Corte di Cassazione, I Sezione Civile, ordinanza 07 marzo 2022, n. 7415
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE (sintesi massimata)
- La ricorrente lamenta: a) con il primo ed il secondo motivo, la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 7 Dichiarazione universale dei Diritti umani, art. 26 del Patto internazionale per i diritti civili e politici, artt. 14 e 8 CEDU, art. 3 Cost., comma 1, D.Lgs. n. 198 del 2006, art. 55 ter nonché Direttiva 2004/113, art. 3 e art. 1322 c.c., in relazione alla complessiva erroneità della nozione di “discriminazione diretta” e di “molestie”, di cui alla Direttiva 2004/113/CE, art. 2, lett. a) e c) e del D.Lgs. n. 198 del 2006, art. 55 bis ed ai limiti dell’autonomia negoziale posti dalla disciplina normativa antidiscriminatoria; b) con il terzo ed il quinto motivo, la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 4, delle regole di ripartizione dell’onere della prova in azioni antidiscriminatorie di cui al D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 28, comma 4, Direttiva UE 2004/113 e art. 14 CEDU, artt. 115 e 116 c.p.c., art. 2697 c.c., anche in relazione agli artt. 2727 e 2729 c.c., a seguito della produzione da parte della ricorrente di dati di carattere statistico; c) con il quarto motivo, l’omesso esame, ex art. 360 c.p.c., n. 5, di fatto decisivo costituito dai dati statistici attestanti l’alto tasso di discriminazione delle persone “trans”; d) con il sesto ed il settimo motivo, la nullità della sentenza e del provvedimento, ex art. 360 c.p.c., n. 4, e l’omessa motivazione, ex art. 360 c.p.c., n. 5, sull’istanza istruttoria di acquisizione della sentenza, passata in giudicato, del Tribunale penale di Trento, emessa nei confronti di P.B. (ritenuta responsabile del reato di falsa testimonianza su circostanze a sua conoscenza e che confermavano la fondatezza delle ragioni fatte valere da M , ma non punibile per la causa di giustificazione dello stato di necessità), e degli atti del procedimento penale; e) con l’ottavo motivo, l’omessa motivazione, ex art. 360 c.p.c., n. 5, in relazione all’art. 132 c.p.c., n. 4, artt. 111,11 e 117 Cost., art. 47 Carta Diritti Fondamentali, con riferimento alla condotta posta in essere da (omissis) fino al (omissis), all’inattendibilità dei testi indicati dalla società, con domanda di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia per l’interpretazione degli artt. 41 e 47 Carte dei diritti fondamentali UE, in relazione ai principi sul diritto di difesa e sull’onere della prova ed agli obblighi degli organi giurisdizionali di motivare; f) con il nono motivo, l’omesso esame, ex art. 360 c.p.c., n. 5, di fatti decisivi oggetto di discussione tra le parti, rappresentati dai fatti e gli atti discriminatori posti in essere da (omissis) per motivi di identità di genere.
- La controricorrente, alle pagg. 15/19, pur non espressamente formulando un ricorso incidentale condizionato, reitera, in questa sede di legittimità, le doglianze, mosse anche in appello, sull’inapplicabilità al caso di specie del D.Lgs. n. 198 del 2006, normativa dettata per la promozione delle pari opportunità “tra uomo e donna” e quindi non estensibile al diverso genere indicato con il termine transgender, e sull’assenza comunque di elementi sufficienti da parte della M. al fine di giustificare, in base alla suddetta normativa speciale, l’inversione dell’onere probatorio.
- Le prime due censure del ricorso sono infondate.
3.1. La ricorrente evidenzia che il fatto pacifico della proposta di una soluzione abitativa alternativa, formulata, peraltro, dalla (omissis) solo dopo il colloquio del (omissis) e dopo che il legale della M. aveva inoltrato una diffida alla società, indubbiamente “vantaggiosa in relazione alle condizioni economiche del mercato immobiliare del capoluogo trentino”, non assumeva il dirimente e decisivo rilievo attribuitovi dalla Corte di merito. Per integrare la nozione – Eurounitaria – di condotta discriminatoria non rileva “l’animus discriminandi”, ovvero la volontà di discriminare, e la Corte di merito avrebbe dovuto, invece, dare rilievo al fatto che tale offerta di un bene diverso (dopo che la proposta della M. , la quale aveva, sin dall’inizio, rappresentato di “non essere studente”, aveva comportato l’accettazione della caparra, trattenuta dalla società per quasi due mesi) comunque costituiva un “trattamento meno favorevole”, ai sensi del citato art. 55 bis, comma 1 nonché al fatto che l’offerta del bene voluto era stata sottoposta a condizioni – l’iscrizione all’Università, oltretutto con netta anticipazione del termine (fine ottobre) necessario, di regola, per l’immatricolazione, – non ugualmente riscontrabili in quelle di altri conduttori della stanza. Il tutto rendeva pienamente sindacabile la scelta della società di non locare più la stanza alla M..
