Corte di Cassazione, Sezione VI Penale, 23 settembre 2024, n. 35687
PRINCIPIO DI DIRITTO
In tema di corruzione la mera accettazione da parte del pubblico agente di un’indebita utilità a fronte del compimento di un atto discrezionale – e dunque la violazione del generale principio di imparzialità – non integra necessariamente il reato di corruzione propria, dovendosi verificare, in concreto, se l’esercizio dell’attività sia stato condizionato dalla “presa in carico” dell’interesse del privato corruttore, comportando una violazione delle norme attinenti a modi, contenuti o tempi dei provvedimenti da assumere e delle decisioni da adottare, ovvero se l’interesse perseguito sia ugualmente sussumibile nell’interesse pubblico tipizzato dalla norma attributiva del potere, nel qual caso la condotta integra il meno grave reato di corruzione per l’esercizio della funzione.
TESTO RILEVANTE DELLA PRONUNCIA
- Il ricorso proposto da COEDIL Srl è infondato.
1.1. Per quanto attiene alla dedotta violazione dell’art. 507 cod. proc. pen., va rilevato che “la mancata assunzione di una prova decisiva, quale motivo d’impugnazione ex art. 606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen., può essere dedotta solo in relazione ai mezzi di prova di cui sia stata chiesta l’ammissione ai sensi dell’art. 495, comma 2, cod. proc. pen., sicché il motivo non potrà essere validamente articolato nel caso in cui il mezzo di prova sia stato sollecitato dalla parte attraverso l’invito al giudice di merito ad avvalersi dei poteri discrezionali di integrazione probatoria di cui all’art. 507 cod. proc. pen. e da questi sia stato ritenuto non necessario ai fini della decisione” (Sez. 2, n. 884 del 22/11/2023 – dep. 2024, Pasimeni, Rv. 285722-01) e che “l’esercizio del potere del giudice di assunzione di nuove prove a norma dell’art. 507 cod. proc. pen. sorretto da motivazione insufficiente non determina inutilizzabilità o invalidità, in quanto l’ordinamento processuale non prevede specifiche sanzioni” (Sez. 3, n. 16673 del 30/10/2017 – dep. 2018, Carta, Rv. 272817-01).
1.2. In ogni caso, la sentenza impugnata chiarisce che nel dibattimento di primo grado l’ente ha prodotto il modello organizzativo adottato dopo la commissione dei reati da parte dell’apicale Ro.Cl. (valutato ai fini dell’applicazione dell’indicata circostanza attenuante ex art. 12 D.Lgs. n. 231/2001), mentre l’ulteriore richiesta che aveva ad oggetto un diverso modello – in ipotesi precedente alla commissione dei reati presupposto e che, secondo la prospettazione difensiva, avrebbe dovuto portare all’assoluzione dell’ente – non era rilevante a norma dell’art. 507 cod. proc. pen. difettando i caratteri di “novità” e “decisività” della prova richiesta (pag. 186 s.).
1.3. Rileva il Collegio che tale motivazione risulta adeguata, quantomeno in riferimento al profilo della necessaria “decisività” dell’integrazione probatoria, dal momento che il reato presupposto è stato commesso da soggetto in posizione apicale e in questi casi ai sensi dell’art. 6, comma 1, lett. c D.Lgs. cit. per l’esenzione di responsabilità dell’ente è necessario “che le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione”, profilo, questo non dedotto in alcun modo dal ricorrente.
1.4. Per quanto poi concerne la richiesta di rinnovazione dell’istruttoria, finalizzata all’acquisizione del modello asseritamente esistente ante delicto, è vero che la pronuncia di appello non fornisce un’autonoma argomentazione per il rigetto, ma essa è implicita nelle precedenti valutazioni in quanto “il rigetto dell’istanza di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello si sottrae al sindacato di legittimità quando la struttura argomentativa della motivazione della decisione di secondo grado si fonda su elementi sufficienti per una compiuta valutazione in ordine alla responsabilità” (Sez. 6, n. 2972 del 04/12/2020 – dep. 2021, G., Rv. 280589-01).
Al rigetto del ricorso consegue, come per legge, la condanna dell’ente al pagamento delle spese processuali.
- Il ricorso di Lo.Ar. è infondato.
2.1. Il primo motivo nel quale si eccepisce il difetto di competenza per territorio del Tribunale di Milano è infondato. A prescindere dalla sua “sinteticità”, che impedisce di comprendere appieno gli estremi della questione (ricavabili dalla sentenza impugnata: pag. 23/25), va rilevato che i giudici di merito hanno respinto l’eccezione di incompetenza territoriale a favore del Tribunale di Monza sollevata in riferimento alla connessione della res iudicanda con il delitto di cui al capo O – corruzione aggravata – per il quale è stata disposta la trasmissione degli atti a Monza.
In particolare, la Corte territoriale ha – in modo non illogico – escluso che tra tale reato e le altre imputazioni ascritte a Lo.Ar. fosse ravvisabile il nesso di cui all’art. 12, comma 3, cod. proc. pen., dal momento che non risulta decisivo il fatto che tutti i reati contestati al predetto (oltre a quello sub O, altre due corruzioni – capi E e V -e due turbative d’asta – capo PI -) fossero relativi alla medesima gara d’appalto, atteso che questa comprendeva cinque appalti che avevano riguardato diversi imprenditori e diversi pubblici ufficiali e considerato che non avendo il Pubblico ministero contestato la continuazione, questa non era ravvisabile dal Tribunale nella fase iniziale del processo, cioè nell’esame delle questioni preliminari e sulla base del solo capo di imputazione.
