Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, sentenza 12 gennaio 2023, n. 651
PRINCIPI DI DIRITTO
Nelle controversie soggette al regime normativo antecedente all’entrata in vigore del t.u. n. 327 del 2001, nelle quali la dichiarazione di pubblica utilità sia intervenuta prima del 30 giugno 2003, nel caso in cui al decreto di esproprio validamente emesso ‒ che è idoneo a far acquisire al beneficiario dell’espropriazione la proprietà piena del bene e ad escludere qualsiasi situazione di fatto e di diritto con essa incompatibile ‒ non sia seguita l’immissione in possesso, la notifica o la conoscenza effettiva del decreto comportano la perdita dell’animus possidendi in capo al precedente proprietario, il cui potere di fatto sul bene – se egli continui ad occuparlo – si configura come una mera detenzione, con la conseguenza che la configurabilità di un nuovo periodo possessorio, invocabile a suo favore «ad usucapionem», necessita di un atto di interversio possessionis da esercitare in partecipata contrapposizione al nuovo proprietario, dal quale sia consentito desumere che egli abbia cessato di esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui e iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio. Resta fermo il diritto dell’espropriato di chiedere la retrocessione totale o parziale del bene.
Nelle controversie soggette ratione temporis al t.u. n. 327 del 2001, l’esecuzione del decreto di esproprio con l’immissione in possesso del beneficiario dell’espropriazione (mediante redazione di apposito verbale) nel termine perentorio di due anni (art. 24, comma 1) costituisce condizione sospensiva di efficacia del decreto di esproprio (art. 24, comma 1, lett. f, h), con la conseguenza che il decreto di esproprio, se non è tempestivamente eseguito, diventa inefficace e la proprietà del bene si riespande immediatamente in capo al proprietario, perdendo rilevanza la questione dell’usucapione, salvo il potere dell’autorità espropriante di emanare una nuova dichiarazione di pubblica utilità entro i successivi tre anni (art. 24, comma 7), nel qual caso dovrà essere emesso un nuovo decreto di esproprio, eseguibile entro l’ulteriore termine di due anni di cui all’art. 24, comma 1; nel caso in cui il decreto di esproprio sia tempestivamente eseguito con la tempestiva redazione del verbale di immissione in possesso ma il precedente proprietario o un terzo continuino ad occupare o utilizzare il bene, si realizza una situazione di mero fatto non configurabile come possesso utile ai fini dell’usucapione.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1.- La società SFB, con il primo motivo di ricorso, ha denunciato la violazione e falsa applicazione degli artt. 1140, 1141, 3 1146, 1158 e 1164 c.c., omesso esame di un fatto decisivo costituente oggetto di discussione tra le parti, nonché insufficiente ed erronea motivazione, nella parte in cui la Corte territoriale aveva affermato che era onere della Cassia 12.800 (oggi SFB) provare l’interversione nel possesso, malgrado l’espropriazione non avesse mutato in detenzione il possesso dell’originario proprietario dell’immobile.
Infatti, la mancata realizzazione dell’opera pubblica, di una recinzione e del frazionamento da parte del Comune di Roma, la perdurante inattività e inerzia dello stesso per oltre venticinque anni, l’assenza di prove giustificative di un’eventuale tolleranza dell’ente pubblico, la mancata notifica del decreto di espropriazione, il compimento di attività corrispondenti all’esercizio della proprietà da parte delle società Alba e, poi, Cassia 12.800, costituivano elementi trascurati che dimostravano l’animus che muoveva le due società, non riconducibile ad una mera detenzione bensì ad un vero e proprio possesso del bene (mediante la manifestazione di volerlo considerare proprio), quindi utile ai fini dell’usucapione.
Con il secondo motivo, prosegue la Corte, la SFB ha denunciato la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c., anche in relazione agli artt. 111 Cost. e 132 c.p.c., omesso esame di un fatto decisivo che era stato oggetto di discussione tra le parti, nonché insufficiente o errata motivazione, per avere l’impugnata sentenza ritenuto irrilevante la mancata notificazione del decreto di espropriazione sull’apodittico presupposto che la società Alba ne fosse venuta posteriormente a conoscenza mediante la comunicazione di documenti successivi.
Con il terzo motivo ‒ formulato in via subordinata ‒ la società ricorrente ha denunciato la violazione e falsa applicazione degli artt. 60 e 63 della legge n. 2359 del 25 giugno 1865 e 46 ss. del t.u. espropri (dPR 8 giugno 2001, 327) sulla domanda di retrocessione, contestualmente deducendo l’omesso esame di fatto decisivo, avendo i giudici di merito ritenuto erroneamente che l’opera (parco pubblico) prevista dal decreto di esproprio del Comune di Roma fosse stata realizzata, a tal fine erroneamente valutando la procedura espropriativa compiuta da un altro ente pubblico (Provincia di Roma) per la realizzazione di un’opera diversa (una scuola).
La ricorrente incidentale Impresa Laurenzi ha formulato tre motivi sostanzialmente speculari a quelli della ricorrente principale SFB, i quali prospettano le medesime violazioni di legge, ruotanti (i primi due) sulla questione dell’usucapibilità della parte di fondo controverso attinto dal decreto di esproprio, al quale non era seguita ‒ per la parte interessata ‒ alcuna attività di immissione in possesso o altra condotta integrante la inequivoca manifestazione di una concreta volontà di esecuzione del provvedimento ablativo, e (il terzo) sulla questione della retrocessione.
