nel sistema tavolare vigente nelle province dei territori già appartenuti al dissolto Impero austro-ungarico, ferma la possibilità di chiedere l’accertamento dell’usucapione nei confronti di coloro contro i quali si è verificato l’acquisto per il decorso del tempo, un diritto reale sorto su un fondo per usucapione non è opponibile al terzo che abbia acquistato il fondo con atto intavolato in buona fede prima dell’iscrizione della sentenza o della domanda di usucapione, quand’anche si tratti di un diritto reale limitato e, quindi, compatibile con il diritto di proprietà.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- In via preliminare il Collegio rileva che il ricorso per cassazione non risulta notificato all’originario convenuto, poi appellato, Condominio (omissis) . Dalla relazione della notifica effettuata ai sensi della L. n. 53 del 1994 si rileva, infatti, che detto ricorso è stato notificato dal procuratore della ricorrente, avv. Galoppin, soltanto agli avvocati Pellegrini e Fronzoni, difensori della F. s.r.l. in appello.
- Ciò posto – attesa l’inscindibilità dei rapporti processuali intercorrenti tra l’attrice e, da un lato, il convenuto Condominio e, d’altro lato, l’intervenuta condomina F. s.r.l. – sarebbe astrattamente necessario disporre l’integrazione del contraddittorio nei confronti del Condominio ai sensi dell’art. 331 c.p.c.. Ritiene tuttavia il Collegio di soprassedere a detta integrazione, dovendosi pervenire, per le ragioni che di seguito saranno illustrate, al rigetto del ricorso. Questa Corte ha infatti reiteratamente affermato il principio, al quale il Collegio intende dare conferma e seguito che nel giudizio di cassazione il rispetto del principio della ragionevole durata del processo impone, in presenza di una ragione d’inammissibilità o infondatezza del ricorso, di definire con immediatezza il procedimento, senza la preventiva integrazione del contraddittorio nei confronti dei litisconsorti necessari cui il ricorso non risulti notificato, trattandosi di un’attività processuale del tutto ininfluente sull’esito del giudizio e non essendovi, in concreto, esigenze di tutela del contraddittorio, delle garanzie di difesa e del diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità. (principio già enunciato in Cass. n. 2723/10 e, da ultimo, ribadito da Cass. n. 11287/18 specificamente in materia condominiale).
- Il primo motivo di ricorso pone la questione della qualificazione come eccezione in senso stretto o come eccezione in senso lato della deduzione con la quale il proprietario del fonde servente, che abbia intavolato il proprio acquisto prima della iscrizione della domanda giudiziale di accertamento dell’usucapione, neghi l’opponibilità nei suoi confronti dell’usucapione dedotta in giudizio dalla controparte. Secondo la ricorrente tale deduzione si risolverebbe in una eccezione in senso stretto; donde l’inammissibilità della sua deduzione, per la prima volta, in sede di comparsa conclusionale.
- Il motivo è infondato.
- Premesso che, come precisato dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 10531/13, il rilievo d’ufficio delle eccezioni in senso lato non è subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte ed è ammissibile anche in appello, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti risultino documentati ex actis, è comunque tranciante il rilievo che la deduzione dell’inopponibilità dell’usucapione alla buona fede tavolare non costituisce eccezione, nè in senso stretto, nè in senso lato; essa rappresenta, al contrario, una mera difesa.
- Per dar conto di tale conclusione è opportuno prendere le mosse dal consolidato insegnamento di questa Corte alla cui stregua, nei territori in cui vige il sistema tavolare basato sul principio della pubblicità costitutiva, il conflitto tra l’acquirente per atto fra vivi dall’intestatario tavolare e chi abbia acquistato il bene per usucapione si risolve in base al R.D. n. 499 del 1929, art. 5, che prevede il principio di pubblica fede che assiste le risultanze dei libri fondiari; pertanto, l’acquisto effettuato in base a dette risultanze si presume avvenuto in buona fede e grava su chi pretende di aver acquistato il bene per usucapione l’onere di provare che colui che ha acquistato dal titolare del bene in base al libro fondiario era in malafede, essendo stato a conoscenza della sussistenza dell’usucapione maturata ma non giudizialmente dichiarata ed iscritta, o essendo stato in grado di apprenderlo facendo uso dell’ordinaria diligenza (così Cass. n. 9735/02, Cass. n. 20873/04, Cass. n. 6393/11, Cass. 29089/17).
- Va altresì ricordato, d’altra parte, che la contestazione da parte del convenuto dei presupposti di fatto e di diritto sui quali è basata la pretesa dell’attore non costituisce, appunto, una eccezione (nè in senso stretto nè in senso lato), ma rientra fra le mere difese (cfr. Cass. n. 176/02).
- Risulta allora agevole concludere, sulla scorta di dette premesse, che – se chi agisce per l’accertamento dell’usucapione deve provare, tra i fatti costitutivi della sua pretesa, che il convenuto era in mala fede quando fece intavolare il proprio acquisto – la deduzione del convenuto di avere intavolato il proprio acquisto in buona fede costituisce una mera difesa, perché in null’altro consiste che nella negazione di una circostanza – la sua malafede – la cui prova spetta all’attore.
- Il secondo motivo di ricorso pone la questione dell’ambito applicativo della regola dettata dal R.D. n. 499 del 1929, art. 5 per la soluzione del conflitto tra diritti intavolati, acquistati inter vivos sulla fede del libro fondiario, e i diritti acquistati a titolo originario; regola che il comma 3 di tale articolo poggia sullo stato soggettivo, di buona o malafede, dell’acquirente inter vivos (“Restano però salvi in ogni caso i diritti dei terzi acquistati sulla fede del libro fondiario anteriormente all’iscrizione o cancellazione, o all’annotazione della domanda giudiziale diretta ad ottenere l’iscrizione o la cancellazione”).
- Più precisamente, il secondo mezzo di impugnazione pone la questione se tale regola operi soltanto nel conflitto tra diritti incompatibili oppure anche nel conflitto tra un diritto intavolato ed un diritto extra-tavolare con quello non incompatibile; si tratta, in definitiva, di verificare se la “salvezza” cui fa riferimento il comma sopra trascritto vada interpretata solo in senso giuridico/formale – intendendola, quindi, come salvezza della mera esistenza del diritto intavolato – o anche in senso economico/sostanziale, intendendola, cioè, come salvezza (anche) del valore del diritto e, quindi, della libertà del bene che ne forma oggetto.
- Al riguardo si devono svolgere le seguenti considerazioni.
- Ai sensi del R.D. n. 499 del 1929, art. 2 il diritto di proprietà e gli altri diritti reali immobiliari non si acquistano per atto fra vivi se non con l’iscrizione nel libro fondiario. Per contro gli acquisti a titolo originario (nonché gli acquisti a titolo derivativo mortis causa) non sono soggetti a tale regola; con la conseguenza che la loro eventuale pubblicità non ha efficacia costitutiva, ma solo dichiarativa. Un diritto extra tavolare può quindi sorgere e sussistere senza che se ne dia pubblicità mediante l’iscrizione nel libro fondiario.