2.1.1. Né risulta perspicuo il riferimento del ricorrente a Sez. 3, n. 29519 del 10/05/2019, Campitello, Rv. 276592 – 01, secondo cui “ai fini della sussistenza di un’ipotesi di continuazione idonea a determinare lo spostamento della competenza per connessione ex art. 12, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., è sufficiente l’astratta configurabilità – sulla base di elementi plausibili -del vincolo della medesimezza del disegno criminoso tra i reati contestati, essendo rimessa alla sentenza ogni valutazione circa l’effettiva esistenza di detto vincolo; conseguentemente, rispetto alla decisione sulla competenza, è irrilevante l’eventuale mancata contestazione della continuazione nei capi d’imputazione enunciati nel decreto che dispone il giudizio (Sez. 1, n. 17458 del 30/01/2018 – dep. 18/04/2018, Confi, comp. in proc. Liccardi, Rv. 273129)”.
In quel caso, infatti, il giudice aveva ritenuto sussistente il vincolo della continuazione – evidentemente emergente dagli atti del fascicolo del dibattimento – la cui esistenza il ricorrente afferma in modo apodittico senza indicare concreti elementi che la possano dimostrare.
2.2. Infondato è anche il secondo motivo di ricorso nel quale si contesta la violazione dell’art. 415 bis cod. proc. pen. La Corte di appello ha rigettato l’eccezione rilevando, da un lato, che l’indagato si sarebbe dovuto comunque presentare all’interrogatorio, magari facendo rilevare la mancata ostensione di tutti gli atti delle indagini e non anche chiedere un differimento a soli due giorni dalla data fissata per l’incombente, e, dall’altro lato, che Lo.Ar. era comunque a conoscenza di detti atti, che gli erano stati resi disponibili in esito all’applicazione della misura cautelare.
A prescindere da detta motivazione, è comunque pacifico che l’omesso deposito di atti dell’indagine preliminare, contestualmente alla notifica dell’avviso di conclusione di cui all’art. 415 bis cod. proc. pen., non comporta la nullità della successiva richiesta di rinvio a giudizio e del conseguente decreto che dispone il giudizio, ma, eventualmente, può determinare l’inutilizzabilità degli atti non depositati (così, ex multis, Sez. 2, n. 5408 del 20/10/2020 – dep. 2021, Possente, Rv. 280646-01); profilo, questo, non dedotto dal ricorrente.
2.3. Il terzo motivo è anch’esso infondato. Dalla pronuncia di appello emerge che l’imputato più che dolersi del mancato esame del Ro.Cl. (ipoteticamente in violazione dell’art. 195 cod. proc. pen.) volesse ottenere la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale ex art. 603 comma 3 cod. proc. pen., rinnovazione respinta con motivazione non illogica.
Sotto altro aspetto, la sentenza impugnata (pag. 28 s.) dà conto che altri mezzi istruttori (e in particolare la deposizione dell’operante Me.) “consentivano di ricostruire perfettamente il rapporto tra Vo.Ma. e Ro.Cl., all’epoca dei fatti direttore generale della COEDIL, società che si era aggiudicata numerosi appalti dal Comune di Milano”, di tal che non emerge neppure la effettiva rilevanza decisiva dell’eventuale esame del Ro.Cl.
2.4. Infondato è pure il quarto motivo del ricorso, relativo agli esami del teste operante, Me., e di Vo.Ma., imputato di reati connessi per i quali aveva “patteggiato”.
2.4.1. Per quanto riguarda il teste Me., le doglianze del ricorrente, oltre ad essere generiche, non si confrontano adeguatamente con le argomentazioni della sentenza impugnata che ha richiamato l’orientamento di legittimità secondo cui “in linea con la declinazione ermeneutica tracciata dalla pronuncia delle Sezioni Unite n. 36747 del 28/05/2003 (Torcasio e altro, Rv. 225466), l’art. 195, comma 4, cod. proc. pen. vieta la testimonianza dell’operante di polizia sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni con le modalità di cui agli artt. 351 e 357, comma 2, lett. a) e b), mentre gli “altri casi,” per i quali l’art. 195, comma 4, cod. proc. pen. ne legittima la deposizione, si riferiscono alle ipotesi in cui dichiarazioni di contenuto narrativo siano state rese da terzi e percepite dall’operante “al di fuori di uno specifico contesto procedimentale di acquisizione delle medesime”, in una situazione operativa eccezionale o di straordinaria urgenza e, quindi, al di fuori di un “dialogo tra teste e ufficiale o agente di p.g., ciascuno nella propria qualità” (frasi pronunciate dalla persona offesa o da altri soggetti presenti al fatto, nell’immediatezza dell’episodio criminoso; dichiarazioni percepite nel corso di attività investigative tipiche – quali perquisizioni, accertamenti su luoghi – o atipiche – quali appostamenti, pedinamenti, ecc.) (Sez. 1, n.15760 del 20/01/2017, Rv. 269574, Sez. 1, n. 41090 del 04/07/2012, Rv. 253374); non ravvisandosi – in siffatte ipotesi – il concreto rischio di elusione delle garanzie processuali e costituzionali (Sez. 5, n.39800 del 09/06/2017 Rv. 270880)” (da ultimo, Sez. 5, n. 40892 del 28/09/2022, Castellino).
Inoltre, questa Corte ha già avuto modo di precisare che nell’ambito della deposizione resa dall’appartenente alla polizia giudiziaria che ha coordinato o comunque partecipato alle indagini non viola il divieto di testimonianza indiretta previsto dall’art. 195, comma quarto, cod. proc. pen. la deposizione di ufficiale o agente di polizia giudiziaria che riferisca non in merito a dichiarazioni di terzi, ma sulle attività di indagine svolte da altri ufficiali o agenti nello stesso contesto investigativo (così, Sez. 3, n. 6116 del 14/01/2016, Tartarelli, Rv. 266284-01).
