Corte di Cassazione, Sez. Unite penali, sent. 14 aprile 2024 n. 16153
PRINCIPIO DI DIRITTO
“La condotta, tenuta nel corso di una pubblica riunione, consistente nella risposta alla “chiamata del presente” e nel cosiddetto “saluto romano” integra il delitto previsto dall’art. 5 legge 20 giugno 1952, n. 645, ove, avuto riguardo alle circostanze del caso, sia idonea ad attingere il concreto pericolo di riorganizzazione del disciolto partito fascista, vietata dalla XI disp. trans. fin. Cost; tale condotta può integrare anche il delitto, di pericolo presunto, previsto dall’art. 2, comma 1, d.l. n. 122 del 26 aprile 1993, convertito dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, ove, tenuto conto del significativo contesto fattuale complessivo, la stessa sia espressiva di manifestazione propria o usuale delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all’art. 604-bis, secondo comma, cod. pen. (già art. 3 legge 13 ottobre 1975, n. 654)”.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1. Le questioni di diritto per le quali i ricorsi sono stati rimessi alle Sezioni Unite sono le seguenti: “Se la condotta tenuta nel corso di una pubblica manifestazione consistente nella risposta alla “chiamata del presente” e nel “saluto romano”, rituali evocativi della gestualità propria del disciolto partito fascista, sia sussumibile nella fattispecie incriminatrice di cui all’art. 2 del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, nella legge 25 giugno 1993, n. 205 ovvero in quella prevista dall’art. 5 della legge 20 giugno 1952, n. 645”;
“Se, inoltre, le due disposizioni configurino un reato di pericolo concreto o di pericolo astratto e se i due reati possano concorrere oppure le relative norme incriminatrici siano tra loro in rapporto di concorso apparente”.
2. è necessario, preliminarmente […] dare conto dello sfondo normativo sul quale quest’ultimo si è dipanato e racchiuso, essenzialmente, tra le due norme già indicate nella ordinanza di rimessione.
Il primo versante normativo è costituito dal già citato art. 5 legge 20 giugno 1952, n. 645 (cd. Legge “Scelba”) che, subentrato al precedente storico rappresentato dalla legge 3 dicembre 1947, n. 1546, e modificato sul punto dall’art. 1 legge 22 maggio 1975 n. 152, sanziona, sotto il nome di «Manifestazioni fasciste», «chiunque, partecipando a pubbliche riunioni, compie manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste» […].
Tale norma è chiaramente diretta a predisporre una tutela anticipata del bene giuridico protetto, sanzionando condotte prodromiche alla ricostituzione del partito fascista e, allo stesso tempo, di “inoculazione”, anche subdola, della ideologia fascista, sia pure solo attraverso manifestazioni, gestuali o simboliche. Essa ha composto, insieme alle restanti disposizioni introdotte dalla medesima legge, tra cui vanno significativamente ricordate l’art. 1, norma definitoria della nozione di «riorganizzazione del disciolto partito fascista» (modificato dall’art. 7, legge 2 maggio 1975, n. 152), e l’art. 4, sanzionante la «apologia del fascismo», il “meccanismo” normativo con cui la Repubblica Italiana ha appositamente “dato corpo” alla XII disposizione transitoria e finale della Costituzione, che vieta «la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista».
Il secondo polo normativo è dato dall’art. 2 d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, che, rubricato sotto il titolo «Disposizioni di prevenzione», sanziona, al comma 1, «chiunque, in pubbliche riunioni, compie manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli propri od usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654”», in tal modo […] vietava e continua dunque a vietare «ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi […]».
L’art. 2 legge n. 205 del 1993, ispirato alla necessità di innovare il tessuto della legge 13 ottobre 1975 n. 654 (c.d. “legge Reale”) con cui, in precedenza, si era data esecuzione alla Convenzione di New York del 7 marzo 1966 contro la discriminazione razziale, è, quindi, insorto nel panorama normativo a lunga distanza di tempo dall’art. 5 legge n. 645 del 1952 e, sia pure specularmente “ricalcato”, anch’esso, sul compimento, sempre in pubbliche riunioni, di manifestazioni esteriori o sull’ostentazione di simboli, se ne differenzia significativamente per il contenuto, da rapportare, attraverso la “mediazione” normativa del collegamento alle organizzazioni e ai gruppi di cui all’art. 3 legge n. 654 del 1975, alla evocazione delle idee di discriminazione o di violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi proprie, appunto, di dette entità.
3. è tra le predette coordinate normative che, dunque, si è formata, nella giurisprudenza della Corte, la divergenza di orientamenti, segnalata dalla ordinanza di rimessione, in ordine alla individuazione della norma di diritto penale sostanziale cui riportare, specificamente, al condotta del “saluto romano”, il più delle volte (o usualmente) effettuata in risposta alla “chiamata del presente” […] tenuta nel corso di una pubblica manifestazione giacché, appunto, alcune pronunce hanno optato per la configurabilità del reato di cui all’art. 5, legge 20 giugno 1952, n. 645, mentre altre hanno invece ritenuto di dovervi ravvisare la fattispecie di cui all’art. 2 d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205.
4. Prendendo le mosse dal primo orientamento, va rilevato che la gran parte delle pronunce annoverabili in esso […] appare semplicemente “recepire” la qualificazione giuridica delle condotte adottata dai giudici di merito e non contestata nei motivi di impugnazione, senza spiegare il perché della ascrizione all’una o all’altra delle due norme. Dando, quindi, per assodata la veste giuridica della condotta, le sentenze si risolvono essenzialmente nello spiegare perché la motivazione della pronuncia impugnata che ha ritenuto sussistente il pericolo concreto del reato (contrassegnante, come oltre si dirà, la fattispecie) o, viceversa, lo abbia ritenuto insussistente, sia logica e congrua ovvero, al contrario, illogica […].
Deve essere invece specificamente menzionata, perché intervenuta segnatamente a individuare l’ambito giuridico cui ricondurre la fattispecie, Sez. 1, n. 7904 del 12/10/2021, dep. 2022, Scordo, Rv. 282914 – 02, che, anch’essa giudicando di fatti intervenuti sempre in occasione della manifestazione del 29 aprile in Milano, ha spiegato diffusamente la ragione della opzione in favore dell’art. 5, legge cit., condivisa, in quell’occasione, dal Tribunale di Milano, ma disattesa dalla Corte di appello.
