Corte Costituzionale, sentenza 07 dicembre 2021 n. 240
Vanno dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 13, comma 1, e 14 della legge della Regione Siciliana 4 agosto 2015, n. 15 (Disposizioni in materia di liberi Consorzi comunali e Città metropolitane), come rispettivamente sostituiti dall’art. 4, commi 1 e 2, della legge della Regione Siciliana 29 novembre 2018, n. 23 (Norme in materia di Enti di area vasta), e dell’art. 1, comma 19, della legge 7 aprile 2014, n. 56 (Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni), sollevate, in riferimento, complessivamente, agli artt. 1, 2, 3 e 48, 5, 97 e 114 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Catania.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
3.– Alla luce dell’autonomia tra giudizio incidentale di legittimità costituzionale e giudizio principale, spetta al giudice rimettente il compito di stabilire la sussistenza dei presupposti del giudizio a quo e di accertare il nesso di rilevanza che deve avvincere i due giudizi, a meno che tali valutazioni «non risultino manifestamente e incontrovertibilmente carenti, ovvero la motivazione della loro esistenza sia manifestamente implausibile» (ex plurimis, sentenza n. 193 del 2015; analogamente, più di recente, sentenze n. 181, n. 32 e n. 15 del 2021, n. 267 del 2020).
Più in particolare, il controllo di questa Corte «va limitato all’adeguatezza delle motivazioni in ordine ai presupposti in base ai quali il giudizio a quo possa dirsi concretamente ed effettivamente instaurato, con un proprio oggetto, vale a dire un petitum, separato e distinto dalla questione di legittimità costituzionale, sul quale il giudice remittente sia chiamato a decidere» (tra le molte, sentenza n. 263 del 1994, richiamata dalle sentenze n. 99 del 2018, n. 110 del 2015 e n. 1 del 2014).
Un’analoga ripartizione di compiti tra autorità rimettente e Corte costituzionale si impone inoltre, e con evidenza anche maggiore, con riguardo all’apprezzamento su una specifica e distinta condizione dell’azione qual è l’interesse ad agire, rispetto al quale una motivazione sufficiente e non implausibile offerta dal giudice a quo esclude che, ai fini del riscontro dell’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale da questo sollevate, la sua valutazione sia oggetto di riesame da parte di questa Corte (ex multis, sentenze n. 224 del 2020 e n. 35 del 2017).
3.1.– A partire dalla sentenza n. 1 del 2014, questa Corte ha ritenuto in più occasioni che tali requisiti di ammissibilità siano riscontrabili anche nel caso in cui vengano sollevate questioni di legittimità costituzionale nell’ambito di giudizi nei quali siano proposte azioni di accertamento aventi ad oggetto la conformità ai principi costituzionali «delle condizioni di esercizio del diritto fondamentale di voto nelle elezioni politiche» (sentenza n. 35 del 2017). E l’ammissibilità di siffatte questioni è stata predicata, al ricorrere delle condizioni di cui ora si dirà, sia rispetto a menomazioni derivanti da un’incertezza circa la pienezza del diritto di voto – come quella risultante dall’asserita illegittimità costituzionale delle formule elettorali (sentenza n. 35 del 2017, n. 110 del 2015 e n. 1 del 2014) –, sia in relazione a una lesione all’esistenza stessa del diritto di elettorato, in particolare di quello passivo, come nel caso dei provvedimenti di ricusazione di liste o di incandidabilità nel procedimento elettorale preparatorio delle elezioni politiche nazionali (sentenza n. 48 del 2021).
3.2.– In particolare, l’ammissibilità delle questioni sollevate in quella tipologia di giudizi è stata fatta dipendere dalla sussistenza di quattro presupposti.
In primo luogo, dalla presenza, nell’ordinanza di rimessione, di una motivazione sufficiente e non implausibile in ordine alla sussistenza dell’interesse ad agire dei ricorrenti nel giudizio principale. Tale motivazione dovrebbe fornire un’indicazione, almeno sintetica o per relationem su aspetti quali la «situazione soggettiva e/o oggettiva che risulterebbe, nel caso concreto» lesiva del diritto invocato (ordinanza n. 63 del 2018) e dovrebbe essere accompagnata dall’enucleazione degli usuali indici idonei a consentire a questa Corte un controllo, sia pur “esterno”, sulla sussistenza di un giudizio validamente instaurato, anche con riferimento alla giurisdizione dell’autorità rimettente (sentenza n. 1 del 2014).
In secondo luogo, la richiamata giurisprudenza si è soffermata sulla peculiarità e sul rilievo costituzionale del diritto oggetto di accertamento, e segnatamente del diritto di voto, avente «come connotato essenziale il suo collegamento ad un interesse del corpo sociale nel suo insieme», la cui protezione imponeva di ammettere la questione «allo scopo di porre fine ad una situazione di incertezza sulla effettiva portata del predetto diritto determinata proprio da “una (già avvenuta) modificazione della realtà giuridica”, in ipotesi frutto delle norme censurate» (sentenza n. 1 del 2014, ripresa dalla sentenza n. 110 del 2015).
