<p style="text-align: justify;"><strong>Massima</strong></p> <p style="text-align: justify;"><em> </em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Molteplici sono le ricadute del diritto europeo sul diritto amministrativo interno, trascorrendosi dalle questioni di carattere più generale come quella riconducibile al concetto stesso di Pubblica Amministrazione, ovvero quella afferente al problema del c.d. interesse legittimo, della relativa (apparente?) distinzione dal diritto soggettivo e della tutela risarcitoria che lo assiste in caso di lesione </em>ex parte publica<em>; a questioni più specifiche concernenti i rapporti tra giudicato ed autotutela, da un lato ed interpretazione delle norme sovranazionali da parte della Corte di Giustizia, dall’altro. Su tutto campeggia la questione della disapplicazione delle norme interne contrastanti con quelle europee e, a cascata, le connesse problematiche concernenti la sorte dell’atto amministrativo a valle di tali norme interne antieuropee, specie con riguardo alla eventuale, diretta disapplicabilità dei provvedimenti da parte del GA anche oltre il termine di decadenza della relativa impugnativa. </em></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Crono-articolo</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1948</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 01 gennaio entra in vigore la Costituzione repubblicana, che all’art.11 prevede limitazioni di sovranità orientate ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni e promuove organizzazioni internazionali che si prefiggano tali scopi: la norma nasce per giustificare l’ingresso e la permanenza dell’Italia nell’ONU, ma farà da sfondo anche all’ingresso e alla permanenza nella CEE e nelle altre Comunità europee (CECA ed Euratom).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1957</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 25 marzo viene sottoscritto a Roma il Trattato istitutivo della CEE, Comunità Economica Europea.</p> <p style="text-align: justify;">Il 14 ottobre viene varata la legge n.1203 che ratifica, tra gli altri, anche il Trattato CEE.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1963</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 5 febbraio esce una sentenza della Corte di Giustizia CEE (C-26/62), caso <em>van Gend & Loos</em>, che afferma il principio della primazia del diritto comunitario, la cui vigenza non può essere derogata da norma interne ai singoli Stati, neppure se posteriori. La pronuncia è importante perché esplicita anche come il diritto comunitario, se attribuisce ai singoli degli obblighi, è capace di attribuire ai medesimi anche dei diritti, sia in modo espresso, sia come indiretto contraltare a precisi obblighi che il Trattato impone a singoli, Stati membri o istituzioni comunitarie. Ancora, la sentenza si occupa del caso in cui una Direttiva non sia stata attuata, prevedendo la possibilità di invocare direttamente presso il giudice nazionale la Direttiva medesima nei confronti dello Stato inadempiente (c.d. effetto diretto verticale della Direttiva non recepita) in costanza di 4 condizioni: 1) è scaduto il relativo termine di recepimento; 2) la Direttiva è chiara e precisa nel prevedere diritti in capo ai destinatari; 3) le disposizioni della Direttiva sono suscettibili di applicazione immediata; 4) difettano margini di manovra del legislatore riguardo al relativo contenuto.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1964</strong></p> <p style="text-align: justify;">Esce il 7 marzo la sentenza della Corte costituzionale n.14 con la quale, nel noto caso <em>Costa / Enel</em>, si stabilisce che le norme comunitarie hanno il medesimo rango di una fonte interna primaria, dal momento che è con una legge ordinaria che è stata data esecuzione ai Trattati istitutivi della Comunità: questo significa che una legge interna posteriore può derogare ad una norma comunitaria, secondo il criterio cronologico, e dunque in Italia non può dirsi vigente il principio di primazia del diritto comunitario.</p> <p style="text-align: justify;">Il 15 luglio esce la sentenza della Corte di Giustizia CEE <em>Costa c. Enel</em>, C-6/64, che abbraccia la concezione “<em>monista</em>” secondo la quale diritto comunitario e diritti dei singoli Stati membri farebbero luogo ad un unico ordinamento integrato in cui vige il principio di gerarchia tra norme comunitarie, sovraordinate, e norme interne, sotto-ordinate, le quali ultime – laddove in frizione col diritto comunitario – sono direttamente disapplicabili anche laddove successive (e non anteriori) al diritto comunitario con il quale confliggono.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1973</strong></p> <p style="text-align: justify;">Esce il 27 dicembre la sentenza della Corte costituzionale n.183 che, al fine di garantire il primato del diritto comunitario rispetto all’ordinamento interno, afferma che una norma interna previgente viene implicitamente abrogata dalla norma comunitaria successiva, mentre nel caso opposto della norma interna contrastante sopravvenuta, essa è da intendersi incostituzionale e la relativa declaratoria spetta unicamente alla Corte costituzionale medesima (controllo accentrato), previa remissione della relativa questione da parte del giudice italiano remittente, che non può disapplicarla in via automatica. La Corte ripudia la teoria monista fatta propria dalla Corte di Giustizia per abbracciare la tesi degli ordinamenti distinti e separati ma coordinati secondo un principio di competenza a normare che trova nel Trattato istitutivo il relativo punto di riferimento.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1974</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 4 dicembre esce la sentenza della Corte di Giustizia <em>van Duyn</em>, C-41/74, che si occupa delle Direttive che impongano agli Stati obblighi di non fare (c.d. obblighi di <em>stand still</em>): in questa particolare ipotesi, già anche solo durante il termine di recepimento della Direttiva si configurano obblighi (di non fare, appunto) operanti per lo Stato membro.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1978</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 9 marzo esce una sentenza della Corte di Giustizia CEE (C-106/77, caso <em>Simmenthal</em>) che ribadisce il principio della primazia del diritto comunitario, la cui vigenza non può essere derogata da norma interne ai singoli Stati, neppure se posteriori: in caso di conflitto, si impone la disapplicazione diffusa, senza che possa assumersi ammissibile alcun controllo accentrato di costituzionalità, essendo gli ordinamenti interni integrati in quello comunitario (teoria c.d. monista).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1984</strong></p> <p style="text-align: justify;">Esce l’8 giugno la sentenza della Corte costituzionale n. 170 (caso <em>Granital</em>), secondo la quale gli ordinamenti interno e comunitario sono autonomi e distinti, ma tra loro coordinati secondo un principio (non gerarchico, ma) di competenza: questo autorizza il giudice interno a disapplicare in via automatica e diretta una norma interna contrastante con una norma comunitaria immediatamente applicabile (regolamento o direttiva <em>self executing</em>), anche se la norma interna sia sopravvenuta. Diverso il caso in cui norme comunitarie contrastino (non già con norme costituzionali <em>tout court</em>, quanto piuttosto) con i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale italiano, ovvero con i diritti inalienabili della persona umana: in questa ipotesi (per vero, difficile a verificarsi), in forza della c.d. teoria dei controlimiti il giudice interno deve sollevare questione di legittimità costituzionale della legge nazionale di ratifica del Trattato istitutivo, laddove consente di inserire nel nostro sistema giuridico norme in contrasto con i principi costituzionali supremi ovvero con i diritti inviolabili dell’uomo.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1989</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’8 febbraio esce la sentenza del Tar Piemonte n.34 che, muovendo dal presupposto onde l’eventuale norma interna contrastante con il diritto comunitario va disapplicata, e dunque non produce effetti nell’ordinamento interno, giunge alla conclusione per cui l’atto amministrativo che in tale norma interna trovi fondamento ed ancoraggio va considerato nullo o inesistente. La medesima pronuncia soggiunge nondimeno che – dovendosi optare per la teoria “<em>pluralista</em>”, abbracciata dalla Corte costituzionale, secondo la quale l’ordinamento comunitario e quello interno costituiscono due sistemi giuridici autonomi e separati, ancorché coordinati - laddove l’atto amministrativo si ponga in contrasto diretto con la normativa comunitaria (e non in un contrasto mediato dalla norma interna attributiva del potere), tale atto non potrebbe considerarsi nullo (come appunto nel caso della anticomunitarietà mediata) in quanto unico parametro di legittimità dell’atto amministrativo è da assumersi una norma interna, non potendo quella sovranazionale costituire – proprio perché gli ordinamenti sono separati – parametro diretto di legittimità dell’atto in parola.