Tribunale di Bolzano, Sez. II Civile, ordinanza 12 gennaio 2024
QUESITO DI DIRITTO
Con Ordinanza del 12/01/2024 il Tribunale di Bolzano, II sezione Civile ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dei seguenti articoli:
Art. 1 della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), in riferimento agli articoli 2,3,32 e 117, primo comma Cost., in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti anche solo: CEDU), nella parte in cui afferma che «la rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali», anziche’ prevedere che «la rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita ovvero altro sesso diverso da quello maschile e femminile a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali».
Art. 31, comma 4, del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’art. 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), in riferimento agli articoli 2,3 e 32 Cost., nella parte in cui prevede che «quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato. Il procedimento e’ regolato dai commi 1, 2 e 3».
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1.1. Con atto di citazione di data 13 febbraio 2023 L. N. ha promosso innanzi al Tribunale di Bolzano azione di rettificazione di attribuzione di sesso, nonche’ richiesto l’autorizzazione all’adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante intervento medico-chirurgico ex art. 1 legge n. 164/1982 e art. 31 decreto legislativo n. 150/2011, esponendo in particolare:
di essere una persona transgender biologicamente femminile alla quale alla nascita veniva attribuito il nome L. , che tuttora risulta allo stato civile;
di non riconoscersi nel genere femminile e neppure in quello maschile, bensi’ in un genere non binario, con inclinazione verso la componente maschile;
di non essersi mai sentito vincolato dai genitori agli standard sociali generalmente attribuibili al genere femminile e di aver pertanto vissuto un’infanzia libera e felice, in buoni rapporti con i genitori;
di aver cominciato, a partire dalla puberta’, a provare disagio a causa dei cambiamenti del proprio corpo, in particolare, rispetto ad ogni caratteristica fisica che evidenziava forme femminili;
che con il passare del tempo, tale situazione di disagio non si attenuava ed anzi si trasformava in vera e propria sofferenza psico-fisica tale da ostacolarne la normale socialita’, inducendolo a condurre un’esistenza solitaria;
che solo alle scuole superiori, attraverso internet, veniva a conoscenza dell’esistenza di persone con identita’ transgender e gradualmente acquisiva consapevolezza della propria condizione, pur decidendo inizialmente di celare la sua identita’ per paura di non essere compreso da genitori, amici e conoscenti;
che nel corso degli anni, tuttavia, tale consapevolezza diventava sempre piu’ nitida, in quanto cresceva a dismisura l’esigenza di essere riconosciuto pubblicamente in conformita’ alla propria psiche;
che quindi decideva di rivelare alla madre e poi, due anni piu’ tardi, anche al padre, la propria inclinazione ad essere riconosciuto in un genere neutro, non binario;
che nel … si trasferiva in … per studiare … presso l’Universita’ di …, ove decideva di dichiarare apertamente sin dall’inizio la propria identita’ di genere non binaria, presentandosi a colleghi di studio e docenti con il nome di «I», venendo da tutti fin da subito accettato con questa identita’;
che nel mese di … pubblicava una ricerca universitaria firmandosi con il proprio nome elettivo e che, con il nome I. N. , partecipava ad una conferenza universitaria;
che lo stesso nome veniva ufficialmente riconosciuto nella struttura universitaria … e utilizzato per l’assegnazione dell’indirizzo e-mail istituzionale dedicato agli studenti;
che grazie a tale contesto sociale di accettazione, nella primavera del …, si rivolgeva al Servizio psicologico dell’Azienda sanitaria dell’…, dove riceveva – nel dicembre dello stesso anno – una prima diagnosi di disforia di genere quale presupposto per avviare la terapia ormonale mascolinizzante;
che tale terapia veniva effettivamente iniziata, portandolo gradualmente ad assumere l’attuale apparenza estetica androgina; che secondo quanto riportato nel parere definitivo di data …, a firma del prof. J. G. del Servizio psicologico dell’Azienda sanitaria dell’.., «I. si identifica fortemente come persona non binaria. Senza dubbio si riconosce piu’ nel polo maschile dell’identita’ che in quello femminile, come dimostra il suo fervente desiderio di sottoporsi a mastectomia. Tuttavia, la sua visione e’ quella di poter essere se’ stesso, di essere una persona non categorizzata come maschio o femmina. Per questo motivo desidera la terza opzione per la categorizzazione di genere, ovvero Diverso. I termini disforia di genere (DSM-5) e incongruenza di genere (ICD-11) includono sia le denominazioni di genere binarie (maschile/femminile) sia tutte le altre forme di definizione di genere (riassunte nel termine non-binario). Da questo punto di vista, i criteri per la disforia di genere sono soddisfatti.
