Corte di Cassazione, III Sezione Penale, sentenza 31 agosto 2021, n. 32381
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE (sintesi massimata)
- Il ricorso è inammissibile per le seguenti ragioni. I motivi di gravame, essendo tra loro strettamente connessi, possono essere congiuntamente esaminati.
- Il ricorrente non ha tenuto in alcuna considerazione la motivazione della sentenza impugnata, che ha criticato formulando osservazioni disallineate rispetto al principio di autosufficienza del ricorso, non allegando ai motivi di impugnazione alcun atto del procedimento e riportando nel ricorso solo alcuni stralci di presunte dichiarazioni, richiamando nell’atto di gravame alcune pagine del verbale di udienza in data 8 aprile 2019 (solo pagine, 19, 26, 27 e 28). Le doglianze muovono dal presupposto, già oggetto di devoluzione alla Corte di appello, che la decisione del primo giudice fosse fondata esclusivamente sulla scorta delle dichiarazioni rese dalla parte offesa (costituitasi parte civile), sulle quali il Tribunale non avrebbe operato il necessario vaglio di attendibilità.
- La Corte d’appello – nell’affermare che il tribunale aveva ricostruito la vicenda processuale attraverso un’ampia ricostruzione dei fatti nella loro evoluzione storica, partendo dai primissimi dati investigativi raccolti dagli inquirenti e tenendo conto dei successivi sviluppi processuali – ha osservato come le dichiarazioni della persona offesa fossero invece dettagliate, logiche, complete e ricche di riferimenti spazio-temporali sull’accaduto, assolutamente convergenti tra loro, mentre doveva ritenersi del tutto generica l’asserzione difensiva che le stesse fossero finalizzate ad ottenere il risarcimento del danno.
La Corte territoriale ha dato atto come le dichiarazioni, descrivendo in modo convergente fatti e comportamenti, non contenessero elementi tali da fare trasparire sentimenti di “rancore”, certamente non riscontrabili nelle parole della parte offesa che, anzi, aveva mostrato ripetutamente di nutrire ancora affetto nei confronti dell’imputato. Contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, poi, le dichiarazioni della parte offesa avevano trovato puntuale riscontro nella testimonianza resa da T.M.R. , operatrice del servizio sociale del Comune di Sant’Alfio, che aveva in carico già da tempo il nucleo familiare della persona offesa a causa di una grave disabilità del figlio della vittima. In particolare la teste spiegava di avere saputo dalla stessa persona offesa, nell’aprile 2018 e dunque prima ancora che quest’ultima presentasse la denuncia (del luglio 2018), della relazione in corso e dell’atteggiamento prevaricatore, possessivo e violento tenuto dall’uomo nei confronti della vittima, aggiungendo anche di avere notato visivamente tracce della violenza (lividi sul collo ed in altre pareti del corpo), oltre ad avere chiaramente percepito il sentimento di paura vissuto dalla persona offesa. Anche il contenuto dei messaggi inviati dal ricorrente alla persona offesa, contrariamente a quanto dedotto nel corso del processo di merito, testimoniava il rapporto “malato” intercorso tra l’imputato e la vittima.
Come desumibile dal testo di alcuni messaggi acquisiti, soggiunge la Corte, emergeva come la violenza e la minaccia fossero state assunte dal ricorrente come modo per esprimere i propri sentimenti e le proprie pretese e come, di contro, la donna avesse assunto un ruolo sub-valente (vedi per tutti foto n. 28). La Corte d’appello ha logicamente osservato come fosse del tutto irrilevante il fatto che, nonostante le violenze e le minacce, la donna avesse continuato a frequentare l’imputato anche dopo averlo denunciato e fino all’applicazione della misura cautelare. Invero tale circostanza è stata giustificata con l’affetto “morboso” nutrito dalla vittima nei confronti dell’imputato, tanto da accettare passivamente, subendolo, ogni sopruso fisico, psicologico e sessuale.
La Corte di merito ha evidenziato come le anomalie del rapporto in esame fossero inconfutabilmente corroborate anche dalla relazione psicologica – acquisita con il consenso delle parti e redatta dalla Dott.ssa Giammona – nella quale si dava atto di come la fragilità psicologica della persona offesa avesse permesso al ricorrente di esercitare sulla stessa una violenza totale, espressa in varie forme, fortemente manipolativa e tale da creare un assoggettamento mentale, il cui scopo era quello di esercitare un totale controllo sulla vittima, isolandola da qualsiasi contatto esterno, plagiandola e disponendone a proprio piacimento.