</p> <p style="text-align: justify;">Il 22 giugno esce la sentenza della Corte di Giustizia CE, C-103/88, F.lli Costanzo, che chiarisce come la PA del singolo Stato membro abbia il potere dovere di disapplicare le norme interne che scoprisse essere in contrasto con il diritto comunitario.</p> <p style="text-align: justify;">L’11 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n. 389 che enumera i casi in cui è predicabile l’immediata efficacia del diritto comunitario nell’ordinamento interno italiano: si tratta in primo luogo dei casi di fonti normative immediatamente applicabili (Regolamenti e Direttive auto esecutive); ma si tratta anche delle pronunce interpretative rese dalla Corte di Giustizia ai sensi dell’art.177 del Trattato CEE, nonché di ogni altra sentenza del giudice comunitario che, nell’applicare o interpretare una norma comunitaria dotata di effetti diretti, risulti comunque dichiarativa del diritto comunitario.</p> <p style="text-align: justify;">Il 21 dicembre viene varata la Direttiva del Consiglio n.89/665/CEE, c.d. Direttiva-ricorsi, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all'applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, e che prevede in caso di violazioni l’obbligo per gli Stati di introdurre anche la tutela risarcitoria per i soggetti lesi.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1990</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 13 novembre esce la sentenza della Corte di Giustizia <em>Marleasing</em>, C-106/89, che afferma l’obbligo per il giudice interno di interpretare la normativa interna anteriore o successiva ad una Direttiva in modo conforme a quest’ultima, garantendo così il c.d. effetto utile del diritto comunitario, con particolare riguardo ai casi in cui lo Stato potrebbe venire <em>contra factum proprium</em> rispetto all’atto da recepire (Direttiva), quel medesimo che esso ha contribuito ad elaborare in sede europea.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1991</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 19 novembre esce la nota sentenza della Corte di Giustizia <em>Francovich</em>, C- 6/90 e C-9/90, secondo la quale deve considerarsi inerente al sistema del Trattato che qualora siano imputabili allo Stato violazioni del diritto comunitario, lo Stato deve essere considerato responsabile dei danni cagionati ai singoli, dovendosi altrimenti assumere messa in pericolo la stessa tenuta del sistema comunitario. Ciò vale in particolare per le ipotesi di Direttiva rimasta inattuata e non <em>self-executing</em>: in questi casi solo l’attuazione interna potrebbe garantire ai singoli l’azionabilità dei diritti previsti dalla Direttiva medesima, sicché il fatto che essa non sia stata attuata li legittima a chiedere allo Stato il risarcimento dei danni (aquiliani) subiti, a condizione che: 1) dall’attuazione della Direttiva deriverebbe un diritto al singolo; 2) tale diritto presenta un contenuto individuabile sulla base della lettura della Direttiva rimasta inattuata; 3) vi è nesso di causalità tra l’inadempimento dello Stato all’obbligo comunitario di attuare la Direttiva ed il danno subito dal singolo soggetto leso. Una simile giurisprudenza comunitaria, che riconduce una responsabilità per danni ad ipotesi di omesso potere pubblico (qui il potere legislativo), implica uno scossone rispetto al dogma della non risarcibilità delle lesioni inferte ad interessi legittimi.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1992</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 19 febbraio viene varata la legge n.142 (legge comunitaria per il 1991) che all’art.13 – nell’attuare sul punto la c.d. Direttiva-ricorsi del 1989 - prevede che i soggetti che hanno subìto una lesione a causa di atti compiuti in violazione del diritto comunitario in materia di appalti pubblici di lavori o di forniture o delle relative norme interne di recepimento possono chiedere all'Amministrazione aggiudicatrice il risarcimento del danno e che tale domanda di risarcimento è proponibile dinanzi al giudice ordinario da chi ha ottenuto l'annullamento dell'atto lesivo con sentenza del giudice amministrativo. La norma è importante perché, accanto alla c.d. pregiudiziale amministrativa di annullamento, prevede per la prima volta – limitatamente al settore degli appalti di lavori e forniture di rilievo comunitario, il risarcimento del danno inferto ad interessi legittimi.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1994</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 14 luglio esce la sentenza della Corte di Giustizia <em>Faccini Dori</em>, C-91/92, che nega la possibilità di invocare l’efficacia orizzontale di una Direttiva non attuata all’interno dello Stato membro, in quanto ciò presupporrebbe la possibilità per tale tipo di atto comunitario di creare obblighi tra privati (e correlati diritti), circostanza ammessa solo per i Regolamenti.</p> <p style="text-align: justify;">Il 10 novembre esce la sentenza della Corte costituzionale n. 384 che – nel vigore dell’art.127 Cost. originario, laddove consente al Governo di impugnare in via preventiva e con ricorso principale le leggi regionali dinanzi alla Corte medesima – ammette la legittimazione dello Stato a ricorrere ad essa, per l’appunto, in via preventiva al fine di scongiurare l’entrata in vigore di leggi regionali in contrasto col diritto comunitario, onde garantire chiarezza normativa e certezza del diritto. Si tratta di una pronuncia che fa dire alla dottrina come la Corte costituzionale italiana abbia ormai abbracciato la tesi c.d. “<em>monista</em>” della piena integrazione dell’ordinamento italiano in quello comunitario, da tempo sviluppata dalla Corte di Giustizia europea.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1995</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 14 dicembre esce la sentenza della Corte di Giustizia sul caso Peterbroeck, C-312/93, secondo la quale anche quando una norma europea ha effetto diretto e garantisce ai singoli un diritto, spetta comunque – in mancanza di una disciplina comunitaria procedurale <em>ad hoc</em> – ai singoli Stati membri designare il giudice competente e stabilire con quali modalità procedurali può essere spiccato il ricorso giurisdizionale inteso a tutelare il detto diritto, se del caso fissando anche un termine di decadenza per l’impugnativa dell’atto che lo conculca. Secondo la Corte l’ordinamento comunitario non “<em>impone</em>” dunque di disapplicare l’atto amministrativo anticomunitario che non sia stato impugnato nei termini di decadenza previsti dall’ordinamento interno, e ciò in quanto tale termine di decadenza non implica <em>ex se</em> contrasto con il diritto comunitario.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1996</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 18 gennaio esce la sentenza della V sezione del CdS n. 54 secondo la quale, laddove l’atto amministrativo sia viziato da violazione del diritto comunitario, l’autotutela della PA non si atteggia (come normalmente accade) a discrezionale, dovendosi piuttosto assumere vincolata. La PA deve pertanto procedere in autotutela ad annullare l’atto in contrasto col diritto europeo, in quanto se residuasse discrezionalità si correrebbe il rischio di atti amministrativi anti-comunitari che si consolidano diventando inoppugnabili, senza possibilità di un successivo intervento su di essi.</p> <p style="text-align: justify;">Il 12 settembre esce la sentenza della Corte di Giustizia <em>Gallotti ed altri</em>, C-58/95, che sancisce per gli Stati membri il principio di proporzionalità nell’attuazione delle Direttive comunitarie: gli Stati devono utilizzare strumenti normativi adeguati, non eccessivamente restrittivi rispetto allo scopo da perseguire ma, al contrario, sufficientemente efficaci.