- In base al citato R.D. n. 499 del 1929, art. 5, comma 3, tuttavia, restano però salvi in ogni caso i diritti dei terzi acquistati sulla fede del libro fondiario anteriormente all’iscrizione o cancellazione, o all’annotazione della domanda giudiziale diretta ad ottenere l’iscrizione dell’usucapione o la cancellazione dei vincoli. Tale norma disciplina sicuramente il conflitto fra l’acquirente per atto tra vivi e colui che abbia acquistato un diritto extra tavolare incompatibile, e lo risolve dando la prevalenza alla priorità dell’intavolazione, purché assistita dalla buona fede del soggetto a favore del quale è effettuata; di talché, come sopra si è visto in sede di esame del primo mezzo di ricorso, è onere di chi sostiene di aver usucapito un immobile provare che colui che ha acquistato il medesimo bene dal titolare in base al libro fondiario era in malafede, essendo stato a conoscenza della sussistenza dell’usucapione maturata, ma non giudizialmente dichiarata ed iscritta, o essendo stato in grado di apprendere ciò facendo uso dell’ordinaria diligenza (cfr. Cass. n. 6393/11 e Cass. n. 9735/02).
- Allorché, invece, come nella fattispecie qui in esame, non venga in rilievo un conflitto di acquisti fra loro contraddittori, di guisa che occorra stabilire la prevalenza dell’uno sull’altro, ma sorga un problema di concorso tra un diritto intavolato ed un diritto extra tavolare non incompatibile con questo, come appunto nell’ipotesi di concorso di proprietà e servitù, si tratta di stabilire se anche in tal caso trovi applicazione il disposto del R.D. n. 499 del 1929, art. 5, comma 3 o se, al contrario, tale disposto vada ritenuto non pertinente e, di conseguenza, non venga in rilievo l’atteggiamento soggettivo di colui il quale abbia acquistato la proprietà sulla base della fede del libro fondiario.
- La più recente giurisprudenza di questa Corte, disattesa dalla Corte d’appello di Trieste ed invocata dalla ricorrente, si è orientata ne secondo senso.
- In particolare la sentenza n. 15020/13 – a cui hanno dato conferma e seguito la sentenze n. 10875/18 e l’ordinanza n. 13501/19 – ha affermato che nel sistema tavolare il concorso tra un diritto intavolato ed un diritto extra-tavolare non incompatibile con questo (come nel caso di proprietà e servitù) non si risolve alla stregua al R.D. 28 marzo 1929, n. 499, art. 5, per cui non rileva l’atteggiamento soggettivo di colui che abbia acquistato sulla base della fede del libro fondiario; ciò sul rilievo che la contraddittorietà fra il diritto di proprietà e quello di servitù non può farsi discendere dal fatto che la proprietà del fondo servente sia stata acquistata dal dante causa come libera da servitù passive. L’assenza di queste ultime – si legge nella sentenza n. 15020/13 (pag.8) “è oggetto non già di un diritto reale uguale e contrario a quello di servitù costituito per usucapione a favore del fondo dominante, ma di un’obbligazione del venditore, il quale, dichiarando che sul fondo alienato non gravano diritti reali limitati, si assume la relativa garanzia ai sensi dell’art. 1489 c.c. 5”.
- Il Collegio ritiene, tuttavia, che tale indirizzo non possa trovare ulteriore seguito. Esso, del resto, si pone in contrasto con più risalenti pronunce, dalle quali emerge un orientamento di segno opposto.
- In particolare, nella sentenza n. 107 del 19 gennaio 1971 si legge, in motivazione “Invero, a norma dell’art. 5 del decreto citato, colui che pretende di avere acquistato per prescrizione la proprietà o altro diritto reale sui beni immobili, può ottenere l’iscrizione nel libro tavolare in base ad una sentenza passata in giudicato che gli riconosca il diritto stesso, con la conseguenza che, ove non ottemperi a tali incombenti, restano salvi i diritti dei terzi acquistati sulla fede del libro fondiario anteriormente all’iscrizione. Nella specie, quindi, mentre l’usucapione (della servitù di passo, n.d.r.) sarebbe stata opponibile ai danti causa degli acquirenti contro i quali si fosse eventualmente verificato l’acquisto della servitù per il decorso del tempo, invece nei confronti di detti acquirenti, quali terzi, in tanto l’usucapione non iscritta sarebbe stata opponibile, in quanto i medesimi fossero stati a conoscenza dell’avvenuta usucapione”.
- Con la sentenza 22 luglio 1993 n. 8193 questa Suprema Corte pronunciandosi su una ipotesi, sovrapponibile a quella qui in esame, di conflitto tra chi si pretendeva titolare di una servitù non intavolata acquistata per usucapione e chi aveva acquistato la proprietà del fondo servente per atto inter vivos iscritto nel libro fondiario – ha regolato il conflitto applicando il R.D. n. 499 del 1929, art. 5 e, senza operare alcuna distinzione in base alla compatibilità o incompatibilità tra il diritto extra tavolare e il diritto intavolato, ha enunciato il principio che tale disposizione “regola il conflitto fra un diritto extratavolare acquistato per usucapione, indipendentemente dall’iscrizione tavolare, ed un diritto tavolare acquistato per atto inter vivos con il concorso di detta iscrizione, dando la prevalenza a quest’ultimo se acquistato sulla fede del libro fondiario, ossia ivi iscritto anteriormente all’iscrizione del diritto acquistato per usucapione giudizialmente accertato o all’annotazione della relativa domanda, ma la tutela derivante dal principio della pubblica fede cui è informato il sistema tavolare non può estendersi a chi ha intavolato il suo acquisto versando in mala fede, nel senso che conosceva o avrebbe dovuto conoscere l’esistenza di altro diritto reale prima acquistato da altri, poiché in tal caso la conoscenza che si ha o si dovrebbe avere sulla situazione reale esclude che si sia acquistato sulla fede del libro fondiario”.
- Analogamente, in Cass. 7 dicembre 1994 n. 10500, avente ad oggetto una servitù di veduta, si legge (in motivazione, in relazione al secondo motivo di ricorso) che l’iscrizione della sentenza che abbia riconosciuto l’acquisto per usucapione o comunque a titolo originario dei diritti reali è prevista “solo per rendere opponibile tali acquisti ai terzi che abbiano acquistato diritti sulle risultanze dei libri fondiari anteriormente all’iscrizione, cancellazione o annotazione della domanda giudiziale diretta ad ottenere l’iscrizione o la cancellazione (art. 5 del R.D. sopra menzionato)”.
- Tali risalenti arresti, dunque, riferiscono anche al diritto di servitù (di passo, nelle sentenze del 1971 e del 1993, e di veduta, nella sentenza del 1994) la regola per cui al terzo acquirente di buona fede non è opponibile il diritto, non iscritto nel libro tavolare, acquistato in virtù di usucapione maturata prima del suo acquisto; ferma restando la possibilità – chiaramente esplicitata nell’ultimo periodo dello stralcio di Cass. n. 107/1971 trascritto nei precedente § 31 – di chiedere l’accertamento dell’usucapione nei confronti di coloro contro i quali si è verificato l’acquisto per il decorso del tempo.
- Il Collegio ritiene che l’indirizzo più risalente debba essere preferito.
- È vero, infatti, che tra il diritto di proprietà di un soggetto su un fondo e il diritto di servitù di altro soggetto sul medesimo fondo non sussiste alcun conflitto; la coesistenza del diritto di proprietà con i diritti di servitù – e, in generale, con tutti i diritti reali limitati (in re aliena) – è infatti coerente con lo stessa struttura normativa di questi ultimi diritti.
- Ma è altresì vero che l’impianto stesso del sistema tavolare univocamente orientato a garantire la certezza dei diritti risultanti dal libro fondiario – impone di dare all’espressione “restano però salvi in ogni caso i diritti dei terzi acquistati sulla fede del libro fondiario…”, contenuta nel R.D. n. 499 del 1929, art. 5, comma 3, una interpretazione estensiva, che, riguardo al diritto di proprietà, riferisca la “salvezza” non solo all’esistenza del diritto ma anche alla libertà del bene.