2.- Il Procuratore Generale ha presentato requisitoria scritta favorevole all’accoglimento del primo motivo di entrambi i ricorsi con l’enunciazione del seguente principio: «il decreto di esproprio di cui all’art. 48, comma 2, l. 15.6.1865, n. 2359, non comporta l’automatica trasformazione del potere di fatto esercitato dal proprietario espropriato da possesso a detenzione, nemmeno ove portato a conoscenza, legale od effettiva, di questi. Ove al decreto di esproprio non consegua l’immissione in possesso da parte dell’espropriante, il possesso esercitato sul bene da parte dell’ex-proprietario espropriato è idoneo a permettere la maturazione dell’acquisto per usucapione a suo favore».
3.- La Seconda sezione, con ordinanza interlocutoria n. 19758 del 2022, ha sollecitato la rimessione della causa alle Sezioni Unite, ai fini della soluzione del contrasto, registrato all’interno della giurisprudenza della Corte, sulla questione posta nel primo motivo, comune ad entrambe le società ricorrenti, riguardante gli effetti del decreto di espropriazione notificato al proprietario espropriato (il quale ne sia venuto, comunque, a conoscenza) e, in particolare, se viene a verificarsi – nei termini in cui la questione è formulata – la condizione del cd. costituto possessorio in favore dell’ente espropriante e, quindi, l’automatica perdita dell’animus possidendi in capo al precedente proprietario che continui ad occupare il bene espropriato, con conseguente interruzione del pregresso possesso (utile ad usucapionem) da quest’ultimo esercitato o se, invece, il possesso continui a permanere in capo all’occupante con la possibilità di riacquistare il diritto di proprietà sul bene – ancorché oggetto di espropriazione, ma senza che sia intervenuta la immissione in possesso o una condotta realizzativa delle opere previste nel decreto di esproprio a titolo di usucapione al successivo maturare dei venti anni continuativi.
Entrambe le opzioni interpretative, come rilevato nell’ordinanza interlocutoria, sono seguite da due opposti orientamenti riferibili trasversalmente a due distinte Sezioni di questa Corte (prima e seconda).
Nell’impugnata sentenza la Corte d’appello di Roma ‒ che ha confermato la decisione di primo grado – ha privilegiato la tesi secondo cui alla notifica del decreto di esproprio al (o della conoscenza dello stesso da parte del) proprietario consegue, in modo automatico, la perdita dell’animus possidendi in capo all’espropriato occupante, risultando necessario, ai fini della configurabilità di un nuovo possesso da parte di quest’ultimo, un atto di interversio possessionis.
4.- Come rilevato nell’ordinanza interlocutoria, nella giurisprudenza di legittimità si confrontano due orientamenti sulla questione della usucapibilità di un immobile validamente espropriato, sulla base di una valida ed efficace dichiarazione di pubblica utilità, quando il proprietario persista nel godimento del bene per un tempo utile a usucapirlo, ai sensi dell’art. 1158 c.c.
4.1.- Secondo un primo orientamento, osserva la Corte, «in tema di possesso ad usucapionem, tanto il trasferimento volontario quanto quello coattivo di un bene non integrano necessariamente, di per sé, gli estremi del constitutum possessorium, poiché ‒ con particolare riguardo ai trasferimenti coattivi conseguenti ad espropriazione per pubblica utilità ‒ il diritto di proprietà è trasferito contro la volontà dell’espropriato/possessore, e nessun accordo interviene fra questi e l’espropriante, né in relazione alla proprietà, né in relazione al possesso. Ne consegue che il provvedimento ablativo non determina, di per sé, un mutamento dell’animus rem sibi habendi in animus detinendi in capo al proprietario espropriato, il quale, pertanto, può del tutto legittimamente invocare, nel concorso delle condizioni di legge, il compimento in suo favore dell’usucapione (a ciò non ostando, tra l’altro, il disposto degli artt. 52 e 63 della legge n. 2359 del 1865) tutte le volte in cui alla dichiarazione di pubblica utilità non siano seguiti né l’immissione in possesso, né l’attuazione del previsto intervento urbanistico da parte dell’espropriante, del tutto irrilevante appalesandosi, ai fini de quibus, l’acquisita consapevolezza dell’esistenza dell’altrui diritto dominicale» (in tal senso Cass. sez. I n. 5293 del 2000; sez. II n. 5996 del 2014, n. 25594 del 2013, n. 13558 del 1999 e, implicitamente, n. 3836 del 1983).
4.2.- Secondo un altro orientamento, «il decreto di espropriazione è idoneo a far acquisire la proprietà piena del bene e ad escludere qualsiasi situazione di diritto o di fatto con essa incompatibile e, qualora il precedente proprietario o un soggetto diverso continuino ad esercitare sulla cosa un’attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà, la notifica [o conoscenza] del decreto ne comporta la perdita dell’animus possidendi, conseguendone che, ai fini della configurabilità di un nuovo possesso ad usucapionem, è necessario un atto di interversio possessionis» (Cass. sez. I n. 6742 del 2014, n. 13669 del 2007, n. 12023 del 2004; sez. II n. 23850 del 2018 e n. 6966 del 1988).
È opportuno ricordare che la mancata o irregolare notifica del decreto di esproprio al proprietario effettivo, pur impedendo il decorso del termine di decadenza per l’opposizione alla stima e abilitando il proprietario a invocare la tutela risarcitoria per la ritardata riscossione dell’indennità espropriativa, non danno luogo a carenza del potere espropriativo (ex plurimis, Cass. sez. I n. 2539 del 2015, n. 11901 del 2014, n. 8580 del 1998).
