Corte Costituzionale, sentenza, 23 luglio 2024, n. 143
PRINCIPIO DI DIRITTO
1) Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 4, del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), nella parte in cui prescrive l’autorizzazione del tribunale al trattamento medico-chirurgico anche qualora le modificazioni dei caratteri sessuali già intervenute siano ritenute dallo stesso tribunale sufficienti per l’accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso;
2) Vanno inoltre dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 32 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dal Tribunale ordinario di Bolzano, sezione seconda civile, in composizione collegiale, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Bolzano ha sollevato due serie di questioni di legittimità costituzionale, tra loro indipendenti.
Innanzitutto, è censurato l’art. 1 della legge n. 164 del 1982, poiché violerebbe gli artt. 2, 3, 32 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, nella parte in cui non prevede che quello assegnato con la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso possa essere un «altro sesso», diverso dal maschile e dal femminile.
È altresì censurato l’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011, che violerebbe gli artt. 2, 3 e 32 Cost., nella parte in cui subordina all’autorizzazione del tribunale la realizzazione del trattamento medico-chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali, eventualmente necessario ai fini della rettificazione.
1.1.– Il giudice a quo riferisce di essere stato adito da una persona di sesso anagrafico femminile, che, non riconoscendosi in tale genere, né in quello maschile, bensì in un genere non binario, si è rivolta alle strutture sanitarie pubbliche, dalle quali ha ricevuto una diagnosi di disforia o incongruenza di genere, per identificazione non binaria, con inclinazione al polo maschile.
Al Tribunale di Bolzano la persona ha chiesto la rettificazione di attribuzione del sesso da femminile ad “altro”, il cambiamento del prenome (dal femminile L. al maschile I.) e il riconoscimento del diritto di sottoporsi ad ogni intervento medico-chirurgico in senso gino-androide (principalmente, una mastectomia).
1.2.– In punto di rilevanza delle questioni, il rimettente assume che quelle relative all’art. 1 della legge n. 164 del 1982 non possano essere superate in via interpretativa, poiché, «[s]ebbene tale disposizione non faccia espresso riferimento alla necessità di ottenere una rettificazione in termini strettamente binari», dovrebbe ritenersi «che l’ordinamento dello stato civile vigente sia informato implicitamente sulla bipartizione di genere “femminile” e “maschile” e che pertanto non sia configurabile una rettificazione anagrafica con attribuzione di un genere terzo».
Dal canto loro, le questioni riferite all’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 sarebbero rilevanti poiché, ove esse fossero accolte, l’interessato potrebbe accedere agli interventi medico-chirurgici di adeguamento dei caratteri sessuali su base esclusivamente sanitaria e, dunque, il procedimento giudiziale si chiuderebbe in parte qua «con una sentenza in rito di difetto assoluto di giurisdizione».
1.3.– In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente assume che l’impossibilità di attribuire in rettificazione il genere non binario leda l’identità sociale della persona, la sua salute come benessere psicofisico e il rispetto della sua vita privata e familiare; sarebbe inoltre violato il principio di uguaglianza, poiché la rettificazione sarebbe consentita solo ai portatori di un’identità binaria, con immotivata esclusione di coloro che viceversa sentano di appartenere a un genere non binario.
Per altro verso, il regime autorizzatorio del trattamento medico-chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali, prescrivendo un vaglio giudiziale su una scelta terapeutica di un adulto, ne comprimerebbe ingiustificatamente i diritti all’autodeterminazione e alla salute, discriminandolo rispetto a chi debba sottoporsi a un intervento chirurgico parimenti irreversibile ma ad un fine diverso da quello dell’attribuzione di sesso.
2.– Intervenuto in giudizio tramite l’Avvocatura generale dello Stato, il Presidente del Consiglio dei ministri ha chiesto dichiararsi le questioni inammissibili o non fondate.
2.1.– L’inammissibilità delle questioni sul binarismo di genere è eccepita in ragione della creatività del petitum, ad esse peraltro imputandosi di dare per scontata l’esistenza di un sesso diverso dal maschile e femminile, di sovrapporre i pur distinti concetti di transessualità e intersessualità, nonché di lasciare immotivato il riferimento al parametro convenzionale.