- Decisiva, al riguardo, appare la considerazione dell’origine storica dell’istituto.
- Come è noto, il sistema dei libri fondiari venne accolto dal codice civile del 1811 dell’Impero austriaco (successivamente austro-ungarico) correntemente denominato, in sigla, ABGB (Allgemeines burgerliches Gesetzbuch) – e venne disciplinato con la L. generale 25 luglio 1871, B.L.I., n 95.
- La legislazione italiana conservò il sistema dei libri fondiari nelle province corrispondenti ai territori annessi già compresi nel dissolto Impero austro-ungarico; in particolare i libri fondiari vennero conservati in forza del R.D. n. 2325 del 1928 e disciplinati dal più volte citato R.D. n. 499 del 1929, il quale fece richiamo, allegandola al proprio testo, alla menzionata legge generale dell’Impero austro-ungarico n. 95 del 1871.
- Tale premessa sulla storia delle fonti regolatrici della materia consente di valorizzare, ai fini dell’esegesi del comma 3 dell’art. 5 R.D. n. 499/1029 (sopra trascritto nel § 21), la quasi perfetta sovrapposizione tra la disciplina ivi dettata e quella fissata dal paragrafo 1.500 dell’Allgemeines burgerliches Gesetzbuch del 1811, che recitava: Das aus der Ersitzung oder Verjijhrung erworbene Recht kann aber demjenigen, welcher im Vertrauen auf die tiffentlichen Biicher noch vor der Einverleibung desselben eine Sache oder ein Recht an sich gebracht hat, zu keinem Nachteile gereichen (il diritto acquisito per usucapione o per prescrizione non può tuttavia recare alcun pregiudizio a chi, facendo affidamento sui pubblici libri, ha, prima della registrazione dello stesso, acquistato qualche cosa o qualche diritto).
- L’espressione utilizzata nel paragrafo 1.500 ABGB, “non può recare alcun pregiudizio”, ha una latitudine semantica molto estesa (la parola tedesca “Nachteil” è correntemente tradotta in italiano, oltre che come “pregiudizio”, anche come “svantaggio” o “inconveniente”) e non pare dubitabile che nel significato di “Nachteil” rientri lo “svantaggio” o “inconveniente” in cui si risolve, per chi ha acquistato un fondo sulla fede del libro, l’esistenza, su tale fondo, di un altrui diritto reale limitato.
- Il Collegio ritiene che legislatore italiano, recependo il sistema tavolare per le province ex austro-ungariche, abbia inteso mantenere integro il sistema tavolare così come precedentemente esistente nell’ordinamento imperiale; sistema connotato essenzialmente per la pubblica fede attribuita al libro fondiario in ordine alla situazione giuridica del bene trasferito, comprensiva della esistenza o inesistenza di pesi sul medesimo. Il più risalente insegnamento di questa Suprema Corte appare quindi preferibile, perché più rispettoso della specialità dell’istituto – che il legislatore nazionale ha modellato ricalcando pedissequamente la disciplina dell’ABGB del 1811 – e delle sue differenze, quanto a struttura ed effetti, rispetto al sistema pubblicitario della trascrizione, di tradizione francese.
- Deve quindi, in definitiva, concludersi affermando il seguente principio di diritto: nel sistema tavolare vigente nelle province dei territori già appartenuti al dissolto Impero austro-ungarico, ferma la possibilità di chiedere l’accertamento dell’usucapione nei confronti di coloro contro i quali si è verificato l’acquisto per il decorso del tempo, un diritto reale sorto su un fondo per usucapione non è opponibile al terzo che abbia acquistato il fondo con atto intavolato in buona fede prima dell’iscrizione della sentenza o della domanda di usucapione, quand’anche si tratti di un diritto reale limitato e, quindi, compatibile con il diritto di proprietà.
- Il secondo motivo di ricorso va pertanto disatteso.
- Il terzo motivo di ricorso, con cui si denuncia il vizio di motivazione “carente, insufficiente e contraddittoria su un punto decisivo della controversia” è inammissibile, perché formulato in difformità dal paradigma fissato nell’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo novellato dal D.L. n. 83 del 2012, convertito in legge con la L. n. 134 del 2012. Il vizio di insufficienza e contraddittorietà della motivazione non è più censurabile in cassazione, infatti, ove non si risolva – e non è questo il caso – in una motivazione inesistente o apparente (cfr. Cass. 23940/17).
- In ogni caso, nessuna contraddittorietà sussiste nella trama motivazionale della sentenza impugnata, giacché l’argomentazione della corte triestina sulla mancanza del requisito dell’apparenza della servitù di passo così come quella sulla dichiarazione contrattuale della sig.ra Fi. di libertà dei beni trasferiti alla compratrice F. s.r.l. – risulta funzionale a sorregge la statuizione che quest’ultima non era in mala fede quando intavolò il proprio acquisto, in quanto non poteva desumere dallo stato della proprietà condominiale l’esistenza, sulla stessa, di un passaggio destinato a collegare il fondo Fi. con la pubblica via.
- Il ricorso è rigettato.
- Le spese si compensano, in ragione della sussistenza di precedenti contrastanti di questa stessa Suprema Corte.
- Deve altresì darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, del raddoppio del contributo unificato D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater, se dovuto.
Corte di Cassazione, II, sentenza del 06.07.2021, n. 19054
*Responsabilità professionale – Violazione del diritto eurounitario e assoggettabilità della vicenda alla legge sulla responsabilità dei magistrati: rimessione della questione alle SS.UU.
Deve essere rimessa al Primo Presidente della corte di Cassazione, affinchè valuti l’opportunità di assegnazione alle Sezioni Unite, la questione relativa alla assoggettabilità (necessaria o meno) al procedimento speciale previsto dalla legge n. 117 del 1988 delle azioni in cui la responsabilità dedotta in citazione riguardi la violazione del diritto dell’Unione, con particolare riferimento all’obbligo del giudice di ultima istanza di provvedere al rinvio pregiudiziale. Si versa, invero, in questione di massima di particolare importanza, in ragione, sia degli assai incidenti (ed immediatamente percepibili) riverberi di natura pratico-applicativa che da essa scaturiscono, sia dell’importanza delle decisioni della Corte di Giustizia che hanno indotto il legislatore a modificare la citata legge n. 117 del 1988.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
con il primo motivo si eccepisce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., dell’art. 2909 c.c. dell’art. 324 c.p.c., ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1 e 4, perché la Corte territoriale avrebbe esaminato l’eccezione relativa alla tardività dell’azione nonostante la stessa non fosse stata riproposta in sede di precisazione delle conclusioni e, comunque, fosse oramai coperta da giudicato per mancata impugnazione dell’ordinanza interlocutoria che aveva rigettata detta eccezione.
Con il secondo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 24 e 117 Cost., oltre che dell’art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, nonché delle corrispondenti disposizioni di cui agli artt. 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e la violazione dei principi di proporzionalità, effettività e certezza del diritto. Nell’articolato motivo si lamenta l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 della legge citata, come interpretato dalla Corte d’Appello di Firenze e dalla Corte di Cassazione. In sostanza, ricorrerebbe la violazione di norme costituzionali e della normativa Europea in relazione alla forma dell’atto introduttivo dell’azione di responsabilità ai sensi della citata L. n. 117 del 1988, Diversamente da quanto affermato dalla Corte territoriale, a fronte di due possibili interpretazioni di una norma processuale, sarebbe stato corretto privilegiare quella che salvaguarda il diritto costituzionale ad un accesso effettivo ad un giudice che esamini nel merito la pretesa risarcitoria. Si deduce, altresì, che il predetto art. 4 sarebbe incompatibile, sia con il diritto comunitario per violazione del diritto ad un accesso effettivo al giudice (art. 47 della Carta), sia con i principi di proporzionalità, effettività e certezza del diritto.