2.5. Anche le censure mosse alle dichiarazioni rese da Vo.Ma. non colgono nel segno. L’eccezione relativa al fatto che questi sarebbe arrivato all’esame “preparato” avendo riletto gli atti delle indagini risulta del tutto generica e non tiene conto della circostanza (affermata dallo stesso ricorrente) che la lettura degli atti di indagine da parte del Vo.Ma. è dipesa dalla circostanza che il predetto è stato sottoposto a misura cautelare il che ha determinato la discovery degli elementi indiziari a carico. Inoltre, tutti i rilievi critici – indicati come motivi di appello e ora reiterati nel ricorso – sono stati ampiamente esaminati e superati dalla sentenza impugnata con motivazione niente affatto illogica (pag. 44 ss.) ove si evidenzia, tra l’altro, che “la chiamata di correità, resa dopo l’arresto, è intervenuta dopo che le intercettazioni telefoniche e le altre attività di indagine, durate ben 15 mesi, avevano già disvelato i fatti illeciti in contestazione ed è stata poi riscontrata anche dai successivi esiti investigativi compiuti dopo l’arresto di Vo.Ma.”.
Inoltre, si dà atto che “il Tribunale escludeva l’autonomia delle dichiarazioni di Gr., Am. e Ru.An. quando questi riferivano solo quello che avevano appreso da Vo.Ma., proprio per evitare la circolarità della prova” (pag. 46). Le doglianze in sede di legittimità risultano dunque meramente reiterative e palesemente infondate.
Infondato è altresì il profilo relativo alle intercettazioni di conversazioni. Anche in questo caso, il ricorrente reitera le doglianze oggetto dell’appello ma sul punto la sentenza impugnata ha fornito adeguata risposta (pag. 39 ss.), evidenziando che dalle intercettazioni è emersa la sussistenza di una sorta di “cartello” di Pubblici ufficiali corrotti, nel cui ambito rivestono ruolo centrale Lo.Ar. e In.St., con specifica indicazione dei ruoli e degli accordi illeciti dei predetti.
Inoltre, i Giudici di merito hanno fatto buon governo del principio secondo cui “il contenuto di intercettazioni telefoniche captate fra terzi, dalle quali emergano elementi di accusa nei confronti dell’indagato, può costituire fonte diretta dì prova della sua colpevolezza senza necessità di riscontro ai sensi dell’art. 192 comma terzo, cod. proc. pen., fatto salvo l’obbligo del giudice di valutare il significato delle conversazioni intercettate secondo criteri di linearità logica” (Sez. 5, n. 48286 del 12/07/2016, Cigliola, Rv. 268414 – 01).
La Corte territoriale precisa, infatti, che il Tribunale ha esaminato il contenuto di intercettazioni alle quali non aveva partecipato l’imputato ma nelle quali gli interlocutori avevano parlato di lui, quale indizio da valutare ai sensi dell’art. 192 comma 2 cod. proc. pen., correttamente considerandolo unitamente agli altri, consistenti, elementi a carico (attività di PG, riferita dal Me., dichiarazioni di Vo.Ma., sequestro di documentazione).
Anche sui residui profili evidenziati dal ricorrente, la Corte territoriale ha fornita adeguata risposta, chiarendo, appunto, di non avere attribuito valenza alle dichiarazioni rese da Gr., Am. e Ru.An. quando basate solo su quanto appreso da Vo.Ma., e escludendo in riferimento agli altri due testi intenti calunniatori di Vo.Ma. per coprire i predetti (pag. 43). Infine, risulta non rilevante la circostanza che Pl. fosse stato eventualmente archiviato e non “assolto”.
2.5. Le doglianze relative all’affermazione di responsabilità per il capo E -in ordine al quale è stata dichiarata la prescrizione – non possono essere accolte. La sentenza (pag. 47 ss.) argomenta in modo non illogico in ordine: al rinvenimento presso l’imputato del tablet Ipad, del valore di 400 euro, acquistato e consegnato al Lo.Ar. da Vo.Ma.; alla circostanza che, nonostante quest’ultimo avesse dichiarato che si trattava di “regalo che in quello specifico momento non era finalizzato a nulla”, nondimeno le indagini condotte dalla Guardia di Finanza avevano dimostrato il fatto corruttivo (in quanto in corrispondenza con la consegna del device, Lo.Ar. aveva dato al Vo.Ma. precise indicazioni necessarie per giustificare i ribassi d’asta effettuati dalla società di Vo.Ma.).
Si tratta di motivazione congrua che, a fronte della declaratoria di intervenuta estinzione del reato per prescrizione, non consente di rilevare l’evidenza dell’innocenza dell’imputato a norma del secondo comma dell’art. 129 cod. proc. pen.
2.5.1. Peraltro, rileva questa Corte che per i reati di cui al capo E (ascritti oltre che al Lomutolo anche all’imputato In.St.) il Tribunale, pur avendo dichiarato la prescrizione, ha nondimeno disposto condanna agli effetti civili.
Trattasi di statuizione che contrasta con il preciso disposto dell’art. 578 cod. proc. pen. che consente di affermare la condanna dell’imputato per gli effetti civili solo nel caso in cui la causa estintiva del reato (prescrizione o amnistia) intervenga dopo la pronuncia della sentenza di primo grado; e ciò, si è chiarito, anche ove essa sia di assoluzione dell’imputato per insussistenza del fatto ed intervenga impugnazione della parte civile al fine di chiedere al giudice dell’impugnazione di affermare la responsabilità dell’imputato, sia pure incidentalmente e ai soli fini dell’accoglimento della domanda di risarcimento del danno, ancorché in mancanza di una precedente statuizione sul punto, ferma restando, nel caso di appello della sola parte civile, l’intangibilità delle statuizioni penali (così, Sez. 3, n. 3083 del 18/10/2016 – dep. 2017, Sdolzini, Rv. 268894 – 01).