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1998</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 5 giugno esce la sentenza della IV sezione del CdS n. 918 che ribadisce come, laddove l’atto amministrativo sia viziato da violazione del diritto comunitario, l’autotutela della PA non sia discrezionale, ma vincolata. La PA deve pertanto procedere in autotutela ad annullare l’atto in contrasto col diritto europeo, con il solo limite dell’eventuale pregiudizio ai principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1999</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 18 maggio esce una importante sentenza della sezione lavoro della Cassazione, n. 4817 che, in tema di Direttive rimaste inattuate a livello interno, si occupa di una controversia tra privati, ribadendo da un lato che la Direttiva non può spiegare effetti orizzontali tra di essi; nondimeno, l’Autorità interna deve verificare se la norma interna incompatibile che si frappone all’applicazione della Direttiva limita l’autonomia negoziale in rapporto a meri interessi privati, ovvero limita o sopprime tale autonomia incidendo sulla realizzazione di interessi pubblici, dei quali è titolare la PA: in quest’ultimo caso è ammessa, per la Corte, la disapplicazione della normativa interna in conflitto con quella comunitaria di cui alla Direttiva rimasta inattuata.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2000</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 30 maggio esce la sentenza della Corte EDU sul caso <em>soc. Belvedere Alberghiera / Italia</em>, che muove dal presupposto onde non occorre, in astratto, verificare se nell’ordinamento italiano un istituto di pura creazione giurisprudenziale, come l’occupazione appropriativa, assuma una configurazione assimilabile a quella di una disposizione di legge per acclararne il conflitto con la CEDU, essendo sufficiente in proposito prendere atto di come la giurisprudenza sviluppatasi in materia abbia condotto ad applicazioni contraddittorie, ventilando per ciò solo – in concreto – risultati arbitrari ed imprevedibili, tali da privare gli interessati (ablati) di una tutela efficace dei relativi diritti e da porsi per tale via in frizione con il principio di legalità, convenzionalmente inteso, fissato all’art.1, Protocollo 1, alla CEDU. Peraltro, soggiunge la Corte, attraverso l’occupazione appropriativa la PA si avvantaggia di una situazione illegittima, e specie laddove esclude la restituzione del bene al privato ablato nonostante l’annullamento in sede giurisdizionale degli atti dell’espropriazione illegittima, si pone ancora una volta in contrasto con il principio di legalità siccome tracciato dalla Convenzione e dal relativo I Protocollo addizionale. Infine, la Corte afferma che l’occupazione appropriativa corrisponde ad uno spossessamento del privato proprietario senza titolo, e non già ad una espropriazione cui difetti soltanto il pagamento di un’equa indennità per poterla considerare legittima: da ciò discende per la Corte che – in applicazione dell’art.41 della CEDU – la migliore forma di riparazione per il privato ablato è costituita dalla restituzione del bene da parte della PA, oltre al risarcimento dei danni (assumendo l’equa indennità mero valore recessivo). Si tratta di una pronuncia della Corte che investe, più che un caso di occupazione appropriativa, una ipotesi di c.d. occupazione usurpativa, a cagione dell’annullamento del progetto di opera pubblica in sede giurisdizionale e di conseguente venir meno (col progetto medesimo) della dichiarazione di pubblica utilità fondante la procedura espropriativa: laddove tuttavia la Corte stigmatizza il contegno dello Stato italiano che ha denegato al privato la restituzione del bene ablato, la dottrina vede già con riguardo a questa sentenza l’affermazione di principi applicabili alla ipotesi (meno grave) dell’occupazione appropriativa pura. In quel medesimo 30 maggio esce la coeva ed omologa sentenza della Corte EDU sul <em>caso Carbonara e Ventura / Italia</em>, che dichiara ancora una volta l’occupazione appropriativa o espropriazione indiretta in frizione con il primo Protocollo Addizionale alla CEDU in tema di tutela della proprietà privata, con le medesime argomentazioni di cui al caso Belvedere Alberghiera. Si muove dal difetto di precise disposizioni normative a disciplinare l’occupazione appropriativa, e da un diritto vivente della Cassazione italiana incompatibile con il principio di legalità di cui alla CEDU per avere esso dato luogo ad applicazioni contraddittorie e tali da non rispettare quella esigenza di principi accessibili, precisi e prevedibili che soli possono dirsi idonei a garantire ai privati proprietari interessati una efficace tutela dei relativi diritti, con l’aggravante onde la PA si avvantaggia di una situazione si sostanziale illegalità per acquisire la proprietà del bene. La sentenza si occupa anche della decorrenza del termine quinquennale di prescrizione per chiedere il risarcimento del danno in caso di occupazione appropriativa: il momento in cui avviene la irreversibile trasformazione del fondo appare non individuabile con sufficienti margini di esattezza, finendo col rendere incerto lo stesso <em>dies</em> dal quale decorre appunto il termine prescrizionale, e da questo punto di vista la Corte EDU si pone in contrasto con le acquisizioni della Corte costituzionale di cui alla sentenza 188.95, che aveva invece assunto costituzionalmente legittima la configurazione del <em>dies a quo</em> per il decorso del termine prescrizionale, affidata alla ragionevole discrezionalità del legislatore.</p> <p style="text-align: justify;">L’8 agosto esce la ordinanza del Tar Lombardia, sezione III, n. 234 che rimette alla Corte di Giustizia una importante questione pregiudiziale: dato un bando di gara le cui clausole non siano state tempestivamente impugnate, il Tar si chiede se, laddove tali clausole di bando (atto amministrativo) siano in contrasto con il diritto comunitario, il GA possa procedere alla relativa disapplicazione anche oltre il maturato termine di decadenza.</p> <p style="text-align: justify;">Il 19 settembre esce la sentenza della Corte di Giustizia Linster, C-287/98, che si occupa delle Direttive non recepite nel termine: esse non possono produrre effetti orizzontali tra privati (obblighi da un lato e diritti dall’altro), e dunque non è ammesso un “<em>effetto sostituzione</em>” rispetto alla normativa interna, ma questo non significa che le Autorità interne, compresa la PA, non possano disapplicare la normativa interna non conforme alla Direttiva rimasta inattuata: proprio il principio di supremazia del diritto europeo impone infatti una sorta di “<em>effetto di esclusione</em>” della normativa interna non conforme alla Direttiva, quand’anche quest’ultima non possa esplicare effetti diretti, come appunto nel caso dei rapporti inter-privati.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2001</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 18 ottobre viene pubblicata la legge costituzionale n.3 che, tra le altre cose, modifica il testo dell’art.117 della Costituzione: la potestà legislativa deve essere esercitata:</p> <p style="text-align: justify;">- nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario: il che fa dire a parte della dottrina che la frizione di una norma interna con una norma comunitaria comporta (nuovamente) vizio di costituzionalità e competenza alla relativa declaratoria solo della Corte costituzionale (previa remissione della relativa questione di legittimità costituzionale);</p> <p style="text-align: justify;">- nel rispetto dei vincoli derivanti dai Trattati internazionali, e dunque anche dalla CEDU. La legge costituzionale è importante anche perché modifica l’art.127 Cost. eliminando la possibilità di un sindacato preventivo della Corte costituzionale, su istanza dello Stato, sulle leggi regionali, comprese quelle in contrasto col diritto comunitario.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2002</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 25 luglio esce la sentenza della Corte di Giustizia UE, UPA, C-50/00, che si occupa della possibilità di impugnare un Regolamento comunitario: trattasi di atto a portata generale che, come tale, non è impugnabile direttamente da una persona fisica o giuridica, ma solo dalle Istituzioni, dalla BCE o dagli Stati membri: tuttavia, laddove il Regolamento riguardi in modo individuo singole persone fisiche o giuridiche, esso assume carattere decisionale nei confronti delle stesse ed a quel punto diventa da esse impugnabile. In qualche modo, esso diventa immediatamente lesivo, e proprio perché tale la Corte di giustizia ne predica la diretta impugnabilità da parte dei singoli destinatari.