Conclusione: I. N. ha un’intelligenza media e nessun disturbo mentale significativo che possa compromettere la capacita’ di giudizio. Lo sviluppo psicosessuale, il suo comportamento di socializzazione, le descrizioni di se’ e i cambiamenti positivi sperimentati in seguito alla terapia ormonale indicano chiaramente che sta vivendo un’evoluzione personale nell’appartenenza di genere in cui si sente a suo agio e che vive come coerente e corretta per se’. E’ meno orientato verso un’ascrizione fissa di ruolo (maschile o femminile) e molto piu’ verso la sua esperienza personale, che e’ piu’ maschile ma non si sente molto chiara. Ha quindi un forte desiderio di poter scegliere la terza opzione (diversa) nella scelta del proprio genere; se cio’ non fosse possibile, vorrebbe sicuramente appartenere al genere maschile.
In base alle informazioni disponibili, e’ manifesta una disforia di genere o un’incongruenza di genere e, in base alle conoscenze specialistiche attuali, questa situazione non cambiera’ in futuro. Da un punto di vista psicologico, dopo aver iniziato il trattamento ormonale circa sette mesi fa, il passo successivo e’ cambiare nome e stato civile e sottoporsi a un intervento chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali» (traduzione in lingua italiana del testo in lingua … riportato a pag. 6 dell’atto di citazione); di essere attualmente riconosciuto in ogni ambito sociale con il nome di I. e di aver pertanto deciso di consolidare la propria situazione avviando l’iter giudiziale per la rettifica delle risultanze dello stato civile, richiedendo altresi’ l’autorizzazione del Tribunale a sottoporsi agli interventi chirurgici confermativi del genere psichico, in prima battuta ad una mastectomia.
Parte attrice chiedeva quindi all’intestato Tribunale di rettificare il sesso riportato nell’atto di nascita da «femminile» ad «altro», o alternative ritenute idonee, e di rettificare il prenome da «L.» a «I.», con tutte le annotazioni susseguenti previste per legge, nonche’ di accertare il proprio diritto a realizzare in via immediata tutti gli interventi medico-chirurgici in senso gino-androide, tanto demolitivi, quanto ricostruttivi, che riterra’ necessari.
1.2. In punto di fatto, e con specifico riferimento alla richiesta di rettificazione anagrafica come tertium genus, parte attrice rileva che l’identita’ di genere non binaria, intesa come condizione identitaria personale non ascrivibile alla tradizionale e rigida bipartizione degli esseri umani in uomini e donne, sarebbe un approdo ormai acquisito dalla scienza medica e recepito dalla manualistica clinica ufficiale all’interno delle proprie classificazioni diagnostiche.
In particolare, le persone non-binarie si caratterizzerebbero per una mancata adesione al binarismo di genere convenzionale, laddove, con binarismo di genere, si intende l’esistenza di due soli sessi (maschile e femminile), complementari ed opposti. Le identita’ non-binarie potrebbero dunque sperimentare un’identificazione contemporanea con i generi maschile e femminile, a meta’ tra maschile e femminile, neutrale, o al di fuori del binarismo di genere.
A supporto di tali affermazioni, parte attrice richiama le fonti di seguito riportate:
l’American Psychological Association (APA), secondo la quale «[…] Il genere e’ un costrutto non binario che ammette uno spettro di identita’ di genere diverse»;
Il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, quinta edizione, Text Revision (DSM-5-TR), ovvero il manuale di diagnostica adottato dall’Associazione americana di psichiatria, pubblicato nel 2022 (pag. 513), che definisce, la disforia di genere come «A strong desire to be of the other gender (or some alternative gender different from one’s assigned gender). – A strong desire to be treated as the other gender (or some alternative gender different from one’s assigned gender). – A strong conviction that one has the typical feelings and reactions of the other gender (or some alternative gender different from one’s assigned gender) [traduzione: Un forte desiderio di appartenere all’altro genere (o a un genere alternativo diverso da quello assegnato). – Un forte desiderio di essere trattati come l’altro genere (o un genere alternativo diverso da quello assegnato). – Una forte convinzione di avere i sentimenti e le reazioni tipiche dell’altro genere (o di un genere alternativo diverso da quello assegnato)];
lo stesso Manuale, a pag. 511, afferma che il termine gender «is used to denote the public, sociocultural (and usually legally recognized) lived role as boy or girl, man or woman, or other gender [traduzione: e’ utilizzato per indicare il ruolo pubblico, socioculturale (e di solito legalmente riconosciuto) vissuto come ragazzo o ragazza, uomo o donna, o altro genere];
il manuale di diagnostica adottato dall’Organizzazione mondiale della sanita’, attualmente alla undicesima edizione (International Classification of Diseases, ICD-11) adotta invece una definizione ampia di identita’ di genere, senza muovere da una classificazione binaria in uomo e donna (Gender incongruence is characterised by a marked and persistent incongruence between an individual’s experienced gender and the assigned sex. Gender variant behaviour and preferences alone are not a basis for assigning the diagnoses in this group – traduzione: L’incongruenza di genere e’ caratterizzata da una marcata e persistente incongruenza tra il genere vissuto da un individuo e il sesso assegnato. Il comportamento e le preferenze variegate di genere non sono di per se’ una base per l’assegnazione delle diagnosi in questo gruppo).