5.- Il Collegio condivide questo secondo orientamento sia nelle controversie soggette al regime previgente al t.u. degli espropri (d.lgs. 8 giugno 2001, n. 327) – nelle quali il decreto di esproprio (che nel caso in esame risale al 1975) sia emesso in forza di una dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza antecedente alla data del 30 giugno 2003 di entrata in vigore dello stesso testo unico (art. 57), sia – per ragioni parzialmente diverse, come si vedrà più avanti (sub 15 ss.) – nelle controversie soggette alle disposizioni del medesimo testo unico.
6.- Le ragioni che – nell’assetto normativo previgente ma applicabile nella fattispecie ratione temporis – giustificano l’opzione contraria alla usucapibilità a favore del proprietario espropriato che rimanga nella disponibilità del bene, emergeranno, di seguito, dalle fondate repliche che è possibile formulare agli argomenti a sostegno della tesi opposta.
7.- Secondo i sostenitori della tesi favorevole all’usucapibilità, il bene espropriato ma non occupato e non ancora utilizzato per la realizzazione dell’opera non rientra nel patrimonio indisponibile dell’amministrazione procedente e, quindi, non v’è ostacolo all’usucapibilità (ex art. 828, comma 2, c.c.), a tal fine occorrendo, trattandosi di beni non riservati (ex art. 826, comma 2, c.c.), un doppio requisito non ravvisabile nella specie: la manifestazione di volontà dell’ente pubblico tramite un atto amministrativo che destini un determinato bene ad un pubblico servizio e l’effettiva ed attuale destinazione del bene a tale finalità, ai sensi dell’art. 826, comma 3, c.c. (cfr. Cass. n. 26990 del 2020, SU n. 391 del 1999). Né la mera programmazione dell’opera in cui consiste la dichiarazione di pubblica utilità né il provvedimento espropriativo sarebbero sufficienti a conferire al bene quella destinazione necessaria per attrarlo al patrimonio indisponibile.
7.1.- Tuttavia, osserva la Corte, se è vero che la mera pianificazione urbanistica (se consistente in generiche previsioni prive di specifiche localizzazioni) non sembra di per sé idonea a configurare una specifica destinazione del bene a finalità di interesse pubblico (cfr. Cass. SU n. 14865 del 2006, sez. II n. 8753 del 1997), si deve comprendere se la medesima conclusione possa valere anche rispetto ad opere validamente dichiarate di pubblica utilità, in vista delle quali è stato emesso un valido ed efficace decreto di esproprio, e cioè se in tali casi sia ragionevole e conforme al modello legale identificare il momento in cui il bene acquista la prerogativa dell’indisponibilità solo nel momento in cui l’opera sia stata realizzata e la funzione pubblica assicurata.
Il quesito merita risposta negativa.
Questa Corte ha precisato che «è chiaro che qualora alla programmazione dell’opera o della struttura necessaria al servizio pubblico debbano seguire, in via preventiva, complesse procedure di acquisizione di aree, e successivamente consistenti opere di manipolazione o trasformazione dei fondi, l’ottica del conseguimento della indisponibilità solo al compimento dei lavori o all’avvio del funzionamento del servizio che di dette strutture si avvale, può manifestare un distacco temporale consistente, all’interno del quale, in teoria, il bene, che dunque farebbe parte del patrimonio disponibile, potrebbe essere oggetto di pretese creditoria private, o di situazioni di fatto (possessorie) di qualche rilevanza […]» (Cass. sez. I n. 12023 del 2004) che potrebbero concretamente interferire o essere incompatibili con l’attuazione degli interventi realizzativi per i quali è essenziale la piena disponibilità del bene da parte dell’ente espropriante.
Come rilevato nel richiamato precedente del 2004, «è il sovrapporsi del requisito soggettivo dell’acquisizione in proprietà al requisito oggettivo della destinazione urbanistica che non può non conferire concretezza alla destinazione [pubblicistica del bene]» e ciò è coerente con le numerose disposizioni legislative che riconoscono al bene validamente espropriato per uno scopo di pubblica utilità l’appartenenza al patrimonio indisponibile prima e indipendentemente dalla realizzazione dell’opera: si vedano gli artt. 42-bis, comma 1, del t.u. del 2001, costituente un «procedimento espropriativo semplificato» (cfr. Corte cost. n. 71 del 2015); 21, comma 2, e 35, comma 3, della legge 22 ottobre 1971, n. 865, modificativa della legge 18 aprile 1962 n. 167, in tema di edilizia residenziale pubblica, applicabile anche agli edifici scolastici e alle aree verdi (cfr. Cass. sez. II n. 17308 del 2020 per le aree incluse nei p.e.e.p. e, sez. I n. 9508 del 1997, nei p.i.p.) e le numerose leggi regionali che prevedono l’acquisizione degli immobili espropriati al patrimonio indisponibile del Comune (cfr. L.R. Lazio 22 dicembre 1999 n. 38, art. 46).