3.2. Viene invocata, prosegue la Corte, l’applicazione alla fattispecie (e la controricorrente, al riguardo, contesta l’operatività della suddetta normativa) del Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al D.Lgs. n. 198 del 2006, e specificamente il Titolo II Bis (Parità di trattamento tra uomini e donne nell’accesso a beni e servizi e loro fornitura) e, quanto al Capo I, gli artt. 55 bis (quale introdotto dal D.Lgs. n. 196 del 2007, in attuazione della direttiva 2004/113/CE, nel testo poi modificato nel 2008, secondo cui: “Nozione di discriminazione. 1. Sussiste discriminazione diretta, ai sensi del presente titolo, quando, a causa del suo sesso, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra persona in una situazione analoga…. 4. Sono considerate come discriminazioni, ai sensi del presente titolo, anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, fondati sul sesso, aventi come oggetto o conseguenza la lesione della dignità di una persona e la creazione di un ambiente intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”) e 55 ter (“Divieto di discriminazione. 1. È vietata ogni discriminazione diretta e indiretta fondata sul sesso nell’accesso a beni e servizi e loro fornitura… 4. Resta impregiudicata la libertà contrattuale delle parti, nella misura in cui la scelta del contraente non si basa sul sesso della persona”) e, quanto al Capo H, 55 quinquies, che prescrive l’applicazione alle controversie del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 28 e quindi del rito sommario di cognizione e del regime probatorio dettato dal comma 4 (“Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione. I dati di carattere statistico possono essere relativi anche alle assunzioni, ai regimi contributivi, all’assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti dell’azienda interessata “).
La Direttiva 2004/113/CE, Direttiva del Consiglio che attua il principio della parità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l’accesso a beni e servizi e la loro fornitura, definisce, all’art. 2, la nozione di discriminazione diretta (che ricorre “quando, a causa del suo sesso, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra persona in una situazione paragonabile”) e le molestie discriminatorie (che sussistono “quando si manifesta un comportamento non desiderato e determinato dal sesso di una persona, comportamento che ha come oggetto o conseguenza la lesione della dignità di una persona e la creazione di un ambiente intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”); all’art. 9 (Onere della prova) si stabilisce, al par. 1, che “Gli Stati membri adottano le misure necessarie, conformemente ai loro sistemi giudiziari nazionali, per assicurare che, allorché le persone che si ritengono lese dalla mancata applicazione nei loro riguardi del principio della parità di trattamento espongono, dinanzi a un tribunale o a un’altra autorità competente, fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o indiretta, incomba alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione del principio della parità di trattamento”, fatto salvo il diritto degli Stati membri di prevedere disposizioni in materia di onere della prova più favorevoli all’attore (par. 2).
3.3. La ricorrente denuncia dunque, facendo richiamo ai principi dettati dalla Direttiva 2004/113/CE, attuata nel nostro ordinamento con il D.Lgs. n. 196 del 2007, una condotta discriminatoria attuata dalla (omissis) nell’accesso ad un bene immobile, offerto sul mercato in locazione, nei suoi confronti, per ragioni di sesso, in quanto persona “transgender”.
Deve, anzitutto, evidenziarsi che i termini “sesso” e “genere” hanno significati differenti, dovendo il primo essere riferito a una condizione biologica (l’essere uomo o donna) e il secondo a una rappresentazione psicologico-simbolica ovvero culturale dell’identità maschile o femminile (il divenire maschio o femmina). Si tratta, dunque, di due aspetti dell’identità sessuale che, in quanto distinti, possono divergere ed entrare in tensione proprio nelle persone transessuali.
Nella specie, si chiede l’applicazione a favore di persona “transgender” di normativa introdotta, nel 2007, in attuazione di direttiva comunitaria del 2004, per disciplinare la tutela contro condotte discriminatorie sulla base del sesso, nella specie tra uomini e donne, nell’accesso di beni e servizi.
Ora, osserva la Corte, la Corte di giustizia UE, già nella sentenza 30 aprile 1996, C13/94, ha sussunto la nozione di sesso in una dimensione di neutralità, riferendo la discriminazione basata su tale connotato soggettivo “al sesso in quanto tale” a prescindere dalla sua declinazione. In particolare, la Corte di giustizia decidendo su due questioni pregiudiziali vertenti sull’interpretazione della direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionale e le condizioni di lavoro, ha affermato che il principio della parità di trattamento fra uomini e donne, al quale la direttiva fa riferimento nel suo titolo, nei suoi “considerando” e nelle sue disposizioni, implica “l’assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso” e che la direttiva è l’espressione, nella materia considerata, del principio di uguaglianza e che il diritto a non essere discriminato in ragione del proprio sesso costituisce uno dei diritti fondamentali della persona umana, di cui la Corte deve garantire l’osservanza.