In particolare, la pronuncia ha sottolineato come le due norme già considerate riguardino un diverso ambito applicativo, la prima concernendo manifestazioni usuali o proprie e, dunque, evocative del disciolto partito nazionale fascista, e la seconda, invece, manifestazioni proprie o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all’art. 3, legge n. 654 del 1975. Da qui discenderebbe, dunque, come la prima disposizione sanzioni manifestazioni di una organizzazione “storica” e la seconda, invece, manifestazioni di una organizzazione o di un gruppo operanti nel momento in cui venga posta in essere la condotta penalmente rilevante. Solo nella seconda, inoltre, il pericolo sarebbe presunto «in ragione della indefettibile correlazione con il ‘gruppo’» che, ad oggi, effettui una reale attività di incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, «con primaria necessità di identificazione del ‘gruppo’ cui le condotte di proselitismo accedono».
Le due norme, quindi, regolando condotte diverse, non potrebbero neppure porsi in rapporto di specialità, dovendo a tal fine il confronto essere operato tra le fattispecie considerate in astratto e tra gli elementi costitutivi alla stregua degli insegnamenti della Sezioni Unite, e non rilevando il profilo del pericolo, giacché attinente ai profili estrinseci della punibilità delle condotte e non, appunto, alla struttura astratta delle due fattispecie.
Di qui, in definitiva, la conclusione per cui «lì dove la dimensione fattuale descritta nella contestazione risulti incentrata esclusivamente sulla manifestazione esteriore del disciolto partito fascista – in un contesto commemorativo – senza previa identificazione e connotazione del gruppo o della associazione esistente oggi cui accedono le condotte […], l’unica disposizione incriminatrice applicabile è […] quella dell’art. 5 legge n. 645 del 1952», restando inoltre possibile che la norma possa concorrere con l’art. 2, legge n. 205 del 1993 ove i gruppi attuali «utilizzino la medesima simbologia e ostentino in pubbliche riunioni le medesime manifestazioni del partito fascista, facendole proprie».
5. Venendo al secondo indirizzo interpretativo, volto ad affermare la configurabilità dell’art. 2 legge cit., le sentenze ad esso riconducibili, con l’eccezione di cui oltre si dirà, appaiono limitarsi, senza affrontare i confini di delimitazione e differenziazione della fattispecie rispetto all’art. 5 legge cit., a convalidare l’affermazione dei giudici di merito secondo cui il saluto romano costituirebbe una manifestazione «che rimanda all’ideologia fascista e ai valori politici di discriminazione razziale ed intolleranza» […], ovvero, sulla stessa identica linea, una manifestazione «che rimanda all’ideologia fascista e quindi ad una ideologia politica discriminante e intollerante» […].
Tali pronunce, in altri termini, sembrerebbero individuare nel “saluto romano” […] una diretta espressione di ideologia discriminatoria, discendente ipso iure da quella fascista, e, per ciò solo, idonea ad inquadrare il fatto nel reato ex art. 2 cit. e, allo stesso tempo, tuttavia, a sottrarlo all’ambito di applicazione dell’art. 5, legge cit., per di più indipendentemente dalla necessità di un collegamento alle organizzazioni o ai gruppi indicati nel d.l. n. 122 del 1993, collegamento menzionato, invece, espressamente da Sez. 1, n. 21409 del 27/03/2019, Leccisi, Rv. 275894 – 01 (avente ad oggetto una seduta consiliare comunale riguardante la discussione di temi di sicurezza, coesione sociale, polizia locale e volontariato), anch’essa giunta a ritenere integrato il reato di cui all’art. 2, legge cit.
E tale impostazione appare condivisa da Sez. 1, n.26019 del 10/02/2023, Armetta, non mass., avente ad oggetto una sfilata per il centenario dei “fasci di combattimento”, che […] non appare chiarire perché, in relazione ad un evento cosi direttamente evocativo del regime fascista, sarebbe integrato l’art. 2 cit. e non, invece, l’art. 5 cit.
Si spiega così perché l’unica sentenza, tra quelle ricordate anche dalla ordinanza di rimessione, che ha dedicato una diffusa e articolata motivazione al tema dei rapporti tra le due fattispecie e ai criteri interpretativi che consentirebbero, alla fine, di individuare nell’art. 2 legge n. 205 del 1993 la norma correttamente applicabile alla manifestazione gestuale del “saluto romano”, sia Sez. 1, n.3806 del 19/11/2021, dep. 2022, Buzzi, Rv. 282500 – 01 (relativa a sfilata organizzata da Unione nazionale combattenti RSI e Associazione nazionale arditi di Italia per i “caduti della rivoluzione fascista”).
La sentenza premette che la norma dell’art. 5, legge cit. sarebbe speciale rispetto a quella dell’art. 2 legge cit. perché le due disposizioni sarebbero identiche sia sotto il profilo sanzionatorio che sotto quello delle condotte, “del tutto sovrapponibili”; ciononostante il primo reato si distinguerebbe dal secondo per la presenza dell’elemento specializzante del «pericolo di ricostituzione del partito fascista e delle sue idee», pericolo di natura concreta; allo stesso tempo, le ideologie di natura “fascista” rientrerebbero ex se in quelle discriminatorie e razziste della legge Mancino in forza di una presunzione ex lege, mentre, per le organizzazioni che non si richiamano alla ideologia fascista, sarebbe compito del giudice verificare e dimostrare che le stesse siano ispirate da idee discriminatorie e razziste e che invitino a compiere gli atti illeciti indicati dalla norma.
Di qui la ritenuta configurabilità, a fronte della mancata contestazione del pericolo di ricostituzione del partito fascista, del reato ex art. 2 legge cit. di cui andrebbe comunque verificata, secondo un parametro proprio del pericolo concreto, «la idoneità della relativa condotta a determinare il pericolo di diffusione delle idee fasciste e, perciò, discriminatorie e razziste».
6. Così, dunque, ricostruito il contrasto giurisprudenziale come sviluppatosi nella sua effettiva dimensione, le Sezioni Unite ritengono anzitutto che la soluzione da dare alla questione circa la corretta qualificazione giuridica della condotta in esame richieda necessariamente di soffermarsi sui tratti distintivi dei reati rispettivamente disciplinati dalle due norme e sui rapporti tra le stesse intercorrenti.
6.1. Non può esservi dubbio, in primo luogo, che entrambe le norme coincidano quanto alla condotta materiale che, in entrambi i casi, consiste nel compimento di manifestazioni tenute partecipando a pubbliche riunioni, solo distinguendosi in virtù del diverso contenuto delle stesse, individuate, nell’art. 5 cit., in quelle usuali del «disciolto partito fascista» di cui, evidentemente, alla XI disp. trans. fin. Cost., e, nell’art. 2 cit., in forza del richiamo all’art. 3, legge n. 654 del 1975, in quelle proprie od usuali dei «movimenti, gruppi, associazioni aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza […]».
Sicché, ad un nucleo comune, rappresentato, appunto, dal compimento di manifestazioni durante pubbliche riunioni, si affianca un elemento di sicura differenziazione dato dalle diverse entità cui rapportare le esibizioni tenute.