L’oggetto del giudizio di merito.
Appare necessario individuare la causa petendi del presente giudizio al fine di verificare se, a prescindere dallo strumento processuale costituito dalla disciplina nazionale (L. n. 117 del 1988), la pretesa si fondi sulla prospettazione di una violazione manifesta del diritto comunitario, consumata da parte del giudice nazionale mediante l’attribuzione di una portata erronea ad una norma comunitaria di diritto sostanziale o procedurale ovvero l’interpretazione del diritto nazionale in modo tale da condurre ad un risultato contrario al diritto comunitario.
Orbene, a pag. 6 del ricorso per cassazione, la società Camar s.r.l. rileva che con atto di citazione del 29 giugno 2006 aveva evocato in giudizio la presidenza del Consiglio dei Ministri chiedendo il risarcimento dei danni “per grave violazione del diritto comunitario perpetrata dalla Corte Suprema di Cassazione”, Sezione Tributaria, con le sentenze del 2 e 7 luglio 2004, n. 12149 e n. 12443. Anche davanti al Tribunale di Firenze, quale giudice di prime cure, la società aveva richiesto (così come era avvenuto nei giudizi definiti con le citate decisioni di questa Corte) il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia sensi dell’art. 267 (ex art. 234 del TCE) del Trattato istitutivo della Comunità Europea).
Con ordinanza del 20 febbraio 2009 il Tribunale di Firenze sottoponeva alla Corte di Giustizia i quesiti tesi a stabilire se e, in quale misura, il mancato rinvio pregiudiziale da parte della Corte di Cassazione nei giudizi presupposto, avesse provocato un danno alla società Camar.
La Corte di Giustizia, con sentenza del 29 aprile 2010, provvedeva sulla richiesta rilevando, secondo la ricorrente, che “illegittimamente la Corte di Cassazione – con le sentenze sopra citate-non aveva fatto uso dell’obbligo di rinvio pregiudiziale”.
Da quanto precede emerge che la responsabilità dedotta in citazione riguarda la violazione del diritto dell’Unione, con particolare riferimento all’obbligo del giudice di ultima istanza di provvedere al rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE).
Secondo la ricorrente, nel caso di dedotta violazione del diritto comunitario lo strumento processuale utilizzabile non sarebbe quello previsto dalla L. n. 117 del 1988, art. 4, ma un giudizio ordinario, eventualmente strutturato come quello previsto dalla citata legge, nel quale, però, al termine “azione” di cui al citato art. 4, debba essere attribuita una “interpretazione ambivalente cioè di azione d’esercitarsi indifferentemente con ricorso o con citazione”, con la conseguenza che in questo secondo caso, la tempestività dell’azione sarebbe determinata dalla data di presentazione della notifica dell’atto di citazione e non dal deposito del ricorso.
Per la rilevanza della questione e per la complessità della disciplina normativa di settore è opportuno ripercorrere brevemente l’evoluzione normativa e giurisprudenziale in materia e collocare la questione nell’ambito della evoluzione dell’orientamento della giurisprudenza comunitaria in tema di responsabilità dello Stato, anche per l’attività posta in essere dagli organi giurisdizionali nazionali.
Le decisioni della Corte di Giustizia.
Occorre prendere le mosse dalla nota sentenza della Corte di Giustizia UE, 30 settembre 2003, C-224/01 (Kobler), riguardante la responsabilità della Repubblica d’Austria per la decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado, asseritamente contrastante con il diritto comunitario direttamente applicabile. Nell’occasione la Corte di Giustizia aveva affermato che “gli Stati membri sono obbligati a riparare i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario che sono loro imputabili” e che tale principio “si applica anche allorché la violazione di cui trattasi deriva da una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado. Infatti, questo principio, inerente al sistema del Trattato, ha valore in riferimento a qualsiasi ipotesi di violazione del diritto comunitario commessa da uno Stato membro, qualunque sia l’organo di quest’ultimo la cui azione od omissione ha dato origine alla trasgressione”.
Si trattava di un principio consolidato, che estendeva la responsabilità dello Stato per danni provocati ai singoli ad ogni ipotesi di violazione del diritto comunitario, indipendentemente dalla natura dell’organo nazionale al quale imputare l’azione o l’omissione (sent. 5/03/1996, in C-46/93 e 48/93, Brasserie du Pecheur e Factortame; 19/11/1991, in C-6/90 e 9/90, Francovich).
Però, ai fini che qui rilevano, la sentenza Kobler non ha delimitato le caratteristiche differenziali della pretesa risarcitoria fondata sull’illecito posto in essere attraverso l’attività giurisdizionale, rispetto ad analoghe domande fondate su violazioni del diritto comunitario commesse da altri organi o poteri dello Stato.
Si è limitata ad affermare che, “con riserva del diritto al risarcimento, che trova direttamente il suo fondamento nel diritto comunitario nel caso in cui queste condizioni siano soddisfatte, è nell’ambito delle norme del diritto nazionale relative alla responsabilità che lo Stato è tenuto a riparare le conseguenze del danno provocato, fermo restando che le condizioni stabilite dalle legislazioni nazionali in materia di risarcimento dei danni non possono essere meno favorevoli di quelle che riguardano reclami analoghi di natura interna e non possono essere congegnate in modo da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento”.
Con sentenza della Corte di Giustizia UE, 13 giugno 2006, C-173/03 (Traghetti del Mediterraneo) si pone nuovamente il tema della violazione del diritto comunitario. La Traghetti del Mediterraneo s.p.a., impresa di trasporti marittimi aveva proposto, dinanzi al Tribunale di Genova, una domanda contro la Repubblica italiana, al fine di ottenere il risarcimento del danno da essa subito a causa di un’erronea interpretazione, da parte della Corte di Cassazione (con la sentenza n. 5087 del 2000), delle norme comunitarie relative alla concorrenza e agli aiuti di Stato e, in particolare, per il rifiuto opposto da quest’ultima alla sua richiesta di sottoporre alla Corte UE le pertinenti questioni di interpretazione del diritto comunitario.
La questione riguardava la configurabilità della responsabilità dello Stato nell’ipotesi di errata interpretazione delle norme giuridiche effettuata nell’ambito dell’esercizio delle funzioni giurisdizionali. Nell’occasione il Tribunale aveva disposto la sospensione del giudizio, sottoponendo alla Corte di Giustizia una serie di questioni pregiudiziali, tra le quali, ai fini che qui interessano, quella relativa all’eventuale responsabilità dello Stato membro per gli “errori dei propri giudici nell’applicazione del diritto comunitario e in particolare dell’omesso rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia da parte di un giudice di ultima istanza ai sensi dell’art. 234, comma 3, del Trattato; se osti all’affermazione di tale responsabilità – e sia quindi incompatibile con i principi del diritto comunitario una normativa nazionale in tema di responsabilità dello Stato per errori dei giudici che: a) – esclude la responsabilità in relazione all’attività di interpretazione delle norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove rese nell’ambito dell’attività giudiziaria, b) – limita la responsabilità dello Stato ai soli casi di dolo e colpa grave del giudice”.
La Corte di Giustizia UE, con la sentenza del 13 giugno 2006, ha affermato che “il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un’interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale”.