La censura dell’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 sarebbe inammissibile per difetto di rilevanza, non risultando che vi sia stato nella specie un diniego di autorizzazione all’intervento chirurgico.
2.2.– Nel merito – secondo l’Avvocatura generale – tutte le questioni sarebbero non fondate.
L’identità di genere, «per sua natura mutevole», non si presterebbe a formare oggetto delle attestazioni di stato civile, che quindi ragionevolmente il legislatore baserebbe sull’identità sessuale, quale dato provvisto di stabilità.
D’altro canto, il peculiare impatto sociale della rettificazione anagrafica di sesso giustificherebbe la prescrizione dell’autorizzazione giudiziale circa l’appropriatezza dell’intervento chirurgico, fermo che, alla luce dell’art. 6 della legge n. 164 del 1982, l’interessato potrebbe pur sempre «operarsi con costi a proprio carico anche al di fuori del sistema sanitario nazionale, se ha urgenza tale da non poter attendere il vaglio giudiziario richiesto dall’ordinamento».
3.– Costituitasi in giudizio, la parte ha aderito agli argomenti del rimettente, peraltro evocando, quanto alla censura dell’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011, parametri ulteriori (artt. 13, primo comma, 97, secondo comma, 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 CEDU, 3 e 4 della direttiva 2004/113/CE).
4.– Come anticipato, le due serie di questioni proposte dal Tribunale di Bolzano sono autonome l’una dall’altra.
Invero, la prima concerne la dimensione – relativamente nuova per il diritto – della rivendicazione di un’identità di genere non binaria, mentre la seconda rileva anche per la condizione, ormai ben nota all’ordinamento, della persona che transiti dal genere femminile al maschile, o viceversa.
È opportuno premettere all’esame di entrambi i gruppi di censure una sintetica ricostruzione del quadro normativo e giurisprudenziale, come evoluto in materia.
4.1.– La legge n. 164 del 1982 è stata emanata per affrontare la problematica della transessualità, vale a dire il disallineamento e la ricomposizione tra il sesso biologico, attribuito alla nascita su base morfologico-genotipica, e l’identità sessuale, percepita dall’individuo nello sviluppo della sua personalità (l’art. 2 della legge, poi abrogato, parlava, al quarto comma, di «condizioni psico-sessuali»).
Le questioni non riguardano dunque il tema – contiguo, ma diverso – dell’intersessualità, la quale concerne le ipotesi in cui, per ermafroditismo o alterazioni cromosomiche, lo stesso sesso biologico risulti incerto alla nascita.
Allo scopo di permettere il riallineamento tra le condizioni somatiche e quelle psicologico-comportamentali, l’art. 1 della legge n. 164 del 1982 ha consentito la rettificazione di stato civile «in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali».
4.2.– Nella sentenza n. 161 del 1985, questa Corte ha sottolineato come la legge allora da poco varata si collocasse «nell’alveo di una civiltà giuridica in evoluzione, sempre più attenta ai valori, di libertà e dignità, della persona umana, che ricerca e tutela anche nelle situazioni minoritarie».
La stessa sentenza ha rimarcato che l’allineamento somatico all’identità sessuale è funzionale a ripristinare lo stato di benessere della persona e che è dovere di solidarietà per gli altri membri della collettività riconoscere l’identità oggetto di transizione, senza che quest’ultima possa essere considerata fattore di perturbamento dei rapporti sociali e giuridici, atteso che «il far coincidere l’identificazione anagrafica del sesso alle apparenze esterne del soggetto interessato o, se si vuole, al suo orientamento psicologico e comportamentale, favorisce anche la chiarezza dei rapporti sociali e, così, la certezza dei rapporti giuridici».
4.3.– Con la sentenza n. 221 del 2015, questa Corte, chiamata a pronunciarsi sul requisito normativo delle «intervenute modificazioni dei […] caratteri sessuali», quale condizione della pronuncia di rettificazione, ha escluso che le stesse includano necessariamente un trattamento chirurgico, in quanto le modalità dell’adeguamento dei caratteri sessuali devono adattarsi all’«irriducibile varietà delle singole situazioni soggettive».