In punto di diritto, parte attrice rileva che la Corte costituzionale, gia’ con la sentenza n. 161 del 1985, nell’affrontare sotto diverso profilo la questione della legittimita’ costituzionale della legge n. 164 del 14 aprile 1982, sembra aver evocato un concetto di genere da intendersi come continuum con estremi l’identita’ maschile e quella femminile («Presupposto della normativa impugnata e’, dunque, la concezione del sesso come dato complesso della personalita’ determinato da un insieme di fattori, dei quali deve essere agevolato o ricercato l’equilibrio, privilegiando – poiche’ la differenza tra i due sessi non e’ qualitativa, ma quantitativa – il o i fattori dominanti»).
La possibilita’ giuridica di ottenere una rettificazione anagrafica in termini non strettamente binari sarebbe inoltre coerente con l’evoluzione culturale e ordinamentale che ha portato al «riconoscimento dell’identita’ di genere quale espressione del diritto all’identita’ personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona» (cosi’: Corte cost. sentenza n. 221/2015).
Evidenzia ancora l’attore che, nella medesima pronuncia la Corte costituzionale ha stabilito come la necessaria corrispondenza tra le risultanze anagrafiche ed il genere soggettivamente percepito dalla persona costituisca espressione del diritto al riconoscimento dell’identita’ di genere («va ancora una volta rilevato come l’aspirazione del singolo alla corrispondenza del sesso attribuitogli nei registri anagrafici, al momento della nascita, con quello soggettivamente percepito e vissuto costituisca senz’altro espressione del diritto al riconoscimento dell’identita’ di genere»).
Rileva infine parte attrice che, allo stato, cinque Paesi europei hanno introdotto nell’ordinamento la possibilita’ di ottenere una registrazione anagrafica diversa da «maschio» o «femmina».
In particolare, in Germania, con pronuncia d.d. 10 ottobre 2017, il Bundesverfassungsgericht ha dichiarato l’incostituzionalita’, per contrasto con l’art. 2, comma 1, in combinato disposto con l’art. 1, comma 1 e art. 3, comma 3, del Grundgesetz, del § 21, comma 1, numero 3, nonche’ del § 22, comma 3, della legge sullo stato civile (PStG), nella misura in cui tali disposizioni impongono di indicare il sesso «maschile» ovvero «femminile» a soggetti intersessuali, ossia persone che alla nascita presentano caratteri sessuali primari e/o secondari non definibili come esclusivamente maschili o femminili.
A seguito di tale pronuncia, nel 2018, e’ stata emendata la legge sullo stato civile tedesca e l’opzione «diverso» puo’ ora essere riportata nel registro delle nascite su richiesta dei genitori al momento della registrazione post-natale, ovvero successivamente, su richiesta della persona interessata.
In Austria il Verfassungsgerichtshof, con sentenza di data 15 giugno 2018, ha fornito un’interpretazione costituzionalmente orientata della legge sullo stato civile austriaca, stabilendo che le persone intersessuali hanno il diritto di essere indicate nei registri dello stato civile, ovvero nei documenti, secondo la loro identita’ sessuale, utilizzando i termini «altro», «inter» ovvero «aperto».
Precisa al riguardo l’attore che, sia in Germania che in Austria, alle persone intersessuali sarebbero equiparate le persone a cui e’ diagnostica o clinicamente certificata una identita’ di genere non binaria.
In Belgio, con la sentenza n. 99/2019, emessa il 19 giugno 2019, la Cour constitutionnelle ha stabilito che le norme del Codice civile belga sulla modifica dell’indicazione del sesso nei certificati di nascita violano il principio di uguaglianza e non discriminazione nella misura in cui non consentono alle persone il cui genere e’ «non binario» o «fluido» di ottenere una registrazione conforme alla loro identita’ di genere.