6.2. Diverso è, del resto, anche il bene giuridico tutelato.
6.2.1. Quanto al reato di cui all’art. 5 cit., caratterizzato […] quale reato “di pericolo concreto”, il bene giuridico leso dalle condotte, qualificate dalla dottrina come di “esibizionismo fascista”, non può non essere strettamente correlato alla stessa ragione storica e “costituzionale” posta a fondamento della introduzione della norma, contenuta in una legge significativamente intitolata «norme di attuazione della XII disposizione transitoria e finale (comma primo) della Costituzione», ovvero di quella disposizione che vieta la «riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista».
Di qui, dunque, la necessaria conseguenza, scolpita nelle pronunce della Corte, per cui il bene giuridico deve essere identificato nell’ “ordinamento democratico” […] o, meglio ancora, “costituzionale”, cui viene apprestata una tutela anticipata in relazione a manifestazioni che, in connessione con la natura pubblica delle stesse, espressamente richiesta dalla norma, possono essere tali da indurre alla ricostituzione di un partito che, per la sua ideologia antidemocratica, e per espressa previsione appena sopra richiamata, contenuta nella stessa Carta del 1948 (XII, disp. trans. fin. Cost.), è contraria all’assetto costituzionale.
E del resto, come si trae dalle plurime sentenze della Corte costituzionale intervenute sul punto, proprio perché l’obiettivo di “bandire” dall’orizzonte democratico dello Stato la ricostituzione del partito fascista è stato reputato talmente “primario” da avere formato oggetto, all’interno della stessa Costituzione, di una specifica disposizione […], non potrebbe dubitarsi della legittimità costituzionale, sotto il profilo della conciliabilità con il principio della libera manifestazione del pensiero dell’art. 21 Cost., di una previsione che mira a sanzionare financo le condotte prodromiche ad una tale ricostituzione, purché “coniugate” con elementi modali e spaziali (ovvero lo svolgimento in “pubbliche riunioni”) idonei a renderle idonee «a provocare adesioni e consensi ed a concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste» (Corte cost., sent. n. 74 del 1958).
Tali principi sono stati successivamente enunciati da Corte cost., sent. n. 15 del 1973, secondo cui il reato postula l’accertamento che le manifestazioni, per le circostanze di tempo e di luogo e per le loro obiettive caratteristiche, siano comunque «idonee a far sorgere il pericolo di ricostituzione del partito fascista», aggiungendosi, ancora una volta, che non può sostenersi l’illegittimità costituzionale di una norma attuativa del disposto di una previsione di natura chiaramente costituzionale che pone dei limiti all’esercizio di diritti di libertà enunciati dagli invocati precetti degli artt. 17 e 21 Cost.
In seguito, sono stati ribaditi da Corte cost., sent. n. 254 del 1974, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dell’art. 7 legge n. 645 del 1952, ove si precisa che la XII disp. trans. fin. Cost. «ha conferito in modo tassativo al legislatore non solo la potestà – dovere di fissare sanzioni penali in caso di violazione del divieto costituzionale di ricostituzione del disciolto partito fascista ma anche di ricercare il modo e le forme più idonei e più incisivi per la realizzazione della pretesa punitiva pur nella salvaguardia dei diritti fondamentali che la Costituzione riconosce a tutti i cittadini al fine di combattere, più efficacemente e sollecitamente possibile, quel pericolo che la citata disposizione, in accordo con l’ispirazione antifascista della nostra Costituzione, ha inteso direttamente e imperativamente prevenire».
E tali approdi conservano pienamente la loro validità anche allo stato attuale, considerato l’immutato assetto dei “valori in gioco”, dei quali, come a suo tempo icasticamente sottolineato, «lo stesso costituente ha voluto farsi interprete vincolante» (Corte cost., sent. n. 254 del 1974).
Appare opportuno, sul punto, del resto, richiamare che già il Presidente del Consiglio De Gasperi, nella relazione davanti al Senato sulla legge 20 giugno 1952, n. 645, aveva a sottolineare che scopo della legge era quello di «garantire, con concreta efficacia, il Paese contro l’azione di associazioni o movimenti che perseguano, sotto qualsiasi forma, la riorganizzazione del disciolto partito fascista e di prevenire, perciò, la possibilità che risorgano movimenti politici che si sono addimostrati nefasti e deleteri per li Paese e contro i quali la Costituzione ha sancito un espresso divieto».
Né, certamente, in tale ottica, la integrazione della norma operata nel 1975 mediante l’inserimento delle «organizzazioni naziste» tra le organizzazioni le cui manifestazioni rilevano penalmente, al pari del «disciolto partito fascista», potrebbe permettere oggi di giungere, sol per questo, a diverse conclusioni, tenuto conto del riferimento, anche in tal caso, ad una ideologia ugualmente storicamente definita e parimenti platealmente incompatibile con i valori democratici e costituzionali, omologa, su tale piano, a quella fascista.
6.2.2. Dunque […], non la tutela del mero “ordine pubblico materiale” deve ritenersi venire nella specie in gioco […], ma, in una visione di ben più ampio respiro, la stessa tavola dei valori costituzionali e democratici fondativi della Repubblica, efficacemente riassumibili nel bene dell’ “ordine pubblico democratico o costituzionale”, posto in pericolo, a fronte dell’elemento modale – spaziale indicato dalla norma, da possibili consensi o reazioni a tali manifestazioni atti a turbare, anche ma non solo, la civile convivenza.
La necessità del mantenimento nell’alveo dei principi costituzionali della lettura dell’art. 5 legge cit. […] comporta, simmetricamente, la individuazione come concreta della natura del pericolo del reato, non a caso affermata pressoché da tutte le pronunce della Corte di legittimità intervenute sulla questione oggetto di rimessione a prescindere dalla opzione finale adottata […].
Del resto, proprio la valutazione della sussistenza del raggiungimento della soglia di concretezza necessaria per ritenere configurato il pericolo, e degli elementi rappresentativi di quest’ultimo […], ha comportato che i giudici di merito, con riguardo alle concrete caratteristiche delle singole manifestazioni, siano approdati ad esiti (solo apparentemente) tra loro difformi.
In definitiva, è la stessa funzione “ancillare” della norma dell’art. 5 cit. rispetto ad una precisa disposizione costituzionale che rivela l’oggetto del pericolo che si vuole contrastare (ovvero la ricostituzione del disciolto partito fascista) e, allo stesso tempo, per conseguente necessità di considerare i limiti intrinseci del bilanciamento con altri valori costituzionali, la natura non astratta bensì concreta dello stesso.
In altre parole, la necessità per il giudice di «appurare se, alla luce delle specifiche circostanze, sussista una seria probabilità di verificazione del danno» (così, testualmente, Corte cost., sent. n. 139 del 2023, quanto ai reati di pericolo concreto) non può non discendere dalla necessaria considerazione di un tale bilanciamento.