Da ciò, la Corte distrettuale ha tratto il logico convincimento che nessun dubbio poteva sussistere in ordine alla configurabilità dei reati ritenuti in sentenza.
Infatti, relativamente al reato di atti persecutori, le dichiarazioni della vittima testimoniavano le aggressioni fisiche, morali e sessuali esercitate dall’imputato nei suoi confronti. L’uomo, invero, estremamente possessivo e geloso, non perdeva occasione per accusarla di intrattenere altre relazioni e non esitava a tirarle violentemente le orecchie ed i capelli, a darle pizzicotti su tutto il corpo, a colpirla ripetutamente, ad apostrofarla, a minacciarla, tanto che, per farle confessare i suoi tradimenti, le aveva detto che l’avrebbe legata e poi uccisa servendosi di una pistola. Tali atteggiamenti avevano causato un grave turbamento psicologico nella persona offesa, alterando le sue abitudini di vita e creando un perdurante stato di ansia e paura, impedendo alla donna di vivere liberamente la propria quotidianità. Le relazioni psicologiche redatte dal servizio di assistenza sociale non lasciavano dubbi sul punto, attestando la debolezza psicologica della donna a causa delle violenze subite, tanto da richiedere l’intervento del Dipartimento di Salute Mentale al fine di aiutarla a superare la fase confusionale.
Nessuna rilevanza, osserva la Corte, poteva essere attribuita alla circostanza che, anche dopo la presentazione della querela e nonostante l’invito delle forze dell’ordine ad allontanarsi dal ricorrente, la parte offesa avesse continuato a frequentarlo, in quanto la sudditanza psicologica della donna, nel frangente artatamente creata dall’imputato, le impediva, infatti, una scelta diversa.
Quanto al reato di violenza sessuale, la Corte territoriale ha osservato come fosse priva di pregio la doglianza relativa ad un presunto consenso putativo desunto dal fatto che la vittima mai ebbe a manifestare avversità o diniego alla consumazione degli atti sessuali. Dal racconto reso in aula dalla parte offesa è, invece, emerso che in più occasioni la donna era stata costretta a soddisfare le voglie dell’imputato il quale non esitava ad esercitare la violenza pur di ottenere quanto desiderato. La Corte d’appello ha perciò ritenuto che non vi fosse alcun elemento per dubitare dell’attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa che restava dimostrata dalla specificità e logicità interna di tutto il narrato, scevro da contraddizioni e/o genericità.
In altri termini, il giudizio di colpevolezza formulato dal Tribunale non si fondava su “illazioni”, ma sull’attendibile racconto della vittima, racconto che non solo non presentava alcuna contraddizione, sui fatti di violenza da lei subiti e narrati all’A.G., con dovizia di particolari e specificazioni, ma appariva dettagliato e completo in ordine alla spiegazione degli accadimenti. In particolare, il racconto sulle violenze sessuali patite dall’imputato faceva perno su violenze plausibili, logicamente collegate al contesto relazionale esistente con l’imputato. Sussisteva inoltre l’accentuata attendibilità della persona offesa, desunta dalla notevole logica interna che pervadeva l’intero racconto, in considerazione della localizzazione e tempistica degli eventi, della dettagliata spiegazione circa il cronologico succedersi degli eventi. Su queste basi, la Corte di merito ha ritenuto che il quadro probatorio fosse esaustivo e convergente, con la conseguenza che andava confermato il giudizio di colpevolezza espresso dal Tribunale.
- Al cospetto di una motivazione congrua e priva di vizi di manifesta illogicità, prosegue la Corte, il ricorrente propone una ricostruzione alternativa del materiale probatorio, chiedendo inammissibilmente alla Corte una rivalutazione delle prove sulla base, peraltro, di asserzioni disallineate rispetto al principio di autosufficienza del ricorso, il quale esige, anche a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 165-bis disp. att. c.p.p., introdotto dalla D.Lgs. 6 febbraio 2018, n. 11, art. 7, comma 1, un onere di puntuale indicazione, da parte del ricorrente, degli atti che si assumono travisati e dei quali si ritiene necessaria l’allegazione, materialmente devoluta alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato (Sez. 2, n. 35164 del 08/05/2019, Talamanca, Rv. 276432 – 01), con la conseguenza che è inammissibile il ricorso, contenente un limitato stralcio di dichiarazioni neppure decisive perché inidonee a disarticolare il puntuale ragionamento probatorio svolto nel provvedimento impugnato.