Nel caso di specie, invece, il Tribunale ha dato atto a pag. 51 della prescrizione dei reati intervenuta il 3 febbraio 2020 e quindi in data antecedente alla sentenza di primo grado che è del 20 maggio 2021. Pertanto, le statuizioni civili relative a detto capo vanno revocate eliminando la somma di 400 euro posta a carico di ciascuno dei predetti imputati.
2.6. Infondato è il sesto motivo del ricorso, relativo alla declaratoria di prescrizione per il reato di turbativa d’asta sub capo PI. La sentenza di appello (pag. 51 ss.) motiva ampiamente in ordine alla condotta fraudolenta posta in essere da Lo.Ar. per favorire la ditta del Na. (al fine di evitare che lo stesso potesse intraprendere iniziative giudiziarie sulle giustificazioni presentate da Vo.Ma. per l’offerta al massimo ribasso, oggetto dell’imputazione sub E).
2.6.1. Inoltre, l’assoluzione del Na. (di cui peraltro il ricorrente si limita a indicare l’esito senza produrre la relativa sentenza) di per sé non si pone in rapporto di incompatibilità logico giuridica con l’accertamento della responsabilità del Pubblico ufficiale, “dovendosi intendere il concetto di inconciliabilità fra sentenze irrevocabili non in termini di mero contrasto di principio tra le decisioni, bensì con riferimento ad un’oggettiva incompatibilità tra i fatti storici su cui esse si fondano” (Sez. 6, n. 16477 del 15/02/2022, Frisullo: fattispecie relativa a reato di turbata libertà degli incanti, in cui la Corte ha ritenuto immune da censure il rigetto dell’istanza di revisione avanzata dall’istigatore, condannato in sede di giudizio abbreviato, in relazione alla assoluzione “perché il fatto non sussiste” pronunciata, in esito a giudizio ordinario, in favore dei soggetti istigati).
2.7. Il settimo motivo – relativo alla imputazione di cui al capo V anch’essa dichiarata prescritta – è infondato. Anche per detta contestazione – avente ad oggetto due distinte dazioni di denaro per 3.500 euro a Lo.Ar., RUP in quella procedura, da parte del Vo.Ma. in riferimento alla firma e rilascio da parte di quest’ultimo dei certificati di pagamento degli stati di avanzamento dei lavori (SAL) già approvati nell’ambito di un appalto del Comune di Milano per interventi finalizzati all’ottenimento del certificato di idoneità statica di edifici scolastici – la Corte di appello (pag. 61 ss.) fornisce adeguata motivazione in merito alla responsabilità dell’imputato; ciò in base alle dichiarazioni – ritenute attendibili – del coimputato Vo.Ma. che ha riferito che la somma – da lui indicata in due tranches di 3.500 euro l’una – era stata espressamente richiesta dal ricorrente e che lui aveva accettato la richiesta “in ragione del ruolo rivestito dall’imputato e della necessità di non indispettirlo”; dazioni confermate da quanto riferito da Ru.An. (dipendente del Comune subordinato a Lo.Ar. e “socio occulto” di Vo.Ma.) che però ha parlato di 3.000 euro, e da Am. (anch’egli dipendente del Comune di Milano, subordinato di In.St., altro ricorrente, e altro “socio occulto” di Vo.Ma.) che ricordava due dazioni ciascuna di 1.000/1.500 euro; dichiarazioni ritenute nel loro nucleo essenziale convergenti e idonee a corroborare la chiamata di correità di Vo.Ma. Ad esse si aggiungono le risultanze degli accertamenti compiuti dalla Guardia di Finanza dai quali è emerso come nelle due occasioni l’imputato avesse emesso il SAL a diversa distanza di tempo dal via libera dato dal direttore dei lavori (Pl.).
Le censure del ricorrente risultano quindi generiche e non idonee a dimostrare – a fronte della dichiarata prescrizione – lacune motivazionali tali da infirmare l’affermazione di penale responsabilità ai sensi dell’art. 129, secondo comma, cod. proc. pen.
2.8. Manifestamente infondato è l’ottavo motivo, con il quale si è eccepito che la prescrizione per il reato sub capo V sarebbe intervenuta prima della sentenza di primo grado. I fatti oggetto di questo capo sono contestati come commessi nel settembre del 2014 e nell’agosto 2015. Alla data della sentenza di primo grado (20 maggio 2021) nessuno dei due era quindi prescritto (il termine di sette anni e sei mesi applicabile ratione temporis commissi delicti è decorso solo nelle more del giudizio di appello).
2.9. Il nono motivo – relativo alle questioni civili – è infondato. In effetti la sentenza impugnata non si occupa delle questioni civili, limitandosi a confermare sul punto la decisione del Tribunale. La sentenza di primo grado ha disposto la condanna solidale al risarcimento del danno patrimoniale a favore del Comune di Milano a carico degli imputati condannati (oltre a Lo.Ar., In.St. e As.Ma.) per la misura di complessivi euro 38.054,30, mentre il ricorrente è stato individualmente condannato alla somma di 6.500 euro a titolo di danno morale (sentenza di primo grado, pag. 60).
Quest’ultima statuizione è insindacabile in sede di legittimità (peraltro la somma è stata ridotta del 50% in ragione del ravvisato deficit di controllo da parte del Comune, e dunque di un “concorso di colpa” della persona offesa). Per quanto concerne la “solidarietà” della condanna tale profilo dovrà essere esaminato dal giudice civile (trattandosi di condanna generica) che valuterà per quali fatti – in ragione della commissione in concorso – essa potrà concretamente operare.
2.10. Infine, va rigettato il decimo motivo. La confisca per equivalente a carico del ricorrente, disposta in primo grado per la somma di euro 6.500, è stata revocata dalla Corte di appello (evidentemente sulla base del principio secondo cui “in tema di confisca “per equivalente”, trova applicazione, per la natura di diritto sostanziale dell’istituto, il principio di irretroattività delle norme penali sfavorevoli al reo, sicché risulta preclusa l’applicabilità della previsione dell’art. 578-bis cod. proc. pen., relativa alla confisca in caso di estinzione del reato per prescrizione”: tra le altre, v. Sez. 2, n. 17354 dell’08/03/2023, Tinè, Rv. 284529-01).