In terzo luogo, è stato posto l’accento sulla necessità di scongiurare che siano «sottratte al sindacato di costituzionalità le leggi, quali quelle concernenti le elezioni della Camera e del Senato, che definiscono le regole della composizione di organi costituzionali essenziali per il funzionamento di un sistema democratico-rappresentativo e che quindi non possono essere immuni da quel sindacato» (sentenza n. 48 del 2021, che richiama testualmente la sentenza n. 1 del 2014), o comunque, più in generale, sulla «esigenza di evitare che sussistano zone sottratte al controllo di costituzionalità o di garantire la controllabilità anche di leggi che non potrebbero venire sottoposte per le vie ordinarie al sindacato di questa Corte» (sentenza n. 110 del 2015).
Infine, si è ritenuta necessaria la sussistenza degli indici rivelatori di un effettivo rapporto di pregiudizialità tra il giudizio a quo e quello che si svolge dinanzi a questa Corte, con particolare riguardo alla non sovrapponibilità tra gli oggetti dei due giudizi: è necessario cioè che, dopo l’eventuale accoglimento della questione, al giudice rimettente residui un margine per l’adozione di un’autonoma decisione, dovendosi egli pronunciare su un petitum separato e distinto dalla risoluzione del dubbio di costituzionalità.
3.3.– Nel loro complesso, tali presupposti – al cui riscontro questa Corte intende attenersi anche nel presente giudizio – vanno ricondotti all’esigenza di contemperare i caratteri indefettibili delle regole che presiedono all’accesso al giudizio di legittimità costituzionale con la necessità di scongiurare l’eventualità che, attraverso una loro declinazione formalistica, vengano irrimediabilmente sottratte al controllo di questa Corte disposizioni di legge che incidono sul diritto di voto, comprimendone la titolarità o l’esercizio.
È necessario rilevare, da ultimo, come nelle pronunce sinora richiamate, in cui sono state dichiarate ammissibili questioni di legittimità costituzionale in materia elettorale promananti da azioni di accertamento, la lesione del diritto di elettorato attivo (sentenze n. 35 del 2017 e n. 1 del 2014) o passivo (sentenza n. 48 del 2021) è stata sempre riferita a specifiche vicende elettorali. Ciò è avvenuto non solo nel caso in cui la necessità dell’accertamento è stata fatta scaturire da una situazione di incertezza sulla effettiva portata del diritto di voto, determinatasi in occasione di una tornata elettorale già svolta e di cui si contestavano gli esiti. Ma anche nel caso in cui è stata ritenuta ammissibile l’azione esperita «in un momento largamente anticipato rispetto alla data in cui dovranno essere indette le elezioni» (sentenza n. 48 del 2021), se non, addirittura, prima che le nuove regole elettorali fossero concretamente applicabili (sentenza n. 35 del 2017), tale esito è stato pur sempre ricondotto all’obiettivo di rimuovere un’incertezza quanto alla portata del diritto di voto e al «corollario di potenzialità lesiva» che ad essa si accompagna, finalità che «rappresenta, quindi, un risultato utile, giuridicamente rilevante e non conseguibile se non attraverso l’intervento del giudice» (sentenza n. 35 del 2017).
4.– Poste tali premesse, l’eccezione di inammissibilità avanzata dall’Avvocatura generale deve essere respinta.
4.1.– Preliminarmente, occorre evidenziare i tratti peculiari della vicenda in esame, onde poter verificare l’ammissibilità delle questioni alla luce delle coordinate giurisprudenziali richiamate.
Innanzi tutto, è tutt’altro che privo di fondamento il presupposto da cui muove il rimettente, e cioè che le disposizioni censurate, nel momento in cui stabiliscono che il sindaco metropolitano sia «di diritto» il sindaco del Comune capoluogo, non siano regole elettorali propriamente intese, nel senso che esse non individuano né il presupposto o i termini di svolgimento di un procedimento elettivo, né tanto meno una determinata formula elettorale. Ciò che il rimettente assume come lesivo dei diritti del ricorrente, infatti, è la mancata previsione della natura elettiva di una carica, quella di Sindaco della Città metropolitana di Catania, pur a fronte dell’esercizio, da parte di quest’ultimo, di poteri che investono l’intera collettività residente nel territorio e non solo quella insediata nel Comune capoluogo, che pure elegge il suo sindaco.
Tale circostanza, non implausibilmente argomentata dal rimettente, dimostra quindi come, nel caso di specie, non sia propriamente in discussione la «“pienezza” (sentenza n. 110 del 2015) – ossia la conformità ai principi costituzionali – delle condizioni di esercizio del diritto fondamentale di voto» (sentenza n. 35 del 2017), bensì – più in radice – la sua stessa esistenza, e proprio all’accertamento di tale radicale menomazione, e alla sua conseguente eliminazione anche per il tramite della pronuncia chiesta a questa Corte, è preordinata l’azione promossa dal ricorrente nel giudizio a quo.
Inoltre, l’asserita violazione dei parametri costituzionali derivante dalla mancata previsione della elettività della carica di sindaco metropolitano, non essendo riferita (come nei casi sinora decisi da questa Corte) a una specifica vicenda elettorale passata o futura, mostra con ancora maggiore evidenza un carattere permanente, nel senso che – stando alla prospettazione contenuta nell’ordinanza di rimessione – le disposizioni censurate priverebbero continuativamente i cittadini del potere di preporre alla carica, in qualsiasi modo, una figura legittimata dal voto popolare.
4.2.– Poste quindi le coordinate sull’ammissibilità, nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, di questioni sollevate nell’ambito di giudizi concernenti azioni di accertamento in materia elettorale e messe in luce le peculiarità della vicenda odierna rispetto a quelle in precedenza prese in esame da questa Corte, è ora necessario vagliare la sussistenza dei presupposti di ammissibilità nel caso di specie.