Nello specifico, il giudice costituzionale belga ha accertato l’incostituzionalita’ della legge sui transgender del 25 giugno 2017, rilevando che tale normativa contiene una lacuna in quanto la registrazione del sesso sul certificato di nascita e’ limitata alle categorie binarie maschio o femmina. Sulla base del principio di autodeterminazione, tuttavia, il legislatore belga ha inteso consentire agli individui di modificare il sesso registrato sul loro certificato di nascita in termini corrispondenti alla loro identita’ personale. Sotto tale profilo, non e’ dunque ragionevolmente giustificabile che le persone con un’identita’ di genere non binaria siano obbligate ad accettare, sul loro certificato di nascita, una registrazione del sesso basata su una scelta tra maschio e femmina che non corrisponde alla loro personale identita’ di genere.
Tuttavia, la Corte ha stabilito che spetta solo al legislatore trovare una soluzione per rimediare all’incostituzionalita’.
Parte attrice riferisce inoltre che nei Paesi Bassi, diverse sentenze avrebbero permesso di sostituire la dicitura «maschio» o «femmina» sul certificato di nascita delle persone intersessuali con la dicitura «il genere non puo’ essere stabilito», consentendo quindi di ottenere la «X» al posto di «M» o «F» sul passaporto. A Malta, sarebbe ammesso inserire la dicitura «non dichiarato» nel certificato di nascita come genere e la lettera «X» potrebbe essere indicata sul passaporto, a prescindere da particolari condizioni mediche o diagnosi psicosessuali.
Infine, l’attore evidenzia che anche la legislazione piu’ recente dell’Unione europea gia’ contempla la terza opzione di genere. In particolare, il regolamento (UE) 2016/1191 del Parlamento europeo e del Consiglio del 6 luglio 2016, che promuove la libera circolazione dei cittadini semplificando i requisiti per la presentazione di alcuni documenti pubblici nell’Unione europea, prevede modelli di certificato europeo che consentono di indicare il sesso come «indeterminato» (es. Allegato I, campo 4.5.3).
Inoltre, sebbene in forza del principio di competenza l’Unione europea non possa imporre agli Stati membri di introdurre nel proprio ordinamento il riconoscimento anagrafico di un terzo genere, tuttavia, uno Stato membro non potrebbe disconoscere l’identita’ giuridica e anagrafica riconosciuta ad un cittadino nell’ordinamento di un diverso Stato membro, senza violare l’articolo 21 del TFUE e l’art. 45 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, oltre alle norme specifiche nella Carta alla protezione della vita privata (art. 7) e al divieto di discriminazione (art. 21).
Alla luce di tali considerazioni, l’attore chiede quindi che, qualora il Tribunale ritenesse di non poter accogliere un’interpretazione della disciplina di cui all’art. 1 della legge n. 164/1982, idonea ad accogliere la propria domanda di rettificazione anagrafica come tertium genus, venga sollevata questione di legittimita’ costituzionale della predetta disposizione prospettando una violazione degli articoli 2,3,32,117, comma 1, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, nonche’ articoli 21TFUE e 7, 21, 45 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, quali norme interposte.
1.3. Cio’ posto, con riguardo alla domanda di accertamento del proprio diritto a realizzare in via immediata tutti gli interventi medico-chirurgici in senso gino-androide, tanto demolitivi, quanto ricostruttivi, ritenuti necessari, l’attore rileva quanto segue.
L’art. 31, comma 4, decreto legislativo n. 150/2011 prevede: «Quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico- chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato. Il procedimento e’ regolato dai commi 1, 2 e 3».
Secondo la prospettazione attorea, tale disposizione sarebbe incostituzionale, non essendo consentito al legislatore limitare con procedure prive di giustificazione l’accesso alle procedure prestazioni sanitarie, ledendo in tal modo il diritto alla salute e alla autodeterminazione del singolo, nonche’ l’alleanza terapeutica fra medico e paziente.
Parte attrice richiama quindi la sentenza. n. 161/1985, con la quale la Corte costituzionale ha statuito che l’intervento chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali e’ in se’ lecito, perche’ rispondente ad esigenze terapeutiche.
Muovendo da tale assunto l’attore rileva che il regime autorizzatorio previsto dal citato art. 31 decreto legislativo n. 150/2011 determinerebbe un’ingiustificata disparita’ di trattamento, imponendo ai soli soggetti che intendono sottoporsi ad un intervento chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali di adire l’autorita’ giudiziaria per poter accedere ad un intervento medico-chirurgico. Diversamente, tutti gli altri interventi chirurgici, anche con conseguenze irreversibili e di carattere demolitivo (quali, ad esempio, l’intervento di amputazione di arti, ovvero la vasectomia) potrebbero essere realizzati sulla sola base di una valutazione di natura strettamente medica, senza alcuna necessita’ di richiedere ed ottenere una preventiva autorizzazione giudiziale.