Pertanto, non sussistendo plausibili ragioni per discostarsi dal contenuto delle richiamate pronunce della Corte costituzionale, occorre recepire il dictum delle stesse, che, pur se “interpretative di rigetto” […], mantengono ad oggi del tutto intatta la validità dei relativi enunciati.
Né la “rivisitazione” della “effigie” di pericolosità delle condotte, sino a far loro assumere caratteristiche di sola presunzione, dovrebbe imporsi, come auspicato in dottrina, semplicemente per “ridurre il rischio” di interpretazioni variabili o addirittura arbitrarie, e dunque, in altri termini, per escludere la possibilità di decisioni di segno diverso (peraltro, come già detto, del tutto, invece, fisiologiche): non può evidentemente ritenersi, infatti, corretto metodo esegetico quello che, scegliendo aprioristicamente la latitudine applicativa della norma, finisca per adattare a questa l’interpretazione degli stessi elementi costitutivi del reato.
6.2.3. Diverso, benché di pari rilevanza, è, invece il bene giuridico tutelato dall’art. 2 legge cit. volto a contrastare, anche in tal caso su un piano anticipato, la diffusione delle idee discriminatorie o di atti di violenza per ragioni, espressamente riassunte nell’art. 3 legge n. 654 del 1975 – cui, come visto, l’art. 2 fa richiamo attraverso il significativo riferimento ad entità collettive che a tali idee si riferiscono – razziali, etniche, nazionali o religiose.
È evidente, infatti, che in tal caso, non potendosi fare riferimento alla XII disp. trans. fin. Cost. per la sua stretta specificità, il bene tutelato vada ricercato altrove, ma è, allo stesso tempo, innegabile che, anche ni tal caso, non possa prescindersi dalla individuazione di principi costituzionali la cui offesa, in una chiave di selezione del bene giuridico propria di un diritto penale moderno, deve segnalare la “giustificazione” della scelta incriminatrice del legislatore.
E così, se è ben vero che, con riguardo al reato in oggetto […], non possa facilmente prescindersi dall’aspetto del c.d. “ordine pubblico materiale” significativamente espresso dall’imprescindibile presenza del requisito delle «pubbliche riunioni», è, altresì, evidente la visione “riduttiva” cui si perverrebbe se ci si accontentasse di limitare l’aspetto della tutela ad una questione, sostanzialmente, di “ordine pubblico”, come parte della dottrina finisce invece per fare.
In realtà, i “valori in gioco” sono, nella specie, di entità sensibilmente più ampia rispetto al solo aspetto di “ordine pubblico”: al di là della “costruzione” della norma, fondata sulla già ricordata “mediazione normativa” data dal richiamo all’art. 3 cit., è la necessaria coniugazione delle pubbliche manifestazioni con il contenuto delle stesse, evocante ideologie di tipo discriminatorio specificamente emergenti dalla norma e proprie od usuali di entità collettive, a dare vita ad un bene giuridico di tipo, a ben vedere, “composito”.
È questa dunque la ragione per cui, come osservato anche da parte della dottrina, a venire in rilievo non può che essere la necessità di scongiurare il pericolo della lesione ai beni fondamentali, costituzionalmente protetti dagli art. 2 e 3 Cost., della dignità ed eguaglianza della persona.
Una conclusione del genere trova conferma nella collocazione sistematica dell’art. 604-bis cod. pen. (il cui secondo comma, come già detto, riproduce esattamente il primo comma dell’art. 3 legge n. 654 del 1975), inserito, per effetto della cosiddetta “riserva di codice” di cui al d.lgs. 1° marzo 2018, n. 21, tra i «delitti contro la persona» di cui al titolo XI del codice penale, al cui interno è stata creata una nuova Sezione denominata «delitti contro l’eguaglianza» […].
In definitiva, alla pari di quanto già detto con riguardo al reato di cui all’art. 5 cit., la individuazione del bene tutelato non può che avvenire, anche in tal caso, mediante il ricorso al “filtro” del piano costituzionale, punto costante di riferimento in una chiave interpretativa che, non può dimenticarsi, sempre deve conformarsi al principio di offensività; e in un quadro di comune sfondo, derivante dai connotati democratici della Repubblica italiana, se, nel caso dell’art. 5 cit., rileva la necessità di preservare l’ordinamento da condotte che ne pongano precipuamente in pericolo i fondamenti anche istituzionali, nel caso dell’art. 2 cit. emerge la necessità di evitare la disgregazione dei valori di solidarietà, dignità ed eguaglianza di tutti i consociati.
6.2.4. Quanto sin qui sottolineato si riflette anche sulla natura del pericolo caratterizzante il reato.
Nella giurisprudenza di questa Corte, per vero, tale profilo appare sostanzialmente inesplorato in molte delle pronunce che hanno classificato il “saluto romano” come gestualità di tipo discriminatorio. Le stesse hanno dato, a ben vedere, per implicita la natura astratta del pericolo, o non motivando sul punto, o facendo un riferimento, di per sé inappagante, attesa la sua sostanziale apoditticità, alla “configurazione” del reato tale da imporre un accertamento finalizzato a verificare se la condotta sia «astrattamente idonea a essere percepita come manifestazione esteriore […] delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654» […].
Ove, invece, la Corte ha spiegato specificamente le ragioni di tale scelta, la stessa è giunta a ravvisare la natura concreta del pericolo muovendo dalla necessità di assicurare il contemperamento tra i principi di pari dignità e di non discriminazione e quello della libertà di espressione di cui all’art. 21 Cost.
È da ciò, dunque, che deriverebbe l’accertamento della concreta pericolosità del fatto, richiedendosi, correlativamente, la probabilità e non la mera possibilità di lesione del bene giuridico tutelato […], e fondandosi, proprio sulla base del diverso oggetto di tale accertamento (in un caso il pericolo di ricostituzione del disciolto partito fascista e nell’altro il pericolo di sostanziale “disseminazione” di idee discriminatorie), il criterio distintivo delle fattispecie di reato oggetto della questione rimessa […].
Ciò posto, ad avviso delle Sezioni Unite, risulta assumere uno specifico rilievo il fatto che il reato di cui all’art. 2 legge cit., plasmato sulle condotte di manifestazioni tenute in pubbliche riunioni, pur possedendo, come rilevato anche in dottrina, la stessa struttura morfologica del reato di cui all’art. 5 legge cit., si differenzia da questo per il diverso contenuto evocativo di dette manifestazioni e per il collegamento dello stesso con le «organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi» di cui all’art. 3 legge n. 654 del 1975.