4.2.1.– Il rimettente, in primo luogo, ha offerto una motivazione ampia e articolata sulla sussistenza dell’interesse ad agire del ricorrente e delle altre condizioni necessarie affinché siano prima facie identificabili i tratti costitutivi fondamentali del giudizio a quo. Lo stesso rimettente infatti ritiene, e adeguatamente motiva, che sussista sia l’interesse ad agire, poiché nel caso di specie sarebbe stato «limitato il diritto dei cittadini non residenti nel comune capoluogo a conformare, con la loro scelta elettorale, gli organi di governo dell’ente intermedio, escludendolo in relazione al sindaco metropolitano», sia la giurisdizione del giudice civile, «vertendosi in tema di diritti politici e, segnatamente [,] di elettorato attivo».
4.2.2.– In secondo luogo, quanto alla peculiarità e al rilievo del diritto costituzionalmente garantito che si assume leso, deve rilevarsi che anche le odierne questioni hanno ad oggetto il diritto fondamentale di voto (nella proiezione dell’elettorato attivo), che il rimettente assume, con un’argomentazione non incongrua, essere stato leso nei confronti dei cittadini non residenti nel Comune capoluogo della Città metropolitana; con la precisazione che tale lesione investe alla radice il portato di tale diritto, lamentandosi una preclusione assoluta al suo esercizio.
4.2.3.– Circa la sussistenza di una zona sottratta al controllo di legittimità costituzionale, deve osservarsi quanto segue.
L’orientamento sinora tenuto da questa Corte, nei casi in cui essa ha ravvisato la sussistenza di un vuoto di tutela giurisdizionale come condizione per l’incardinamento di questioni di legittimità costituzionale in materia elettorale sorte nell’ambito di azioni di accertamento, non può infatti ritenersi applicabile unicamente all’ipotesi di una zona franca quale quella scaturente, per le sole elezioni politiche nazionali, dall’operatività del meccanismo di cui all’art. 66 Cost.
Sino ad oggi, in più occasioni, questioni di legittimità costituzionale sollevate in via di accertamento rispetto a leggi elettorali diverse da quelle nazionali sono state giudicate inammissibili in ragione dell’esistenza, rispetto al procedimento ivi seguito e alla titolarità del relativo diritto di elettorato attivo e passivo, di un giudice competente a pronunciarsi sulle relative impugnazioni (ordinanze n. 63 del 2018 e n. 165 del 2016). Nella sentenza n. 110 del 2015, in particolare, questa Corte ha precisato che, ai fini dell’ammissibilità, occorre «che l’incertezza sulla effettiva portata del diritto di voto, derivante da una normativa elettorale in ipotesi costituzionalmente illegittima, sia destinata, altrimenti, a restare insuperabile, a causa dell’impossibilità che la relativa questione di costituzionalità venga sollevata secondo l’ordinaria via incidentale in un giudizio avente ad oggetto la vicenda elettorale».
Proprio tale rischio è quello che il giudice rimettente ritiene esistente, con motivazione non implausibile, nel caso di specie.
Al di là delle vicissitudini che hanno interessato, in Sicilia, il rinnovo degli enti di area vasta e la circostanza che gli organi delle Città metropolitane, almeno a partire dal 2018 e sino ad oggi, sono stati nominati per effetto di provvedimenti commissariali del Presidente della Regione, a rilevare nel senso dell’ammissibilità delle odierne questioni è la circostanza che la Corte d’appello rimettente ha operato una valutazione priva di evidenti incongruità allorché ha ritenuto che, rispetto al meccanismo di individuazione del sindaco metropolitano nella figura del sindaco del Comune capoluogo, non vi fosse né un atto da impugnare in via autonoma, né un esito elettorale da gravare e contro cui ricorrere, attesa la natura automatica della designazione, che deriva direttamente dalla scelta legislativa su cui si appuntano le censure del rimettente.
A fronte di ciò e della radicalità della violazione lamentata del diritto di elettorato attivo, deve quindi ritenersi che il giudice rimettente abbia offerto una ricostruzione plausibile del fatto che al ricorrente del giudizio a quo siano precluse chances effettive di ottenere tutela al di fuori dell’azione di accertamento che questi ha intentato, rendendo così evidente il rischio che, ove le odierne questioni non trovino ingresso davanti a questa Corte, al ricorrente stesso venga negato un sindacato su atti immediatamente lesivi del diritto a partecipare alle elezioni, che «rappresenta una garanzia fondamentale dei cittadini e deve svolgersi attraverso una tutela giurisdizionale piena e tempestiva» (ordinanza n. 165 del 2016, che richiama la sentenza n. 236 del 2010).
Anche per tale ragione, non è di ostacolo al radicamento delle odierne questioni dinnanzi a questa Corte la circostanza che il ricorrente nel giudizio a quo non abbia contestato uno specifico risultato elettorale e abbia agito in prevenzione rispetto ad un eventuale procedimento elettorale, tenuto conto che «è la natura dell’azione di accertamento a non richiedere necessariamente la previa lesione in concreto del diritto, ai fini della sussistenza dell’interesse ad agire, ben potendo tale azione essere esperita anche al fine di scongiurare una futura lesione (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 10 novembre 2016, n. 22946; Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 23 giugno 2015, n. 12893; Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 31 luglio 2015, n. 16262)» (sentenza n. 35 del 2017).
