiunti. E così la sentenza 6 giugno 2014, n. 12834, affrontando il problema del rapporto tra diritto di cronaca e tutela dell’immagine - si trattava, in quel caso, della pubblicazione di un articolo relativo all’esecuzione della misura degli arresti domiciliari a carico di una persona poi assolta con formula piena - ha ribadito che la pubblicazione su un quotidiano della foto di una persona in coincidenza cronologica col momento del suo arresto deve rispettare non solo le condizioni, ormai ben note, per il legittimo esercizio del diritto di cronaca, ma anche le particolari cautele imposte dalla tutela della dignità della persona, che viene colta in un frangente di particolare debolezza. La sentenza ha anche aggiunto che l’accertamento sulla legittimità della pubblicazione è indagine che va condotta caso per caso, tenendo presente la previsione dell’art. 8 del codice deontologico dei giornalisti. Da ultimo, come richiamata dall’ordinanza interlocutoria, va citata l’ordinanza 20 marzo 2018, n. 6919, nella quale la Corte, in relazione ad una vicenda molto particolare che aveva ad oggetto un noto cantante, ha cercato di ricapitolare i termini del problema, anche alla luce del suindicato Regolamento UE che nel frattempo era stato emanato. Dopo aver ricordato come l’esistenza del diritto all’oblio sia stata riconosciuta anche dalla giurisprudenza sovranazionale, la pronuncia ha osservato che il trascorrere del tempo viene a mutare il rapporto tra i contrapposti diritti; per cui, fatta eccezione per il caso di una persona che rivesta un ruolo pubblico particolare o per quello in cui la notizia mantenga nel tempo un interesse pubblico, "</em>la pubblicazione di una informazione concernente una persona determinata, a distanza di tempo da fatti ed avvenimenti che la riguardano, non può che integrare la violazione del fondamentale diritto all’oblio<em>". Interessanti contributi provengono anche dalla giurisprudenza penale. Deve essere menzionata, in particolare, la sentenza 22 giugno 2017 (3 agosto 2017), n. 38747, pronunciata in un processo per diffamazione a carico del direttore e di un giornalista di un noto quotidiano nazionale, a seguito della pubblicazione di un articolo riguardante Vittorio Emanuele di Savoia. In quella pronuncia la Corte ha rilevato che era indubbia la rilevanza pubblica della notizia rievocata (nella specie, l’uccisione di un uomo all’isola di Cavallo per mano di Vittorio Emanuele di Savoia, benché avvenuta molti anni prima), perché l’articolo era stato scritto in occasione della cerimonia di riapertura della reggia di Venaria, alla quale aveva partecipato Vittorio Emanuele di Savoia, così com’era indubbia l’esistenza di un pubblico interesse a conoscere le vicende di un soggetto che "</em>è figlio dell’ultimo re d’Italia e, secondo il suo dire, erede al trono d’Italia<em>"; per cui il diritto all’oblio doveva nella specie cedere di fronte al diritto della collettività "</em>ad essere informata e aggiornata sui fatti da cui dipende la formazione dei propri convincimenti<em>".</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Ai fini di un corretto inquadramento della vicenda odierna occorre anche dare conto di alcune pronunce che negli ultimi anni sono state emesse dalle Corti Europee. Va innanzitutto menzionata la sentenza 13 maggio 2014 della Corte di giustizia dell’Unione Europea (in causa C-131/12 Google Spain). Si tratta di una vicenda che aveva ad oggetto il problema dell’accesso ai dati esistenti sulla rete internet alla luce dell’allora vigente direttiva 95/46/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, poi abrogata, come s’è detto, dal Regolamento 2016/679/UE; in particolare, la terza questione esaminata (punti 89 e ss.) riguardava il diritto dell’interessato ad ottenere che il motore di ricerca sopprimesse determinati dati dall’elenco dei risultati reperibili sulla rete. Non è il caso di soffermarsi sui particolari del caso, ma sono importanti i principi enunciati. La Corte di giustizia ha premesso (punto 92) che il trattamento dei dati personali può risultare