In particolare, sulla questione relativa al formulato giudizio di attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa dal reato, va poi ribadito come la Corte di appello sia pervenuta a ritenere pienamente attendibili, sia estrinsecamente che intrinsecamente, le dichiarazioni della persona offesa, sul già ricordato presupposto che le stesse avessero anche ricevuto chiari ed inequivocabili riscontri esterni.
Quanto al reato di atti persecutori e al reato di lesioni, la Corte d’appello ha fatto leva sulle relazioni psicologiche redatte dai servizi di assistenza sociale, sulla testimonianza dell’operatrice dei servizi sociali che aveva anche raccolto le confidenze della vittima nonché sulle prove documentali dell’immagine salvate sullo schermo del dispositivo informatico in relazioni ai messaggi comprovanti le violenze subite. Nel pervenire alla conclusione circa l’attendibilità delle dichiarazioni della vittima del reato, la Corte distrettuale si è attenuta al principio secondo il quale le regole dettate dall’art. 192 c.p.p., comma 3, non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, Rv. 253214).
È pur vero, chiosa ancora la Corte, che, nel caso in cui la persona offesa, come nella specie, si sia costituita parte civile, il Giudice deve valutare l’opportunità di procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi ma la Corte del merito non si è sottratta a tale incombenza, posto che i riscontri esterni sono stati enunciati nella sentenza impugnata e le obiezioni difensive tutte dettagliatamente disattese.
Sul punto, la Corte di legittimità ha, in diverse occasioni, sottolineato che i riscontri esterni, i quali non sono predeterminati nella specie e nella qualità, possono essere di qualsiasi tipo e natura e possono essere tratti sia da dati obiettivi, quali fatti e documenti, sia da dichiarazioni di altri soggetti, purché siano idonei a convalidare “aliunde” l’attendibilità dell’accusa, tenuto anche presente che essi devono essere ricercati e valutati, con specifico riferimento alle dichiarazioni della persona offesa, costituita parte civile, nella prospettiva della verifica del grado di affidabilità della dichiarazione e non ai fini specifici previsti dall’art. 192 c.p.p., comma 3, disposizione che non si applica alle dichiarazioni della vittima del reato (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, cit.), con la conseguenza che, per fondare il ragionevole convincimento che il dichiarante non abbia mentito, è sufficiente che i riscontri siano idonei a confermare la credibilità della dichiarazione nel suo complesso e non rispetto a ciascuno dei particolari riferiti dal dichiarante, e neppure è necessario che i riscontri attengano alla posizione soggettiva della persona attinta dalle dichiarazioni perché le narrazioni della persona offesa, anche se costituita parte civile, non possono mai essere equiparate alla chiamata in reità o in correità (Sez. 3, n. 33589 del 24/04/2015, T., non mass.).
Va allora ricordato che, ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, le doglianze che il ricorrente muove nei confronti della sentenza impugnata non possono ridursi a sostenere un diverso quadro probatorio fondato su una differente e alternativa lettura, peraltro parziale e lacunosa, come nel caso di specie, del corredo processuale, per come reso palese al giudice di legittimità sulla base del testo della sentenza impugnata, dei motivi di ricorso e degli atti ad esso allegati e specificamente indicati. Così strutturate, le censure si connotano, oltre che per la loro manifesta infondatezza, anche per la portata tipicamente fattuale, in quanto il ricorrente, nel denunciare i vizi della motivazione, introduce frequentemente nel ricorso rilievi di merito che non possono rientrare nell’orizzonte cognitivo del giudice di legittimità, non potendosi devolvere alla Corte di cassazione doglianze con le quali, deducendosi apparentemente una violazione della legge penale o una carenza logica od argomentativa della decisione impugnata, si pretende, invece, una rivisitazione del giudizio valutativo sul materiale probatorio, operazione non consentita nel giudizio di cassazione all’interno del quale non è possibile innestare censure che implichino la soluzione di questioni fattuali, adeguatamente e logicamente risolte, come nel caso in esame, dai giudici di merito con doppia conforme decisione.
Ne discende, conclude la Corte, che l’apparato logico della decisione impugnata, come in precedenza riassunto, deve ritenersi corredato da una motivazione priva di vizi di legittimità e priva altresì di manifesti vizi di illogicità sui temi di prova, oggetto dei motivi di ricorso che hanno investito i tre reati (atti persecutori, lesioni e violenza sessuale) per i quali è stata affermata la responsabilità del ricorrente.
- Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento e alla rifusione delle spese del grado sostenute dalla parte civile ammessa al gratuito patrocinio. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che la ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.