Alla luce di una tale condizione di oggettiva difficoltà di rinvenire nel sistema rimedi giurisdizionali di tipo impugnatorio, idonei a prevenire il perpetrarsi della denunciata violazione degli evocati parametri, deve pertanto ritenersi che la proposizione dell’incidente di costituzionalità, anche in vista dell’obiettivo di scongiurare «la esclusione di ogni garanzia e di ogni controllo» (sentenza n. 59 del 1957) su taluni atti legislativi, «costituisc[a] espressione del diritto di difesa, in questo caso contro le leggi incostituzionali, e de[bba] pertanto – come questa Corte ha numerose volte affermato – essere ammessa tutte le volte in cui non sussistano vie alternative per farlo valere» (sentenza n. 26 del 1999).
4.2.4.– Parimenti sussistente è anche il quarto e ultimo presupposto dianzi citato, relativo alla necessità che tra i due giudizi, quello a quo e quello devoluto alla cognizione di questa Corte, non vi sia una coincidenza di petitum, residuando necessariamente al giudice rimettente un margine per l’adozione di un’autonoma decisione non coincidente con quella di accoglimento eventualmente pronunciata da questa Corte.
Analogamente a quanto ritenuto nelle pronunce più volte richiamate (sentenze n. 35 del 2017 e n. 1 del 2014), nel giudizio principale il petitum consiste nella richiesta di accertare la menomazione del diritto di voto subita in relazione alla condizione del ricorrente, laddove nel giudizio costituzionale si chiede di dichiarare che il diritto di voto è pregiudicato dalla disciplina legislativa vigente. Ciò deve ritenersi sufficiente ai fini del positivo riscontro del nesso di pregiudizialità tra i due giudizi, tanto più tenuto conto che, anche in questo caso, il giudice rimettente potrebbe essere chiamato, in esito al presente giudizio, a verificare le «altre condizioni cui la legge fa dipendere il riconoscimento del diritto di voto» (sentenze n. 110 del 2015 e n. 1 del 2014).
5.– Le questioni sollevate, che vanno esaminate nei termini fissati dall’ordinanza di rimessione senza considerare ulteriori profili proposti dalle memorie di parte, sono tuttavia inammissibili per un differente ordine di ragioni.
6.– Preliminarmente, è necessario ricostruire i tratti fondamentali della normativa con cui sono state istituite le Città metropolitane, con particolare riferimento alla disciplina degli organi delle medesime e al meccanismo di designazione del sindaco metropolitano, anche in rapporto alla parallela disciplina degli organi dell’ente provinciale.
6.1.– La legge n. 56 del 2014 ha individuato nelle Città metropolitane e nelle Province i due enti territoriali destinati a costituire il livello di governo intermedio tra Comuni e Regioni, definito «di area vasta».
Tale disciplina è stata adottata, secondo quanto risulta dall’art. 1, comma 5, «[i]n attesa della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione» e nel presupposto, richiamato nella stessa Relazione introduttiva allegata al disegno di legge presentato alla Camera dei deputati il 20 agosto 2013, di una successiva abrogazione delle Province da realizzarsi con legge di revisione costituzionale. Il disegno istituzionale sotteso alla riforma degli enti di area vasta, in particolare, mirava esplicitamente – secondo quanto emerge dalla Relazione ora richiamata – ad «anticipa[re] la visione di un ordinamento pluralistico caratterizzato da ambiti territoriali direttamente e immediatamente rappresentativi delle proprie comunità (i comuni e le regioni) e da enti a carattere associativo (come le unioni di comuni) o da enti i cui organi sono volutamente composti di sindaci e presidenti di unione (com’è per le città metropolitane). Enti tutti che hanno la funzione non di rappresentare direttamente le rispettive comunità, ma di facilitare e rendere coerente e razionale l’azione degli enti territoriali di primo livello, i comuni compresi nel loro territorio».
Con specifico riguardo alle Città metropolitane, l’art. 1, comma 2, di tale legge elenca le loro finalità istituzionali generali (attinenti primariamente alla cura dello sviluppo strategico del territorio metropolitano e alla promozione e gestione integrata di servizi, di infrastrutture e di reti di comunicazione), mentre l’art. 1, comma 44, individua le corrispondenti funzioni amministrative fondamentali e attribuisce loro anche la titolarità delle funzioni fondamentali spettanti alle Province ai sensi dei commi da 85 a 97 del medesimo art. 1.
Il comma 5 dell’art. 1 individua nove Città metropolitane (Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria), cui si aggiunge, ai sensi del comma 101 del medesimo art. 1, Roma capitale: «[i]l territorio della città metropolitana» – così recita l’art. 1, comma 6 – «coincide con quello della provincia omonima».
Gli organi della Città metropolitana sono il sindaco metropolitano, il consiglio metropolitano e la conferenza metropolitana, ed i relativi incarichi devono essere svolti a titolo gratuito (art. 1, comma 24).