Tale ultimo elemento non può non assumere un rilievo particolare ove si tratti, evidentemente, di considerare il grado di pericolosità da attribuire alla condotta, la cui capacità di “contagio” o diffusione delle idee contrastanti con i valori sanciti dagli artt. 2 e 3 Cost. assume una consistenza proporzionalmente collegata all’esistenza attuale di detti agglomerati.
Da ciò dunque deriva che, in tal caso, la valutazione del pericolo, che si esaurisce all’interno della fattispecie astratta, risulta già fatta, a priori, dal legislatore, spettando invece al giudice, secondo il “meccanismo” di funzionamento proprio della presunzione, il compito di verificare, nell’analisi della fattispecie, elementi di fatto capaci di dimostrane, in concreto, l’assenza.
La stessa permanenza, pur dopo le plurime modifiche apportate alla originaria formulazione dell’art. 2, legge n. 122 del 1993, della rubrica della norma, ancora oggi intitolata «Disposizioni di prevenzione» nonostante il contenuto presenti attualmente nel solo comma 3 un riferimento a misure, latamente, di prevenzione, ben può, in realtà, spiegarsi anche come indice di una valutazione per così dire “preventiva” effettuata nella specie dallo stesso legislatore.
Né una tale conclusione rischia di provocare “soglie di frattura” con principi costituzionali, posto che neppure il “pericolo presunto” può andare esente dalla necessità di provarne il “grado di resistenza” al principio di offensività.
Dirimenti sul punto appaiono le affermazioni rese, nella sentenza n. 139 del 2023, dalla Corte costituzionale chiamata a giudicare della legittimità costituzionale della norma in materia di porto senza giustificato motivo di strumenti da punta o taglio atti ad offendere et similia (art. 4, legge n. 110 del 1975) laddove la stessa non richiede la sussistenza di circostanze di tempo e di luogo dimostrative del pericolo di offesa alla persona.
È, in particolare, significativo che in tale decisione la Corte costituzionale, pur dopo avere ribadito la persistente legittimità della distinzione tra reati di pericolo presunto (nei quali il giudice deve escludere la punibilità del fatto sia pure corrispondente alla formulazione della norma incriminatrice quando, alla luce delle circostanze concrete, manchi ogni ragionevole possibilità di produzione del danno) e reati di pericolo concreto (nei quali incombe invece al giudice il compito di appurare la seria probabilità della verificazione del danno), abbia aggiunto che il principio di offensività in concreto può, ed anzi deve, operare anche in rapporto alla figura del pericolo presunto. E, se è vero che nei reati di pericolo presunto è il legislatore a dovere enucleare i fatti che, nella loro astratta configurazione, esprimono un contenuto offensivo di beni o interessi meritevoli di protezione, è parimenti innegabile, come sempre precisato dalla Corte costituzionale, che resta affidato al giudice, nell’esercizio del proprio potere ermeneutico «il compito di uniformare la figura criminosa al principio di offensività nella concretezza applicativa» (Corte cost., sent. n.225 del 2008).
Da tali considerazioni discende che, quanto meno ai fini della presente decisione, la distinzione tra un “pericolo concreto” ed un “pericolo astratto o presunto” finisca, a ben vedere, per divenire, nei fatti, evanescente una volta che si prenda contestualmente atto di come, per quanto appena detto, anche le previsioni contrassegnate da un pericolo presunto debbano coniugarsi con il principio di offensività.
Non pare dubbio, allora, che, considerando la dimensione del bene giuridico tutelato, già indicata sopra, la natura pur solo presuntiva del pericolo preso in considerazione dall’art. 2 cit. mantenga una precisa ed innegabile giustificazione.
7. Tanto osservato, dunque, in ordine alla struttura delle due norme, non vi è dubbio che le stesse non possano essere poste tra loro in rapporto di specialità ex art. 15 cod. pen., secondo cui «quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito».
Se, per tradizionale definizione, si è uniformemente intesa come norma speciale «quella che contiene tutti gli elementi costitutivi della norma generale e che presenta uno o più requisiti propri e caratteristici, che hanno appunto funzione specializzante, sicché l’ipotesi di cui alla norma speciale, qualora la stessa mancasse, ricadrebbe nell’ambito operativo della norma generale» […] variegati sono stati, ciononostante, nel tempo, i criteri valorizzati dalla giurisprudenza per effettuare la preliminare operazione di raffronto tra le norme onde ricavare, o meno, appunto, la “ricomprensione” di una nell’altra: se in alcune pronunce si è fatto talora riferimento alla necessità di guardare alla identità del bene giuridico tutelato […], in altre si è venuta via via sempre più affermando la necessità di avere riguardo al confronto tra fattispecie astratte.
Di qui, progressivamente, gli approdi, da considerare ormai stabilizzati e reiteratamente espressi dalle Sezioni Unite, secondo cui il criterio di specialità è da intendersi in senso logico formale: il presupposto della convergenza di norme, necessario perché risulti applicabile la regola relativa alla individuazione della disposizione prevalente, può ritenersi integrato «solo in presenza di un rapporto di continenza tra le stesse alla cui verifica deve procedersi attraverso il confronto strutturale tra le fattispecie astratte rispettivamente configurate mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie stesse» […].
Si è, invece, escluso il criterio della specialità in concreto «non avendo senso far dipendere da un fatto concreto l’instaurarsi di un rapporto di genere a specie tra due norme sicché non rileva né la omogeneità dei beni giuridici tutelati dalle diverse fattispecie incriminatrici né il loro contingente convergere sul medesimo avvenimento concreto» […]; la specialità, cioè, «è una relazione tra norme astratte non già tra fatti concreti e norme e dunque o esiste già in astratto o non esiste neppure in concreto» […].
Né può trascurarsi che anche la Corte costituzionale ha avuto modo di applicare il criterio della continenza strutturale tra fattispecie, sia pure in ipotesi di concorso tra illecito amministrativo e illecito penale, affermando che l’applicazione del principio di specialità ex art. 15 cod. pen. implica la «convergenza su di uno stesso fatto di più disposizioni, delle quali una sola è effettivamente applicabile, a causa delle relazioni intercorrenti tra le disposizioni stesse», dovendosi confrontare «le astratte, tipiche fattispecie che, almeno a prima vista, sembrano convergere su di un fatto naturalisticamente unico» (Corte cost., sent. n. 97 del 1987).
La Corte ha poi aggiunto che «per aversi rapporto di specialità ex art. 15 cod. pen. è indispensabile che tra le fattispecie raffrontate vi siano elementi fondamentali comuni, ma una di esse abbia qualche elemento caratterizzante in più che la specializzi rispetto all’altra» (Corte cost., ord. n. 174 del 1994).