Sempre in primo grado è stata disposta nei confronti di Lo.Ar. la confisca dei “beni sequestrati” e pertanto se non era stato disposto il sequestro non opera neppure la confisca. Inoltre, la confisca “diretta” ha natura di misura di sicurezza e ove disposta sulla base di condanna intervenuta in primo grado resiste alla prescrizione “a condizione che vi sia stata una precedente pronuncia di condanna e che l’accertamento relativo alla sussistenza del reato, alla penale responsabilità dell’imputato e alla qualificazione del bene da confiscare come prezzo o profitto rimanga inalterato nel merito nei successivi gradi di giudizio” (Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv, 264434 – 01): e in merito nulla deduce il ricorrente.
- Il ricorso proposto da In.St. è parzialmente fondato.
3.1. Il primo motivo, relativo alle dichiarazioni accusatorie rese da Vo.Ma., è infondato. Anche per l’appello di In.St. la Corte territoriale, dopo aver premesso che il motivo sul punto risulta “aspecifico”, entra però nel merito dello stesso (riprendendo anche argomentazioni già indicate per Lo.Ar.) e motiva in modo adeguato sia in ordine all’attendibilità di Vo.Ma. (pag. 75 ss.) sia per quanto concerne i riscontri alle stesse (rappresentati dalle intercettazioni telefoniche, dalle operazioni svolte dalla Polizia giudiziaria dal sequestro di documentazione presso l’imputato).
3.2. Il secondo, quarto e sesto motivo, con i quali si eccepisce l’infondatezza dell’affermazione di responsabilità per le tre ipotesi di cui al capo U dell’imputazione (quelle sub A e B dichiarate estinte per prescrizione), sono infondati nel merito.
La Corte territoriale (pag. 95 ss.) dà conto delle dichiarazioni rese dal Vo.Ma. che ha riferito di tre dazioni all’In.St. per rispettivamente 2.500, 2.500 e 8.500 euro, funzionali ad ottenere l’aggiudicazione di lavori pubblici; dichiarazioni riscontrate dalle conversazioni intercettate e da quanto riferito dai già citati “soci occulti” del Vo.Ma., Ru.An. e Am., dai quali elementi – a loro volta corroborati dalle attività di indagine sulle quali ha deposto il Me. (pedinamenti, OCP e sequestro di documentazione) – emerge che l’imputato aveva “aggiustato le giustificazioni”.
Viene anche precisato che “In.St. aveva escogitato un ingegnoso sistema che consisteva nel richiedere giustificazioni per poi offrirsi di aiutare la COEDIL a compilare tali giustificazioni delle offerte anomale al massimo ribasso” (pag. 100 ss.). Per quanto riguarda il sequestro del denaro, la sentenza impugnata non illogicamente ne ha dedotto l’illecita provenienza (quale prezzo della corruzione) attesa l’entità delle somme rinvenute (in due occasioni, dapprima 22.000 e poi 16.000 euro) e per le modalità di custodia e confezionamento (in diverse buste bianche).
3.2.1. Peraltro, risulta errata la qualificazione giuridica dei fatti quali “corruzione propria”. Invero, la sentenza impugnata non ha indicato quale sarebbe l’atto contrario ai doveri di ufficio; il capo di imputazione indica trattarsi di “assegnazione di appalti avvenuta con violazione dei principi di imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione e con l’inosservanza delle norme procedimentali relative ai criteri di scelta dei contraenti”.
A sua volta, la sentenza di primo grado ha ritenuto corretta la qualificazione in termini di corruzione propria “essendo stato individuato l’atto contrario (violazione del principio di imparzialità rappresentato dall’ausilio nella redazione di giustificazioni dell’impresa che avrebbe dovuto vincere i singoli appalti in base agli accordi)”.
3.2.2. trattasi di motivazione non adeguata. Ritiene infatti il Collegio di dovere ribadire il principio già accolto da questa Sezione (Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019 – dep. 2020, Bolla, Rv. 279555-05), secondo cui in tema di corruzione la mera accettazione da parte del pubblico agente di un’indebita utilità a fronte del compimento di un atto discrezionale – e dunque la violazione del generale principio di imparzialità – non integra necessariamente il reato di corruzione propria, dovendosi verificare, in concreto, se l’esercizio dell’attività sia stato condizionato dalla “presa in carico” dell’interesse del privato corruttore, comportando una violazione delle norme attinenti a modi, contenuti o tempi dei provvedimenti da assumere e delle decisioni da adottare, ovvero se l’interesse perseguito sia ugualmente sussumibile nell’interesse pubblico tipizzato dalla norma attributiva del potere, nel qual caso la condotta integra il meno grave reato di corruzione per l’esercizio della funzione (Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019 – dep. 2020, Bolla Rv. 279555-05).
Tale conclusione deriva dalla circostanza che la fattispecie di corruzione propria richiede, per espressa previsione del legislatore, la presenza di uno specifico atto contrario ai doveri di ufficio e ciò vale a distinguerla dalla meno grave figura della “corruzione per l’esercizio della funzione”, nella quale detto elemento non è contemplato.
La opposta tesi giurisprudenziale accolta dalla sentenza impugnata ha, invece, l’effetto di praticamente azzerare in relazione all’esercizio di potere discrezionale lo spazio applicativo della fattispecie di cui all’art. 318 cod. pen. (come modificata dal legislatore del 2012), atteso che considerare atto contrario ai doveri di ufficio la mera “strumentalizzazione” o “distorsione” dell’esercizio del potere discrezionale stesso, derivante dalla circostanza che il pubblico ufficiale è stato remunerato dal corruttore e ne “ha preso in carica l’interesse”, senza operare una adeguata ponderazione degli interessi coinvolti nella decisione di sua spettanza, significa che sussiste sempre la corruzione propria, anche se l’atto in cui si sostanzia tale esercizio non è in sé contra legem.