In particolare, il sindaco metropolitano rappresenta l’ente, convoca e presiede il consiglio metropolitano e la conferenza metropolitana, sovrintende al funzionamento dei servizi e degli uffici e all’esecuzione degli atti; esercita le altre funzioni attribuite dallo statuto (art. 1, comma 8), può nominare tra i membri del consiglio metropolitano un vicesindaco «stabilendo le eventuali funzioni a lui delegate» (art. 1, comma 40). A rimarcare il nesso di immedesimazione ratione officii tra sindaco del Comune capoluogo e sindaco metropolitano è poi, oltre alla disposizione censurata nel presente giudizio, la previsione secondo cui «[q]ualora il sindaco metropolitano cessi dalla carica per cessazione dalla titolarità dell’incarico di sindaco del proprio comune, il vicesindaco rimane in carica fino all’insediamento del nuovo sindaco metropolitano» (art. 1, comma 40).
Il consiglio metropolitano è l’organo di indirizzo e controllo, propone alla conferenza lo statuto e le sue modifiche, approva regolamenti, piani e programmi; approva o adotta ogni altro atto ad esso sottoposto dal sindaco metropolitano (art. 1, comma 8). Esso è composto dal sindaco metropolitano e da un numero di consiglieri variabile a seconda della popolazione, eletti dai sindaci e dai consiglieri dei Comuni della Città metropolitana tra i medesimi sindaci e consiglieri in carica (art. 1, comma 25). L’elezione avviene sulla base di liste concorrenti con voto diretto, libero e segreto in un unico collegio elettorale, con un meccanismo di ponderazione idoneo ad attribuire un peso diverso ai singoli voti a seconda del numero di abitanti del Comune da cui provengono i sindaci e i consiglieri in carica (art. 1, comma 33, e Allegato A).
Anche in relazione al consiglio, la legge n. 56 del 2014 (art. 1, comma 21) stabilisce un nesso di derivazione tra consiglio del Comune capoluogo e consiglio metropolitano, prevedendo che quest’ultimo duri in carica cinque anni ma «[i]n caso di rinnovo del consiglio del comune capoluogo, si procede a nuove elezioni del consiglio metropolitano entro sessanta giorni dalla proclamazione del sindaco del comune capoluogo».
La conferenza metropolitana, infine, è competente per l’adozione dello statuto e ha poteri consultivi nel procedimento di approvazione dei bilanci (art. 1, commi 8 e 9). La conferenza è composta dal sindaco metropolitano, che la convoca e la presiede, e da tutti i sindaci dei Comuni appartenenti alla Città metropolitana (art. 1, comma 42).
Alle Città metropolitane è poi attribuito un significativo potere statutario. Allo statuto sono demandati (art. 1, comma 10) l’adozione delle norme fondamentali dell’organizzazione dell’ente. Particolarmente significativa è, a tal riguardo, la previsione contenuta nel comma 22 dell’art. 1, che demanda allo statuto la facoltà di prevedere che il sindaco e il consiglio metropolitano possano essere eletti direttamente «con il sistema elettorale che sarà determinato con legge statale». A tal fine, è però condizione necessaria che, in una data precedente alla indizione delle elezioni, il territorio del Comune capoluogo sia articolato in più Comuni, nel rispetto della procedura ivi disciplinata, secondo la quale la proposta di articolazione territoriale adottata dal Consiglio comunale deve essere sottoposta a referendum tra tutti i cittadini della Città metropolitana e deve essere approvata dalla maggioranza dei partecipanti al voto. Conseguentemente, la Regione deve provvedere con propria legge all’istituzione dei nuovi Comuni e alla loro denominazione ai sensi dell’art. 133 Cost. Per le sole Città metropolitane con popolazione superiore a tre milioni di abitanti, l’introduzione dell’elezione diretta può essere realizzata, in alternativa alla procedura ora descritta, a condizione di operare una ripartizione del Comune capoluogo in «zone dotate di autonomia amministrativa» (ancora il comma 22 dell’art. 1), in coerenza con lo statuto della Città metropolitana.
6.2.– In modo parzialmente diverso si è invece atteggiata la disciplina della forma di governo provinciale. Pur a fronte della presenza di tre organi con funzioni analoghe (presidente della Provincia, consiglio provinciale e assemblea dei sindaci), la differenza maggiormente significativa sta nel fatto che ad essere eletto in via indiretta, oltre che il consiglio provinciale, è anche il presidente della Provincia. Quest’ultimo viene infatti eletto in via indiretta dai sindaci e dai consiglieri dei Comuni della Provincia (art. 1, comma 58), dura in carica quattro anni (art. 1, comma 59) e si rapporta al consiglio provinciale, che dura in carica due anni (art. 1, comma 68) e rispetto al quale non è previsto alcun rinnovo in occasione della nuova elezione del consiglio del Comune capoluogo.
Possono essere eletti presidenti della Provincia i sindaci dei Comuni compresi nel territorio provinciale, il cui mandato scada non prima di diciotto mesi dalla data di svolgimento delle elezioni (art. 1, comma 60). L’elezione avviene a seguito della presentazione di candidature, sottoscritte da almeno il 15 per cento degli aventi diritto al voto e il presidente è eletto con voto diretto, libero e segreto, secondo i medesimi meccanismi di ponderazione previsti dai commi 33 e 34 in base al numero di abitanti dei Comuni del territorio (art. 1, comma 63). Il presidente della Provincia decade in caso di cessazione dalla carica di sindaco (art. 1, comma 65).