La giurisprudenza di questa Corte converge inoltre, ormai, nel ritenere che l’art. 15 cod. pen. si riferisca alla sola “specialità unilaterale”, giacché le altre tipologie di relazioni tra norme, quali la “specialità reciproca” o “bilaterale”, non evidenziano alcun rapporto di genus ad speciem […].
Sempre le Sezioni Unite, dopo iniziali apparenti affermazioni di segno contrario, hanno sottolineato la eccentricità dei criteri di “sussidiarietà”, “assorbimento” e “consunzione”, «suscettibili di opposte valutazioni da parte degli interpreti», e la loro estraneità all’unico criterio legale previsto, ovvero quello di specialità positivizzato dall’art. 15 cod. pen. […].
7.1. Nella specie, allora, è lo stesso raffronto tra le due disposizioni […] a rivelare l’impossibilità di affermare che una delle due norme sia unilateralmente speciale rispetto all’altra. Al nucleo comune di “manifestazioni tenute in pubbliche riunioni”, si aggiunge, in ognuna di esse, l’elemento differenziante del loro contenuto, rilevante già sul piano astratto giacché, se nell’art. 5 cit. le manifestazioni devono essere quelle «usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste», nell’art. 2 cit. le manifestazioni sono quelle esteriori, proprie ed usuali «delle organizzazioni, movimenti o gruppi di cui all’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654».
Sicché, atteso l’inequivocabile diverso significato di tali manifestazioni, discendente dalla stessa “diversità genetica” degli enti, appare, semmai, ricorrere tra le norme in oggetto un rapporto di “specialità bilaterale” che, tuttavia, per quanto già osservato, deve ritenersi estraneo alla previsione dell’art. 15 cod. pen., unicamente espressivo della specialità “unilaterale”.
Significativo è poi che, solo con riguardo al reato di propaganda per motivi di discriminazione razziale di cui all’art. 604-bis cod. pen., già contemplato dall’art. 3, legge n. 654 del 1975, il legislatore abbia espressamente posto un rapporto di “sussidiarietà espressa” rappresentato dalla clausola di riserva («salvo che il fatto costituisca più grave reato») posta nell’incipit della disposizione.
Sono, quindi, da condividere, oltre agli approdi sul punto della più recente dottrina, le conclusioni cui sono pervenute Sez. 1, Scordo, cit., e Sez. 1, Armetta, cit., entrambe giunte ad escludere il rapporto di specialità ex art. 15 cit. tra le due previsioni.
Non può invece convenirsi con il diverso epilogo adottato da Sez. 1, Buzzi, cit., fondato sul fatto che le norme sarebbero «del tutto sovrapponibili» e che la selezione tra norma generale e norma speciale dovrebbe operare a livello di concretezza del pericolo.
Mentre, infatti, il primo profilo sembra contrastato dal dato testuale delle norme, il secondo pare introdurre un criterio selettivo estraneo, per quanto detto, al corretto metodo di raffronto tra fattispecie astratte, dal quale, come infatti condivisibilmente rilevato da Sez. 1, Scordo, cit., deve essere escluso il profilo della punibilità.
8. L’assenza di un rapporto di specialità, che “svincola” pertanto l’interprete da quella che sarebbe, altrimenti, l’automatica conseguenza di fare capo sempre e solo alla norma “speciale”, comporta che debba, dunque, guardarsi al significato del rituale del “saluto romano” al fine di configurarne l’inquadramento giuridico nelle “manifestazioni” di cui all’art. 5 cit. ovvero in quelle dell’art. 2 cit., o, eventualmente, e a determinate condizioni, in entrambe.
Ciò posto, non può sussistere dubbio circa la “fisiologica” riconducibilità del rituale della “chiamata del presente” e del “saluto romano” (ovvero il protendere il braccio destro tenendolo teso e con il palmo rivolto verso il basso) all’interno, anzitutto, della fattispecie di reato dell’art. 5 cit.: pare sufficiente, sul punto, fare riferimento a quanto era previsto dagli artt. 3 e 9 del regolamento del partito nazionale fascista per desumerne l’inequivocabile significato di evocazione e celebrazione dell’ideologia del partito fascista e del regime conseguentemente instaurato.
Se tale rituale è, in altri termini, immediatamente e notoriamente idoneo ad evocare, anzitutto, la “liturgia” delle adunanze fasciste, è la consumazione del reato di cui all’art. 5 cit. ad essere innanzitutto realizzata.
Di qui, dunque, l’inevitabile incongruenza in cui le sentenze del secondo indirizzo incorrono […], allorquando, pur precisando che la condotta censurata rimanda all’ideologia fascista, contraddittoriamente escludono che si abbia integrazione del reato di cui all’art. 5 cit. che, invece, proprio le manifestazioni di tipo fascista vuole sanzionare.
Deve dunque concludersi nel senso che la “naturale” identificazione tra saluto romano da una parte e disciolto partito fascista dall’altro, per le ragioni già illustrate, è da sola sufficiente ad integrare sul piano oggettivo, sempre e comunque, il reato di cui all’art. 5.
8.1. […] l’integrazione del reato in oggetto richiederà che il giudice accerti in concreto, alla stregua di una valutazione da effettuarsi complessivamente, la sussistenza degli elementi di fatto (esemplificativamente, tra gli altri, il contesto ambientale, la eventuale valenza simbolica del luogo di verificazione, il grado di immediata, o meno, ricollegabilità dello stesso contesto al periodo storico in oggetto e alla sua simbologia, il numero dei partecipanti, la ripetizione insistita dei gesti, ecc.) idonei a dare concretezza al pericolo di “emulazione” insito nel reato secondo i principi enunciati dalla Corte costituzionale.
Va peraltro escluso che, di contro, come sostenuto dalle difese dei ricorrenti, la caratteristica “commemorativa” della riunione possa rappresentare fattore di neutralizzazione degli altri elementi e, quindi, di “automatica” insussistenza del reato, attesi il dolo generico caratterizzante la fattispecie e la irrilevanza dei motivi della condotta.
9. Assodata, dunque, per le ragioni esposte, la “naturale” riconducibilità del rituale in oggetto, praticato in riunioni di carattere pubblico, al reato di cui all’art. 5 cit., non si può tuttavia neppure escludere che lo stesso possa integrare anche, a fronte di determinati presupposti, il reato di cui all’art. 2 cit.; e ciò, precipuamente, attesa la possibilità di considerare una tale condotta come evocativa, sempre in ragione del dato storico-sociale e del dato normativo ricavabile dall’art. 1, legge 20 giugno 1952, n. 645 (per cui «si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista […] svolgendo propaganda razzista»), anche di ideologie discriminatorie e razziali.