Di conseguenza, la sfera di applicazione della direttiva non può essere ridotta soltanto alle discriminazioni derivanti dall’appartenenza all’uno o all’altro sesso, potendo anche applicarsi alle discriminazioni che hanno origine nel mutamento del sesso dell’interessato, in quanto siffatte discriminazioni si basano intrinsecamente, se non esclusivamente, su di esso. Il principio è stato ribadito nella successiva sentenza del 27/4/2006, nella causa C-423/04.
Deve dunque ritenersi che la disciplina antidiscriminatoria per ragioni di sesso nell’accesso a beni e servizi vada estesa all’ipotesi, quale quella in esame, in cui il soggetto che denuncia la discriminazione sia persona “transgender”, in quanto l’identità di genere è compresa in quella di sesso tutelato dalla Direttiva CE e dalla normativa italiana di attuazione.
3.4. Tanto premesso, prosegue la Corte, affinché si verifichi una “discriminazione diretta”, nella specie contestata dalla M. alla (omissis), occorre che la condotta antidiscriminatoria abbia dato luogo a un trattamento svantaggioso per una persona: essa si configura quando, sulla base di uno dei motivi vietati, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una posizione analoga.
Lamenta la ricorrente che la Corte d’appello, ai fini di verificare se vi fosse o meno una condotta discriminatoria, non doveva ricercare un “animus discriminandi”, un elemento psicologico di volontarietà, consapevolezza o colpevolezza della società ovvero vagliare la qualità, vantaggiosa, dell’offerta alternativa di un altro immobile, comunque diverso da quello desiderato, formulata alla M. pochi giorni prima della consegna dell’immobile, ma doveva interrogarsi su quali fossero le ragioni, diverse da quelle allegate discriminatorie, che avevano portato la società ad esigere severamente la condizione di studente, pur essendole nota sin dall’inizio la condizione di titolare di impresa nella M. .
Ora, precisa la Corte, è vero che il profilo soggettivo (dolo o colpa) nell’illecito discriminatorio non rileva, anche per il solo fatto della previsione di una risarcibilità del danno in presenza di una “discriminazione indiretta” – fattispecie ove una disposizione, un criterio, una prassi, di apparente neutralità, creano, in realtà, una discriminazione – cosicché devono ritenersi illeciti discriminatori tutte quelle condotte che, pur se prive delle caratteristiche di rimproverabilità e colpevolezza, siano produttive di una situazione di svantaggio per quei soggetti recanti determinate caratteristiche personali. Nella specie, tuttavia, la Corte d’appello, dopo avere detto che non era rinvenibile la volontà di discriminare, ha, altresì, affermato che, in concreto e sotto il profilo oggettivo, non vi era una condotta discriminatoria, in quanto non vi era stato un trattamento meno favorevole nell’accesso a beni e servizi e loro fornitura a danno della M..
La questione è quindi quella di verificare cosa occorra per integrare una condotta “oggettivamente discriminatoria”.
In generale, si riconosce che caratteristica determinante dell’illecito sia quella di creare un effetto di ingiustificata diseguaglianza, in quanto conseguenza immediata, diretta ed esclusiva di una determinata caratteristica della persona, che sia stata ritenuta rilevante dall’ordinamento come “fattore di rischio”. A fronte di indizi offerti dall’attore in giudizio in ordine ad un tale trattamento deteriore collegabile ad un suo fattore di rischio, fonte di diseguaglianza, comportamento che si presume discriminatorio, il convenuto dovrà offrire elementi in grado di far acclarare l’insussistenza del fatto presunto a lui contestato, cioè la discriminazione, in quanto la medesima scelta sarebbe stata operata nei confronti di qualsiasi altra persona, che si fosse trovata nella stessa posizione.
Nella specie, la Corte d’appello ha escluso, anzitutto, che dalle risultanze processuali emergesse che l’immobile non era stato dato in locazione alla M., in quanto persona “transgender”, risultando, anzi, che il complesso immobiliare, ove si trovava l’alloggio, era una residenza universitaria destinata a studenti e che la necessità della condizione soggettiva di studente per il conduttore era stata pubblicizzata e compariva nella proposta-preliminare sottoscritta dalla M. (a prescindere dalle incomprensioni originatesi nel rapporto con l’agenzia immobiliare incaricata); inoltre, la Corte d’appello ha rilevato che comunque era stato offerto alla M. sia di tenere bloccato l’appartamento per il tempo necessario alla sua iscrizione universitaria per l’anno sia di metterle a disposizione un altro alloggio, più grande come superficie, ubicato nel centro della città e alle stesse condizioni economiche pattuite per la stanza nella Residenza di (omissis).