Sotto diverso profilo, l’art. 31, decreto legislativo n. 150/2011 si porrebbe poi in contrasto con il diritto dell’Unione europea, in particolare con il divieto di discriminazione all’accesso ai servizi per ragioni di genere imposto dalla direttiva 2004/113/CE del Consiglio, del 13 dicembre 2004, che applica il principio della parita’ di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l’accesso a beni e servizi e la loro fornitura. In particolare, la procedura di autorizzazione prevista dalla disposizione contestata determinerebbe una discriminazione diretta nell’accesso ad un servizio economico – nella specie, l’erogazione di prestazioni sanitarie – a causa del fattore protetto del sesso/genere, nozione ampia nella quale rientra pacificamente anche l’identita’ di genere. In tale prospettiva, la disposizione censurata si porrebbe pertanto in contrasto con gli articoli 2,3 e 32, nonche’ con l’art. 117, comma 1, della Costituzione.
Il pubblico ministero, parte convenuta formale del presente procedimento, ha chiesto l’accoglimento delle conclusioni rassegnate da parte attrice.
- Questioni di legittimita’ costituzionale.
2.1. Art. 1 della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), in riferimento agli articoli 2,3,32 e 117, primo comma Cost., in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti anche solo: CEDU), nella parte in cui afferma che «la rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali», anziche’ prevedere che «la rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita ovvero altro sesso diverso da quello maschile e femminile a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali».
2.2. Art. 31, comma 4, del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’art. 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), in riferimento agli articoli 2,3 e 32 Cost., nella parte in cui prevede che «quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato. Il procedimento e’ regolato dai commi 1, 2 e 3».
- Rilevanza delle questioni
3.1. Con riferimento alla rilevanza della questione di legittimita’ costituzionale sub 2.1., va rilevato quanto segue.
Il procedimento giudiziale di rettificazione anagrafica di attribuzione del sesso e’ regolato dall’art. 1 della legge 14 aprile 1982, n. 164.
Sulla base di tale disposizione, nella formulazione attualmente vigente, la domanda proposta dall’attore di rettificazione anagrafica del sesso riportato nell’atto di nascita da «femminile» ad «altro», o alternative ritenute idonee, non potrebbe trovare accoglimento, posto che la norma censurata non contempla la possibilita’ che venga attribuito con sentenza un sesso diverso da quello maschile o femminile.
Sebbene tale disposizione non faccia espresso riferimento alla necessita’ di ottenere una rettificazione in termini strettamente binari, deve, infatti, ritenersi che l’ordinamento dello stato civile vigente sia informato implicitamente sulla bipartizione di genere «femminile» e «maschile» e che pertanto non sia configurabile una rettificazione anagrafica con attribuzione di un genere terzo.
Diversamente, nell’ipotesi di incostituzionalita’ della norma censurata nei termini prospettati, la domanda di rettificazione avrebbe ragionevoli probabilita’ di accoglimento, avendo parte attrice sufficientemente dimostrato – attraverso il deposito di idonea documentazione dei trattamenti medici e psicoterapeutici effettuati – di aver completato un percorso individuale irreversibile di transizione verso un genere non identificabile come maschile o femminile.
3.2. Quanto alla questione di legittimita’ costituzionale sub 2.2., va rilevato che la necessita’ di richiedere l’autorizzazione giudiziale per poter sottoporsi ad un intervento chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali deriva dal disposto di cui all’art. 31, comma 4, del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150. Sulla base di tale norma di legge, il giudice remittente e’ pertanto chiamato a pronunciarsi nel merito sulla domanda di autorizzazione.
Qualora invece la questione di legittimita’ costituzionale nei termini prospettati fosse fondata, verrebbe meno la possibilita’ da parte del tribunale di rendere una pronuncia di merito sulla domanda attorea di autorizzazione a sottoporsi ad interventi chirurgici di adeguamento dei caratteri sessuali ed il procedimento si concluderebbe verosimilmente – in parte qua – con una sentenza in rito di difetto assoluto di giurisdizione, per inesistenza nell’ordinamento di una norma astrattamente applicabile alla situazione soggettiva dedotta in giudizio.
