Corte di Cassazione, Sez. I Civile, sentenza 08 aprile 2025 n. 9216
PRINCIPIO DI DIRITTO
Va sancito che in caso di coppia genitoriale omoaffettiva (in questo caso due madri: una biologica ed una adottiva) il tenore di un decreto ministeriale (l’art. 3 comma 5 R.D. n. 773/1931) che prevede che la parola “genitori” sia sostituita dalle parole “madre e padre” sul verso del documento di identità non solo contrasta con lo specifico contenuto della disposizione di legge, che si riferisce ai “genitori” come soggetti richiedenti il rilascio della carta d’identità e presenti assieme al minore durante il viaggio all’estero, ma astringe anche il diritto di ciascun genitore di veder riportata sulla carta di identità del figlio minore il proprio nome, in quanto consente un’indicazione appropriata solamente per una delle due madri ed impone all’altra di veder classificata la propria relazione di parentela secondo una modalità (“padre”) non consona al suo genere.
PARTE RILEVANTE DELLA DECISIONE
ll primo motivo di ricorso, sotto la rubrica “nullità della sentenza per grave carenza e mera apparenza della motivazione – violazione degli artt. 112 e 132, co. 2, c.p.c. e art. 111 c.6 Cost. – in relazione all’art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c.”, assume che la decisione impugnata si esaurisca soltanto nella dichiarazione del carattere discriminatorio della carta d’identità elettronica rilasciata e non prenda in esame tutte le doglianze analiticamente sollevate nel merito dall’amministrazione appellante.
Oltre a ciò la motivazione della decisione impugnata risulta – in tesi di parte ricorrente – apodittica, perché, a fronte di censure di merito meticolosamente svolte nell’atto di appello, si risolve nella mera affermazione del carattere discriminatorio del modello CIE di cui al contestato decreto, apparente, perché, seppur graficamente e materialmente presente, difetta di un reale contenuto esplicativo, e del tutto insufficiente, perché non consente di ricostruire l’iter logico giuridico seguito dal collegio per approdare alla decisione.
- Il motivo non è fondato.
5.1 Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le tante, Cass. 329/2016, Cass. 21195/2014, Cass. 7653/2012, Cass. 7268/2012) il vizio di omessa pronuncia su una domanda o eccezione di merito, che integra una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato di cui all’art. 112 cod. proc. civ., ricorre quando vi sia un’omissione di qualsiasi decisione su di un capo di domanda, intendendosi per capo di domanda ogni richiesta delle parti diretta a ottenere l’attuazione in concreto di una volontà di legge che garantisca un bene all’attore o al convenuto.
Dunque, solo se il giudice omette del tutto di pronunciarsi su una domanda o un’eccezione ricorre un vizio di nullità della sentenza per error in procedendo, censurabile in Cassazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., laddove, invece, se il giudice si pronuncia sulla domanda o sull’eccezione, ma senza prendere in esame una o più delle questioni giuridiche sottoposte al suo esame nell’ambito di quella domanda o di quell’eccezione, sussiste un vizio di motivazione, censurabile in Cassazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ..
Questa Corte, inoltre, ha avuto modo di chiarire che il giudice non è tenuto ad occuparsi espressamente e singolarmente di ogni allegazione, prospettazione ed argomentazione delle parti, risultando necessario e sufficiente, in base all’art. 132, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., che esponga, in maniera concisa, gli elementi in fatto e in diritto posti a fondamento della sua decisione, e dovendo ritenersi per implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l’iter argomentativo seguito.
Di conseguenza il vizio di omessa pronuncia – configurabile allorché risulti completamente omesso il provvedimento del giudice indispensabile per la soluzione del caso concreto – non ricorre nel caso in cui, seppure manchi una specifica argomentazione, la decisione adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte ne comporti il rigetto (Cass. 12652/2020; nello stesso senso Cass. 23100/2023, Cass. 24953/2020, Cass. 24155/2017).
5.2 Nel caso di specie la Corte di merito, dopo aver espressamente elencato (alle pagg. 5 e 6) le doglianze di merito sollevate dall’amministrazione appellante, ha ritenuto che “tali doglianze [fossero] manifestamente infondate”.
Non sussiste, all’evidenza, alcun vizio di omessa pronuncia, dato che tutti i motivi di appello sono stati presi in esame ed espressamente rigettati.
5.3 Va escluso, altresì, che sussista un vizio di motivazione. La Corte distrettuale, infatti, ha posto in chiara evidenza che le diciture previste dai modelli ministeriali ed imposte dal decreto in contestazione non erano rappresentative di tutte le legittime conformazioni dei nuclei familiari e pregiudicavano il diritto del minore di ottenere una carta d’identità rappresentativa della sua peculiare situazione familiare.
Una simile motivazione non solo illustra l’iter logico-intellettivo seguito dai giudici distrettuali e posto a fondamento della decisione (Cass., Sez. U., 22232/2016), ma esclude necessariamente la fondatezza dell’intera congerie delle argomentazioni sviluppate dall’appellante, le cui tesi, seppure non espressamente esaminate, finivano per risultare incompatibili con la soluzione adottata e con l’iter argomentativo seguito.