incompatibile con l’art. 12, lett. b), della direttiva non soltanto se i dati sono inesatti, ma anche se essi sono inadeguati, non pertinenti o eccessivi in rapporto alle finalità del trattamento, oppure non aggiornati o conservati per un arco di tempo superiore a quello necessario, "</em>a meno che la loro conservazione non si imponga per motivi storici, statistici o scientifici<em>". Ha altresì affermato la Corte che il diritto dell’interessato, derivante dagli artt. 7 e 8 della Carta, a chiedere "</em>che l’informazione in questione non venga più messa a disposizione del grande pubblico<em>" mediante la relativa inclusione in un elenco accessibile tramite internet prevale, in linea di massima, sull’interesse economico del gestore del motore di ricerca ed anche su quello del pubblico a reperire tale informazione in rete; a meno che non risultino ragioni particolari, "</em>come il ruolo ricoperto da tale persona nella vita pubblica<em>", tali da rendere preponderante e giustificato l’interesse del pubblico ad avere accesso a tale informazione (punto 97). Risolvendo il caso specifico - nel quale l’attore aveva chiesto l’eliminazione del dato che collegava la sua persona ad un pignoramento effettuato per la riscossione coattiva di crediti previdenziali - la Corte ha affermato che sussisteva il diritto alla soppressione dei link corrispondenti esistenti nella rete, in quanto anche in considerazione del lungo lasso di tempo trascorso (sedici anni dalla pubblicazione originaria), l’interessato aveva diritto a che quelle informazioni non fossero più collegate alla sua persona. A conclusioni non dissimili, sia pure in relazione ad un diverso contesto, è pervenuta la Corte Europea dei diritti dell’uomo nella nota sentenza 19 ottobre 2017. Si trattava, in quel caso, della vicenda di un uomo d’affari ucraino residente in Germania, amministratore di società televisive. Pubblicato su di un quotidiano di larga diffusione un articolo relativo al suo coinvolgimento in vicende di corruzione finalizzate ad ottenere licenze televisive in Ucraina, l’interessato aveva chiesto ai giudici tedeschi che il contenuto dell’articolo on line venisse rimosso. I giudici tedeschi avevano respinto la richiesta, in considerazione dell’influenza del soggetto all’interno della società tedesca e dell’interesse pubblico alla conoscenza del fatto reato. Adita dall’interessato per presunta violazione, da parte delle autorità tedesche, dell’art. 8 della CEDU, la Corte di Strasburgo ha escluso che potesse, nella specie, ritenersi violato il diritto al rispetto della vita privata e familiare; e, dando atto dell’avvenuto bilanciamento, da parte dei giudici nazionali, dei due interessi in conflitto, la sentenza ha dichiarato di concordare con il ragionamento svolto dai giudici tedeschi, nel senso che l’articolo contestato aveva contribuito ad un dibattito di interesse generale e che c’era un interesse pubblico nel presunto coinvolgimento del richiedente e nel fatto di averlo menzionato per nome (punto 37). Ragioni, queste, considerate sufficienti a far prevalere il diritto della generalità dei consociati alla conoscenza dei fatti rispetto a quello del privato all’oblio sui medesimi. Potrebbero essere richiamate anche altre pronunce, i cui principi comunque non si discostano da quelli già riassunti. Giova tuttavia ricordare, nel tentativo di enucleare una sintesi dei criteri indicati dalle Corti Europee, che il bilanciamento tra l’interesse del singolo ad essere dimenticato e quello opposto della collettività a mantenere viva la memoria di fatti a suo tempo legittimamente divulgati presuppone un complesso giudizio nel quale assumono rilievo decisivo la notorietà dell’interessato, il relativo coinvolgimento nella vita pubblica, il contributo ad un dibattito di interesse generale, l’oggetto della notizia, la forma della pubblicazione ed il tempo trascorso dal momento in cui i fatti si sono effettivamente verificati.