L’appartenenza del bene al patrimonio indisponibile non è prevista, in tali casi, da atti amministrativi ricognitivi sindacabili dal giudice ma da atti legislativi che ne riconoscono la destinazione a scopi pubblicistici, non rilevando che il bene non sia stato ancora materialmente realizzato. È allora pertinente il principio secondo cui «quando il legislatore sancisce, con una norma espressa, sia di una legge statale che di una legge regionale, che determinati beni di proprietà di un ente pubblico siano considerati patrimonio indisponibile del medesimo, tale carattere – salvo che non si metta in dubbio la costituzionalità della legge ‒ non può essere disconosciuto» (cfr. Cass. sez. I n. 5053 del 1977).
«Per quel che ora interessa – prosegue ancora la sentenza n. 12023 del 2004 – posto che per effetto dell’acquisizione coatta in proprietà del suolo il mero intendimento programmatorio si trasforma, riguardo alla singola area espropriata, nell’avvio della concreta attività necessaria alla realizzazione dell’opera pubblica, il problema non è tanto di concepire l’inizio dell’indisponibilità, che coincide con l’acquisizione in proprietà del bene al fine dell’utilizzo pubblicistico programmato, quanto di identificare un termine finale del periodo di “protezione” della destinazione pubblicistica alla cui scadenza avviene la cessazione del regime di indisponibilità […] Detto termine è ora positivamente fissato ( ) in dieci anni dall’esecuzione del decreto di esproprio (o nel termine anteriore da cui risulti l’impossibilità dell’esecuzione). Va da sé che ove l’opera pubblica non necessiti di materiali trasformazioni, il carattere dell’indisponibilità sarà assunto al momento dell’espropriazione, posto che è la stessa dichiarazione di pubblica utilità a dover contenere un esplicito provvedimento [vincolato] di destinazione all’uso pubblico (art. 13, comma 8). Nel precedente regime è possibile assimilarlo all’efficacia della dichiarazione di pubblica utilità […] di modo che l’area ridiventa disponibile nel momento stesso in cui sarebbero ravvisabili i presupposti per l’esercizio del diritto di retrocessione (art. 60 e ss. )».
Può quindi dirsi, precisa la Corte, che nell’acquisizione dell’area mediante procedura ablatoria l’ordinamento presenta istituti dalla cui applicazione è possibile rinvenire il giusto equilibrio tra l’interesse pubblico alla realizzazione dell’opera senza interferenze da parte dei terzi e l’interesse privato riconoscibile in aspettative qualificate con riguardo allo specifico bene, individuate dalla legge nel riconoscimento all’espropriato – a fronte della totale inerzia dell’ente espropriante protratta nel tempo – del diritto potestativo alla retrocessione che, quando (e dopo che) sia decaduta la dichiarazione di pubblica utilità, gli consente di riacquistare sia la proprietà sia il possesso pieno del bene tramite pronuncia costitutiva del giudice e previo pagamento del relativo prezzo (cfr. Cass. sez. I nn. 771 del 1998, 10298 del 1992, 2406 del 1979), diritto da esercitare nel rispetto del termine di prescrizione.
È significativo che, nel caso della retrocessione parziale, si affermi che l’espropriato sia titolare di un mero interesse legittimo alla valutazione (discrezionale) dell’amministrazione di inservibilità dei beni (cfr. Cass. sez. I n. 18580 del 2020, SU n. 10824 del 2014 e n. 9072 del 2003), sebbene – invero – l’art. 63 della legge n. 2359 del 1865 (non diversamente nella sostanza dall’art. 47 del t.u. del 2001) riconosca all’espropriato il «diritto ad ottenerne la retrocessione» quando il bene «non ricevette o in tutto o in parte la preveduta destinazione» (coerente con tale impostazione è la inconfigurabilità della declassificazione tacita dei beni appartenenti al patrimonio indisponibile, la cui destinazione all’uso pubblico derivi da una determinazione legislativa, per effetto del comportamento concludente del proprietario, cfr. Cass. sez. II n. 2962 del 2012).
8.- L’orientamento che riconosce il possesso in capo all’espropriato occupante fa leva sul principio secondo cui «per escludere la sussistenza del possesso utile all’usucapione non è sufficiente il riconoscimento o la consapevolezza del possessore circa l’altrui proprietà del bene, occorrendo, invece, che il possessore, per il modo in cui questa conoscenza è rivelata o per i fatti in cui essa è implicita, esprima la volontà non equivoca di attribuire il diritto reale al suo titolare, atteso che l’animus possidendi non consiste nella convinzione di essere titolare del diritto reale, bensì nell’intenzione di comportarsi come tale, esercitando le corrispondenti facoltà» (ex plurimis, Cass. sez. II n. 13153 del 2021).
8.1.- Si può tuttavia osservare che l’art. 52 della legge del 1865 dispone che non solo «le azioni di rivendicazione, di usufrutto, di ipoteca, diritto dominio…» ma anche «tutte le altre azioni esperibili sui fondi soggetti ad espropriazione, non possono interrompere il corso di essa, né impedirne gli effetti». Si tratta di un effetto legale (non del distinto atto prefettizio di occupazione, ex art. 48, ma) del decreto di esproprio avente efficacia immediatamente traslativa (art. 50), che determina «l’estinzione automatica di tutti gli altri diritti, reali o personali, gravanti sul bene espropriato, salvo quelli compatibili con i fini cui l’espropriazione è preordinata» (art. 25, comma 1, t.u. del 2001).