«L’esclusione del carattere necessario dell’intervento chirurgico ai fini della rettificazione anagrafica» – si è precisato – «appare il corollario di un’impostazione che – in coerenza con supremi valori costituzionali – rimette al singolo la scelta delle modalità attraverso le quali realizzare, con l’assistenza del medico e di altri specialisti, il proprio percorso di transizione, il quale deve comunque riguardare gli aspetti psicologici, comportamentali e fisici che concorrono a comporre l’identità di genere».
Posto che quest’ultima è «elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona (art. 2 Cost. e art. 8 della CEDU)», il trattamento chirurgico è stato quindi riconfigurato «non quale prerequisito per accedere al procedimento di rettificazione», bensì «come possibile mezzo, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico».
4.4.– Successivamente, questa Corte ha avuto modo di chiarire che, sebbene «l’interpretazione costituzionalmente adeguata della legge n. 164 del 1982 consente di escludere il requisito dell’intervento chirurgico di normoconformazione», «ciò non esclude affatto, ma anzi avvalora, la necessità di un accertamento rigoroso non solo della serietà e univocità dell’intento, ma anche dell’intervenuta oggettiva transizione dell’identità di genere, emersa nel percorso seguito dalla persona interessata; percorso che corrobora e rafforza l’intento così manifestato», sicché «va escluso che il solo elemento volontaristico possa rivestire prioritario o esclusivo rilievo ai fini dell’accertamento della transizione» (sentenza n. 180 del 2017; poi, nel medesimo senso, ordinanza n. 185 del 2017).
4.5.– L’art. 31 del d.lgs. n. 150 del 2011 è intervenuto sugli aspetti procedurali della legge n. 164 del 1982.
I primi tre commi della norma stabiliscono che le controversie in materia di rettificazione di attribuzione di sesso, ove non diversamente disposto, sono regolate dal rito ordinario di cognizione (comma 1); la competenza spetta al tribunale, in composizione collegiale, del luogo di residenza dell’attore (comma 2); l’atto di citazione è notificato al coniuge e ai figli dell’attore e al giudizio partecipa il pubblico ministero (comma 3).
Il comma 4 dell’art. 31 – qui oggetto di censura – dispone che «[q]uando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato. Il procedimento è regolato dai commi 1, 2 e 3».
Si tratta di un adattamento processuale di quanto già prevedeva l’art. 3 della legge n. 164 del 1982 (contestualmente abrogato dall’art. 34, comma 39, lettera c, dello stesso d.lgs. n. 150 del 2011), il quale infatti stabiliva che «[i]l tribunale, quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, lo autorizza con sentenza» (primo comma) e che «[i]n tal caso il tribunale, accertata la effettuazione del trattamento autorizzato, dispone la rettificazione in camera di consiglio» (secondo comma).
Nel passaggio dalla legge n. 164 del 1982 al d.lgs. n. 150 del 2011 non è, quindi, mutata la struttura unitaria ed eventualmente bifasica del procedimento di rettificazione e, anzi, pur nell’ambito di una legislazione delegata alla semplificazione dei riti, quella struttura è stata assoggettata al modello del giudizio ordinario di cognizione, in luogo della precedente forma camerale.
Un ritorno a forme procedimentali più snelle deriverebbe dall’attrazione delle controversie di rettificazione nell’ambito di applicazione del rito unificato in materia di persone, minorenni e famiglie, attrazione delineatasi nel quadro dell’elaborazione delle disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149 (Attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206, recante delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata).
5.– Le questioni sollevate dal Tribunale di Bolzano nei confronti dell’art. 1 della legge n. 164 del 1982 sono inammissibili.
Pur evidenziando un problema di tono costituzionale, esse, per le ricadute sistematiche che implicano, eccedono il perimetro del sindacato di questa Corte.
5.1.– La diagnosi rilasciata dalla struttura sanitaria pubblica in funzione del giudizio a quo conferma nella specie la realtà clinica dell’identificazione non binaria e invero essa, come trascritta nell’ordinanza di rimessione, sottolinea che «[i] termini disforia di genere (DSM-5) e incongruenza di genere (ICD-11) includono sia le denominazioni di genere binarie (maschile/femminile) sia tutte le altre forme di definizione di genere (riassunte nel termine non-binario)».