Va precisato, però, che il fatto che tale rituale, in quanto proprio del regime fascista, evochi anche, per quanto appena detto, le idee di tipo razziale o discriminatorio ad esso connesse, non è, di per sé solo idoneo ad integrare anche il reato di cui all’art. 2 cit., attesa la inequivoca struttura della norma che, come visto, sanziona non le manifestazioni di tipo razziale o discriminatorio tout court, bensì le manifestazioni proprie od usuali delle «organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi dell’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654».
Appare, in altri termini, innegabile come il legislatore non abbia sanzionato direttamente le manifestazioni esteriori espressive di incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi esigendo, invece, che tali manifestazioni siano quelle proprie od usuali dei gruppi che tale incitamento pongono in essere.
È per questa ragione, che, in linea con la condivisibile preoccupazione di non travalicare il principio di legalità e di tassatività nell’interpretazione della norma, Sez. 1, Scordo, cit., ha richiesto che tali gruppi siano individuati dal giudice e che, solo la previa individuazione degli stessi, consenta di ritenere applicabile l’art. 2, comma 1, cit.
Ora, se, da un lato, tali associazioni, movimenti o gruppi, in quanto necessariamente espressivi della stessa ragione della natura presunta del pericolo, devono inevitabilmente essere operanti nell’attualità […], dall’altro, non è neppure necessario, però, come pare paventare l’Avvocato generale nelle proprie note di udienza, un loro inquadramento in entità espressamente operanti sotto un nome, ovvero dotate di uno statuto, ovvero ancora articolate, al loro interno, attraverso ripartizioni di incarichi e mansioni, ben potendo trattarsi anche di aggregazioni di natura estemporanea, come desumibile dal tenore letterale della norma.
Proprio l’ampio “spettro” delle denominazioni utilizzate dal legislatore all’art. 3 cit. (oggi art. 604-bis cit.) e l’eterogeneità delle stesse, racchiuse tra enti più strutturati da una parte (le «organizzazioni» e «associazioni») e agglomerati ben più fluidi dall’altra (i «gruppi» e i «movimenti»), appare ostare ad una rigida e formale schematizzazione dell’ “ente” di riferimento, sicché non appare necessaria, sulla base dello stesso dato normativo, una dimostrazione dei tempi e dei modi della costituzione di tali agglomerati, del resto incompatibile con la ratio della norma e la natura presunta del pericolo che caratterizza, come detto, il reato.
Non può, dunque, escludersi che la operatività di tali aggregazioni sia dimostrata proprio dalla condotta “collettiva” posta in essere senza che, dunque, sia necessario che, al fine di rispettare il principio di tassatività […] il gruppo o la organizzazione in oggetto vadano identificati come previamente sorti rispetto alla manifestazione; gli scopi de «l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi», richiesti dall’art. 3 cit., ben potrebbero, infatti, emergere dallo stesso contenuto della manifestazione di cui all’art. 2 cit., concretamente rappresentativa di essi.
9.1. In secondo luogo, affinché il rituale espresso nelle manifestazioni di cui all’art.5 legge cit. possa integrare anche il reato di cui all’art. 2 legge cit., occorrerà che ad esso si accompagnino elementi, relativi al contesto complessivo in cui lo stesso sia tenuto, idonei ad attribuirgli non la sola funzione semplicemente evocativa del disciolto partito fascista – e, dunque, ove ricorrente il pericolo concreto richiesto, incitativa della sua ricostituzione – ma anche, a fronte del contesto materiale o dell’ambito nel quale la manifestazione ha luogo, il significato discriminatorio tipizzante il reato di cui all’art. 2 cit.
Sotto tale profilo, dunque, altro sarebbe che il gesto sia effettuato nello stretto ambito di un contesto chiaramente connotato (per le modalità e le finalità della riunione nonché per i simboli impiegati) dal riferimento a fatti direttamente o indirettamente ricollegabili all’ideologia fascista, altro, invece, sarebbe il medesimo gesto ove tenuto in ambiti di tipo diverso, nei quali il ricorso a tale rituale costituisca “lo strumento simbolico” di espressione delle idee di intolleranza e discriminazione proprie, nell’attualità, degli agglomerati considerati dall’art. 3 legge n. 654 del 1975.
In definitiva, mentre nel primo caso il rituale esibito sarebbe finalizzato ad esternare unicamente l’ideologia propria del disciolto partito fascista, nel secondo avrebbe anche la valenza, implicita, ma chiara, di esternazione delle ideologie di cui alle entità individuate dall’art. 3 cit., nel segno di una contrapposizione ispirata ad idee chiaramente incompatibili con i principi costituzionali.
Sicché, ben può ritenersi che, in tali limiti, e in tali casi, il rituale del saluto romano possa integrare non il solo reato di cui all’art. 5 legge cit., bensì anche quello dell’art. 2 legge cit., ove di entrambe le fattispecie, naturalmente, ricorrano i rispettivi e differenti requisiti di pericolo già illustrati sopra.
10. Deve quindi, in definitiva, sulla base di quanto esposto, essere affermato il seguente principio di diritto:
“La condotta, tenuta nel corso di una pubblica riunione, consistente nella risposta alla “chiamata del presente” e nel cosiddetto “saluto romano” integra il delitto previsto dall’art. 5 legge 20 giugno 1952, n. 645, ove, avuto riguardo alle circostanze del caso, sia idonea ad attingere il concreto pericolo di riorganizzazione del disciolto partito fascista, vietata dalla XI disp. trans. fin. Cost; tale condotta può integrare anche il delitto, di pericolo presunto, previsto dall’art. 2, comma 1, d.l. n. 122 del 26 aprile 1993, convertito dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, ove, tenuto conto del significativo contesto fattuale complessivo, la stessa sia espressiva di manifestazione propria o usuale delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all’art. 604-bis, secondo comma, cod. pen. (già art. 3 legge 13 ottobre 1975, n. 654)”.
11. Ciò posto, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Milano.
Sono, in particolare, fondati il secondo motivo del ricorso presentato nell’interesse degli imputati […] nonché il secondo motivo, logicamente pregiudiziale rispetto al primo, del ricorso presentato nell’interesse degli imputati […].
Con entrambe tali doglianze, di carattere pregiudiziale rispetto alle altre, e di analogo contenuto, è stata infatti dedotta, come anticipato sopra, la erronea qualificazione giuridica della condotta tenuta, fatta rientrare, sia dal Tribunale che dalla Corte territoriale, all’interno della previsione dell’art. 2 legge n. 205 del 1993 e non invece sub art. 5, legge n. 645 del 1952.
Tale prospettazione va condivisa.