</p> <p style="text-align: justify;">Il 24 ottobre esce l’ordinanza della Corte di Giustizia Ras c. Lo Bue, C-233/01, che – al fine di mitigare lo squilibrio nascente dal fatto che una Direttiva non attuata può creare solo effetti verticali (ed è dunque invocabile solo verso Stato ed enti pubblici) ma non anche orizzontali (dal privato verso un altro privato) – ribadisce l’obbligo per il giudice interno di interpretare la normativa interna anteriore o successiva alla Direttiva in modo conforme a quest’ultima, salvo il solo caso della assoluta incompatibilità (che implicherebbe per il giudice una interpretazione <em>contra legem</em>).</p> <p style="text-align: justify;">Il 12 dicembre esce la sentenza della Corte di Giustizia sul caso Universale-Bau, C-470/99, che ribadisce quanto già affermato nella sentenza sul caso Peterbroeck del 1995: anche quando una norma europea ha effetto diretto e garantisce ai singoli un diritto, spetta comunque – in mancanza di una disciplina comunitaria procedurale <em>ad hoc</em> – ai singoli Stati membri designare il giudice competente e stabilire con quali modalità procedurali può essere spiccato il ricorso giurisdizionale inteso a tutelare il detto diritto, se del caso fissando anche un termine di decadenza per l’impugnativa dell’atto che lo conculca. Secondo la Corte l’ordinamento comunitario non “<em>impone</em>” dunque di disapplicare l’atto amministrativo anticomunitario che non sia stato impugnato nei termini di decadenza previsti dall’ordinamento interno, e ciò in quanto tale termine di decadenza non implica <em>ex se</em> contrasto con il diritto comunitario.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2003</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 10 gennaio esce la sentenza del CdS, sezione V, n.35 che si occupa dell’atto amministrativo anti-comunitario in via indiretta, vale a dire attraverso la norma interna che lo fonda, e distingue: a) il caso in cui la norma interna anticomunitaria attribuisce il potere alla PA, ipotesi nella quale l’atto deve assumersi nullo per carenza di potere, in quanto va disapplicata la norma interna, contrastante con il diritto comunitario, che detto potere fonda; b) il caso in cui la norma interna anticomunitaria si limita a disciplinare detto potere, senza tuttavia fondarlo, ipotesi - al contrario – di mero cattivo esercizio del potere e, dunque, di sola illegittimità/annullabilità dell’atto stesso. Diverso il caso in cui la illegittimità comunitaria sia diretta, ovvero laddove l’atto amministrativo si pone in diretto contrasto con la normativa comunitaria (o con la normativa interna che la attua): in questa ipotesi occorre procedere ad impugnare l’atto nel termine di decadenza, in quanto esso è da assumersi illegittimo ed annullabile secondo l’ordinario regime di impugnazione degli atti amministrativi.</p> <p style="text-align: justify;">Il 27 febbraio esce la sentenza della Corte di Giustizia sul caso Santex, C-327/00, con la quale la Corte risponde all’ordinanza di rinvio pregiudiziale del Tar Lombardia del 2000 in tema di possibilità per il GA di disapplicare – anche oltre il termine di decadenza – clausole di un bando di gara non impugnate ma in contrasto con il diritto comunitario: secondo la Corte, anche quando una norma europea ha effetto diretto e garantisce ai singoli un diritto, spetta comunque – in mancanza di una disciplina comunitaria procedurale <em>ad hoc</em> – ai singoli Stati membri designare il giudice competente e stabilire con quali modalità procedurali può essere spiccato il ricorso giurisdizionale inteso a tutelare il detto diritto, se del caso fissando anche un termine di decadenza per l’impugnativa, che non può assumersi <em>ex se</em> costituire un ostacolo all’applicazione del diritto europeo. A differenza di quanto affermato in precedenza sul punto, la Corte di Giustizia appare tuttavia più rigorosa, richiedendo in ogni caso l’applicazione da parte dell’ordinamento processuale interno dei principi comunitari di equivalenza (le modalità procedurali intese a garantire i diritti di ascendenza europea non devono essere più gravose di quelle intese a garantire i diritti interni) e di effettività della tutela (il ricorso non deve rendere praticamente impossibile ovvero comunque eccessivamente difficile l’esercizio del diritto europeo sottostante), specie nei confronti delle PA aggiudicatrici. Proprio valorizzando il principio di effettività della tutela giurisdizionale dei diritti di ascendenza sovranazionale, la Corte giunge ad affermare che – nel singolo caso concreto – l’applicazione delle regole procedurali interne potrebbe conculcare detti diritti e dunque, in casi peculiari e specifici, non può negarsi al potere di disapplicazione dell’atto amministrativo da parte del GA (anche oltre il termine di decadenza) il ruolo di ultimo baluardo e sorta di “<em>contro-limite</em>” europeo al potere statale di disciplinare il dipanarsi del processo innanzi ai propri giudici (amministrativi).</p> <p style="text-align: justify;">Il 24 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n. 274 la quale, nell’occuparsi del novellato art.127 Cost., afferma che pur dopo la riforma lo Stato può impugnare (ancorché ormai solo in via successiva) con ricorso principale un legge regionale per violazione di qualsiasi parametro costituzionale e, dunque, non solo allorché la legge regionale ecceda la relativa competenza legislativa per invadere quella dello Stato (art.117, comma 2, Cost.) ma anche quando essa invada la competenza europea, ai sensi dell’art. 117, comma 1, Cost. Il discorrere di “<em>competenza</em>” fa tuttavia pensare ad un deciso ritorno della Corte sulle tradizionali posizioni contrarie alla teoria monista dell’integrazione degli ordinamenti e favorevoli alla diversa teoria pluralista secondo la quale ordinamento europeo ed ordinamenti interni farebbero luogo a sistemi giuridici distinti e separati, ancorché tra loro coordinati.</p> <p style="text-align: justify;">Il 30 ottobre esce la sentenza della Corte EDU resa ancora una volta sul caso <em>Belvedere Alberghiera / Italia</em>, che fa applicazione questa volta dell’art.41 della CEDU, onde “<em>se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa</em>”. Nel caso di specie, in difetto di intervenuta restituzione dell’immobile al legittimo proprietario privato, la Corte EDU quantifica l’equa soddisfazione dovuta al medesimo. La società Belvedere Alberghiera aveva infatti insistito nella richiesta della <em>restitutio in integrum</em>, ma la Corte, stante la evidente impossibilità sul piano pratico di provvedervi direttamente essa stessa - e muovendo dall’assunto onde, se il diritto italiano non permette o non permette perfettamente di eliminare le conseguenze della violazione, l’art. 41 abilita la Corte medesima ad accordare alla parte lesa, se del caso, la soddisfazione che le sembri più appropriata - opta per il risarcimento del danno in assenza di restituzione del bene; peraltro, l’illegalità dello spossessamento del privato ablato induce la Corte a quantificare tale indennizzo in misura corrispondente al valore del bene non già alla data della relativa occupazione illegittima, ma al pertinente valore attuale, valore cui vanno aggiunte ulteriori somme a titolo di mancato godimento del terreno a decorrere dallo spossessamento, di deprezzamento dell’immobile, di mancato guadagno nell’attività dell’albergatore dal 1987 al 2032 (con una proiezione futura del mancato guadagno di 45 anni rispetto alla data dell’occupazione). Sempre la Corte EDU condanna nel caso di specie lo Stato italiano al risarcimento del danno morale (richiesto nel caso di specie dalla società ricorrente in 30 mila euro in caso di <em>restitutio in integrum</em>, e in 100 mila euro in caso di mancata <em>restitutio in integrum,</em> e concretamente riconosciuto dalla Corte secondo equità in 25 mila euro) motivando in ordine al riconoscimento del danno morale con un richiamo al caso Comingersoll c. Portogallo, n. 35382/97, a giustificazione dell’estensibilità alle persone giuridiche della riparazione pecuniaria del pregiudizio morale.</p> <p style="text-align: justify;">L’11 dicembre esce la sentenza della Corte EDU resa ancora una volta sul caso <em>Carbonara e Ventura / Italia</em>, che anche qui fa (ormai) applicazione dell’art.41 della CEDU nel pertinente caso di occupazione appropriativa (accessione invertita o espropriazione indiretta) e di connessa violazione dell'articolo 1 del Protocollo addizionale n. 1 sul diritto di proprietà: stante la mancata restituzione dell’area acquisita illegalmente dall’Amministrazione e proprio a motivo dell’illiceità di tale acquisizione, l'indennizzo a carico dello Stato italiano deve necessariamente riflettere il valore pieno ed integrale del bene. Più in specie, la Corte afferma che la liquidazione del danno materiale arrecato al privato a seguito di un’illegittimità nella procedura espropriativa non deve limitarsi al valore che la proprietà ablata aveva alla data (remota) della relativa occupazione, dovendosi rapportare il detto valore del bene allo stato attuale in cui esso si trova, tenendo conto anche delle eventuali potenzialità di sviluppo urbanistico del suolo di che trattasi, e dunque dei relativi, attuali valori di mercato.