6.3.– Il quadro sinora delineato della legislazione statale, per gli aspetti che vengono in discussione nel presente giudizio, non mostra significativi scostamenti quanto alla disciplina adottata nella Regione Siciliana, il cui statuto prevede una competenza legislativa primaria della Regione in materia di «regime degli enti locali e delle circoscrizioni relative» (art. 14, primo comma, lettera o), anche alla luce di quanto stabilito dal successivo art. 15, che ha sostituito le soppresse circoscrizioni provinciali con i liberi Consorzi comunali, la cui disciplina è demandata alla competenza legislativa, anch’essa primaria, della Regione.
L’esercizio di tali competenze legislative, avvenuto con l’adozione della legge reg. Siciliana n. 15 del 2015, è da ultimo approdato, sul punto delle modalità di designazione del sindaco metropolitano (già oggetto di esame da parte di questa Corte con la sentenza n. 168 del 2018), a un risultato coerente con quanto stabilito, in via generale, dall’art. 1, comma 5, secondo periodo, della legge n. 56 del 2014, in base al quale i principi stabiliti in tale legge «valgono come princìpi di grande riforma economica e sociale per la disciplina di città e aree metropolitane da adottare dalla regione Sardegna, dalla Regione Siciliana e dalla regione Friuli-Venezia Giulia, in conformità ai rispettivi statuti».
Le norme regionali censurate nel presente giudizio (art. 13, comma 1, e 14 della legge reg. Siciliana n. 15 del 2015), a seguito della loro sostituzione avvenuta con l’art. 4, commi 1 e 2, della legge reg. Siciliana n. 23 del 2018, hanno infatti oggi un contenuto in tutto e per tutto coincidente, rispettivamente, con l’art. 1, comma 19, della legge n. 56 del 2014 («Il sindaco metropolitano è di diritto il sindaco del comune capoluogo») e con l’art. 1, comma 40, secondo periodo, della medesima legge («Qualora il sindaco metropolitano cessi dalla carica per cessazione dalla titolarità dell’incarico di sindaco del proprio comune, il vicesindaco rimane in carica fino all’insediamento del nuovo sindaco metropolitano»).
7.– Poste tali necessarie premesse ricostruttive, l’inammissibilità delle odierne questioni deve essere dichiarata per le ragioni che seguono.
7.1.– Con riguardo all’asserita menomazione del diritto di voto del ricorrente nel giudizio a quo, cittadino elettore residente in un Comune diverso dal capoluogo della Città metropolitana, e per questo impossibilitato a partecipare all’elezione del relativo sindaco, il rimettente, anche per effetto di una incompleta ricostruzione del quadro normativo di cui si è dato conto, muove innanzi tutto da un presupposto interpretativo non condivisibile, e cioè che i cittadini residenti nel Comune capoluogo, all’atto di eleggere il loro sindaco, eleggano anche il sindaco della Città metropolitana, ciò che sarebbe invece precluso ai cittadini che risiedano in un diverso Comune.
In realtà, la designazione del sindaco metropolitano, come correttamente rilevato dall’Avvocatura generale, consegue, come effetto disposto direttamente e automaticamente dalla legge, al compiersi di un diverso procedimento elettorale, quello per l’elezione del sindaco del Comune capoluogo, in sé conchiuso e che è l’unico rispetto al quale si assiste alla espressione del voto della collettività locale. Anche i cittadini residenti nel Comune capoluogo, infatti, non esprimono altra volontà che quella preordinata all’elezione degli organi del Comune, con la conseguenza che solo in ragione dell’esteriore consequenzialità tra i due atti si può impropriamente ritenere che il sindaco metropolitano sia eletto solo da una parte dei cittadini residenti nella Città metropolitana.
L’erroneo presupposto da cui muove l’ordinanza della Corte d’appello di Catania, ancora prima che rilevare come tale, inficia tuttavia l’ammissibilità delle odierne questioni, perché ciò che il rimettente chiede a questa Corte è che venga estesa ai cittadini residenti in Comuni non capoluogo una disciplina idonea a consentire l’elezione diretta del sindaco metropolitano, a fronte del fatto che il legislatore del 2014 ha optato, al contrario, per un modello che vede nell’individuazione ope legis del sindaco metropolitano il presupposto di un diverso modello di governo del territorio in assenza di elezione.
L’esito auspicato dall’ordinanza di rimessione non è quindi conseguibile perché richiede un intervento manipolativo precluso a questa Corte, coincidendo con l’introduzione di una «novità di sistema» (sentenze n. 146 e n. 103 del 2021, n. 250 del 2018 e n. 250 del 2012), vale a dire una disciplina idonea a consentire l’elezione diretta del sindaco metropolitano ad opera di tutti i cittadini residenti nel territorio della Città metropolitana, ciò che allo stato tuttavia formalmente non avviene, per le ragioni evidenziate, neanche per i cittadini del Comune capoluogo.
Trattandosi, nella sostanza, della richiesta di introduzione ex novo di una normativa elettorale, è pertanto evidente come l’ambito e i contorni dell’intervento richiesto fuoriescano dalle attribuzioni di questa Corte e siano demandati «soltanto al legislatore nella sua discrezionale valutazione con specifico riferimento agli aspetti anche di natura politica che connotano la materia elettorale» (sentenza n. 257 del 2010).
7.2.– Con un’ulteriore questione, la Corte d’appello di Catania deduce l’illegittimità costituzionale delle medesime disposizioni statali e regionali, in ragione della disparità di trattamento che, quanto all’esercizio del diritto di voto, i cittadini dei Comuni non capoluogo compresi nella Città metropolitana subirebbero rispetto ai cittadini dei Comuni non capoluogo compresi in un ente di area vasta provinciale, i quali comunque partecipano, sia pur indirettamente attraverso i sindaci e i consiglieri municipali eletti, all’elezione del presidente della Provincia.