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Così inquadrato, nelle relative linee normative e giurisprudenziali generali, il problema giuridico posto dall’ordinanza interlocutoria, ritengono le Sezioni Unite di dover innanzitutto compiere una delimitazione del campo di indagine della presente pronuncia. Come risulta dalla tracciata panoramica della giurisprudenza nazionale ed Europea e come è stato illustrato con chiarezza anche dalla dottrina, quando si parla di diritto all’oblio ci si riferisce, in realtà, ad almeno tre differenti situazioni: quella di chi desidera non vedere nuovamente pubblicate notizie relative a vicende, in passato legittimamente diffuse, quando è trascorso un certo tempo tra la prima e la seconda pubblicazione; quella, connessa all’uso di internet ed alla reperibilità delle notizie nella rete, consistente nell’esigenza di collocare la pubblicazione, avvenuta legittimamente molti anni prima, nel contesto attuale (è il caso della sentenza n. 5525 del 2012); e quella, infine, trattata nella citata sentenza Google Spain della Corte di giustizia dell’Unione Europea, nella quale l’interessato fa valere il diritto alla cancellazione dei dati. Il caso oggi in esame corrisponde alla prima delle tre ipotesi suindicate e rappresenta, per così dire, un caso classico, cioè un caso connesso col problema della libertà di stampa e la diffusione della notizia a mezzo giornalistico, rimanendo perciò escluso ogni collegamento con i problemi posti dalla moderna tecnologia e dall’uso della rete internet. Si tratta cioè dell’ipotesi in cui non si discute della legittimità della pubblicazione, quanto, invece, della legittimità della ripubblicazione di quanto è stato già a suo tempo diffuso senza contestazioni. La presente sentenza, quindi, si soffermerà soltanto su questo aspetto e la scelta di delimitare il campo di indagine non è frutto di un arbitrio decisionale, ma della semplice constatazione per cui ogni pronuncia giudiziaria trova il proprio limite nel collegamento con una vicenda concreta. Com’è stato incisivamente detto nelle note sentenze sulla compensatio lucri cum damno, alle Sezioni Unite non è affidata "</em>l’enunciazione di principi generali e astratti o di verità dogmatiche sul diritto, ma la soluzione di questioni di principio di valenza nomofilattica pur sempre riferibili alla specificità del singolo caso della vita<em>" (sentenze 22 maggio 2018, n. 12564, n. 12565, n. 12566 e n. 12567). In coerenza, quindi, con i limiti del </em>petitum<em> e con le funzioni istituzionali della Suprema Corte, la presente decisione si atterrà ai confini ora indicati. È appena il caso di rilevare, del resto, che l’ordinanza interlocutoria ha posto il problema dei rapporti tra il diritto di cronaca e il diritto all’oblio; ora, se è vero che questo rapporto può risultare conflittuale anche in relazione a fattispecie nelle quali si discute della permanenza o della cancellazione dei dati sulla rete internet, è anche vero che i problemi che derivano dall’uso di tale strumento non sempre sono connessi con l’esercizio del diritto di cronaca (indicativo in tal senso è il caso affrontato nell’ordinanza 9 agosto 2017, n. 19761, dove si discuteva del diritto dell’interessato ad impedire la permanente circolazione on line di una serie di informazioni di carattere commerciale, senza che venisse in alcun modo in esame il diritto di cronaca).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Ai fini della soluzione del problema in esame, le Sezioni Unite ritengono di dover innanzitutto spostare la prospettiva dell’indagine rispetto all’ordinanza interlocutoria la quale, come detto, ha chiesto di indicare quale sia la linea di confine tra il diritto di cronaca e il diritto all’oblio. La corretta premessa dalla quale bisogna muovere è che quando un giornalista pubblica di nuovo, a distanza di un lungo periodo di tempo, una notizia già pubblicata - la quale, all’epoca, rivestiva un interesse pubblico - egli non sta esercitando il diritto di cronaca, quanto il diritto alla rievocazione storica (storiografica) di quei fatti. Lo stesso termine "</em>diritto di cronaca<em>", infatti, trae la propria etimologia dalla parola greca </em>Kpovos<em>, che significa, appunto, tempo; il che vuol dire che si tratta di un diritto avente ad oggetto il racconto, con la stampa o altri mezzi di diffusione, di un qualcosa che attiene a quel tempo ed è, perciò, collegato con un determinato contesto. Ciò non esclude, naturalmente, che in relazione ad un evento del passato possano intervenire elementi nuovi tali per cui la notizia ritorni di attualità, di modo che diffonderla nel momento presente rappresenti ancora una manifestazione del diritto di cronaca (in tal senso già la citata sentenza n. 3679 del 1998); in assenza di questi elementi, però, tornare a diffondere una notizia del passato, anche se di sicura importanza in allora, costituisce esplicazione di un’attività storiografica che non può godere della stessa garanzia costituzionale che è prevista per il diritto di cronaca. Va detto subito, per evitare fraintendimenti, che l’attività storiografica, intesa appunto come rievocazione di fatti ed eventi che hanno segnato la vita di una collettività, fa parte della storia di un popolo, ne rappresenta l’anima ed è, perciò, un’attività preziosa. Ma proprio perché essa è "</em>storia<em>", non può essere considerata "</em>cronaca<em>". Ne deriva che simile rievocazione, a meno che non riguardi personaggi che hanno rivestito o rivestono tuttora un ruolo pubblico, ovvero fatti che per il loro stesso concreto svolgersi implichino il richiamo necessario ai nomi dei protagonisti, deve svolgersi in forma anonima, perché nessuna particolare utilità può trarre chi fruisce di quell’informazione dalla circostanza che siano individuati in modo preciso coloro i quali tali atti hanno compiuto. In altre parole, l’interesse alla conoscenza di un fatto, che costituisce manifestazione del diritto ad informare e ad essere informati e che rappresenta la spinta ideale che muove ogni ricostruzione storica, non necessariamente implica la sussistenza di un analogo interesse alla conoscenza dell’identità della singola persona che quel fatto ha compiuto. Un’altra importante precisazione è necessaria. La decisione di un quotidiano, di un settimanale o comunque di una testata giornalistica di procedere alla rievocazione storica di fatti ritenuti importanti in un determinato contesto sociale e territoriale non può essere messa in discussione in termini di opportunità. La scelta di una linea editoriale o piuttosto di un’altra rappresenta una delle forme in cui si manifesta la libertà di stampa e di informazione tutelata dalla Costituzione; per cui non può essere sindacata la decisione - tanto per fare un riferimento al caso oggi in esame - di pubblicare con cadenza settimanale, nell’arco di un certo periodo di tempo, la ricostruzione storica di una serie di fatti criminosi che hanno coinvolto e impressionato in modo particolare la vita di una collettività in un determinato periodo. Ciò che, al contrario, può e deve essere verificato dal giudice di merito è se, pacifico essendo il diritto alla ripubblicazione di una certa notizia, sussista o meno un interesse qualificato a che essa venga diffusa con riferimenti precisi alla persona che di quella vicenda fu protagonista in un passato più o meno remoto; perché l’identificazione personale, che rivestiva un sicuro interesse pubblico nel momento in cui il fatto avvenne, potrebbe divenire irrilevante, per i destinatari dell’informazione, una volta che il tempo sia trascorso e i fatti, anche se gravi, si siano sbiaditi nella memoria collettiva. Il che significa che il diritto ad informare, che sussiste anche rispetto a fatti molto lontani, non equivale in automatico al diritto alla nuova e ripetuta diffusione dei dati personali. È questo, in definitiva, il costante filo rosso che tiene unita la giurisprudenza nazionale ed Europea richiamata in precedenza. Ed è questo il senso dell’affermazione, più volte rintracciabile nella citata giurisprudenza, secondo cui il trascorrere del tempo modifica l’esito del bilanciamento tra i contrapposti diritti e porta il protagonista di un fatto come quello di cui oggi si discute - che nessun