Maggiormente rilevante per la fattispecie in esame è la successiva sentenza della Corte di Giustizia UE, 24 novembre 2011, C-379/10 (Commissione Europea c. Repubblica italiana). La vicenda prendeva le mosse dalla contestazione da parte della Commissione Europea alla Repubblica italiana di essere venuta meno agli obblighi ad essa incombenti sulla responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell’Unione da parte di un proprio organo giurisdizionale di ultimo grado, escludendo la normativa nazionale qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti dall’interpretazione di norme di diritto o di valutazione di fatti e prove effettuate dall’organo giurisdizionale medesimo, e limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave.
In sostanza, la Commissione aveva contestato che, malgrado la sentenza Traghetti del Mediterraneo, lo Stato italiano aveva mantenuto inalterato il testo della L. n. 117 del 1988, non modificando la restrittiva interpretazione giurisprudenziale data dalla Corte di Cassazione a questa legge. La Corte di Giustizia 24 novembre 2011, richiamando la propria giurisprudenza (in particolare le sentenze Kobler e Traghetti del Mediterraneo), ha ricordato che, ai sensi della L. n. 117 del 1988, art. 2, la normativa italiana in materia di responsabilità dello Stato per i danni causati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie prevede, da un lato, ai commi 1 e 3 di tale articolo, che tale responsabilità è limitata ai casi di dolo, di colpa grave e di diniego di giustizia, e, dall’altro, al comma 2 dell’articolo stesso, che “non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto nè quella di valutazione del fatto e delle prove”.
“A fronte dell’esplicito tenore dell’art. 2, comma 2, di tale legge, lo Stato” italiano non avrebbe dimostrato che, nell’ipotesi di violazione del diritto dell’Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado, quando la violazione risulti dall’interpretazione delle norme di diritto o dalla valutazione dei fatti e delle prove effettuate dall’organo giurisdizionale, questo aspetto costituiva un semplice limite posto alla sua responsabilità e non un elemento preclusivo di quella responsabilità.
Con riguardo ai casi diversi dall’interpretazione delle norme di diritto o dalla valutazione di fatti e di prove, la Corte ha ribadito le condizioni in presenza delle quali uno Stato membro è tenuto al risarcimento dei danni causati ai singoli per violazione del diritto dell’Unione al medesimo imputabile, “vale a dire che la norma giuridica violata sia preordinata a conferire diritti ai singoli, che si tratti di violazione sufficientemente caratterizzata e, infine, che esista un nesso causale diretto tra la violazione dell’obbligo incombente allo Stato e il danno subito dai soggetti lesi (in questi termini, le sentenze 5 marzo 1996, cause riunite C-46/93 e C-48/93, Brasserie du Pecheur – Factortame, Racc. pag. 1-1029, punto 51; 4 luglio 2000, causa C-424/97, Haim, Racc. pag. 1-5123, punto 36, nonché 24 marzo 2009, causa C-445/06, Danske Slagterier, Racc. pag. 1-2119, punto 20)”.
Dopo l’immobilismo dello Stato italiano a seguito della sentenza Traghetti del Mediterraneo, la sentenza del 2011 ha dato luogo, anche a seguito dell’avvio di una procedura d’infrazione da parte della Commissione Europea, all’approvazione della L. 27 febbraio 2015, n. 18.
Per il periodo precedente all’intervento del legislatore, atteso l’accertato contrasto della L. n. 117 del 1988 art. 2, nella sua formulazione originaria, con il diritto dell’Unione Europea, si poneva un problema di disapplicazione della norma nazionale, alla stregua delle regole elaborate dalla giurisprudenza comunitaria, nel caso di responsabilità dello Stato membro nei confronti del singolo cittadino per la violazione del diritto dell’Unione da parte di un organo giurisdizionale nazionale.
Ai fini che qui rilevano, va sottolineato che gli effetti delle tre decisioni della Corte di Giustizia non hanno riguardato direttamente il diritto interno e cioè gli strumenti di tutela processuale che il singolo stato membro ha adottato per l’ipotesi di violazione del diritto comunitario, se non per le ipotesi di sostanziale annullamento della tutela interna.
Se è vero che il diritto al risarcimento “trova direttamente il suo fondamento nel diritto comunitario nel caso in cui queste condizioni siano soddisfatte, è nell’ambito delle norme del diritto nazionale relative alla responsabilità che lo Stato è tenuto a riparare le conseguenze del danno provocato”. Fermo restando che le condizioni stabilite dalle legislazioni nazionali in materia di risarcimento dei danni (L. n. 117 del 1988) devono essere almeno pari alle modalità e forme che riguardano reclami analoghi di natura interna e non possono essere congegnate in modo da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento (Corte Giustizia UE, Kobler).
In sostanza, l’intervento del giudice Europeo inizialmente non è stato percepito come finalizzato alla adozione di strumenti di tutela autonomi rispetto a quelli relativi alla responsabilità dell’organo giurisdizionale nazionale, attraverso il quale si concretizzava la violazione del diritto comunitario.
Tale aspetto assume rilievo nel presente giudizio, per quello che si dirà più avanti, in quanto la giurisprudenza di legittimità tenderà a valutare unitariamente il tema della ragionevolezza del rito e dei termini della L. Speciale n. 117 del 1988, che disciplina la responsabilità dello Stato e del magistrato, rispetto a quello della violazione del diritto Europeo, consistente nell’errata applicazione dei principi comunitari (tra cui l’omesso rinvio pregiudiziale del giudice di ultima istanza) da parte degli organi giurisdizionali interni.
Al contrario, nelle fattispecie come quella in esame, in cui si lamenti una responsabilità dello Stato per violazione manifesta del diritto comunitario, la pretesa ha ad oggetto un’azione di responsabilità diretta e speciale dello Stato, che prescinde dall’illecito del magistrato (si osserva in dottrina: “dalla giurisprudenza Europea emerge una configurazione della responsabilità dello Stato giudice non più strettamente collegata alla responsabilità del magistrato (…) siamo, pertanto, in presenza di una forma di responsabilità obiettiva, piuttosto che di una responsabilità dello Stato per l’operato dei suoi dipendenti”).
La questione assume rilievo proprio nei casi in cui vi sia una sostanziale inscindibilità del profilo della violazione del diritto comunitario, rispetto all’attività giurisdizionale (nel caso di specie della Corte di Cassazione, quale giudice di ultima istanza).
Infatti, quando la violazione del diritto comunitario è riferita alla decisione di un giudice, la responsabilità dello Stato si configura con riferimento all’esercizio della funzione giurisdizionale, rispetto alla quale il nostro ordinamento prevede le forme ed i modi di tutela del privato secondo la disciplina della L. n. 117 del 1988.
Il profilo della inscindibilità emerge dal fatto che, come osserva la Corte di Giustizia nella sentenza del 24 novembre 2011, la L. n. 117 “assegna la preminenza all’azione diretta contro lo Stato” e la grave violazione della normativa comunitaria”, cioè la “manifesta violazione del diritto vigente” richiesta dalla giurisprudenza comunitaria rientra nella “grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile” prevista dall’art. 2, comma 3, lett. a, della citata legge.
La peculiarità della tematica in oggetto risiede proprio nel fatto che la responsabilità dello Stato per l’esercizio dell’attività giurisdizionale, riguarda anche la violazione del diritto comunitario.