- Il secondo motivo di ricorso, sotto la rubrica “sulla violazione del DM del 31/12/2019 quale espressione degli artt. 3, 30 e 31 Cost., dell’art. 5 l. n. 40 del 2004, degli artt. 231, 243-bis, 246, 247, 250, 262, 269, 408, 566, 568, 599 e 643 del c.c., con riferimento all’art. 360 n. 3 c.p.c.”, assume che la disapplicazione del decreto ministeriale compiuta dai giudici distrettuali viene a violare il concetto di bigenitorialità attualmente in vigore nel nostro sistema giuridico e contrasta con i principi di ordine pubblico emergenti dal compendio delle norme denunciate come violate.
Tenuto conto di questa cornice normativa il legislatore – a dire del ricorrente – non avrebbe potuto ammettere la dicitura “genitori” al posto di quella di “padre” e “madre” nella disciplina della carta di identità elettronica, in quanto, altrimenti, avrebbe creato atti di stato civile a carattere eccezionale, non conformi a quelli prodotti sino ad allora in attuazione della normativa vigente e, dunque, di fatto privi di una rispondenza almeno nel sistema normativo.
Peraltro, il diritto all’identità personale del minore nel caso di specie non era stato in alcun modo pregiudicato dalla dicitura “madre” e “padre” riportata sulla carta d’identità elettronica, dato che la stessa non necessitava dell’indicazione dei nomi dei genitori del minore per poter espletare la funzione di identificazione.
Il motivo è inammissibile.
La Corte d’appello ha riportato e condiviso, facendole proprie, le deduzioni difensive delle appellate anche nella parte in cui rappresentavano che il decreto ministeriale (di contenuto tecnicooperativo, essendo volto a dettare mere specifiche tecniche su come realizzare la carta identità elettronica) era un “atto privo di carattere normativo”, così come era stato accertato dal T.A.R. Lazio con la sentenza n. 215/2020, e men che meno un atto del legislatore nazionale.
Una simile statuizione, non posta in contestazione in alcun modo con il ricorso in esame, rende inammissibile la doglianza presentata ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., che consente di lamentare la violazione o falsa applicazione di norme di diritto e non di atti di provenienza anche ministeriale (cfr. Cass. 8296/2006, Cass. 4942/2004, Cass. 14619/2000, Cass. 6933/1999).
Quand’anche si volesse prescindere da un simile preliminare rilievo ed opinare in senso contrario, riconoscendo carattere normativo al decreto ministeriale in discorso, la censura non meriterebbe comunque di essere accolta.
La giurisprudenza di questa Corte ha riconosciuto, rispetto a una coppia omoaffettiva femminile, che l’adozione in casi particolari ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. d), l. 184/1983 si presta a realizzare appieno il preminente interesse del minore alla creazione di legami parentali con la famiglia del genitore adottivo, senza che siano esclusi quelli con la famiglia del genitore biologico, alla luce di quanto stabilito dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 79/2022 (Cass. 22179/2022; nello stesso senso Cass., Sez. U., 38162/2022, Cass. 4448/2024).
Se così è, allora la Corte d’appello, a fronte di una sentenza di adozione che riconosceva alla partner della madre naturale la condizione di madre adottiva, non poteva che addivenire alla disapplicazione del decreto ministeriale del 31 gennaio 2019.
Difatti, l’art. 3, comma 5, r.d. 773/1931 (T.U.L.P.S.) stabilisce che «la carta di identità valida per l’espatrio rilasciata ai minori di età inferiore agli anni quattordici può riportare, a richiesta, il nome dei genitori o di chi ne fa le veci.
L’uso della carta d’identità ai fini dell’espatrio dei minori di anni quattordici è subordinato alla condizione che essi viaggino in compagnia di uno dei genitori o di chi ne fa le veci, o che venga menzionato, in una dichiarazione rilasciata da chi può dare l’assenso o l’autorizzazione, il nome della persona, dell’ente o della compagnia di trasporto a cui i minori medesimi sono affidati».
Il tenore di un decreto ministeriale che prevedeva che la parola “genitori” fosse sostituita dalle parole “madre e padre” sul verso del documento di identità non solo contrastava con lo specifico contenuto della disposizione di legge, che si riferisce ai “genitori” come soggetti richiedenti il rilascio della carta d’identità e presenti assieme al minore durante il viaggio all’estero, ma astringeva anche il diritto di ciascun genitore di veder riportata sulla carta di identità del figlio minore il proprio nome, in quanto consentiva un’indicazione appropriata solamente per una delle due madri ed imponeva all’altra di veder classificata la propria relazione di parentela secondo una modalità (“padre”) non consona al suo genere.