Anche rispetto a tale profilo di censura, il rimettente prospetta un esito di tipo manipolativo, con cui mira a estendere alle Città metropolitane e al suo vertice esecutivo (il sindaco metropolitano) il meccanismo di elezione indiretta che la stessa legge n. 56 del 2014 prevede per il presidente della Provincia.
Nel far questo, tuttavia, per effetto anche qui di una non adeguata ricostruzione del quadro normativo di riferimento, il rimettente non si avvede del fatto che l’intervento richiesto, lungi dall’appuntarsi esclusivamente sulla natura elettiva o meno dell’organo di vertice del relativo ente di area vasta, finisce inevitabilmente per incidere su ulteriori aspetti essenziali della forma di governo metropolitana, modificandone il funzionamento complessivo e, così, prefigurando soluzioni non attingibili dalla Corte in quanto rimesse anche queste, prioritariamente, alla discrezionalità del legislatore.
Il meccanismo di individuazione del sindaco metropolitano, da un lato, e il sistema di elezione indiretta del presidente della Provincia (disciplinato dall’art. 1, commi da 58 a 66, della legge n. 56 del 2014), dall’altro lato, non possono infatti essere considerati in modo atomistico, come se fossero avulsi dal complesso di previsioni che disciplinano la forma di governo dei due enti di area vasta. Tali previsioni, nel loro insieme, costituiscono il frutto di un apprezzamento eminentemente discrezionale che il legislatore del 2014 ha operato nel presupposto di una generale diversità dei rispettivi assetti organizzativi e nella prospettiva della abolizione delle Province prevista dalla legge di riforma della Costituzione, non entrata in vigore a seguito dell’esito negativo del referendum costituzionale.
La forma di governo provinciale, invero, combina l’elettività in via indiretta del presidente con una durata del suo mandato doppia rispetto a quella, biennale, del consiglio provinciale. In aggiunta a ciò, si consideri che sono però eleggibili alla carica di presidente della Provincia «i sindaci della provincia, il cui mandato scada non prima di diciotto mesi dalla data di svolgimento delle elezioni» (art. 1, comma 60), ciò che rivela l’assenza di un qualsiasi nesso preordinato di continuità personale e funzionale tra il vertice provinciale e il sindaco del Comune capoluogo.
Complessivamente diverso è, invece, il modo di atteggiarsi della forma di governo della Città metropolitana. In essa, all’assenza di una durata predeterminata, ma tendenzialmente quinquennale, della carica di sindaco metropolitano (in virtù dell’immedesimazione ratione officii di cui si è detto), si associa non solo la durata in carica quinquennale del consiglio metropolitano, ma anche la previsione, contenuta nel medesimo art. 1, comma 21, secondo periodo, della legge n. 56 del 2014, per cui «[i]n caso di rinnovo del consiglio del comune capoluogo, si procede a nuove elezioni del consiglio metropolitano entro sessanta giorni dalla proclamazione del sindaco del comune capoluogo». La logica sottesa a tale parallelismo è del tutto diversa da quella che caratterizza la forma di governo provinciale, e risulta evidentemente imperniata sull’esigenza di assicurare il costante allineamento tra gli organi del Comune capoluogo (sindaco e consiglio comunale) e quelli della Città metropolitana (sindaco e consiglio metropolitano). Sempre da ricondursi a una specificità caratterizzante l’organizzazione delle Città metropolitane è poi la richiamata previsione contenuta nell’art. 1, comma 22, della legge n. 56 del 2014, che ha attribuito solo a queste ultime, e non anche alle Province, in sede di esercizio della loro potestà statutaria, la facoltà di dotarsi di un sistema di elezione diretta del sindaco metropolitano, nel rispetto degli adempimenti procedurali ivi previsti e sulla base del sistema elettorale determinato da una legge statale.
A fronte di ciò, il rimettente chiede nella sostanza a questa Corte di operare una commistione tra le logiche di funzionamento delle due forme di governo, ibridandone i meccanismi operativi in materia elettorale, e di addivenire così alla introduzione, con riguardo all’elezione del sindaco metropolitano, di «moduli diversi, alternativi a quello recepito dalla disposizione censurata, la eventuale adozione dei quali è rimessa alla discrezionalità del legislatore» (sentenza n. 107 del 1996).
Per il fatto di richiedere un intervento frazionato e selettivo che conduca ad applicare al sindaco metropolitano il solo procedimento di elezione indiretta prevista per il presidente della Provincia, senza considerare la normativa di contorno cui tale procedimento si accompagna, il rimettente sollecita quindi questa Corte a giungere nuovamente a un esito ad essa in linea di principio precluso, perché conseguibile in via prioritaria solo per effetto di una riforma di sistema rimessa alla competenza del legislatore. A quest’ultimo spetta infatti, nell’esercizio della sua discrezionalità, il compito di stabilire «il nesso di complementarità e integrazione» tra forma di governo dell’ente locale e meccanismo elettorale (analogamente, con riguardo alla legislazione elettorale regionale, sentenza n. 193 del 2015), anche alla luce del fatto che «la legge elettorale deve armonizzarsi con la forma di governo, allo scopo di fornire a quest’ultima strumenti adeguati di equilibrato funzionamento» (sentenza n. 4 del 2010).