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2004</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 31 gennaio esce la sentenza della Corte di Giustizia sul caso Kuhne und Heitz, C-453/00, che si occupa della fattispecie in cui sia divenuta inoppugnabile e dunque definitiva una decisione della PA, giusta sentenza passata in giudicato e favorevole alla PA medesima, sulla scorta di una interpretazione della normativa in contrasto con il diritto europeo (o con l’interpretazione ad esso data dalla Corte di Giustizia). La Corte parte dall’art.10 del Trattato e dal principio di cooperazione in esso consacrato, per dettare le condizioni in presenza delle quali è possibile “<em>superare</em>” una decisione amministrativa ormai inoppugnabile, e tuttavia in contrasto con il diritto europeo. La PA deve in primo luogo disporre del potere di tornare sulla sua originaria decisione (autotutela); tale decisione di tipo amministrativo deve essere divenuta inoppugnabile sulla scorta del passaggio in giudicato di una sentenza del giudice interno di ultimo grado, che abbia giudicato legittimo l’atto amministrativo; l’interpretazione che ha fondato la sentenza favorevole alla parte pubblica deve essere stata in contrasto con il diritto europeo, senza che vi sia stato rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia; il potere di riesame della PA deve essere esplicitamente sollecitato dal soggetto interessato che ha perso la causa sulla scorta di una interpretazione delle norme anti-europea, e questa sollecitazione all’esercizio del potere di riesame deve avere luogo immediatamente dopo la consapevolezza da parte del soggetto interessato che la Corte di Giustizia ha inteso interpretare in modo diverso (ed a lui favorevole) la normativa che ebbe a fondare la sentenza sfavorevole.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2005</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 20 maggio esce la sentenza della VI sezione del CdS n. 2566 che prende posizione sulla natura del potere di autotutela della PA in caso di atto violativo del diritto comunitario; secondo il CdS non è configurabile un interesse pubblico <em>in re ipsa</em> alla demolizione dell’atto amministrativo in contrasto col diritto europeo, dovendosi all’opposto assumere applicabile l’art.21.nonies della legge 241.90, in presenza dei relativi presupposti operativi: viene dunque confermato che, anche in caso di frizione dell’atto col diritto comunitario, la PA conserva discrezionalità in ordine all’esercizio del potere di autotutela. Diversamente opinando, il perentorio rispetto del principio di primazia del diritto europeo – giusta indefettibile e vincolato esercizio del potere di autotutela – potrebbe risolversi nella compromissione di principi fondamentali che lo stesso diritto europeo presidia (come ad esempio quello dell’affidamento dei destinatari dell’atto demolendo).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2006</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 3 marzo esce la sentenza della VI sezione del CdS n. 1023 che torna ad occuparsi del potere di autotutela della PA rispetto ad atti contrari al diritto comunitario per riaffermare la natura discrezionale (e non vincolata) di tale potere. Secondo il CdS in realtà la giurisprudenza della Corte di Giustizia non impone alla PA di attivare sempre e comunque con esito demolitorio il potere di autotutela, muovendosi piuttosto con la logica del caso per caso: in talune ipotesi, al fine di garantire i principi di equivalenza e di effettività, debbono intendersi rimossi gli ostacoli al sindacato di annullamento del singolo atto amministrativo, assumendo non applicabili norme procedurali interne che, nei casi di illegittimità meramente statale dell’atto, impedirebbero di scandagliarlo a fini di relativa demolizione (perché, ad esempio, è ormai divenuto inoppugnabile). Quello che è doveroso è allora l’avvio del procedimento di riesame, mentre resta discrezionale la relativa definizione, rimessa alla PA procedente. Bisogna infatti tenere conto anche del principio di certezza delle situazioni giuridiche, sulla scorta del quale non sussiste alcun obbligo di annullamento in capo alla PA né veruna pretesa da parte del privato al riesame dell’atto che possa assumersi giustiziabile.</p> <p style="text-align: justify;">Il 13 giugno esce la sentenza della Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, Traghetti del Mediterraneo, C- 173/03, che si occupa della responsabilità dello Stato-giudice per violazione del diritto europeo; viene ritenuta contraria al diritto dell’Unione la disciplina italiana della responsabilità dei magistrati (legge 117.88) laddove esclude la responsabilità dello Stato membro per i danni imputabili ad esso a cagione dell’attività di un giudice di ultimo grado che sia violativa del diritto europeo per l’interpretazione di una norma giuridica, ovvero per la valutazione dei fatti e delle prove, ovvero per la limitazione della responsabilità del giudice ai soli casi di dolo o colpa grave.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2007</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 18 luglio esce la sentenza della Corte di Giustizia sul caso Lucchini, C-119/05, che si appunta sull’art.2909 c.c., laddove disciplina il c.d. giudicato sostanziale: la relativa applicazione si pone in frizione con il diritto europeo laddove impedisce il recupero di un aiuto di Stato incompatibile con il diritto europeo medesimo. In sostanza, per la Corte l’art.2909 c.c. va in questi casi disapplicato (ed il giudicato che ne deriva va considerato <em>tamquam non esset</em>) per una questione di competenza: unico soggetto europeo competente a giudicare la legittimità di un aiuto di Stato è la Commissione (competenza esclusiva), e laddove essa – con decisione non impugnata – abbia dichiarato un aiuto di Stato non compatibile con il diritto europeo, il “<em>giudicato interno</em>” non ha il potere di impedire il recupero del detto aiuto.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2008</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 12 febbraio esce la sentenza della Corte di Giustizia sul caso Kempter, C-2/06, che – occupandosi di una vicenda di rimborsi - torna sulla questione dei rapporti tra decisione amministrativa interna divenuta inoppugnabile sulla scorta di sentenza passata in giudicato favorevole alla parte pubblica e successiva interpretazione contrastante della normativa pertinente da parte della Corte di Giustizia. Ancora una volta si parte dal principio di cooperazione, sancito dall’art.10 del Trattato sulla Comunità europea e poi trasfuso nell’art.4, par.3, del Trattato sull’Unione europea; secondo la Corte di Giustizia occorre tuttavia tenere conto di esigenze di certezza del diritto che implicano come – in linea di principio – la PA non sia in tali casi obbligata al riesame della vicenda amministrativa sollecitato dal soggetto interessato. Possono tuttavia sussistere casi particolari in cui, esauriti i rimedi interni, si può predicare l’obbligo per la PA – all’uopo sollecitata dal soggetto interessato (e già soccombente nel giudizio avverso l’atto amministrativo adottato <em>ab origine</em>) – di riesaminare la vicenda amministrativa sottostante al fine di tenere conto della diversa interpretazione fornita alle norme dalla giustizia europea; ciò accade fondamentalmente quando non vi è stato un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia da parte del giudice di ultima istanza, la cui sentenza è poi passata in giudicato in modo anti-europeo: in simili ipotesi il soggetto interessato può pretendere il riesame della fattispecie amministrativa anche se a suo tempo, in sede di ricorso, non ebbe a formulare censure acconce, imperniantesi sul diritto europeo.</p> <p style="text-align: justify;">Il 15 aprile esce l’ordinanza della Corte costituzionale n.103 che, nell’affrontare il tema della legittimazione della Corte medesima a sollevare questione di pregiudizialità innanzi alla Corte di Giustizia, afferma quello europeo essere un ordinamento giuridico “<em>autonomo, integrato e coordinato</em>” con quello interno: seppure anfibia, l’espressione fa un richiamo alla “<em>integrazione</em>” ordinamentale e fa pensare che la Corte si stia avvicinando alla posizione monista ed “<em>integrata</em>”, per l’appunto, della Corte di Giustizia.