La Corte d’appello ha quindi motivatamente ritenuto che non vi fosse stato un trattamento meno favorevole ed ingiustificato.
3.5 Il profilo poi delle molestie discriminatorie, oggetto del D.Lgs. n. 198 del 2006, art. 55 bis, comma 4 risulta, in ogni caso, nuovo. Nella sentenza non se ne parla e la ricorrente non indica come e quando essa avesse invocato tale specifica tutela antidiscriminatoria, ove fondata su diversi presupposti.
- Il terzo, il quarto, il quinto, il nono motivo sono infondati.
4.1. La ricorrente evidenzia, nel terzo motivo, implicante vizio di violazione di legge, che, nella materia, atteso l’obiettivo di dare tutela proprio alle condotte di discriminazione non palesi o “denunciate”, di difficile prova, il legislatore ha attribuito una valenza presuntiva ai “dati statistici”, imponendo un alleggerimento dell’onere della prova in capo a chi denuncia una discriminazione, e, nella specie, la ricorrente aveva allegato studi nazionali ed Europei che attestavano l’alto tasso di discriminazione, in Italia ed in Europa, nell’accesso all’abitazione da parte di persone “transgender”, dati statistici che, non oggetto di alcuna contestazione, non potevano essere ignorati dalla Corte d’appello, assumendo la qualità di fatti processualmente rilevanti, idonei a fondare una presunzione di discriminazione con effetti sul regime dell’onere della prova.
Nel quarto motivo, si denuncia comunque, al riguardo, anche l’omesso esame di fatto decisivo, ex art. 360 c.p.c., n. 5. Con il quinto motivo, inoltre, si rileva che anche altri fatti, precedenti e successivi al (omissis), erano stati allegati dalla M. sempre nell’ottica del regime probatorio alleggerito nella materia, al fine di offrire elementi della “apparenza di discriminazione” e la Corte d’appello li aveva tutti ignorati, non dando neppure atto di quale standard probatorio avesse applicato, così lasciando intendere di avere, erroneamente, fatto ricorso a quello ordinario in luogo di quello dettato dalla normativa speciale.
Nel nono motivo, si denuncia, al riguardo, anche l’omesso esame di fatto decisivo, ex art. 360 c.p.c., n. 5.
4.2. Questa Corte ha chiarito che, nell’ambito del giudizio antidiscriminatorio, l’attore ha soltanto l’onere di fornire elementi di fatto, anche di carattere statistico, idonei a far presumere l’esistenza di una discriminazione; conseguentemente, qualora il dato statistico fornito dal ricorrente indichi una condizione di svantaggio, è onere del convenuto dimostrare che la condotta non è stata improntata a criteri discriminatori.
Non è invece affatto previsto che i dati statistici debbano assurgere ad autonoma fonte di prova. Vi è infatti solo un’agevolazione probatoria in favore del soggetto che lamenta la discriminazione.
È stato evidenziato (cfr. Cass. 23338/2018, Cass. 1/2020), in ambito di controversie di lavoro, che le direttive in materia (quali quelle nn. 2000/78, così come le nn. 2006/54 e 2000/43), come interpretate della Corte di Giustizia, ed i decreti legislativi di recepimento impongono l’introduzione di un meccanismo di agevolazione probatoria o alleggerimento del carico probatorio gravante sull’attore, prevedendo che questi alleghi e dimostri circostanze di fatto dalle quali possa desumersi per inferenza che la discriminazione abbia avuto luogo, per far scattare l’onere per il convenuto di dimostrare l’insussistenza della discriminazione (cfr. Cass. n. 14206 del 2013, in materia di discriminazione di genere; Cass. 255432018, in ambito di discriminazione nel rapporto di lavoro).
4.3. La Corte territoriale, nella specie, pur non avendo espressamente motivato sul regime speciale probatorio dettato dalla normativa antidiscriminazione nell’accesso di beni e servizi, ha, senza per questo trascurare i dati indiziari offerti dalla ricorrente o incorrere in violazione del regime probatorio attenuato nella materia, affermato che la (omissis)aveva provato l’insussistenza di una condotta discriminatoria, per le ragioni espresse al precedente paragrafo.
- L’ottavo motivo, con il quale si denuncia poi l’omessa motivazione sulla domanda formulata dalla M. , di accertamento della condotta discriminatoria posta in essere da (omissis)”fino al (omissis)”, sulle istanze istruttorie di acquisizione del giudicato penale di accertamento della falsa testimonianza di un teste indicato anche dalla (omissis) e sugli elementi indiziari e statistici dedotti e prodotti a sostegno della domanda attrice, è, di conseguenza, assorbito, trattandosi di profili ed elementi giudicati implicitamente, non decisivi.
- Per tutto quanto sopra esposto, conclude la Corte, va respinto il ricorso. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.