diritto alla riservatezza avrebbe potuto opporre nel momento in cui il fatto avvenne - a riappropriarsi della propria storia personale. L’ormai lontana sentenza n. 1563 del 1958 coniò, in relazione alla drammatica vicenda del Questore di Roma, la cupa ma felice espressione di "</em>diritto al segreto del disonore<em>". Tale espressione rappresenta in modo plastico il fatto che la notizia della quale il soggetto si riappropria potrebbe essere anche - e sovente ciò accade, specie quando il diritto di cronaca ha ad oggetto vicende giudiziarie, come nel caso odierno - vergognosa o comunque tale da far sorgere il legittimo desiderio del silenzio. In questa linea vanno lette la sentenza n. 5525 del 2012 - la quale evidenzia l’importanza che il trascorrere del tempo assume rispetto alle posizioni degli interessati ed alla necessità che la notizia venga aggiornata - nonché la sentenza n. 16111 del 2013 la quale, come si è detto, ha sottolineato la circostanza, decisiva anche nel caso odierno, secondo cui una notizia che rivestiva un interesse pubblico in un certo contesto non necessariamente continua a poter essere divulgata con tutti i suoi riferimenti personali quando il lungo tempo trascorso ha reso ormai inesistente quell’interesse. Nella stessa linea va letto il caso di Vittorio Emanuele di Savoia, in cui l’interesse pubblico alla rievocazione del fatto di cronaca nasceva dall’evidente notorietà pubblica della persona; e un’ulteriore conferma viene anche dalla citata sentenza 19 ottobre 2017 là dove la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha posto in evidenza che la notorietà pubblica del soggetto dava ragione dell’interesse della collettività alla conoscenza della relativa vicenda personale, da ritenere prevalente rispetto al contrapposto interesse di chi voleva mantenere il riserbo sulla medesima. Ritengono le Sezioni Unite che in una simile risoluzione dei contrapposti interessi si inseriscano in modo armonioso anche le regole di cui al citato Testo unico dei doveri del giornalista, di recente approvazione. Proprio questo testo, nel ribadire (art. 1) che l’attività del giornalista "</em>si ispira alla libertà di espressione sancita dalla Costituzione italiana<em>" è che è "</em>diritto insopprimibile del giornalista la libertà di informazione e di critica<em>", aggiunge poi, nel successivo art. 3, comma 1, che il giornalista "</em>rispetta il diritto all’identità personale ed evita di far riferimento a particolari relativi al passato, salvo quando essi risultino essenziali per la completezza dell’informazione<em>". Mentre l’art. 3, comma 2, aggiunge, dimostrando una lodevole attenzione verso i destinatari, che il giornalista, "</em>nel diffondere a distanza di tempo dati identificativi del condannato, valuta anche l’incidenza della pubblicazione sul percorso di reinserimento sociale dell’interessato e sulla famiglia<em>", tenendo presente (comma 3) che "</em>il reinserimento sociale è un passaggio complesso, che può avvenire a fine pena oppure gradualmente<em>". Risulta anche dal codice di autoregolamentazione della categoria, dunque, l’avvertita necessità di tutelare il diritto prezioso alla informazione ma anche di proteggere chi può ricevere danni, come nella specie, dalla rievocazione di fatti ormai sopiti nella memoria collettiva. Ritengono, pertanto, le Sezioni Unite che debba essere ribadita la rilevanza costituzionale sia del diritto di cronaca che del diritto all’oblio; quando, però, una notizia del passato, a suo tempo diffusa nel legittimo esercizio del diritto di cronaca, venga ad essere nuovamente diffusa a distanza di un lasso di tempo significativo, sulla base di una libera scelta editoriale, l’attività svolta dal giornalista riveste un carattere storiografico; per cui il diritto dell’interessato al mantenimento dell’anonimato sulla sua identità personale è prevalente, a meno che non sussista un rinnovato interesse pubblico ai fatti ovvero il protagonista abbia ricoperto o ricopra una funzione che lo renda pubblicamente noto. È opportuno sottolineare, infine, che la materia in esame di per sé sfugge ad una precisa catalogazione e richiede di volta in volta, invece, la paziente e sofferta valutazione dei giudici di merito.