Per il DSM-5 (quinta revisione del «Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders»), la disforia di genere, oltre che al maschile e al femminile, può attenere a «some alternative gender»; lo stesso per l’incongruenza di genere, classe diagnostica utilizzata dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) nell’ICD-11 (undicesima revisione dell’«International Classification of Diseases»).
5.2.– Non pochi ordinamenti europei – da ultimo quello tedesco, con la recente legge sull’autodeterminazione in materia di registrazione del sesso («Gesetz über die Selbstbestimmung in Bezug auf den Geschlechtseintrag SBGG») – hanno riconosciuto e disciplinato l’identità non binaria, seppure in forme diversificate.
La Corte costituzionale belga ha censurato la delimitazione binaria della disciplina legislativa della transizione di genere, stigmatizzando l’ingiustificata disparità di trattamento fra chi sente di appartenere al sesso maschile o femminile e chi invece non si identifica in alcuno dei predetti generi (arrêt n° 99/2019 del 19 giugno 2019).
Lo stesso diritto dell’Unione europea da tempo va evolvendo in tal senso, e infatti, per favorire la circolazione dei documenti pubblici tra gli Stati membri, il regolamento (UE) 2016/1191 del Parlamento europeo e del Consiglio del 6 luglio 2016, che promuove la libera circolazione dei cittadini semplificando i requisiti per la presentazione di alcuni documenti pubblici nell’Unione europea e che modifica il regolamento (UE) n. 1024/2012, presenta moduli standard recanti alla voce «sesso» non due diciture, ma tre, «femminile», «maschile» e «indeterminato».
5.3.– Le indicazioni che provengono dagli ordinamenti degli Stati europei e dalle Corti sovranazionali non sono tuttavia univoche.
Mentre è ormai ferma nell’accordare tutela convenzionale alla transizione verso un genere binario (fin dalla sentenza della grande camera, 11 luglio 2002, Christine Goodwin contro Regno unito), la Corte EDU ha recentemente escluso che l’art. 8 CEDU ponga sugli Stati un’obbligazione positiva di registrazione non binaria, non potendosi ritenere ancora sussistente un consensus europeo al riguardo (sentenza 31 gennaio 2023, Y. contro Francia).
In senso analogo si era già espressa la Corte suprema del Regno unito, a proposito dell’identificazione non binaria tramite marcatore “X” sui passaporti (sentenza 15 dicembre 2021, Elan-Cane, UKSC 56).
5.4.– La percezione dell’individuo di non appartenere né al sesso femminile, né a quello maschile – da cui nasce l’esigenza di essere riconosciuto in una identità “altra” – genera una situazione di disagio significativa rispetto al principio personalistico cui l’ordinamento costituzionale riconosce centralità (art. 2 Cost.).
Nella misura in cui può indurre disparità di trattamento o compromettere il benessere psicofisico della persona, questa condizione può del pari sollevare un tema di rispetto della dignità sociale e di tutela della salute, alla luce degli artt. 3 e 32 Cost.
In vari ambiti della comunità nazionale si manifesta una sempre più avvertita sensibilità nei confronti di questa realtà pur minoritaria, come dimostra, tra l’altro, la pratica delle “carriere alias”, tramite le quali diversi istituti di istruzione secondaria e universitaria permettono agli studenti di assumere elettivamente, ai fini amministrativi interni, un’identità – anche non binaria – coerente al genere percepito.
Tali considerazioni, unitamente alle indicazioni del diritto comparato e dell’Unione europea, pongono la condizione non binaria all’attenzione del legislatore, primo interprete della sensibilità sociale.
5.5.– D’altronde, l’eventuale introduzione di un terzo genere di stato civile avrebbe un impatto generale, che postula necessariamente un intervento legislativo di sistema, nei vari settori dell’ordinamento e per i numerosi istituti attualmente regolati con logica binaria.
Per ricordare solo gli aspetti di maggior evidenza, il binarismo di genere informa il diritto di famiglia (così per il matrimonio e l’unione civile, negozi riservati a persone di sesso diverso e, rispettivamente, dello stesso sesso), il diritto del lavoro (per le azioni positive in favore della lavoratrice), il diritto dello sport (per la distinzione degli ambiti competitivi), il diritto della riservatezza (i “luoghi di contatto”, quali carceri, ospedali e simili, sono normalmente strutturati per genere maschile e femminile).