In una simile situazione il decreto ministeriale che impediva di dare adeguata rappresentazione alla realtà giuridica familiare venutasi a creare a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di adozione, quand’anche avesse rivestito natura di regolamento di attuazione (dell’art. 10, comma 3, d.l. 78/2015, che stabilisce che con decreto del Ministro dell’Interno, di concerto con il Ministro per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione e il Ministro dell’Economia e delle Finanze, sentita l’Agenzia per l’Italia digitale, il Garante per la protezione dei dati personali e la Conferenza Stato città autonomie locali, siano definite le caratteristiche tecniche, le modalità di produzione, di emissione, di rilascio della carta d’identità elettronica, nonché di tenuta del relativo archivio informatizzato) ex art. 17, comma 1, lett. b), l. 400/1988 piuttosto che di provvedimento amministrativo di carattere generale, doveva comunque essere disapplicato, ai sensi dell’art. 4, comma 1, preleggi, perché conteneva una norma contraria alla disposizione di legge prevista dall’art. 3, comma 5, r.d. 773/1931.
Il terzo motivo di ricorso, sotto la rubrica “sulla violazione o falsa applicazione dell’art. 449 c.c. e quindi del d.P.R. 396/2000, in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c.”, assume che l’amministrazione non poteva far altro che conformarsi alla normativa vigente in materia di atti dello stato civile, in coerenza con le previsioni regolamentari del settore e tenendo conto che la legge italiana consente e legittima la formazione esclusivamente di atti di nascita, e dello stato civile, recanti l’indicazione di un “padre” e una “madre”.
La Corte d’appello dapprima ha premesso (a pag. 3) che “la fattispecie in esame non concerne[va] una questione di stato civile, bensì il mancato rilascio della carta d’identità elettronica valida per l’espatrio del minore per l’ostacolo tecnico della dicitura padre/madre essendo Filibeck Castagnola Gabriele figlio naturale di una donna e figlio adottivo di un’altra donna”.
In seguito, nel condividere la deduzione della parte appellata, ha riportato (a pag. 4) un passo di una sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte in cui si spiega che “in seguito alla sentenza n. 79 del 2022 della Corte costituzionale, anche l’adozione del minore in casi particolari produce effetti pieni e fa nascere relazioni di parentela con i familiari dell’adottante.
Al pari dell’adozione “ordinaria” del minore di cui agli artt. 6 e ss. della legge n. 184 del 1983, l’adozione in casi particolari non si limita a costituire il rapporto di filiazione con l’adottante, ma fa entrare l’adottato nella famiglia dell’adottante.
L’adottato acquista lo stato di figlio dell’adottante” (Cass., Sez. U., 38162/2022, § 10). Infine, ha sottolineato (a pag. 5) che il tenore della contestazione mossa al Ministero nell’ambito del giudizio era costituito dalla “possibilità di stabilire delle regole in base alle quali sulla carta di identità [potessero] essere indicati dati personali difformi dalle risultanze dei registri da cui quei dati [erano stati] estratti”.
Dunque, come ha condivisibilmente sottolineato il Procuratore Generale nella memoria depositata, “la fattispecie non concerne[va] una questione di stato civile ma una quaestio facti divenuta incontestabile in questa sede” e “la Corte di Appello non ha violato le norme vigenti né ha affatto inteso scardinare il concetto di bigenitorialità padre/madre ma, al contrario, ha correttamente preso atto delle reali circostanze invocate dalle parti, disponendo così la corretta indicazione dei dati corrispondenti alle figure genitoriali nel rilascio della CIE (carta di identità elettronica) per il piccolo Gabriele”.
La censura in esame torna a sostenere che l’amministrazione non avrebbe potuto fare altro che conformarsi alle previsioni di legge e regolamentari, ma non si confronta – e tanto meno critica – con il tenore della decisione impugnata, laddove la stessa spiega che la questione in esame riguardava un disallineamento non fra la situazione di fatto e quella di diritto, giacché la sentenza di adozione era stata ritualmente annotata nell’atto di nascita del minore ai sensi dell’art. 49, comma 1, lett. a), d.P.R. 396/2000, bensì fra la situazione di diritto emergente dagli atti dello stato civile e il contenuto della carta di identità rilasciata al minore.
Del pari, la doglianza sostiene che legge italiana consente e legittima la formazione esclusivamente di atti di nascita, e dello stato civile, recanti l’indicazione di un “padre” e una “madre” ed assume che il decreto ministeriale in discorso si sia limitato ad adeguare la vigente disciplina delle modalità tecniche di emissione della carta d’identità elettronica alla normativa dello stato civile senza considerare e criticare, ancora una volta, il contenuto della decisione impugnata (v. pag. 6) laddove ricorda (del tutto correttamente, come detto) che “l’esistenza di istituti come l’adozione in casi particolari può dar luogo alla presenza di due genitori dello stesso sesso (l’uno naturale, l’altro adottivo)”.
Questa mancanza di riferibilità della censura in esame al contenuto della decisione impugnata rende inammissibile la doglianza.
Invero, l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata.
Queste ultime, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi considerare nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo il motivo che non rispetti questo requisito; in riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un “non motivo”, è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 , comma 1, n. 4, cod. proc. civ. (cfr. Cass. 6496/2017, Cass. 17330/2015, Cass. 359/2005).
- Per tutto quanto sopra esposto, il ricorso deve essere respinto. L’assoluta novità della questione trattata giustifica, ai sensi dell’art. 92, comma 2, cod. proc. civ., l’integrale compensazione delle spese di lite.