Non v’è ragione di ritenere che tra i diritti estinti non vi sia anche lo jus possessionis tipico delle situazioni possessorie, se si considera che «pronunciata l’espropriazione, tutti i diritti anzidetti si possono far valere non più sul fondo espropriato, ma sull’indennità che lo rappresenta» (artt. 52, comma 2, legge del 1865 e 14 legge n. 865 del 1971; in senso analogo è l’art. 25, comma 3, t.u. del 2001, in base al quale «dopo la trascrizione del decreto di esproprio, tutti i diritti relativi al bene espropriato possono essere fatti valere unicamente sull’indennità»).
Una indiretta conferma dell’impostazione qui condivisa, osserva la Corte, proviene dal confronto con la diversa situazione determinata dalla mera occupazione d’urgenza del bene da parte dell’amministrazione, prima o in mancanza del provvedimento espropriativo: l’occupazione d’urgenza non priva il proprietario del possesso giuridico (seppur «solo animo»), in quanto il bene continua ad appartenere a lui – tanto che per tale motivo gli si riconosce un’indennità per l’occupazione – mentre nell’ente occupante, che riconosce la proprietà altrui, manca l’animus rem sibi habendi, essendo un detentore qualificato (cfr. Cass. sez. I n. 21433 del 2007) cui sono riconosciuti i poteri inerenti al titolo pubblicistico (si spiega perché l’amministrazione occupante che mantiene il suo comportamento nei limiti previsti dal provvedimento autorizzativo non compia un atto lesivo del possesso e nei suoi confronti non siano esperibili le azioni di manutenzione o di reintegrazione da parte del proprietario, cfr. Cass. sez. II n. 1323 del 1992). Ciò tuttavia può dirsi «finché non interviene il decreto di esproprio» (cfr. Cass. n. 21433 del 2007 e n. 1323 del 1992 poc’anzi citate) che segna il momento in cui non è più possibile riconoscere in capo all’amministrazione, divenuta proprietaria del bene, l’elemento intenzionale (tipico della detenzione) della cd. laudatio possessoris nei confronti altrui, elemento che deve riconoscersi, invece, in capo all’occupante-detentore nei confronti dell’amministrazione proprietaria che abbia la disponibilità e il possesso giuridico anche solo animo del bene, potendo in ogni tempo ripristinare il corpus senza far ricorso ad azioni violente o clandestine (ex plurimis, Cass. sez. II n. 9396 del 2005, n. 1253 del 2000).
Non è possibile qualificare in termini di possesso la relazione fattuale dell’espropriato (occupante) con il bene, non essendogli concesso di proporre le azioni possessorie a tutela della pienezza del godimento del bene stesso o per contrastare le legittime (e doverose) attività appropriative poste in essere dall’amministrazione in conseguenza dell’espropriazione. Le azioni possessorie costituiscono modi di tutela del diritto di continuare a godere del bene nello stato di fatto in cui era precedentemente posseduto e sono proponibili nei confronti della pubblica amministrazione, «a meno che sul diritto non abbia inciso un provvedimento avente attitudine a sottrarre al privato la proprietà o disponibilità della cosa o a mutarne il modo di godimento» (Cass. SU n. 11351 del 1998), nel qual caso l’azione è proponibile solo se sia ravvisabile carenza di potere amministrativo, situazione non configurabile in presenza di un provvedimento espropriativo legittimo.
Per altro verso, l’ente espropriante può agire con i mezzi ordinari a tutela della proprietà e del possesso (ad esempio, con l’azione di rilascio) nei confronti dell’espropriato o dei terzi occupanti (cfr. Cass. SU nn. 27456 del 2016, 17954 del 2007, 15290 del 2006, 6129 del 1986) e, in alternativa, in via di autotutela amministrativa ex art. 823, comma 2, c.c. mediante atti non impugnabili davanti al giudice ordinario (cfr. Cass. SU nn. 7344 del 1983, 3226 del 1979).
Qualora al decreto di esproprio non segua l’immissione in possesso, nel sistema normativo antecedente al t.u. del 2001, l’ente espropriante resta possessore solo animo, avendo la disponibilità giuridica del bene e potendo in ogni momento ripristinare il contatto materiale con esso e pretenderne il rilascio per tutta la durata di efficacia legale del titolo (decreto di esproprio) e della presupposta dichiarazione di p.u., senza possibilità per il detentore di opporvisi, salva l’azione di retrocessione (cfr. Cass. sez. I n. 1117 del 1977).
9.- Si sostiene a favore della tesi della usucapibilità del bene espropriato che l’efficacia traslativa del consenso abbia ad oggetto la proprietà e non il possesso, in mancanza di specifica pattuizione in senso diverso, sicché alla vendita (così come al decreto di esproprio) non si accompagni anche il trasferimento del possesso che costituisce, invece, oggetto di una specifica obbligazione (ex art. 1476 c.c.) che, se non adempiuta, fa sì che l’alienante (e l’espropriato) rimangano nel possesso della cosa, pur avendo trasferito la proprietà.
9.1.- Si può, tuttavia, osservare che l’espropriazione per pubblica utilità non è assimilabile a una vicenda negoziale, trattandosi di un atto autoritativo con cui l’amministrazione acquista la proprietà a titolo originario (alla data del decreto di esproprio secondo la legge del 1865, art. 50, comma 1, o alle condizioni previste nel t.u. del 2001, art. 23), con gli effetti già visti (sub 8.1) che comportano l’estinzione automatica di tutti diritti gravanti sul bene espropriato, da far valere unicamente sull’indennità (pretium succedit in locum rei), e «privano» il proprietario anche del possesso giuridico dei suoi beni (ex art. 834, comma 1, c.c.).