L’art. 1 del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell’articolo 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246), dopo aver sancito il principio della parità di trattamento e di opportunità «tra donne e uomini», da assicurare in tutti i campi (comma 2), precisa che esso non osta al mantenimento o all’adozione di misure in favore del «sesso sottorappresentato» (comma 3).
La rettificazione in senso non binario inciderebbe anche sulla disciplina dello stato civile, e non soltanto per la necessità di coniare una nuova voce di registrazione, ma anche riguardo al nome della persona.
Infatti, l’art. 35, comma 1, del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127) stabilisce il principio della corrispondenza tra nome e sesso, principio che andrebbe superato, o quantomeno relativizzato, per le persone con identità non binaria, giacché nell’onomastica italiana i nomi ambigenere sono rarissimi (lo conferma proprio il caso di specie, nel quale la persona chiede il riconoscimento dell’identità non binaria e vuole pertanto abbandonare il nome femminile imposto alla nascita, e tuttavia opta, in sostituzione, per un nome maschile).
5.6.– Tutto ciò considerato, in accoglimento della pertinente eccezione della difesa statale, le questioni di legittimità costituzionale promosse dal Tribunale di Bolzano nei confronti dell’art. 1 della legge n. 164 del 1982 vanno dichiarate inammissibili.
6.– La censura dell’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 è invece fondata, nei limiti di cui appresso.
6.1.– All’esame di merito di tali ulteriori questioni non ostano ragioni di inammissibilità.
6.1.1.– L’eccezione di difetto di rilevanza sollevata al riguardo dalla difesa statale è priva di fondamento.
Invero, la deduzione dell’Avvocatura per cui «è la stessa parte ricorrente ad aver applicato la norma in questione nel promuovere il giudizio da cui è scaturito l’incidente di costituzionalità, rivolgendosi al giudice prima che al medico», non è pertinente, in quanto è proprio la disposizione oggetto di censura, nella formulazione vigente, a prescrivere tale sequenza.
6.1.2.– Neppure è persuasivo l’argomento della facoltatività dell’autorizzazione giudiziale all’intervento chirurgico, speso dall’Avvocatura generale nella trattazione di merito e che tuttavia – ove fosse fondato – inciderebbe proprio sulla rilevanza delle questioni.
Per sostenere tale argomento la difesa statale richiama l’art. 6 della legge n. 164 del 1982, che tuttavia riguarda una fattispecie di diritto transitorio, i cui effetti sono ormai da tempo esauriti (la disposizione fissa un termine annuale per la domanda di rettificazione «[n]el caso che alla data di entrata in vigore della presente legge l’attore si sia già sottoposto a trattamento medico-chirurgico di adeguamento del sesso»).
Verosimilmente, l’Avvocatura intende piuttosto riferirsi all’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale la persona transessuale che si sia sottoposta all’intervento chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali senza l’autorizzazione giudiziale non per questo perde il diritto alla rettificazione anagrafica (Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza 14 dicembre 2017, n. 30125).
È evidente tuttavia che trattasi di due piani differenti, giacché le conseguenze dell’eventuale mancata autorizzazione non possono riflettersi sulla relativa prescrizione, che è tuttora nella legge.
6.1.3.– Occorre interrogarsi d’ufficio riguardo all’incidenza che sulla rilevanza delle questioni ora in scrutinio potrebbe spiegare la constatata inammissibilità di quelle relative al binarismo di genere.
Neppure questo profilo si rivela però ostativo all’esame di merito della censura dell’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011, poiché, a conferma della più volte segnalata autonomia delle due serie di questioni, l’attore del giudizio a quo chiede di sottoporsi a interventi chirurgici di adeguamento in senso gino-androide, funzionali ad una transizione che, non potendo essere allo stato non binaria, sarà dal genere femminile al maschile.
6.1.4.– Le questioni relative all’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 devono essere, pertanto, vagliate nel merito.