In tal modo si verifica una, non consentita, espansione dell’ambito applicativo del reato ex art. 319 cod. pen. che non risulta in sintonia con il principio di tassatività e determinatezza delle fattispecie penale. Con la sentenza n. 98 del 28 aprile – 14 maggio 2021, la Corte costituzionale ha infatti ribadito che sono le norme incriminatrici – non già la loro successiva interpretazione ad opera della giurisprudenza – a dover “fornire al consociato un chiaro avvertimento circa le conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte; sicché non è tollerabile che la sanzione possa colpirlo per fatti che il linguaggio comune non consente di ricondurre al significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore”.
Il Giudice delle leggi ha aggiunto che “il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici da parte del giudice costituisce il naturale completamento di altri corollari del principio di legalità in materia penale sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., e in particolare della riserva di legge e del principio di determinatezza della legge penale”.
3.2.3. Poiché dalle motivazioni delle sentenze di merito non emerge la individuazione di uno specifico atto contrario ai doveri di ufficio, posto in essere da In.St. quale pretium sceleris, si impone la riqualificazione del fatto contestato ai sensi dell’art. 318 cod. pen. Risalendo l’ipotesi sub C al settembre 2015, il reato residuo risulta prescritto. Pertanto, nei confronti di In.St. la sentenza va annullata senza rinvio per estinzione del reato a lui ascritto, con conferma delle statuizioni civili.
3.3. Infondato è il terzo motivo, relativo al capo E. La Corte di appello (pag. 86 ss.) fa presente che nel corso di una perquisizione domiciliare a carico dell’imputato venne rinvenuto l’Ipad consegnato dal Vo.Ma., precisando per quale motivo questo non può (come la simmetrica dazione a Lo.Ar.) essere considerata mera “regalia”. In modo non illogico la sentenza impugnata rileva che la dazione del device – anche in base alle conversazioni intercettate e riferite dal Me. – si pone come controprestazione per i precedenti “consigli” dati da In.St. all’imprenditore circa le “giustificazioni” per le anomalie derivanti dall’offerta al massimo ribasso.
3.3.1. Peraltro, come già indicato in riferimento alla medesima imputazione ascritta a Lo.Ar. (v. retro, par. 2.5.1.), devono essere revocate le statuizioni civili relative a detta imputazione (risarcimento a favore del Comune di Milano per la somma di 400 euro), poste dal Tribunale a carico di In.St. nonostante la prescrizione del reato fosse maturata in data precedente alla pronuncia della relativa sentenza di primo grado.
3.4. Infondato è anche il motivo proposto in relazione al capo F1. Con esso vengono dedotte questioni di fatto, in ordine alle quali la sentenza impugnata (pag. 89 ss.) ha fornito adeguata motivazione. Peraltro, dubbia appare la rilevanza del motivo atteso che la sentenza di primo grado ha ritenuto il capo FI assorbito nella contestazione sub U (le cui ipotesi A e B sono state dichiarate prescritte in appello e la residua ipotesi C è stata dichiarata prescritta – previa riqualificazione ai sensi dell’art. 318 cod. pen. – nella presente sentenza).
3.5. Infine, l’ultimo motivo di ricorso – relativo al rigetto delle richieste di considerare le circostanze attenuanti generiche prevalenti rispetto alle aggravanti e di riconoscere l’ulteriore attenuante ex art. 323-bis cod. pen. -risulta assorbito in virtù della declaratoria di prescrizione adottata da questa Corte, non residuando più una pena sulla quale potrebbe spiegare effetti l’eventuale accoglimento dello stesso.
- Parzialmente fondato è il ricorso proposto da As.Ma.
4.1. Il primo motivo – con il quale l’imputato si duole della mancata citazione di una persona offesa – è manifestamente infondato. Invero, “la nullità derivante dall’omessa citazione della persona offesa ex art. 178 cod. proc. pen. non può essere eccepita dall’imputato, poiché egli manca di interesse all’osservanza della disposizione violata, il cui unico scopo è quello di consentire l’eventuale costituzione di parte civile al destinatario della citazione” (in tal senso, ex multis, Sez. 2, n. 51556 del 04/12/2019, Destro, Rv. 277812 – 01 che in motivazione ha evidenziato che l’imputato ha sempre la facoltà di citare la persona offesa come testimone).
4.2. Infondato è il secondo motivo, con il quale si eccepisce vizio di motivazione della sentenza impugnata in relazione alla ritenuta attendibilità delle dichiarazioni accusatorie di Vo.Ma. nei confronti del ricorrente e all’assenza di idonei elementi di riscontro alle stesse.
Con esso il ricorrente intende sovrapporre alla – non illogica – ricostruzione dei fatti operata dalla sentenza di appello (pag. 104 ss.) una versione alternativa degli accadimenti, sminuendo e parcellizzando i plurimi elementi di riscontro (dichiarazioni di Ru.An., Am., As.Pi.; conversazioni registrate con As.Ma.; documentazione varia) alle dichiarazioni di Vo.Ma., in sé giudicate dai giudici di merito attendibili. In particolare, si evidenzia che il teste Me. ha riferito in ordine alla genesi e sviluppo di quanto riferito da Vo.Ma. che si trovava in stato di custodia cautelare per altri fatti e quindi ha disvelato fatti non noti agli inquirenti (pag. 106 ss.); la Corte territoriale esamina poi il contenuto intrinseco delle dichiarazioni accusatorie di Vo.Ma. in dibattimento (pag. 111 ss.), in particolare in ordine all’appalto n. (Omissis) aggiudicato alla SIVA di As.Pi.