</p> <p style="text-align: justify;">L’8 settembre esce la sentenza della V sezione del CdS n. 4263 secondo la quale laddove un provvedimento amministrativo contrasti con il diritto europeo, esso non può comunque essere disapplicato dall’Amministrazione procedente, dovendo piuttosto essere eventualmente rimosso attraverso il potere di autotutela e sulla scorta dei relativi presupposti applicativi, ovvero preminenti ragioni di interesse pubblico alla rimozione dell’atto a fronte degli affidamenti ingenerati, con le garanzie del contraddittorio (partecipazione procedimentale) ordinariamente previste dal sistema.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2009</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 17 aprile esce la sentenza delle SSUU n. 9147 che – giudicando in tema di retribuzione della formazione dei medici specializzandi – si occupa del caso di mancata o tardiva trasposizione nell’ordinamento interno di una Direttiva non auto applicativa, e di connesso risarcimento del danno invocabile nei confronti dello Stato: la Corte parte dal carattere autonomo e distinto degli ordinamenti interno ed europeo, ritraendone la conseguenza che il comportamento omissivo del legislatore italiano può dirsi antigiuridico con riguardo all’ordinamento europeo, ma non antigiuridico in ambito interno. Si configura nei confronti dei destinatari “<em>interni</em>” della Direttiva una obbligazione <em>ex lege</em> (da fatto atipico ex art.1173 c.c.: inadempimento all’obbligo europeo di attuare la Direttiva) dal cui inadempimento nasce – a propria volta - una pretesa di natura indennitaria (e non risarcitoria), proprio per il fatto che non si è al cospetto di un illecito antigiuridico.</p> <p style="text-align: justify;">Il 19 maggio esce la sentenza del CdS, sezione V, n.3072, che si occupa dell’atto amministrativo anti-comunitario in via indiretta, vale a dire attraverso la norma interna che lo fonda, e ribadisce la distinzione tra: a) il caso in cui la norma interna anticomunitaria attribuisce il potere alla PA, ipotesi nella quale l’atto deve assumersi nullo per carenza di potere, in quanto va disapplicata la norma interna, contrastante con il diritto comunitario, che detto potere fonda; b) il caso in cui la norma interna anticomunitaria si limita a disciplinare detto potere, senza tuttavia fondarlo, ipotesi - al contrario – di mero cattivo esercizio del potere e, dunque, di sola illegittimità/annullabilità dell’atto stesso. Diverso il caso in cui la illegittimità comunitaria sia diretta, laddove l’atto amministrativo si pone in diretto contrasto con la normativa comunitaria (o con la normativa interna che la attua): in questa ipotesi occorre procedere ad impugnare l’atto nel termine di decadenza, in quanto esso è da assumersi illegittimo ed annullabile secondo l’ordinario regime di impugnazione degli atti amministrativi.</p> <p style="text-align: justify;">Il 3 settembre esce la sentenza della Corte di Giustizia sul caso Olimpiclub, C-2/08, che torna sui rapporti tra giudicato interno e frizione col diritto europeo di cui alla sentenza Lucchini del 2007: in quel caso, del tutto particolare, si trattava di una ipotesi di competenza esclusiva della Commissione europea (aiuti di Stato), che l’eventuale giudicato ostativo avrebbe in qualche modo messo in discussione. Secondo la Corte di Giustizia la sentenza Lucchini va tuttavia ridimensionata, in quanto al di fuori di casi tutt’affatto particolari come quello, in realtà il diritto europeo non impone la disapplicazione del giudicato interno in modo generalizzato. Più nel dettaglio, secondo la Corte vanno distinti gli effetti interni del giudicato (contrastante col diritto europeo), che sono effetti preclusivi e permangono come tali (un punto di diritto già deciso tra le medesime parti con sentenza passata in giudicato non può essere rimesso in discussione tra le parti medesime); dagli effetti esterni del giudicato che invece, a livello europeo, non può spiegare effetti laddove vada ad incidere su competenze esclusive proprie di organi dell’Unione europea.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2010</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 25 gennaio esce la sentenza della Corte costituzionale n. 28 che – scandagliando una disposizione del codice dell’ambiente, ovvero l’art.183, comma 1, lettera n) del decreto legislativo 152.06 - si occupa del conflitto tra norma interna e norma comunitaria non direttamente applicabile (per esempio una Direttiva non recepita e non auto esecutiva): in queste ipotesi non può ammettersi un controllo diffuso da parte dei giudici territoriali a mezzo disapplicazione, dovendo piuttosto predicarsi la necessità di un controllo accentrato di costituzionalità da parte della Corte giusta rimessione della relativa questione per contrasto con gli articoli 11 e 117, comma 1, Cost. La sentenza è importante perché sembra confermare una tendenza della Corte costituzionale verso la posizione “<em>monista</em>” dell’unico ordinamento integrato, interno ed europeo, dovendo il secondo assumersi, rispetto al primo, come cogente e sovraordinato (anche laddove non auto applicativo).</p> <p style="text-align: justify;">Il 14 aprile esce la sentenza della IV sezione del CdS n. 2097 secondo la quale una Direttiva che, ancorché in modo dettagliato, introduca un nuovo istituto nell’ordinamento interno non può mai considerarsi <em>self executing</em>, occorrendo sempre e comunque un recepimento e una disciplina da parte del legislatore interno.</p> <p style="text-align: justify;">Il 30 settembre esce la importante sentenza della Corte di Giustizia UE in causa C-314/09, <em>Stadt Graz</em>, chiamata a stabilire se una norma nazionale che subordini il diritto ad ottenere un risarcimento per violazione della disciplina europea sugli appalti pubblici da parte di una PA aggiudicatrice al carattere colpevole (“<em>colposo</em>”) della violazione medesima sia o meno in frizione con la direttiva 89/665/CEE del 21 dicembre 1989, ovvero con la c.d. “<em>Direttiva ricorsi</em>”, come modificata dalla successiva direttiva 2007/66/CE dell’11 dicembre 2007, laddove essa prevede norme di (mera) armonizzazione, lasciando così agli Stati membri un ampio margine di discrezionalità nella relativa applicazione. La Corte muove dalla circostanza pacifica onde è lasciato appunto all’autonomia procedurale degli Stati membri stabilire come si articolano, tra le altre, le azioni intese ad ottenere un risarcimento dei danni ai soggetti lesi da un provvedimento illegittimo in materia di appalti pubblici, ciascun ordinamento nazionale potendo quindi prevedere un proprio modello di azione risarcitoria; nondimeno, la discrezionalità lasciata agli Stati membri non può comunque per la Corte contrastare con le finalità e con il contesto generale della Direttiva mentovata, né con i principi di equivalenza e di effettività finalizzati, come noto, ad assicurare l’uniforme applicazione della disciplina in tutto il territorio dell’Unione, l’obiettivo della Direttiva medesima compendiandosi sostanzialmente nel garantire l’esistenza di mezzi di ricorso efficaci ed il più possibile celeri contro le decisioni prese dalle PA aggiudicatrici in violazione della normativa sugli appalti pubblici. In sostanza, l’efficacia e la celerità sono le due condizioni per la corretta attuazione della Direttiva ricorsi negli ordinamenti nazionali, non potendosi pretermettere, su altro crinale, i principi che presidiano alla tutela della concorrenza nel delicato settore degli appalti pubblici. Muovendo da queste premesse la Corte ribadisce in modo vieppiù esplicito la propria giurisprudenza sulla questione sottopostale (già in precedenza abbozzata), assumendo <em>espressis verbis</em> il rimedio risarcitorio siccome forgiato dal singolo Stato membro effettivo soltanto a condizione che la possibilità di riconoscere un risarcimento in caso di violazione delle norme sugli appalti pubblici non venga subordinata all’accertamento di un comportamento colpevole tenuto dall’amministrazione aggiudicatrice: in buona sostanza, la PA aggiudicatrice risponde a titolo di responsabilità oggettiva. Peraltro, consentire alla PA aggiudicatrice la prova contraria, ovvero la possibilità di superare quella che si atteggerebbe a mera presunzione di colpevolezza, può per la Corte implicare che il concorrente alla gara pregiudicato dalla decisione pubblica illegittima venga privato del diritto ad ottenere un risarcimento, anche in considerazione della lunghezza dei tempi che possono rendersi necessari proprio per l’accertamento del carattere colpevole della violazione violata.