I parametri sono unicamente quelli evocati dal rimettente – artt. 2, 3 e 32 Cost. –, non potendosi considerare gli ulteriori dedotti dalla parte costituita, la quale, per giurisprudenza costante di questa Corte, non ha il potere di ampliare il thema decidendum del giudizio incidentale di legittimità costituzionale (tra molte, sentenze n. 112 e n. 50 del 2024, n. 215, n. 184 e n. 161 del 2023).
6.2.– La previsione dell’autorizzazione giudiziale per i trattamenti medico-chirurgici di adeguamento dei caratteri sessuali ha rappresentato una cautela adottata dalla legge n. 164 del 1982 nel momento in cui l’ordinamento italiano si apriva alla rettificazione dell’attribuzione di sesso.
Pur non avendo eguali nel panorama comparatistico, che evidenzia semmai una progressiva focalizzazione sull’autodeterminazione individuale, e pur non essendo priva di tratti paternalistici, rispetto a persone maggiorenni e capaci di autodeterminarsi, questa prescrizione normativa non può dirsi in sé manifestamente irragionevole, e quindi esorbitante dalla sfera della discrezionalità legislativa, considerata l’entità e la irreversibilità delle conseguenze prodotte sul corpo del paziente da simili interventi chirurgici.
6.2.1.– Il regime autorizzatorio è divenuto tuttavia irrazionale, nella sua rigidità, laddove non si coordina con l’incidenza sul quadro normativo della sentenza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 20 luglio 2015, n. 15138, e successivamente della sentenza di questa Corte n. 221 del 2015.
Come più sopra ricordato, tale evoluzione giurisprudenziale ha escluso che le modificazioni dei caratteri sessuali richieste agli effetti della rettificazione anagrafica debbano necessariamente includere un trattamento chirurgico di adeguamento, quest’ultimo essendo soltanto un «possibile mezzo, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico» (sentenza n. 221 del 2015).
La sentenza n. 180 del 2017 ha quindi ribadito – come già visto – che agli effetti della rettificazione è necessario e sufficiente l’accertamento dell’«intervenuta oggettiva transizione dell’identità di genere, emersa nel percorso seguito dalla persona interessata».
Potendo questo percorso compiersi già mediante trattamenti ormonali e sostegno psicologico-comportamentale, quindi anche senza un intervento di adeguamento chirurgico, la prescrizione indistinta dell’autorizzazione giudiziale denuncia una palese irragionevolezza: in tal caso, infatti, un eventuale intervento chirurgico avverrebbe comunque dopo la già disposta rettificazione.
6.2.2.– Tale mutato quadro normativo e giurisprudenziale, in cui l’autorizzazione prevista dalla disposizione oggi censurata mostra di aver perduto ogni ragion d’essere al cospetto di un percorso di transizione già sufficientemente avanzato, è alla base dell’orientamento diffusosi presso la giurisprudenza di merito, che sovente autorizza l’intervento chirurgico contestualmente alla sentenza di rettificazione, e non prima e in funzione della rettificazione stessa (tra molte, da ultimo, Tribunale ordinario di Padova, sezione prima civile, sentenza 17 giugno 2024, e Tribunale ordinario di Torino, sezione settima civile, sentenza 27 marzo 2024).
6.2.3.– Nella fattispecie concreta di cui al giudizio principale si verte appunto in un caso di questo tipo, poiché l’ordinanza di rimessione sottolinea come l’attore per rettificazione abbia «sufficientemente dimostrato – attraverso il deposito di idonea documentazione dei trattamenti medici e psicoterapeutici effettuati – di aver completato un percorso individuale irreversibile di transizione».
Anche in tal caso, quindi, pur potendo seguire la pronuncia della sentenza di rettificazione, in funzione di un maggior benessere psicofisico della persona, l’intervento chirurgico di adeguamento dei residui caratteri del sesso anagrafico non è necessario alla pronuncia medesima, sicché la prescritta autorizzazione giudiziale non corrisponde più alla ratio legis.
6.2.4.– Deve essere pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 – per irragionevolezza ai sensi dell’art. 3 Cost. – nella parte in cui prescrive l’autorizzazione del tribunale al trattamento medico-chirurgico anche qualora le modificazioni dei caratteri sessuali già intervenute siano ritenute dallo stesso tribunale sufficienti per l’accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso.
Restano assorbite le altre censure.