10.- Si sostiene ancora che nei trasferimenti coattivi, come l’espropriazione forzata, «il provvedimento di aggiudicazione non determina automaticamente, per il solo fatto che esso venga pronunciato ed a prescindere dalla sua esecuzione, il mutamento dell’animus rem sibi habendi del proprietario espropriato, trasformandolo in animus detinendi alieno nomine [in nome dell’espropriante]» (cfr. Cass. sez. III nn. 1716 del 1966, 4079 del 1968), con la conseguenza che l’aggiudicazione trasferisce la proprietà e non il possesso.
10.1.- Si tratta, tuttavia, di vicende coattive non comparabili tra loro: l’espropriazione per pubblica utilità dà luogo – come si è detto – ad un acquisto a titolo originario con gli effetti che si sono illustrati, mentre l’espropriazione forzata dà luogo ad un acquisto a titolo derivativo (cfr. Cass. sez. II nn. 25926 del 2022, 20608 del 2017), rispetto al quale l’art. 2919 c.c. fa comunque salvo solo il «possesso di buona fede».
11.- Si sostiene che il trasferimento della proprietà conseguente al decreto di esproprio, cui non segua l’immissione in possesso, non fa costituire l’ente espropriante come possessore solo animo (constitutum possessorium) né l’espropriato come detentore nomine alieno, poiché la proprietà si trasferisce in capo all’ente contro la volontà dell’espropriato e senza accordo sul trasferimento della proprietà e del possesso, con la conseguenza che l’espropriato rimane possessore con l’animus rem sibi habendi. Il trasferimento del diritto di proprietà non implicherebbe anche il trasferimento del possesso in mancanza della materiale consegna del bene o immissione in possesso.
11.1.- Il fenomeno del constitutum possessorium ‒ che nei negozi traslativi della proprietà o di altri diritti reali si tende ad escludere come effetto automatico (salvo, comunque, un diverso accertamento in concreto) al fine di evitare che l’acquirente del bene sia costituito come possessore giuridico quando la detenzione resti in capo all’alienante (ex plurimis, Cass. sez. II n. 6893 del 2014) ‒ è richiamato per giustificare una analoga conclusione nella vicenda espropriativa, al fine di escludere che l’ente espropriante possa acquistare il possesso «solo animo», nel caso in cui l’espropriato resti nel godimento del bene. E tuttavia, il parallelismo tra vicende traslative disomogenee (l’una autoritativa, l’altra negoziale) non è condivisibile e, di conseguenza, non lo è la conclusione: nell’espropriazione per pubblica utilità la volontà del proprietario per definizione non conta e, quindi, non è chiaro – visto che la proprietà si trasferisce contro la (o nonostante una diversa) volontà dell’espropriato – come costui possa (e perché debba) conservare l’animus possidendi.
Il proprietario espropriato può restare nel godimento del bene finché persiste l’assenso implicito (o tolleranza) dell’ente espropriante che in ogni momento è in condizione di ripristinare la relazione fattuale con il bene posseduto solo animo, senza vedersi opporre una inesistente pretesa di astensione da parte dell’occupante, la cui detenzione per diventare utile ai fini dell’usucapione deve trasformarsi in possesso (interversione).
A tal fine, precisa la Corte, non è sufficiente un semplice atto di volizione interna, occorrendo una manifestazione esteriore – rivolta specificamente contro il possessore (art. 1141, comma 2, c.c.), in maniera che questi possa rendersene conto – dalla quale sia consentito desumere che il detentore abbia cessato di esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui ed abbia iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio, con correlata sostituzione al precedente animus detinendi dell’animus rem sibi habendi, non rilevando l’inottemperanza alle eventuali pattuizioni implicite in forza delle quali la detenzione era stata costituita, né meri atti di esercizio del possesso (quali la stipula di contratti di locazione, la percezione dei relativi canoni, lo svolgimento di opere di manutenzione e la gestione delle utenze), traducendosi gli stessi in un’ipotesi di abuso della situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del bene (cfr. Cass. sez. I n. 26327 del 2016, sez. II n. 2392 del 2009), né rilevando l’impugnazione del decreto di esproprio in sede giurisdizionale, cui va attribuito il solo intento di disconoscere il titolo di acquisizione del diritto reale (cfr. Cass. sez. I n. 13669 del 2007).
Il contenuto dell’interversione, idonea a trasformare la detenzione in possesso, deve poter significare la negazione dell’altrui possesso e l’affermazione del proprio (negazione ed affermazione in modi e forme variabili in rapporto con i modi e le forme variabili di comportamento del possessore), bastando all’uopo un comportamento oppositivo non soggetto a particolari formalità, secondo l’insindacabile valutazione del giudice del merito. In mancanza di atti di prova di uno specifico atto di interversione nel possesso dopo l’emissione del decreto di espropriazione per pubblica utilità, l’eventuale protrarsi del godimento del bene da parte dell’espropriato può integrare una detenzione precaria non utile ai fini dell’usucapione.
12.- Ad analoga conclusione si deve pervenire nel caso in cui il trasferimento dell’immobile avvenga mediante cessione volontaria, che è negozio di diritto pubblico, sostitutivo del decreto di esproprio ma dotato della medesima funzione – confermata dal richiamo alle norme sulla retrocessione nel t.u. del 2001 (art. 45, comma 4) – di segnare l’acquisto, a titolo originario, in favore della P.A., del bene compreso nel piano d’esecuzione dell’opera pubblica, e di produrre i medesimi effetti, con la necessità di far valere tutti i diritti relativi all’immobile (espropriato o ceduto) esclusivamente sull’indennità (cfr. Cass. sez. II n. 24529 del 2022, p. 4 della motiv., e sez. I n. 1730 del 1999) e, di conseguenza, di escludere la usucapibilità del bene (cfr. Cass. sez. I n. 11407 del 2012, sez. II n. 17172 del 2008).