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2011</strong></p> <p style="text-align: justify;">*Il 31 marzo esce la sentenza del CdS, sezione VI, n.1983, che si occupa dell’atto amministrativo anti-comunitario in via indiretta, vale a dire attraverso la norma interna che lo fonda, e ribadisce la distinzione tra: a) il caso in cui la norma interna anticomunitaria attribuisce il potere alla PA, ipotesi nella quale l’atto deve assumersi nullo per carenza di potere, in quanto va disapplicata la norma interna, contrastante con il diritto comunitario, che detto potere fonda; b) il caso in cui la norma interna anticomunitaria si limita a disciplinare detto potere, senza tuttavia fondarlo, ipotesi - al contrario – di mero cattivo esercizio del potere e, dunque, di sola illegittimità/annullabilità dell’atto stesso.</p> <p style="text-align: justify;">Il 17 maggio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 10813 che torna sul tema della responsabilità dello Stato-legislatore per omesso o tardivo recepimento di una Direttiva europea non autoapplicativa: la sentenza delle SSUU del 2009 è giunta ad un approdo che va relativizzato, non potendosi escludere in modo assoluto che il contegno del legislatore italiano sia da assumersi antigiuridico anche per l’ordinamento interno. Si parte dal fatto che lo Stato italiano è obbligato ad attuare le Direttive europee (specie se non <em>self-executing</em>); dall’inadempimento a tale obbligo (che secondo la Corte di Giustizia impone il risarcimento del danno nei confronti dei destinatari della Direttiva medesima) nasce per le SSUU una obbligazione (non aquiliana ma) “<em>contrattuale</em>” nei confronti dei soggetti interni destinatari della Direttiva, e questo non può far ritenere in senso assoluto il contegno dello Stato come “<em>non antigiuridico</em>” sul piano interno. L’inadempimento all’obbligo europeo di attuare la Direttiva fa nascere infatti – quale fatto atipico fonte di obbligazione ai sensi dell’art.1173 c.c. – un obbligo interno avente come contenuto una prestazione nei confronti dei soggetti destinatari della Direttiva analoga a quella che essi avrebbero avuto diritto di ottenere laddove essa fosse stata ritualmente attuata. Poiché l’obbligazione interna nasce dall’inadempimento (ad opera del legislatore) di quella europea, non si può dire in modo assoluto che il contegno dello Stato non sia mai antigiuridico, considerato che un obbligo nato quale reazione ad un inadempimento si configura anzi normalmente come obbligo a risarcire un danno (antigiuridico).</p> <p style="text-align: justify;">*L’11 novembre esce la sentenza del TRGA di Trento, n.284, che ribadisce la diade nullità/annullabilità dell’atto amministrativo a seconda che la norma interna antieuropea ne fondi il potere di adozione o si limiti a disciplinarne l’esercizio.</p> <p style="text-align: justify;">Il 12 novembre viene varata a legge n.183 (c.d. legge di stabilità 2012) il cui articolo 4, comma 43, si occupa del diritto al risarcimento del danno derivato ad un soggetto da mancato recepimento nell’ordinamento interno di Direttive o di altri provvedimenti obbligatori comunitari, prevedendo che in ogni caso il regime della relativa prescrizione è quello dell’art.2947 c.c. con decorrenza dalla data in cui si è effettivamente verificato il fatto dal quale – se la Direttiva fosse stata tempestivamente attuata – sarebbero derivati al singolo dei diritti: si tratta di una evidente presa di posizione del legislatore per la natura aquiliana della responsabilità “<em>interna</em>” dello Stato per il caso di inadempimento all’obbligo “<em>europeo</em>” di attuare le Direttive.</p> <p style="text-align: justify;">Il 24 novembre esce la sentenza della Corte di Giustizia UE, III sezione, Commissione c/ Italia, in cui l’Italia viene condannata per la persistente violazione del diritto europeo a cagione di una insufficiente disciplina della responsabilità dei magistrati.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2012</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’11 gennaio esce la sentenza del Tar Puglia, II sezione, n. 102 secondo la quale – dovendosi muovere dalla concezione “<em>monista</em>” che predica l’integrazione tra l’ordinamento interno e quello sovranazionale (secondo le indicazioni della Corte di Giustizia) – l’atto direttamente antieuropeo è un atto illegittimo e dunque annullabile (e non nullo).</p> <p style="text-align: justify;">L’8 febbraio esce la sentenza della sezione lavoro della Cassazione n. 1850 secondo la quale l’art.4, comma 43, della legge 183.11 non può ritenersi avere efficacia retroattiva, potendosi come tale applicare (laddove afferma la prescrizione quinquennale e con essa, pare, la natura aquiliana della responsabilità interna dello Stato legislatore inadempiente) ai soli fatti successivi alla relativa entrata in vigore, mentre per i fatti anteriori si applica il regime dell’inadempimento “<em>contrattuale</em>” (con conseguente prescrizione decennale).</p> <p style="text-align: justify;">*Il 15 febbraio esce la sentenza del CdS, VI sezione, n. 750 che ribadisce che l’atto amministrativo direttamente antieuropeo è illegittimo e come tale annullabile, essendo l’ordinamento interno integrato in quello europeo secondo le indicazioni della Corte di Giustizia.</p> <p style="text-align: justify;">Il 22 marzo esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 4358 che – nonostante l’entrata in vigore della legge si stabilità 2012 – continua a ritenere antigiuridico il solo contegno “<em>europeo</em>” dello Stato che non abbia recepito, ovvero abbia tardivamente recepito, una Direttiva europea; dal punto di vista interno, il contegno inerte del legislatore non è invece antigiuridico, facendo luogo alla nascita di una obbligazione <em>ex lege</em> di tipo indennitario conformemente allo schema della responsabilità da atto lecito (e non illecito).</p> <p style="text-align: justify;">Il 15 maggio esce la sentenza della III sezione del CdS n. 2802 che, in tema di Raccomandazioni, parte dal presupposto che esse costituiscono soft law comunitario, non essendo vincolanti per il legislatore nazionale; ne consegue che il giudice nazionale non è tenuto a disapplicare le norme – o i provvedimenti amministrativi – che siano con esse in contrasto.</p> <p style="text-align: justify;">Il 24 dicembre viene varata la legge n.234 che, all’art.35, si occupa della procedura di recepimento delle Direttive europee, con particolare riferimento agli atti di recepimento regolamentari o amministrativi. Il provvedimento si occupa delle materie di legislazione esclusiva statale, distinguendo: a) quelle disciplinate con legge, ma non coperte da riserva assoluta di legge, laddove le Direttive possono essere recepite mediante regolamento governativo ex art.17, comma 2, legge 400.88, se così dispone la legge di delegazione europea; b) quelle non disciplinate da legge o regolamento governativo e non coperte da riserva di legge, laddove le Direttive possono essere recepite con mero regolamento ministeriale o interministeriale ex art.17, comma 3, legge 400.88, ovvero, se di contenuto non normativo, anche con atto amministrativo generale da parte del Ministro competente per materia (se del caso di concerto con altri Ministri).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2013</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 26 settembre esce la sentenza della V sezione del CdS n.4756 che si occupa del Trattati istitutivi dell’Unione europea e del relativo valore normativo: non si tratta di comuni trattati internazionali fonte di obbligazioni reciproche per i soli Stati che vi aderiscono, compendiando piuttosto atti costitutivi di un nuovo ordinamento: gli atti normativi che scaturiscono nel relativo ambito sono validi ed efficaci all’interno dei singoli Stati membri indipendentemente da specifiche normative di recepimento. Si tratta del primato del diritto comunitario che consente al giudice dello Stato la disapplicazione delle norme interne contrastanti di qualunque rango, anche costituzionale.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2014</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 4 marzo esce la sentenza della IV sezione del CdS n. 1020 in tema di interpretazione del diritto dell’Unione da parte della Corte di Giustizia: le sentenze di tale Corte non hanno efficacia solo per le parti dello specifico giudizio che dipanano, ma costituiscono piuttosto ulteriore fonte di diritto europeo (con effetti <em>ultra partes</em>). La Corte di Giustizia, pur non creando diritto ex novo, indica il significato ed i limiti di applicazione del diritto creato dalle altre Istituzioni, con efficacia comunitaria <em>erga omnes</em>. Ne discende che allorché la Corte, in sede ermeneutica, faccia affiorare regole generali comunitarie, le stesse implicano per il giudice nazionale l’obbligo di disapplicare la disciplina interna eventualmente contrastante.