E ciò in riferimento: alla posizione di As.Ma., pag. 115 s.; al contratto con la SIVA nel quale egli aveva il ruolo di direttore dei lavori, pag. 117; alle “richieste concussive” da parte di As.Ma., pag. 118 ss.: in particolare riferisce che As.Ma. gli ha detto che “per non avere problemi sull’appalto, rallentamenti, eccetera eccetera, problemi di gestione dei SAL, per non avere blocchi, per non avere ritardi, sarebbe il caso, magari, di avere una contropartita”: pag. 119, aggiungendo che nei corridoi del Comune di Milano As.Ma. era chiamato “Mister 5%. Tariffa fissa, sia che l’appalto sia al massimo ribasso sia che l’appalto sia alla media … “.
Quindi la Corte territoriale prende in rassegna i “riscontri in senso tecnico” (pag. 131 ss.) che tra l’altro documentano le modalità di acquisizione della “provvista” (“fatturazioni da parte del subappaltatore che fattura e poi riporta il contante che noi inseriamo in busta e portiamo direttamente in Comune”: così Vo.Ma., pag. 135) necessaria per pagare in contante As.Ma. a mano a mano che venivano firmati i SAL; le intercettazioni ambientali, rectius registrazioni effettuate direttamente da Vo.Ma., delle conversazioni con As.Ma. (pag. 137 ss.); le dichiarazioni dei “soci occulti” di Vo.Ma., Ru.An. e Am., e di As.Pi. (titolare della SIVA) (pag. 145 ss.); venendo anche escluso che potesse ipotizzarsi una sorta di “frode” orchestrata da Vo.Ma. per lucrare dei soldi asseritamente necessari per pagare As.Ma. (pag. 159).
In definitiva, la motivazione della sentenza di appello non risulta illogica e ha in modo congruo confutato le doglianze dell’imputato che ora vengono riproposte nei motivi di ricorso.
4.3. Fondato è, invece, il terzo motivo relativo alla qualificazione giuridica dei fatti.
La sentenza di appello ha ritenuto configurabile la concussione in quanto la consegna dell’orologio Rolex (capo X, ritenuto “assorbito”) e del denaro (capo W) “era funzionale a evitare alla SIVA strumentali rallentamenti dei lavori nella gestione dell’appalto (Omissis)/2011, rallentamenti che il direttore dei lavori (cioè As.Ma.) poteva artatamente creare e che Vo.Ma. aveva già percepito in passato, quando era un semplice dipendente della ditta che si era aggiudicata i lavori dell’appalto 23/2009” (pag. 130).
Viene poi precisato che la natura costrittiva delle pretese del ricorrente trova riscontro anche nella reazione alle stesse di Vo.Ma. che, diversamente da quanto accaduto nei rapporti con Lo.Ar. e In.St. (qualificati in termini di corruzione), decise di registrare le conversazioni “in quanto temeva ostacoli all’esecuzione dell’appalto artatamente sollevati dall’As.Ma. nonostante il pagamento delle somme richieste in sede di aggiudicazione … il problema era che sull’appalto di As.Ma. c’erano sempre delle problematiche inesistenti che ci piovevano addosso senza alcun motivo, sembrava quasi che volesse mettere apposta i bastoni tra le ruote, nonostante ci fosse appunto questa dazione, però era sempre un continuo contestare, volere mettere i punti sulle “i”, ritardare sui SAL, andare a giustificare determinati lavori in sede di SAL e non in sede di esecuzione …” (così Vo.Ma.: sentenza di appello pag. 139).
Ulteriore elemento a favore della natura concussiva della condotta del ricorrente viene tratto dal contenuto delle conversazioni registrate (pag. 140 ss.), in particolare le due intercorse tra Vo.Ma. e As.Ma. ed avvenute a cavallo tra la fine del 2014 e l’inizio del 2015, una in un ristorante e l’altra all’interno della vettura di Vo.Ma.
La sentenza impugnata dà conto che, nella seconda conversazione, As.Ma. dice all’interlocutore che c’è un nuovo collaudatore particolarmente pignolo che lui proverà a convincere della correttezza dell’esecuzione dei lavori. Peraltro, sul punto viene evidenziato (pag. 145) che “As.Ma. e Vo.Ma. hanno certamente un rapporto confidenziale, ma questo non tranquillizza affatto Vo.Ma. il quale – anzi – lo teme perché, memore delle pretese avanzate nel corso dell’appalto 23/2009, conosce bene le dinamiche comportamentali del pubblico ufficiale, segnatamente alla serialità con cui frappone ostacoli all’esecuzione dei lavori appaltati, circostanza che effettivamente inizia a verificarsi nell’autunno del 2015.
La condotta di As.Ma. diventa effettivamente ostruzionistica proprio in prossimità del pagamento del Sai di maggiore importo, pari a più del doppio della soglia minima prevista dal contratto”. Pertanto – argomenta la sentenza impugnata – Vo.Ma. temeva le condotte ostruzionistiche di As.Ma., e questo “metus” esclude la configurabilità della corruzione.
4.3.1. Peraltro, tale ricostruzione dei fatti risulta in qualche modo contraddetta da quanto riferito da Ru.An. – anch’egli dipendente del Comune e che aveva ricevuto le confidenze di Vo.Ma., di cui era “socio occulto” – secondo il quale questi gli aveva riferito che As.Ma. “ci avrebbe agevolato in qualche modo sull’appalto, però questa cifra andava corrisposta” (pag. 147).
A sua volta, As.Pi., titolare della SIVA che non aveva voluto trattare direttamente con As.Ma. delegando la faccenda a Vo.Ma., dichiara che quest’ultimo gli disse che “il direttore dei lavori (As.Ma.) aveva chiesto … un importo per cercare di evitare … di, o per lo meno, di non mettere i bastoni tra le ruote durante l’esecuzione dell’appalto … mi disse che aveva avuto la richiesta di un pagamento da parte del direttore dei lavori … che questa richiesta era per evitare che ci venissero messi i bastoni tra le ruote durante l’esecuzione dei lavori” (pag. 152-153).