13.- Si deve quindi enunciare il seguente principio: nelle controversie soggette al regime normativo antecedente all’entrata in vigore del t.u. n. 327 del 2001, nelle quali la dichiarazione di pubblica utilità sia intervenuta prima del 30 giugno 2003, nel caso in cui al decreto di esproprio validamente emesso (come è incontestato nella specie) ‒ che è idoneo a far acquisire al beneficiario dell’espropriazione la proprietà piena del bene e ad escludere qualsiasi situazione di fatto e di diritto con essa incompatibile ‒ non sia seguita l’immissione in possesso, la notifica o la conoscenza effettiva del decreto comportano la perdita dell’animus possidendi in capo al precedente proprietario, il cui potere di fatto sul bene – se egli continui ad occuparlo – si configura come una mera detenzione, con la conseguenza che la configurabilità di un nuovo periodo possessorio, invocabile a suo favore «ad usucapionem», necessita di un atto di interversio possessionis da esercitare in partecipata contrapposizione al nuovo proprietario, dal quale sia consentito desumere che egli abbia cessato di esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui e iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio. Resta fermo il diritto dell’espropriato di chiedere la retrocessione totale o parziale del bene.
14.- Al suddetto principio, prosegue la Corte, consegue l’infondatezza dei primi due motivi di entrambi i ricorsi, volti a dimostrare il perdurante possesso utile per l’usucapione da parte delle società (dante e avente causa), risolvendosi in una generica critica di incensurabili apprezzamenti di fatto compiuti dai giudici di merito, a proposito della conoscenza del decreto di esproprio da parte della società espropriata e alla non configurabilità di atti di interversione nel possesso nelle condotte materiali indicate dall’appellante (locazione o concessione in comodato del terreno a terzi affinché lo coltivassero o utilizzassero come deposito).
15.- Un principio solo parzialmente diverso deve essere enunciato nelle controversie soggette al t.u. n. 327 del 2001, nelle quali il decreto di esproprio sia emesso sulla base di una dichiarazione di pubblica utilità intervenuta dopo il 30 giugno 2003, alla luce degli artt. 23 e 24 del medesimo testo unico.
In particolare, a norma dell’art. 23, il decreto di esproprio (sempre che tempestivamente emesso ai sensi degli artt. 13, comma 6, e 23, comma 1, lett. a) «dispone il passaggio del diritto di proprietà, o del diritto oggetto dell’espropriazione, sotto la condizione sospensiva che il medesimo decreto sia successivamente notificato ed eseguito» (comma 1, lett. f); il decreto «è notificato al proprietario […]» (comma 1, lett. g); «è eseguito mediante l’immissione in possesso del beneficiario dell’esproprio, con la redazione del verbale di cui all’articolo 24» (comma 1, lett. h); «è trascritto senza indugio presso l’ufficio dei registri immobiliari» (comma 2); «la notifica del decreto di esproprio può avere luogo contestualmente alla sua esecuzione» (comma 3).
L’art. 24 dispone che «l’esecuzione del decreto di esproprio ha luogo per iniziativa dell’autorità espropriante o del suo beneficiario, con il verbale di immissione in possesso, entro il termine perentorio di due anni » (comma 1); che «si intende effettuata l’immissione in possesso anche quando, malgrado la redazione del relativo verbale, il bene continua ad essere utilizzato, per qualsiasi ragione, da chi in precedenza ne aveva la disponibilità» (comma 4); che «l’autorità espropriante, in calce al decreto di esproprio, indica la data in cui è avvenuta l’immissione in possesso e trasmette copia del relativo verbale all’ufficio per i registri immobiliari, per la relativa annotazione» (comma 5).
L’esecuzione del decreto di esproprio con la immissione in possesso del beneficiario dell’esproprio entro il termine perentorio di due anni, mediante la formale redazione di un verbale, assurge a condizione sospensiva di efficacia del decreto stesso. Ne consegue, in mancanza, che il decreto di esproprio diventa inefficace; che non si realizza l’effetto estintivo della proprietà e degli altri diritti gravanti sul bene (di cui all’art. 25); che la proprietà del bene è automaticamente ripristinata in capo al precedente proprietario, senza necessità (e possibilità giuridica) per quest’ultimo di acquistare per usucapione un bene che è già di sua proprietà.
Nel caso in cui l’esecuzione del decreto con l’immissione in possesso non abbia luogo, l’art. 24, comma 7, dispone che «decorso il termine [perentorio di due anni] previsto nel comma 1, entro i successivi tre anni può essere emanato un ulteriore atto che comporta la dichiarazione di pubblica utilità», ma in tal caso dovrà essere emesso un altro decreto di esproprio, eseguibile entro l’ulteriore termine di due anni di cui all’art. 24, comma 1.