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Alla luce delle riflessioni svolte fin qui, può essere affrontata la decisione del caso concreto. La sentenza impugnata non ha fatto buon governo dei principi enunciati e deve, pertanto, essere cassata, in accoglimento dei motivi dell’odierno ricorso. Essa, infatti, ha commesso un primo errore là dove ha richiamato il diritto di cronaca e l’ha posto a confronto con il diritto all’oblio. Nel caso in esame è invece evidente che l’iniziativa editoriale assunta dal quotidiano l’Unione sarda di avviare una rubrica settimanale intitolata "(</em>omissis<em>) ", nella quale venivano ripercorsi diciannove omicidi "</em>particolarmente efferati<em>" che avevano determinato un intenso dibattito nell’opinione pubblica locale, è un’iniziativa che assume un carattere storiografico. Iniziativa del tutto legittima alla luce dei criteri che la Corte d’appello ha richiamato, e cioè l’avvertita necessità di avviare una riflessione su temi delicati e di attualità, "</em>quali l’emarginazione, la gelosia, la depressione, la prostituzione<em>". Ma la riconosciuta sussistenza dell’utilità di un pubblico dibattito su questi temi non dà ragione - e qui sta la seconda, decisiva, manchevolezza della pronuncia in esame - del perché tale rievocazione sia stata fatta riportando il nome e il cognome dei protagonisti, in tal modo rendendo il colpevole facilmente individuabile in una comunità locale di non grandissime dimensioni. La sentenza, cioè, non ha illustrato per quale ragione il risorgere dell’interesse a ricordare fatti di sangue di tanti anni prima richiedesse necessariamente l’indicazione del nome del S. e della relativa defunta moglie; tanto più che l’odierno ricorrente non è certamente - o, almeno, la sentenza nulla dice su questo punto - una persona pubblicamente nota, il cui comportamento privato rivesta un interesse per il grande pubblico. Deve essere poi ulteriormente rilevato che la sentenza impugnata non ha neppure considerato, nel bilanciamento delle contrapposte tutele, la bontà del percorso di riabilitazione che il S. aveva compiuto nei ventisette anni intercorsi tra la prima e la seconda pubblicazione, scontando una lunga pena detentiva e reinserendosi, con tutte le comprensibili difficoltà che questo comporta, nel tessuto sociale produttivo. Il compito di una nuova valutazione della vicenda, alla luce delle indicazioni contenute nella presente sentenza, è rimesso al giudice di rinvio. In conclusione, il ricorso è accolto e la sentenza impugnata è cassata. Il giudizio è rinviato alla Corte d’appello di Cagliari, in diversa composizione personale, la quale deciderà attenendosi al seguente principio di diritto: "</em>In tema di rapporti tra il diritto alla riservatezza (nella relativa particolare connotazione del c.d. diritto all’oblio) e il diritto alla rievocazione storica di fatti e vicende concernenti eventi del passato, il giudice di merito - ferma restando la libertà della scelta editoriale in ordine a tale rievocazione, che è espressione della libertà di stampa e di informazione protetta e garantita dall’art. 21 Cost. - ha il compito di valutare l’interesse pubblico, concreto ed attuale alla menzione degli elementi identificativi delle persone che di quei fatti e di quelle vicende furono protagonisti. Tale menzione deve ritenersi lecita solo nell’ipotesi in cui si riferisca a personaggi che destino nel momento presente l’interesse della collettività, sia per ragioni di notorietà che per il ruolo pubblico rivestito; in caso contrario, prevale il diritto degli interessati alla riservatezza rispetto ad avvenimenti del passato che li feriscano nella dignità e nell’onore e dei quali si sia ormai spenta la memoria collettiva (nella specie, un omicidio avvenuto ventisette anni prima, il cui responsabile aveva scontato la relativa pena detentiva, reinserendosi poi positivamente nel contesto sociale)".</p>