4.3.2. La motivazione della Corte territoriale non risulta idonea a dimostrare in modo adeguato la sussistenza del delitto di cui all’art. 317 cod. pen. Questa Sezione (sent. n. 25694 dell’I 1/01/2011, De Laura, Rv. 250467-01) ha già avuto modo di precisare che non integra la fattispecie di concussione la condotta di semplice richiesta di denaro o altre utilità da parte del pubblico ufficiale in presenza di situazioni di mera pressione ambientale, senza però che questi abbia posto in essere atti di costrizione o d’induzione, non potendosi fare applicazione analogica della norma incriminatrice, imperniata inequivocabilmente sullo stato di soggezione della vittima provocato dalla condotta del pubblico ufficiale. (Nella specie, la S.C. annullato la sentenza della Corte di Appello che aveva qualificato come concussione, piuttosto che corruzione, la mera richiesta di denaro o di altra utilità da parte del soggetto passivo, in forza di una generalizzata e notoria prassi in tal senso invalsa in un determinato settore della P.A.).
In ordine alla distinzione tra concussione e induzione indebita si è poi fatto presente come “in tema di concussione di cui all’art. 317 cod. pen., così come modificato dall’art. 1, comma 75 della legge n. 190 del 2012, la costrizione consiste nel comportamento del pubblico ufficiale che, abusando delle sue funzioni o dei suoi poteri, agisce con modalità o con forme di pressione tali da non lasciare margine alla libertà di autodeterminazione del destinatario della pretesa illecita che, di conseguenza, si determina alla dazione o alla promessa esclusiva mente per evitare il danno minacciatogli; ne consegue che non è sufficiente ad integrare il delitto in esame qualsiasi forma di condizionamento, che non si estrinsechi in una forma di intimidazione obiettivamente idonea a determinare una coercizione psicologica cogente in capo al soggetto passivo” (Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, Adamo, Rv. 264278-01).
In merito poi alla distinzione tra il reato di corruzione e le due fattispecie, finitime, di concussione e induzione indebita, questa Sezione (Sez. 6, n. 50065 del 22/09/2015, De Napoli, Rv, 265750-01) ha posto il principio in base al quale “il reato di concussione e quello di induzione indebita a dare o promettere utilità si differenziano dalle fattispecie corruttive, in quanto i primi due illeciti richiedono, entrambi, una condotta di prevaricazione abusiva del funzionario pubblico, idonea, a seconda dei contenuti che assume, a costringere o a indurre “l’extraneus”, comunque in posizione di soggezione, alla dazione o alla promessa indebita, mentre l’accordo corruttivo presuppone la “par condicio contractualis” ed evidenzia l’incontro libero e consapevole della volontà delle parti.
(Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi la sentenza che aveva ritenuto sussistente il reato previsto dall’art. 319 quater cod. pen. con riguardo alla condotta di due dipendenti della Agenzia delle Entrate che, abusando della loro qualità di verificatori, avevano, nel corso di una verifica fiscale presso un esercizio commerciale, dapprima prospettato al titolare l’applicazione di significative sanzioni economiche e, successivamente, sempre nell’ambito di una situazione di squilibrio tra le parti, lo avevano indotto a farsi promettere e consegnare una somma di denaro per omettere la trasmissione delle segnalazioni relative alla irregolarità riscontrare alle competenti autorità)”.
4.3.3. Alla luce di tali principi – che in questa sede vanno ribaditi – non risulta chiarito, in primo luogo, se il rapporto intercorso tra le parti (il pubblico ufficiale As.Ma. e il privato Vo.Ma., quale fiduciario del titolare dell’impresa interessata all’appalto) possa essere qualificato in termini di sostanziale e effettiva disparità di posizione o invece se i due si siano collocati su un piano di parità (così come avvenuto nei rapporti dello stesso Vo.Ma. con gli altri pubblici ufficiali coinvolti: Lo.Ar. e In.St.), con la conseguenza che, in questo secondo caso, i fatti andrebbero configurati quale corruzione ex art. 318 cod. pen.
Laddove invece si dovesse accertare la situazione di squilibrio tra i soggetti, dovrebbe poi verificarsi se dal compendio probatorio emerge una condotta costrittiva da parte del pubblico ufficiale (sussistendo allora la concussione) ovvero una induzione finalizzata a ottenere, da parte di As.Ma., il danaro e, da parte di Vo.Ma., un indebito vantaggio per la società che rappresentava. Si impone, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata ad altra Sezione della Corte milanese per un nuovo giudizio su tali profili.
4.4. Il quarto motivo – nel quale si denuncia la pronunzia di “assorbimento” del capo X all’interno del capo W, effettuata dal Tribunale e giudicata corretta dalla sentenza impugnata – è infondato. In primo luogo, si tratta di aspetto che risente dell’annullamento con rinvio del relativo capo, di tal che allo stato appare non rilevante.
Più in generale, difetta un concreto interesse dell’imputato a impugnare detta statuizione. Infatti, la pena applicata per il capo W è stata contenuta nel minimo edittale della fattispecie di cui all’art. 317 cod. pen. (pena base, anni sei, ridotta a quattro per effetto dell’art. 62 bis cod. pen.); pertanto, assorbimento o meno, il capo X non ha prodotto alcun effetto in tema di commisurazione della pena e neppure in ordine alle statuizioni civili nelle quali non vi è alcun riferimento a detto episodio e che, dunque, non potrà spiegare effetti nel giudizio di rinvio, quale che sarà l’esito dello stesso.
- Infine, gli imputati Lo.Ar. e In.St. vanno condannati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute dalla Parte civile, Comune di Milano, liquidate come da dispositivo.