- Non manifesta infondatezza delle questioni legittimita’ costituzionale delle disposizioni di legge applicabili
4.1. Sotto un primo profilo, l’art. 1 della legge 14 aprile 1982, n. 164, nella parte in cui non prevede la possibilita’ di ottenere una rettificazione anagrafica con attribuzione di un genere diverso da quello maschile e femminile, pare porsi in contrasto con gli articoli 2,32, e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU, determinando una lesione dell’identita’ di genere, intesa come espressione del diritto all’identita’ personale, rientrante nell’ambito dei diritti fondamentali della persona e al tempo stesso di strumento per la piena realizzazione del diritto alla salute. Sul punto e’ appena il caso di richiamare, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha espressamente riconosciuto come il diritto all’identita’ sessuale e all’autodeterminazione delle persone transessuali rientrino nella sfera personale tutelata dall’art. 8 della CEDU (si vedano, in particolare, le pronunce V. K. c. Germania, n. 35968/97, § 69, CEDU 2003-VII, S c. Svizzera, n. 29002/06, § 77, 8 gennaio 2009, e Y.Y. c. Turchia, § 56).
Cio’ posto, occorre preliminarmente rilevare che, il riconoscimento di una nozione di identita’ di genere in termini non binari, bensi’ fluidi, collocabile quindi in un continuum tra i generi maschile femminile, posti tra loro agli antipodi, appare effettivamente conforme ai piu’ recenti approdi della scienza medica e psicosociale.
In particolare, e’ ravvisabile un ampio consenso scientifico in ordine al fatto che il genere non puo’ essere determinato o addirittura stabilito solo sulla base di caratteristiche genetiche-anatomiche-cromosomiche, essendo altresi’ determinato da fattori sociali e psicologici dell’individuo.
In tale prospettiva, il modello di identita’ di genere fondato su uno spettro lineare di tipo binario si pone in contrasto con la percezione di genere soggettiva di taluni individui, i quali non riconoscono di appartenere al genere femminile ovvero a quello maschile.
Tale assunto trova conferma nella documentazione scientifica richiamata da parte attrice nei propri atti e riportata sub punto 1.2. della presente ordinanza, nonche’ nel parere medico di data 27 febbraio 2022 di cui al punto sub 1.1.
In via indiretta, tale conclusione e’ poi confortata dalla giurisprudenza delle corti costituzionali europee richiamata sub punto 1.2., che presuppone sotto il profilo logico-scientifico, l’adesione ad un modello di identita’ di genere non ascrivibile ad una rigida suddivisione in termini binari.
Analogamente, sempre sotto il profilo fattuale, l’esistenza da un punto di vista fenomenico di un terzo genere e’ indirettamente comprovata dalla circostanza che l’Unione europea e alcuni Paesi europei riconoscono espressamente nella propria legislazione la possibilita’ di ottenere una registrazione anagrafica non binaria (cfr. il punto sub punto 1.2. della presente ordinanza).
Muovendo da tali premesse, la normativa censurata sembra dunque violare il diritto individuale all’identita’ di genere, nell’accezione sopra richiamata, nella misura in cui non consente agli individui che non si riconoscono nel genere maschile ovvero femminile, di ottenere una rettificazione anagrafica conforme alla identita’ di genere soggettivamente percepita e vissuta.
Non sembra peraltro che la possibilita’ prevista dal nostro ordinamento di ottenere una rettificazione anagrafica in senso esclusivamente binario, verso un genere femminile o, in alternativa, maschile, sia conforme ai canoni di necessita’ e proporzionalita’, come enucleati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nell’interpretare il diritto alla vita privata e familiare, come garantito dall’art. 8 CEDU (per un esempio di applicazione di proporzionalita’ in relazione all’art. 8 della Convenzione, cfr. sentenza della Corte EDU del 25 settembre 2012 – Ricorso n. 33783/09 – G. c. Italia, in materia di diritto all’accesso alle informazioni sulle proprie origini al figlio adottivo non riconosciuto).
Nello specifico, non pare che una tale restrizione al diritto all’identita’ di genere possa essere imposta al fine di tutelare l’interesse pubblico alla esatta differenziazione tra i generi in modo tale da non creare situazioni relazionali non previste dal nostro attuale sistema di diritto familiare e filiale. Il bilanciamento con tale esigenza pubblicistica di certezza dei rapporti giuridici non sembra infatti poter giustificare l’assoluta preclusione, per i soggetti con un’identita’ non binaria, di ottenere una rettificazione anagrafica conforme alla propria identita’ di
genere.
In altri termini, la disposizione censurata non sembra ricercare alcun equilibrio tra i diritti e gli interessi concorrenti laddove sacrifica interamente il diritto delle persone non binarie a vedere riconosciuta anagraficamente la propria identita’ di genere, attribuendo in tal modo preferenza incondizionata all’interesse pubblicistico alla certezza dei rapporti giuridici.
Ne’ paiono ravvisabili ulteriori ragioni idonee a giustificare il mancato riconoscimento anagrafico dell’identita’ di genere non binaria.