E questo sebbene il principio del risarcimento dei danni per violazione del diritto comunitario non investa la responsabilità personale del giudice, ma soltanto quella dello Stato, la quale opera rispetto a qualsiasi ipotesi di violazione e quale che sia l’organo (legislativo, esecutivo o giurisdizionale) che abbia agito, attesa la sostanziale fungibilità soggettiva dell’organo o del funzionario che abbia causato il danno, essendo lo Stato considerato nella sua unità.
L’intervento del legislatore.
Dopo la decisione del 2011 il legislatore è intervenuto con la L. 27 febbraio 2015, n. 18 modificando la L. n. 117 del 1988 e disponendo che costituisce colpa grave la violazione manifesta del diritto dell’Unione Europea (art. 2, comma 3) e che ai fini del relativo accertamento occorre tener conto, in particolare, del grado di chiarezza e precisione delle norme violate, dell’inescusabilità e della gravità dell’inosservanza, nonché dell’inadempimento dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267, terzo paragrafo, del Trattato UE e del contrasto dell’atto o del provvedimento con l’interpretazione espressa dalla Corte di Giustizia UE (art. 2, comma 3-bis).
Il legislatore del 2015 avrebbe potuto separare le ipotesi di danno per violazione della normativa nazionale, per le quali trova applicazione diretta il procedimento previsto dalla L. n. 117 del 1988, rispetto alla pretesa risarcitoria fondata sulla violazione del diritto comunitario attuata dallo Stato legislatore, per la cui proposizione non sarebbe richiesta l’osservanza del rito disciplinato dalla citata L. n. 117 (e naturalmente -per quello che qui interessa- il termine previsto dall’art. 4, comma 3 e la forma dell’atto introduttivo).
Al contrario, questa Corte ha già avuto modo di evidenziare che il legislatore del 2015, con l’approvazione della L. n. 18, non ha previsto un’autonoma azione di responsabilità nei confronti dello Stato per violazione del diritto dell’Unione, bensì ha ridefinito i presupposti della responsabilità dello Stato per i danni derivanti ai singoli da comportamenti, atti e provvedimenti posti in essere da magistrati nell’esercizio delle funzioni (così Cass. n. 25216/15, in motivazione).
L’art. 1 della novella, dispone che “la presente legge introduce disposizioni volte a modificare le norme di cui alla L. 13 aprile 1988, n. 117, al fine di rendere effettiva la disciplina che regola la responsabilità civile dello Stato e dei magistrati, anche alla luce dell’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea”, così enunciando lo scopo della riforma, evidentemente rivolta alla sua futura applicazione. Ma tale riferimento letterale presuppone che anche il testo di legge del 1988, vigente prima dell’entrata in vigore della legge del 2015, era riferito a tutte le ipotesi di azioni per risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e per responsabilità civile dei magistrati.
Il profilo centrale delle decisioni della Corte di Giustizia risiede nell’individuazione di una responsabilità dello Stato-giudice non più, necessariamente, collegata alla responsabilità del magistrato. Secondo le pronunzie in esame, alla responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario, non possono estendersi i limiti che trovano la propria giustificazione nella tutela dell’indipendenza del magistrato persona fisica.
In definitiva, l’illecito comunitario è un illecito dello Stato e le regole della responsabilità dello Stato e quelle dell’organo giurisdizionale non devono necessariamente coincidere.
Nel momento in cui il legislatore del 2015 decide di non separare i due ambiti, si pone un problema di trascinamento del rito, dei limiti e dei termini che sono propri della responsabilità del magistrato, anche alla responsabilità dello Stato. E questo è il tema sottoposto dalla società ricorrente alla Corte di legittimità.
Il sistema della responsabilità dello Stato per i danni causati dalla violazione del diritto comunitario nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali si collocherebbe così su un piano diverso da quello proprio della L. n. 117 del 1988. Mentre, per il primo, l’ordinamento comunitario non ammette una esclusione della responsabilità dello Stato, nelle ipotesi di illeciti relativi al diritto interno e non implicanti la violazione del diritto comunitario, le ragioni della tutela della funzione giurisdizionale sarebbero prevalenti. Così, trattandosi di illecito giudiziario in senso proprio, si giustificherebbero le limitazioni poste dalla L. n. 117 del 1988 alla responsabilità dello Stato e del giudice, a garanzia dell’autonomia e indipendenza della magistratura.
La previsione dell’azione di rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato evidenzia proprio la riconducibilità dell’illecito relativo al diritto interno, all’attività dell’organo giurisdizionale.
Come è stato osservato dalla dottrina, il legislatore del 2015 avrebbe potuto stabilire forme di responsabilità individuale dei giudici per dolo o colpa grave e disciplinare separatamente la responsabilità dello Stato per violazione del diritto Europeo, da riferire a tutti i casi di violazione manifesta di tale disciplina.
In altri termini, il legislatore avrebbe potuto prendere atto della giurisprudenza Europea riferita alle condizioni di esercizio dell’azione diretta di responsabilità nei confronti dello Stato e adottare le opportune modificazioni, senza incidere sul procedimento relativo all’esercizio dell’azione di rivalsa, dello Stato condannato per violazione del diritto comunitario, nei confronti del magistrato.
È evidente che il diverso approccio a tale tematica incide sulla soluzione da adottare rispetto alla prospettazione della società ricorrente, secondo cui (l’asserita) violazione del diritto dell’Unione da parte della Corte di Cassazione, attraverso la adozione delle due sentenze rispettivamente del 2 e del 7 luglio 2004, avrebbe dovuto essere valutata facendo applicazione, non già della disciplina di diritto interno, concernente i presupposti della responsabilità dello Stato per i danni derivanti da atti e comportamenti posti in essere dai magistrati nell’esercizio delle funzioni (di cui alla L. n. 117 del 1988), ma sulla base della disciplina posta dal diritto dell’Unione Europea, risultante dalle sentenze 13 giugno 2006 (causa C-173/2003: Traghetti del Mediterraneo s.p.a.) e 24 novembre 2011 (causa C-379/2010: Commissione Europea), della Corte di Giustizia.
La società ricorrente, richiede a questa Corte di Cassazione, anche di rinviare pregiudizialmente ex art. 267 TFUE alla Corte di Giustizia al fine di accertare la compatibilità del procedimento previsto dalla L. n. 117 del 1988, con particolare riferimento alla forma dell’atto introduttivo e all’applicazione del termine biennale di prescrizione L. n. 117 del 1988, ex art. 4, comma 2.
La giurisprudenza di legittimità.
Rispetto a tale dedicato tema, l’approccio della Corte di legittimità desumibile dalle decisioni in materia non è stato omogeneo, potendosi individuare almeno tre differenti orientamenti.
Primo orientamento.
Una prima soluzione pone al centro dell’indagine la mera questione della compatibilità del procedimento previsto dalla citata L. 117 del 1988 con le istanze di tutela dei cittadini per l’attività giurisdizionale ritenuta lesiva, senza distinguere tra violazione del diritto comunitario e violazione del diritto interno. Si richiama la decisione Cass. 29 novembre 2002 n. 16935 secondo cui la domanda di risarcimento ai sensi della L. 13 aprile 1988, n. 117, sulla responsabilità civile dei magistrati, va proposta con ricorso, e non con citazione, atteso che, dalle caratteristiche della fase iniziale del processo, regolata dall’art. 5 legge cit. e relativa al giudizio di ammissibilità della domanda, si desume che detta fase è improntata alla sommarietà e caratterizzata dalle forme del procedimento camerale, il che lascia trasparire all’evidenza che intenzione del legislatore era quella di prevedere, anche senza espressa indicazione, l’uso del ricorso, come è confermato, altresì, dal principio generale contenuto nell’art. 737 c.p.c., che espressamente stabilisce che i provvedimenti che debbono essere pronunziati in camera di consiglio (come quello che definisce il giudizio di ammissibilità ex art. 5 cit.) si chiedono con ricorso al giudice competente, che pronunzia con decreto.