Qualora invece il decreto di esproprio sia eseguito con la tempestiva immissione in possesso del beneficiario dell’esproprio – per la quale è necessaria e sufficiente la redazione del relativo verbale – si realizzano tutti gli effetti estintivi tipici dell’espropriazione, sebbene «il bene [continui] ad essere utilizzato, per qualsiasi ragione, da chi in precedenza ne aveva la disponibilità» (art. 24, comma 4): in tal caso, la pretesa del proprietario espropriato o di chi continui ad utilizzare il bene di invocare un nuovo periodo di possesso utile ad usucapionem contrasta, oltre che con il principio sopra enunciato (sub 13), con il dato normativo vigente che implicitamente (ma chiaramente) esclude la possibilità di qualificare come possesso, dopo che sia stato redatto il verbale di immissione in possesso da parte della P.A., la mera utilizzazione di fatto del bene da parte del precedente proprietario.
15.1.- Si deve quindi enunciare il principio secondo cui nelle controversie soggette ratione temporis al t.u. n. 327 del 2001, l’esecuzione del decreto di esproprio con l’immissione in possesso del beneficiario dell’espropriazione (mediante redazione di apposito verbale) nel termine perentorio di due anni (art. 24, comma 1) costituisce condizione sospensiva di efficacia del decreto di esproprio (art. 24, comma 1, lett. f, h), con la conseguenza che il decreto di esproprio, se non è tempestivamente eseguito, diventa inefficace e la proprietà del bene si riespande immediatamente in capo al proprietario, perdendo rilevanza la questione dell’usucapione, salvo il potere dell’autorità espropriante di emanare una nuova dichiarazione di pubblica utilità entro i successivi tre anni (art. 24, comma 7), nel qual caso dovrà essere emesso un nuovo decreto di esproprio, eseguibile entro l’ulteriore termine di due anni di cui all’art. 24, comma 1; nel caso in cui il decreto di esproprio sia tempestivamente eseguito con la tempestiva redazione del verbale di immissione in possesso ma il precedente proprietario o un terzo continuino ad occupare o utilizzare il bene, si realizza una situazione di mero fatto non configurabile come possesso utile ai fini dell’usucapione.
15.2.- Analoga conclusione, chiosa ancora la Corte, vale nel caso in cui il procedimento espropriativo si concluda con la cessione volontaria del bene, la quale «produce gli effetti del decreto di esproprio» (cfr. art. 45, comma 3, t.u. del 2001) tra i quali, come rilevato dalla prevalente dottrina, vi è anche l’effetto ‒ previsto dall’art. 23, comma 1, lett. f), del t.u. («Contenuto ed effetti del decreto di esproprio») ‒ di sottoporre il passaggio del diritto di proprietà alla «condizione sospensiva» della esecuzione dell’atto di trasferimento mediante l’immissione in possesso nel termine perentorio e con le modalità previste dall’art. 24.
16.- Il terzo motivo comune a entrambi i ricorsi, riguardante la pretesa di retrocessione del bene, è inammissibile.
La sentenza impugnata ha affermato che «è smentita documentalmente l’affermazione dell’appellante secondo cui sulla totalità dell’area espropriata non siano state realizzate opere pubbliche di sorta», «non risultando indicati gli elementi di prova a sostegno della totale mancata realizzazione dell’opera pubblica alla cui realizzazione l’iniziale esproprio del ‘75 era finalizzato». Questa ratio decidendi, con la quale la Corte di merito ha verificato l’avvenuta esecuzione (in tutto o in parte) delle opere cui il suddetto esproprio era finalizzato, integra un accertamento di fatto sostanzialmente non censurato e, comunque, non conformemente al canone di specificità proprio del ricorso per cassazione.
Deve tenersi conto della variabilità dei casi in cui si manifesta la mancata utilizzazione dei fondi espropriati, rispetto all’opera programmata con l’atto in cui è riconoscibile la dichiarazione di pubblica utilità, ed infatti, se l’opera ha avuto attuazione solo parziale, lo svincolo dell’area dalla destinazione impressale non può prescindere dalle determinazioni di rilievo pubblicistico dell’autorità espropriante circa la convenienza a utilizzarla in funzione dell’opera realizzata. E’ in considerazione della variabilità delle situazioni che si rivela l’inammissibilità della doglianza.
L’interesse ad impugnare con ricorso per cassazione discende dalla possibilità di conseguire, attraverso il richiesto annullamento della sentenza impugnata, un risultato pratico favorevole e, a tal fine, è necessario che sia indicata in maniera adeguata la situazione di fatto della quale si chiede una determinata valutazione giuridica, al fine di valutare l’utilità dell’applicazione del principio, della cui mancata applicazione da parte del giudice di merito le società ricorrenti si dolgono. Esse non hanno dedotto le circostanze per cui sarebbe configurabile un loro diritto alla retrocessione della porzione di area in questione, per l’automatica decadenza dell’amministrazione dal potere di destinarla all’opera programmata, né hanno fatto seguire alla teorica configurabilità del diritto di retrocessione le deduzioni necessarie a conferire al motivo d’impugnazione quel carattere di concretezza per cui l’accoglimento porterebbe ad un risultato utile al soddisfacimento delle proprie aspettative, non essendo dato comprendere di quale porzione di area precisamente si tratti, né quando il termine per attuare la prevista destinazione pubblicistica sarebbe scaduto (circostanza peraltro contraddetta dalla deduzione di Roma Capitale controricorrente sull’esistenza di atti e fatti confermativi dell’intervenuta destinazione pubblicistica).
17.- In conclusione, i ricorsi sono rigettati con integrale compensazione delle spese tra le parti, in considerazione della complessità delle questioni controverse dimostrata dai divergenti orientamenti giurisprudenziali in materia.