Sotto diverso profilo, la disposizione censurata sembra altresi’ violare il principio di uguaglianza, nella specie, gli articoli 2,3 e 32 Cost., nella misura in cui prevede un sistema di rettificazione anagrafica rigidamente binario, che impone agli individui con identita’ di genere non binaria e non conforme al sesso indicato nel loro atto di nascita, di accettare una rettificazione esclusivamente verso il genere maschile o femminile, non corrispondente alla propria identita’ di genere, mentre consente agli individui la cui identita’ di genere e’ binaria, ma non corrispondente al sesso enunciato nell’atto di nascita, di ottenere una rettificazione conforme alla propria identita’ di genere.
In questa prospettiva, limitando la possibilita’ di rettificare il sesso registrato sul certificato di nascita a una scelta binaria, maschile o femminile, la disposizione censurata contiene una lacuna che sembra porsi in contrasto con il principio di uguaglianza, letto in combinazione con il diritto fondamentale all’identita’ personale.
La norma censurata sembra pertanto determinare una ingiustificata disparita’ di trattamento tra soggetti in analoga posizione sostanziale, nella specie, individui con identita’ di genere binaria che richiedono giudizialmente la rettificazione del sesso enunciato nell’atto di nascita ed individui con identita’ di genere non binaria che intendono proporre la medesima domanda.
Non sembra peraltro possibile operare un’interpretazione costituzionalmente conforme della norma censurata, dovendosi ritenere che, anche in assenza di espressi riferimenti testuali alla possibilita’ di ottenere una rettificazione in termini esclusivamente binari, l’intero plesso normativo in materia di rettificazione di attribuzione di sesso sia implicitamente informato sul riconoscimento dei soli generi maschile e femminile.
4.2. L’art. 31, comma 4, del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 sembra violare gli articoli 2,3 e 32 della Costituzione nella misura in cui irragionevolmente impone che i trattamenti medico-chirurgici finalizzati all’adeguamento dei caratteri sessuali debbano essere preventivamente autorizzati dal tribunale.
La Corte costituzionale gia’ nella sentenza n. 161/1985, ha riconosciuto che l’intervento chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali risponde ad esigenze terapeutiche ed e’ pertanto in se’ lecito.
Va peraltro rilevato che costituisce approdo giurisprudenziale ormai consolidato l’esclusione del carattere necessario dell’intervento chirurgico ai fini della rettificazione anagrafica, essendo rimessa al singolo la scelta delle modalita’ con le quali realizzare il proprio percorso di transizione. In tale prospettiva, il ricorso alla chirurgia costituisce solo uno dei possibili percorsi volti all’adeguamento dell’immagine esteriore alla propria identita’ personale, come percepita dal soggetto (Cass., Sez. 1, sentenza n. 15138 del 20 luglio 2015, Rv. 636001 – 01; Corte cost. sentenza n. 221/2015).
Tale approdo e’ peraltro del tutto coerente con la piu’ recente giurisprudenza della Corte EDU (cfr. Corte EDU, Sezione IV, 19 gennaio 2021 rich. n. 2145/16 e n. 20607/16, X e Y c. Romania).
Con specifico riferimento all’art. 31 del decreto legislativo n. 150 del 2011, nella sentenza n. 221/2015, la Corte costituzionale ha precisato che, attraverso tale disposizione, il legislatore ha ribadito di volere lasciare all’apprezzamento del giudice, nell’ambito del procedimento di autorizzazione all’intervento chirurgico, l’effettiva necessita’ dello stesso, in relazione alle specificita’ del caso concreto.
Il ricorso alla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali risulta autorizzabile in funzione di garanzia del diritto alla salute, ossia laddove lo stesso sia volto a consentire alla persona di raggiungere uno stabile equilibrio psicofisico, in particolare in quei casi nei quali la divergenza tra il sesso anatomico e la psicosessualita’ sia tale da determinare un atteggiamento conflittuale e di rifiuto della propria morfologia anatomica.
Muovendo da tali premesse, in particolare dalla finalita’ prettamente terapeutica degli interventi di cui si discute, pare, tuttavia, potersi dubitare della ragionevolezza del regime autorizzatorio previsto dalla normativa censurata, la quale impone un apprezzamento di natura giudiziale sulla necessita’ dell’intervento chirurgico che dovrebbe per contro essere demandato in via esclusiva ad una valutazione di natura medica e psicologica.
Sul punto, la giurisprudenza costituzionale ha piu’ volte evidenziato i limiti alla discrezionalita’ legislativa imposti dal rispetto della scienza medica: sicche’, in materia di pratica terapeutica, la regola di fondo deve essere la autonomia e la responsabilita’ del medico, che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali (Corte cost. sentenza n. 151 del 2009).