Così, sul presupposto della necessaria applicabilità della citata disciplina per ogni forma di violazione posta in essere dal giudice nazionale, questa Corte ha recentemente ribadito (Cass. n. 17037 del 2018), che la domanda di risarcimento ai sensi della L. 13 aprile 1988, n. 117 sulla responsabilità civile dei magistrati, va proposta con ricorso, e non con citazione (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 932 del 17/01/2017, Rv. 642702 – 02).
Secondo orientamento.
In altre decisioni questa Corte si è fatta carico del problema giuridico a monte, relativo alla natura della violazione dedotta con la originaria citazione (causa petendi), escludendo la sussistenza di strumenti processuali di tutela separati e paralleli e ribadendo la necessarietà del rito previsto dalla L. n. 117 del 1988, ritenuto compatibile con i principi affermati dalle tre decisioni della Corte di Giustizia.
Così, in particolare, Cass. n. 258 del 10 gennaio 2017 affronta consapevolmente la questione della compatibilità del rito previsto dalla L. n. 117 del 1988 e dei relativi termini (così come vigenti prima delle modifiche apportate con la L. 27 febbraio 2015, n. 18) con il diritto Europeo, escludendo la necessità di disporre il rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE, in considerazione proprio della chiarezza del dato normativo.
Si legge in motivazione che le sentenze della Corte di Giustizia succedutesi nel corso del tempo, pur enucleando importanti principi in ordine ai presupposti, sostanziali della responsabilità dello Stato per i danni derivanti dagli atti e provvedimenti posti in essere dal magistrato nell’esercizio delle funzioni, qualora sia chiamato ad applicare norme dell’ordinamento dell’Unione (principi ai quali si sono dimostrate non del tutto conformi le regole poste dal diritto interno), non avrebbero interferito con le modalità e le condizioni processuali attraverso le quali può essere esercitata l’azione risarcitoria, che restano disciplinate dal diritto interno.
In particolare, la sentenza della Corte di Giustizia 24 novembre 2011 (causa C-379/2010: Commissione Europea) avrebbe limitato il rilievo del contrasto con il diritto dell’Unione Europea alla L. n. 117 del 1988, art. 2, commi 1 e 2, affermando che “La Repubblica Italiana, 1) escludendo qualsiasi responsabilità… per i danni arrecati a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o da valutazione di fatti e prove e 2) limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave (conducendo tale limitazione ad escludere la responsabilità in ipotesi di violazione manifesta del diritto vigente), ai sensi della L. n. 117 del 1988, art. 2, commi 1 e 2… è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli stati membri per violazione del diritto dell’Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado”.
La Corte esamina il tema centrale del procedimento applicabile nell’ipotesi di violazione del diritto comunitario, nel caso di decisione giurisdizionale di ultima istanza che si assuma contraria al diritto dell’Unione (come nel caso in esame), affermando che il rito applicabile è esclusivamente quello speciale della L. n. 117 del 1988 il quale non contrasta con i principi di effettività e di equivalenza di fonte comunitaria.
Secondo la citata decisione di questa Corte la giurisprudenza della Corte di Giustizia presuppone che l’unica disciplina applicabile a questa peculiare ipotesi di responsabilità dello Stato è quella prevista dalla L. 13 aprile 1988, n. 117, nel testo originario, ed in quello via via modificato.
Non sarebbe sostenibile la tesi secondo cui, prima dell’entrata in vigore della L. n. 18 del 2015 e, comunque, indipendentemente da tale normativa, l’azione risarcitoria nei confronti dello Stato per danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, quando riferita a violazioni del diritto dell’Unione, dovesse essere esperita secondo le forme ed i termini del rito ordinario e rinvenendo la disciplina sostanziale nell’art. 2043 c.c..
Al contrario, la L. 13 aprile 1988, n. 117, nel testo vigente prima delle modifiche apportate dalla L. 27 febbraio 2015, n. 18, troverebbe applicazione a tutte le ipotesi di azioni risarcitorie per danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati, senza che residuino ipotesi di applicabilità del rito ordinario di cognizione e di responsabilità dello Stato per i medesimi danni fondate sulla norma generale dell’art. 2043 c.c..
Secondo la citata decisione, poiché le pronunzie Europee non avrebbero preso posizione sulle disposizioni attinenti alle mere modalità processuali della domanda risarcitoria, la disciplina speciale nazionale sarebbe compatibile col diritto dell’Unione “purché siano rispettati i principi di effettività e di equivalenza”.
Una volta superata la questione preliminare relativa alla prospettabilità in astratto della coesistenza di due strumenti processuali differenti, azionabili sulla base della diversa causa petendi (rispettivamente, violazione del diritto interno e violazione del diritto comunitario, entrambe conseguenti all’attività di organi giurisdizionali interni) la Corte esamina la ragionevolezza dei limiti posti dal rito previsto dalla citata L. n. 117.
In particolare, si occupa della questione della proponibilità del giudizio preclusa nell’ipotesi di inutile decorso del termine biennale stabilito dall’art. 4, comma 2, ultimo inciso, nel testo vigente prima delle modifiche apportate dalla L. n. 18 del 2015.
Nel caso esaminato dalla Corte nel 2017, così come nel presente giudizio, occorreva verificare se le condizioni stabilite dalla normativa dello Stato italiano per riparare le conseguenze del danno provocato dalla violazione del diritto comunitario ad esso imputabile, fossero meno favorevoli di quelle riguardanti reclami analoghi di natura interna o comunque fossero tali da rendere, se non praticamente impossibile, quanto meno eccessivamente difficile ottenere il risarcimento, con ciò ponendosi in contrasto con i principi elaborati dalla richiamata giurisprudenza della Corte di Giustizia.
Viene richiamato il principio secondo cui la giurisprudenza comunitaria reputa sufficiente che si tratti di termini “ragionevoli”, escludendo che la sola apposizione di termini, in sé considerata, possa costituire un ostacolo all’esercizio dei diritti, sempre che siano rispettati i detti principi di equivalenza e di effettività (Corte di Giustizia, C-445/06, 24 marzo 2009).
Sotto tale profilo il termine biennale viene ritenuto ragionevole “collocandosi per di più la sua decorrenza dopo l’esperimento di tutti i mezzi ordinari di impugnazione – assicura un periodo di tempo più che ragionevole e sufficiente per valutare la sussistenza dei presupposti della responsabilità nel caso concreto e per approntare adeguatamente l’azione e la difesa in giudizio”, aggiungendo che “l’introduzione di un termine di decadenza per l’azione risarcitoria costituisce espressione del principio di ragionevole durata del processo” (in tal senso Cons. Stato, Sez. 5, 5 ottobre 2011, n. 5445).
In sostanza, con la decisione citata, questa Corte esclude la violazione del “principio di equivalenza di matrice comunitaria”, atteso che la norma che pone il limite temporale si applica indifferentemente alle azioni risarcitorie per danni provocati da decisioni giudiziarie in contrasto sia con l’ordinamento interno che con l’ordinamento dell’Unione.
Effetti del primo e secondo orientamento.
Una volta esclusa la configurabilità di una forma autonoma di tutela per violazione del diritto comunitario da parte dell’organo giurisdizionale interno di ultima istanza, gli effetti pratici del primo e del secondo approccio oggetto delle citate decisioni di legittimità sono nel senso di ribadire che i giudizi vanno instaurati con ricorso, con conseguente decorrenza del termine dal deposito e non dalla notifica della citazione (eventualmente erroneamente adottata), precisando che il termine biennale di decadenza è ragionevole.