8.– Ciò detto, e decise nel senso dell’inammissibilità le questioni sollevate dalla Corte d’appello di Catania, questa Corte non può esimersi dall’osservare come il sistema attualmente previsto per la designazione del sindaco metropolitano non sia in sintonia con le coordinate ricavabili dal testo costituzionale, con riguardo tanto al contenuto essenziale dell’eguaglianza del voto, che «riflette l’eguale dignità di tutti i cittadini e […] concorre inoltre a connotare come compiutamente corrispondente alla sovranità popolare l’investitura di chi è direttamente chiamato dal corpo elettorale a rivestire cariche pubbliche rappresentative» (sentenza n. 429 del 1995), quanto all’assenza di strumenti idonei a garantire «meccanismi di responsabilità politica e [i]l relativo potere di controllo degli elettori locali» (sentenza n. 168 del 2021).
Nella sentenza n. 50 del 2015, questa Corte, chiamata a decidere, in un giudizio promosso in via d’azione da alcune Regioni, anche sulla legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 19, della legge n. 56 del 2014, ritenne che il meccanismo di individuazione del sindaco metropolitano nella figura del sindaco del Comune capoluogo non fosse di per sé in contrasto, tra gli altri, con gli artt. 3 e 48 Cost., in quanto esso «non è irragionevole in fase di prima attuazione del nuovo ente territoriale (attesi il particolare ruolo e l’importanza del Comune capoluogo intorno a cui si aggrega la Città metropolitana), e non è, comunque, irreversibile, restando demandato, come detto, allo statuto di detta città di optare per l’elezione diretta del proprio sindaco».
Se, pertanto, l’esclusione di un vulnus appariva giustificabile allora, a ridosso dell’adozione della normativa di riforma dell’organizzazione e delle funzioni degli enti di area vasta, in ragione anche della necessità di consentire l’immediata operatività di tali enti, essa potrebbe non esserlo in futuro, in considerazione del tempo trascorso e di una pluralità di ragioni legate agli sviluppi intervenuti a seguito dell’adozione della disciplina in questione.
Da un primo punto di vista, non appare più invocabile, a sostegno della non contrarietà a Costituzione del meccanismo di designazione di diritto del sindaco metropolitano, il fatto che gli statuti delle Città metropolitane possano optare per la via dell’elezione diretta di quest’ultimo. Anche a non voler considerare il complesso iter procedurale cui dovrebbe sottoporsi il Comune capoluogo, a rendere nella sostanza impraticabile tale eventualità, e quindi più gravosa la giustificabilità della mancata elettività del sindaco metropolitano, è la circostanza che, ad oggi, la legge statale contenente il relativo sistema elettorale non è intervenuta, né risultano incardinati, presso le Camere, disegni o proposte di legge in uno stadio avanzato di trattazione.
Da un secondo punto di vista, non può non evidenziarsi che l’attuazione della disciplina contenuta nella legge n. 56 del 2014 ha risentito, come già detto, della mancata approvazione del disegno di riforma costituzionale cui essa dichiaratamente si ricollegava. Tale circostanza, in particolare, ha privato il meccanismo di designazione prefigurato per il sindaco metropolitano del suo necessario presupposto, vale a dire l’operare delle Città metropolitane come unici enti di area vasta, cui sarebbero stati devoluti primariamente compiti di coordinamento delle funzioni dei Comuni del territorio e di pianificazione strategica. La conseguente, perdurante, operatività delle Province e l’attribuzione ad esse di determinate funzioni fondamentali non di mero coordinamento, devolute attualmente, come detto, anche alle Città metropolitane, rende pertanto urgente un riassetto degli organi di queste ultime, risultando del tutto ingiustificato il diverso trattamento riservato agli elettori residenti nel territorio della Città metropolitana rispetto a quello delineato per gli elettori residenti nelle Province.
Ciò anche perché il territorio delle prime è stato fatto coincidere con quello delle seconde, senza quindi differenziare le comunità di riferimento secondo opportuni criteri di efficienza e funzionalità, ciò che invece sarebbe necessario, ai sensi dell’art. 114 Cost., per far sì che le Città metropolitane e le Province siano in grado di curare al meglio gli interessi emergenti dai loro territori.
Rientra evidentemente nella discrezionalità del legislatore il compito di predisporre le soluzioni normative in grado di porre rimedio al vulnus evidenziato, che rischia di compromettere, per la mancata rappresentatività dell’organo di vertice della Città metropolitana, tanto l’uguale godimento del diritto di voto dei cittadini destinatari dell’esercizio del potere di indirizzo politico-amministrativo dell’ente, quanto la necessaria responsabilità politica dei suoi organi.
La presa d’atto dell’esistenza di una pluralità di soluzioni astrattamente disponibili per porre rimedio a tale accertata situazione di incompatibilità con i richiamati parametri costituzionali (a partire dalla natura dell’elezione, diretta o indiretta, ovvero dall’introduzione di raccordi fiduciari tra organo consiliare e sindaco metropolitano), non può tuttavia esimere questa Corte dal sollecitare un intervento legislativo in grado di scongiurare che il funzionamento dell’ente metropolitano si svolga ancora a lungo in una condizione di non conformità ai richiamati canoni costituzionali di esercizio dell’attività politico-amministrativa.