Entrambe le pronunce dei giudici di merito, dopo avere chiarito che la “chiamata del presente” da parte di uno dei partecipanti alla pubblica riunione e la risposta ad essa con contestuale effettuazione del “saluto romano” devono ritenersi manifestazioni esteriori del disciolto partito fascista, non potendo dubitarsi del “rimando” di tale complessiva ritualità alla «iconografia fascista con la finalità di evocarne e pubblicamente esaltarne gli ideali» […], hanno incongruamente ritenuto, in difformità ai principi sopra ricordati, oggettivamente integrato non già li reato di cui all’art. 5 cit., bensì quello dell’art. 2 cit. senza peraltro evidenziare, tanto più alla luce delle finalità della riunione, chiaramente volta a celebrare il ricordo, tra gli altri, di esponente della Repubblica Sociale Italiana, elementi indicativi della finalità, attraverso tale celebrazione, di propagandare, in sé, le idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale ed etnico e sulla violenza.
Tale inesatta qualificazione, legittimamente censurata per la prima volta con i motivi di ricorso in un contesto contrassegnato da dati fattuali incontestati […], ha, inoltre, comportato che la Corte d’Appello abbia limitato, in coerenza con l’impostazione prescelta, la propria analisi al requisito del pericolo proprio del reato di cui all’art. 2, legge cit. e non, invece, a quello del reato di cui all’art. 5 legge cit.
11.1. Tanto comporta, dunque, la riqualificazione del reato e l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte d’appello di Milano.
Assorbito, dal già illustrato esito del secondo, il primo motivo del ricorso […] con cui si è dedotta la violazione dell’art. 2 cit. (nella specie non configurabile per le ragioni già esposte), non è infatti fondato il primo motivo del ricorso presentato nell’interesse dei restanti imputati […] con cui si è lamentata la «insussistenza dell’elemento soggettivo» per violazione dell’art. 5 cod. pen.
Segnatamente, la “disomogeneità” e non linearità del quadro normativo e giurisprudenziale, articolati e complessi, formatisi in particolare sulle norme in oggetto e sui rapporti intercorrenti tra le stesse, riscontrate anche da difformi pronunce avutesi anche nel panorama nazionale, sarebbero tali da comportare, in capo ai ricorrenti, un errore inevitabile sulla legge penale, incompatibile con il dolo del reato.
Tale prospettazione, già condivisa dal Tribunale di Milano, che, come sopra ricordato, è infatti pervenuto, in primo grado, all’assoluzione degli imputati, va tuttavia disattesa.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 364 del 1988, nell’enunciare una necessaria lettura dell’art. 5 cod. pen. conforme al principio costituzionale di colpevolezza, tanto da averne dichiarato la illegittimità nella parte in cui non esclude dalla inescusabilità dell’ignoranza della legge penale, la «ignoranza inevitabile», ha sottolineato il nesso indissolubile intercorrente tra “rimproverabilità” della condotta, da una parte, e chiarezza e riconoscibilità dei contenuti delle norme penali, dall’altra.
7. E, nell’indicare i parametri sulla cui base stabilire l’inevitabilità dell’ignoranza della legge penale, la Corte ha indicato la mancanza di conoscibilità della disposizione normativa per assoluta oscurità del testo legislativo nonché, per il «gravemente caotico […] atteggiamento interpretativo degli organi giudiziari».
Tanto premesso, nell’applicazione che di tali postulati questa Corte di cassazione ha dato sino ad oggi in plurime decisioni, rappresenta tuttavia elemento comune e incontroverso la estraneità, a tali ipotesi, del “contrasto giurisprudenziale”, di per sé, al più, ingenerante un mero dubbio.
Si è precisato infatti, al riguardo, anche da ultimo, che l’incertezza derivante da contrastanti orientamenti giurisprudenziali nell’interpretazione e nell’applicazione di una norma non abilita da sola ad invocare la condizione soggettiva d’ignoranza inevitabile della legge penale.
Al contrario, il dubbio sulla liceità o meno deve indurre il soggetto ad un atteggiamento più attento, che giunga sino all’astensione dall’azione se, nonostante tutte le informazioni assunte, permanga tale incertezza, proprio perché il dubbio, non equiparabile allo stato d’inevitabile ed invincibile ignoranza, è ontologicamente inidoneo ad escludere la consapevolezza dell’illiceità […].
Nella specie, allora, nessuna ignoranza inevitabile della legge penale appare seriamente invocabile, neppure valorizzando, come fatto dal Tribunale di Milano […] i contrastanti esiti decisori (talora nel segno della condanna e, talaltra, anche con riferimento ad alcuni tra gli odierni ricorrenti, nel segno dell’assoluzione) intervenuti con riguardo alla riunione del 29 aprile tenuta sempre in Milano in anni diversi dal 2016.
Ciò tanto più ove si consideri che gli epiloghi apparentemente contrastanti appaiono trovare in realtà, come già spiegato, una giustificazione “di sistema” nella diversa e fisiologica valutazione che i giudici di merito hanno dato, nei diversi casi loro sottoposti, del requisito del pericolo concreto.
E resta conseguente che, naturalmente, ancor prima di ogni riflessione sulla rilevanza ed operatività in generale, nel sistema positivo, del fenomeno dell’overruling anche a seguito del valore di “precedente vincolante” che le decisioni delle Sezioni Unite hanno assunto per effetto dell’art. 618, comma 1-bis, cod. proc. pen. […] nessun fenomeno di tal genere potrebbe nella specie porsi a seguito della presente decisione già per il solo fatto della preesistenza, nel panorama giurisprudenziale, di un contrasto interpretativo, di per sé espressivo della presenza, non da oggi, dell’opzione esegetica qui accolta.
11.2. Va precisato, inoltre, che, contrariamente a quanto dedotto con il primo ricorso, il reato non è prescritto, dovendo aggiungersi, al termine di sette anni e sei mesi ex art. 157 cod. pen., un periodo complessivo di sospensione dello stesso, ex art. 159 cod. pen., di giorni centoventiquattro […].
Va in particolare specificato che, secondo l’insegnamento reso da questa Corte a Sezioni unite, in tema di disciplina della prescrizione a seguito dell’emergenza pandemica da Covid-19, la sospensione del termine per l’intero periodo di complessivi sessantaquattro giorni, prevista dall’art. 83, comma 4, del d.I. 17 marzo 2020 n. 18, convertito con modificazioni dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, si applica ai procedimenti la cui udienza sia stata fissata, come nella specie, nel periodo compreso dal 9 marzo all’11 maggio 2020, nonché a quelli per i quali fosse prevista la decorrenza, nel predetto periodo, di un termine processuale […]
12. Il giudice del rinvio, tenuto conto in ogni caso di quanto appena rilevato, provvederà, uniformandosi alla corretta qualificazione giuridica del fatto, ad accertare, sulla base dei complessivi elementi circostanziali incontestati, la sussistenza o meno del concreto pericolo caratterizzante la fattispecie di reato in oggetto pervenendo alle conseguenti, necessarie, determinazioni.