Collocato in quest’ottica il problema della possibilità di conversione del procedimento erroneamente instaurato con citazione, in quello corretto e la conseguente sanatoria della decadenza rispetto al termine biennale (ipotesi ricorrente nel caso di specie), non si pone in termini di inutilizzabilità del procedimento speciale previsto dalla L. n. 117 del 1988, ma, al più, in termini di applicabilità all’unico procedimento utilizzabile (L. n. 117 del 1988) dei meccanismi di sanatoria degli effetti sostanziali e processuali previsti da altre leggi. Nel caso di specie, dal D.Lgs. n. 150 del 2011.
Ma sotto tale profilo la strada non appare perseguibile perché, come rilevato nella citata decisione n. 17037 del 2018, il D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, art. 4, comma 5, (il quale stabilisce che “gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono secondo le norme del rito seguito prima del mutamento. Restano ferme le decadenze e le preclusioni maturate secondo le norme del rito seguito prima del mutamento”) non è applicabile al predetto procedimento speciale. La suddetta previsione, infatti, si riferisce solo alle controversie “previste dal presente decreto” (così stabilisce il comma 1 dell’art. 4 D.Lgs. cit.), tra le quali non rientra la domanda di risarcimento del danno proposta nei confronti dello stato per il fatto del magistrato.
Terzo orientamento di legittimità.
I medesimi elementi (rito speciale, decorrenza del termine, decadenza biennale) assumono differente significato nell’ambito di un terzo approccio, rinvenibile in altre decisioni di questa Corte di legittimità, laddove si pone nuovamente la questione del procedimento applicabile nell’ipotesi di causa petendi riferita alla violazione manifesta del diritto comunitario, consumata da parte del giudice nazionale mediante l’attribuzione di una portata manifestamente erronea ad una norma comunitaria.
Anche in questo caso l’ulteriore condizione è che la violazione -secondo la prospettazione del ricorrente- deve riguardare una norma sufficientemente chiara e precisa e deve rivestire il carattere dell’inescusabilità, eventualmente testimoniato dall’inosservanza dello obbligo del rinvio pregiudiziale o dalla manifesta ignoranza della giurisprudenza comunitaria.
Orbene, come precisato in premessa, tali caratteristiche specifiche si rinvengono nei fatti posti a sostegno della domanda avanzata dalla società Camar nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado.
Secondo Cass. 30 ottobre 2018, n. 27690, la circostanza che la violazione allegata a sostegno della domanda si realizzi per il tramite di un provvedimento giurisdizionale non costituisce elemento sufficiente a giustificare l’applicabilità delle disposizioni dettate dalla L. n. 117 del 1988.
La violazione del diritto comunitario anche quando è ricollegabile direttamente alla legge, si concretizza, per lo più, attraverso l’applicazione che ne viene fatta in sede giurisdizionale o amministrativa.
La citata decisione si pone in contrasto con il principio secondo cui, in caso di violazione mediata da una decisione giurisdizionale, essa imporrebbe la necessaria applicazione della disciplina dettata dalla L. n. 117 del 1988, la cui ratio, consistente nel contemperamento delle esigenze di tutela dei soggetti danneggiati con quelle di salvaguardia della indipendenza della funzione giurisdizionale, è invece collegata alle caratteristiche specifiche di tale funzione. Una siffatta impostazione, si legge in motivazione, “finirebbe con il rendere evanescente la stessa responsabilità dello Stato legislatore, rendendo praticamente impossibile distinguerla da quella dello Stato amministratore o dello Stato giudice”.
In sostanza, occorrerebbe distinguere i due profili della responsabilità dei magistrati e della responsabilità dello Stato. Le cautele riguardanti soltanto la prima ipotesi, sono state ritenute meritevoli di considerazione anche dalla giurisprudenza comunitaria, la quale, tuttavia, nel riconoscerne l’idoneità a giustificare l’introduzione di particolari restrizioni all’esercizio dell’azione risarcitoria, ne ha sottolineato l’eccezionalità, ribadendo in linea generale che “le condizioni stabilite dalle legislazioni nazionali in materia di risarcimento dei danni non possono essere meno favorevoli di quelle che riguardano reclami analoghi di natura interna e non possono essere congegnate in modo da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento” (sent. 30/09/2003, C224/01).
La specificità dell’illecito commesso nell’esercizio della funzione giurisdizionale è stata evidenziata dalla stessa Corte di Giustizia, la quale, ha affermato che “non si può escludere che una violazione manifesta del diritto comunitario vigente venga commessa, appunto, nell’esercizio di una tale attività interpretativa, se, per esempio, il giudice dà a una norma di diritto sostanziale o procedurale comunitario una portata manifestamente erronea, in particolare alla luce della pertinente giurisprudenza della Corte in tale materia (…), o se interpreta il diritto nazionale in modo da condurre, in pratica, alla violazione del diritto comunitario vigente”.
Muovendo dal presupposto secondo cui la violazione del diritto comunitario, anche manifesta, può essere commessa attraverso l’esercizio dell’attività giurisdizionale, anche da parte del giudice di ultima istanza, secondo – o – citata decisione di questa Corte, quando la causa petendi individua una violazione dei principi comunitari, non trova applicazione il procedimento speciale previsto dalla L. n. 117 del 1988 e le specifiche modalità di introduzione del giudizio (con ricorso e non con citazione) e i relativi termini di proponibilità dell’azione.
I principi affermati nella citata decisione consentono di affermare che, nel caso di dedotta violazione del diritto comunitario, lo strumento processuale utilizzabile non sarebbe quello previsto dalla L. n. 117 del 1988, art. 4, ma un giudizio ordinario, eventualmente strutturato come quello previsto dalla citata legge, ma non necessariamente vincolato alla forma del ricorso; con la conseguenza che la tempestività dell’azione potrebbe riferirsi alla data di presentazione della notifica dell’atto di citazione e non al deposito del ricorso.
Sotto tale profilo il meccanismo previsto dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 4 potrebbe rappresentare un parametro interpretativo favorevole alla sanatoria degli effetti processuali, anche se non direttamente applicabile alla fattispecie in esame.
Alla luce delle considerazioni che precedono, tenuto conto altresì dell’orientamento di legittimità non univoco, quale risulta dalla giurisprudenza sul tema (di cui agli arresti menzionati analiticamente sopra), ritiene il Collegio che la questione relativa alla assoggettabilità (necessaria o meno) al procedimento speciale previsto dalla L. n. 117 del 1988 delle azioni in cui la responsabilità dedotta in citazione riguardi la violazione del diritto dell’Unione, con particolare riferimento all’obbligo del giudice di ultima istanza di provvedere al rinvio pregiudiziale, esiga un pronunciamento della Corte nella sua più tipica espressione di organo della nomofilachia: si versa, invero, in questione di, massima di particolare importanza, in ragione, sia degli assai incidenti (ed immediatamente percepibili) riverberi di natura pratico-applicativa che da essa scaturiscono, sia dell’importanza delle decisioni della Corte di Giustizia che hanno indotto il legislatore a modificare la citata L. n. 117 del 1988.
Ricorrono pertanto le condizioni per la rimessione del ricorso al Primo Presidente perché valuti ex art. 374 c.p.c. l’opportunità di un’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.
Corte di Cassazione, III, ordinanza interlocutoria del 06.07.2021, n. 19037