Con riferimento agli interventi chirurgici di modificazione dei caratteri sessuali, nella piu’ volte citata sentenza n. 221 del 2015, la Corte costituzionale ha poi fatto propria un’impostazione che, conformemente ai «supremi valori costituzionali rimette al singolo la scelta delle modalita’ attraverso le quali realizzare, con l’assistenza del medico e di altri specialisti, il proprio percorso di transizione, il quale deve comunque riguardare gli aspetti psicologici, comportamentali e fisici che concorrono a comporre l’identita’ di genere».
Cio’ posto, se e’ vero che nel caso della normativa censurata l’apprezzamento giudiziale si sovrappone e non si sostituisce alla valutazione medico-psicologica, ciononostante tale scelta operata dal legislatore non appare conforme ai canoni di necessita’ e proporzionalita’, nella misura in cui determina, per il paziente che abbia gia’ ottenuto un’indicazione medica favorevole all’intervento chirurgico, un significativo ostacolo all’accesso ad una prestazione sanitaria, in particolare considerando i tempi ed i costi derivanti all’istaurazione del giudizio autorizzatorio innanzi al tribunale.
Del resto, appare in astratto difficile ipotizzare che, a fronte di una indicazione medico-psicologica favorevole all’esecuzione di un intervento chirurgico di modificazione dei caratteri sessuali che abbia fornito una precisa diagnosi e dunque vagliato sotto il profilo medico-scientifico la genuinita’ e la irreversibilita’ del percorso di transizione di un individuo, il tribunale possa ciononostante negare l’autorizzazione prescritta dalla norma censurata.
Ne’ sembrano ravvisabili specifiche ragioni tali da far ritenere ineludibile un vaglio giudiziale in merito all’effettiva necessita’ di un intervento chirurgico valutato come indicato per la salute del paziente all’esito di un accertamento medico-psicologico ed in relazione al quale lo stesso paziente ha prestato un proprio consenso informato.
In tale prospettiva, la disposizione contestata sembra porsi in contrasto con gli articoli 2,3 e 32 Cost., nella misura in cui comporta una ingiustificata e considerevole limitazione al diritto di un individuo all’accesso alle cure mediche e dunque una lesione del diritto alla salute ed alla autodeterminazione del singolo.
Sotto diverso profilo, come correttamente osservato da parte attrice, la disciplina in esame determina un trattamento irragionevolmente e significativamente deteriore in capo ai soggetti che intendano sottoporsi ad interventi chirurgici di modificazione dei caratteri sessuali – stante la necessita’ di ottenere una preventiva autorizzazione da parte del tribunale – rispetto ai soggetti che debbano o vogliano sottoporsi ad interventi chirurgici altrettanto invasivi ed irreversibili (si pensi agli interventi di amputazione di arti ovvero di vasectomia), che possono invece essere eseguiti unicamente sulla base di una valutazione medica favorevole.
Non pare poi che l’esistenza del regime autorizzatorio previsto dalla disciplina impugnata e la disparita’ di trattamento appena evidenziata possano essere giustificate in ragione dell’interesse pubblico alla certezza delle relazioni giuridiche, in particolare alla distinzione tra i generi e delle relazioni giuridico-sociali.
A tal proposito va rilevato che, tenendo conto dell’interesse pubblico alla certezza delle relazioni giuridico-sociali, la gia’ richiamata giurisprudenza di legittimita’ e costituzionale ha ribadito che il riconoscimento giudiziale del diritto al mutamento di sesso deve essere preceduto da un accertamento rigoroso del completamento di un percorso individuale serio ed irreversibile (Cass., Sez. 1, sentenza n. 15138 del 20 luglio 2015 e Corte cost. sentenza n. 221 del 2015).
Tuttavia, tale esigenza di certezza dei rapporti giuridici sembra idonea a giustificare la necessita’ di una siffatta rigorosa valutazione giudiziale ai fini dell’accoglimento della domanda di rettificazione anagrafica e non anche quale presupposto all’accesso a trattamenti terapeutici come gli interventi chirurgici di adeguamento ai caratteri sessuali, dovendosi ormai ritenere definitivamente interrotto, in ossequio ai principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimita’ sopra richiamata, il nesso funzionale tra tali interventi e la rettificazione anagrafica.
Infine, anche con riguardo alla questione di legittimita’ costituzionalita’ da ultimo delineata, non pare possibile operare un’interpretazione conforme a Costituzione della disposizione censurata, stante la formulazione chiara ed univoca del dato normativo che prescrive la necessaria autorizzazione preventiva giudiziale dei trattamenti medico-chirurgici funzionali all’adeguamento dei caratteri sessuali.