</p> <p style="text-align: justify;">Il 31 marzo esce la sentenza della VI sezione del CdS n. 1508 che si occupa della omessa disapplicazione da parte della PA di una norma interna in contrasto con il diritto comunitario, con particolare riferimento alle relative ricadute in termini di responsabilità civile della PA medesima.</p> <p style="text-align: justify;">Il 23 dicembre esce la sentenza del Tar Emilia Romagna, II sezione, n. 1295 che assume pacifico il fatto che – laddove un atto amministrativo abbia violato il diritto comunitario – il relativo regime di invalidità sia quello della illegittimità/annullabilità ex art.21 octies legge 241.90, e non già quello della nullità ex art.21.septies della medesima legge.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2015</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 6 febbraio esce la sentenza delle SSUU n.2403 secondo la quale l’interpretazione da parte del giudice amministrativo di una norma di diritto interno in termini contrastanti con il diritto dell’Unione Europea, secondo quanto risultante da una pronunzia della Corte di Giustizia successivamente intervenuta, dà luogo alla violazione di un “<em>limite esterno</em>” della giurisdizione, rientrando in uno di quei “<em>casi estremi</em>” in cui il giudice adotta una decisione anomala o abnorme, omettendo l’esercizio del potere giurisdizionale per <em>errores in iudicando</em> o <em>in procedendo</em> che danno luogo al superamento del ridetto limite esterno.</p> <p style="text-align: justify;">Il 27 febbraio viene varata la legge n.18 che, dando seguito alle sollecitazioni in sede europea., modifica la legge 117.88 sulla responsabilità dei magistrati: la magistratura deve rimanere indipendente, ma non può andare esente da responsabilità per violazione del diritto europeo. In seguito alla novella, il travisamento del fatto e delle prove è sempre e comunque colpa grave; il giudice è inoltre responsabile nel caso di violazione manifesta, oltre che della legge interna, del “<em>diritto dell’Unione europea</em>”, fattispecie ricavabile in particolare dalla mancata osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ex art.267 TFUE alla Corte di Giustizia ovvero da decisioni in contrasto con l’interpretazione che della fattispecie ha dato la medesima Corte di Giustizia.</p> <p style="text-align: justify;">Il 25 novembre esce la sentenza della III sezione del CdS che ribadisce come nel caso in cui una Direttiva non sia stata recepita, e non sia ancora decorso il termine per il relativo recepimento, non ne può essere invocato l’effetto diretto, anche se dettagliata e completa: una efficacia diretta, seppure limitata, della Direttiva appare tuttavia predicabile dovendo il legislatore ed il giudice interno – in ossequio al principio di leale collaborazione di cui all’art.4, par.3, del TUE - assicurarne, nell’esercizio delle rispettive funzioni, il risultato voluto.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2016</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’8 aprile esce l’ordinanza delle SSUU n.6891 onde l’interpretazione da parte del giudice amministrativo di una norma di diritto interno in termini contrastanti con il diritto dell’Unione Europea, secondo quanto risultante da una pronunzia della Corte di Giustizia successivamente intervenuta, dà luogo alla violazione di un “<em>limite esterno</em>” della giurisdizione, rientrando in uno di quei “<em>casi estremi</em>” in cui il giudice adotta una decisione anomala o abnorme, omettendo l’esercizio del potere giurisdizionale per <em>errores in iudicando</em> o <em>in procedendo</em> che danno luogo al superamento del ridetto limite esterno. In questi “<em>casi estremi</em>” – continuano le Sezioni Unite – si impone la cassazione della sentenza amministrativa indispensabile per impedire che il provvedimento giudiziario, una volta divenuto definitivo ed efficace, esplichi i propri effetti in contrasto con il diritto comunitario, con grave nocumento per l’ordinamento europeo e nazionale e con palese violazione del principio secondo cui l’attività di tutti gli organi dello Stato deve conformarsi alla normativa comunitaria.</p> <p style="text-align: justify;">Il 9 giugno esce la sentenza dell’Adunanza Plenaria del CdS n. 11 che si occupa del caso in cui una sentenza interna passata in giudicato entri in frizione con una norma europea sopravvenuta, sia che si tratti di una norma <em>tout court</em>, sia che si tratti della interpretazione successiva (al giudicato), da parte della Corte di Giustizia, di una norma precedente che è stata rilevante per la decisione poi divenuta inoppugnabile. L’Adunanza parte dalla considerazione per cui, secondo le SSUU della Cassazione, laddove il GA abbia dato ad una norma una data interpretazione con sentenza passata in giudicato e subentri successivamente una nuova diversa interpretazione di tale norma da parte della Corte di Giustizia, si verifica una violazione del limite esterno della giurisdizione amministrativa, che rende la sentenza del GA cassabile. L’Adunanza fa propria questa posizione della Cassazione a SSUU sul presupposto onde occorre che tutti gli organi dello Stato, ad iniziare da quelli giurisdizionali (anche amministrativi), si adoperino per scongiurare il consolidamento di decisioni che si pongano in contrasto con il diritto europeo. Si tratta di un caso estremo in cui viene superato il limite esterno della giurisdizione amministrativa, e si impone la cassazione della sentenza che fu pronunciata sulla base di una interpretazione di norme rilevanti per il diritto europeo successivamente sconfessata dalla Corte di Giustizia. La sentenza si occupa anche del valore delle sentenze pregiudiziali ed interpretative della Corte di Giustizia UE, che hanno la stessa efficacia vincolante delle norme (europee) che interpretano, onde esse – oltre a vincolare il giudice che ha sollevato la pertinente questione pregiudiziale europea – sono vincolanti anche per ogni altro caso che debba essere deciso in applicazione della medesima disposizione di diritto interpretata, potendo come tali essere equiparate ad una sopravvenienza normativa (<em>ius superveniens</em>) che, laddove incida su un procedimento ancora in corso, ovvero su un tratto dell’interesse non coperto dal giudicato, determinano non un conflitto, ma una successione cronologica di regole che disciplinano la medesima situazione giuridica. La conseguenza che l’Adunanza Plenaria ne trae è che, con riguardo alle situazioni giuridiche durevoli (a differenza di quanto accade in relazione alle situazioni giuridiche istantanee, coperte dal giudicato), il tratto dell’interesse che si svolge successivamente al giudicato è soggetto a nuova regolazione tramite <em>ius superveniens</em>, e il giudizio di ottemperanza diventa il <em>locus</em> all’interno del quale adattare, integrare e completare il giudicato alla luce della nuova normativa europea ovvero della nuova interpretazione che ne venga data dalla Corte di Giustizia. In sostanza viene consacrata l’esigenza onde tutti gli organi dello Stato, a cominciare da quelli giurisdizionali, si adoperino, nei limiti delle rispettive competenze, al fine di evitare il consolidamento di una violazione del diritto comunitario; una preminente esigenza di conformità al diritto comunitario che certamente rileva – per il Consiglio di Stato - anche in sede di ottemperanza, essendo dovere del giudice dell’ottemperanza interpretare la sentenza portata ad esecuzione e delinearne la cornice dispositiva e conformativa evitando di desumere da esse regole contrastanti con il diritto comunitario.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2017</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 17 marzo esce l’ordinanza della Corte costituzionale n.58 secondo la quale – in tema di integrazione postuma della motivazione - va dichiarata la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale (sollevata in riferimento agli artt. 3, 97, 24, 113 e 117, primo comma, della Costituzione) dell’art. 21-<em>octies</em>, comma 2, primo periodo, della <a href="http://www.lexitalia.it/n/1015">legge 7 agosto 1990, n. 241</a>, sotto il profilo che la norma in questione – ed il meccanismo di “<em>non annullabilità</em>” in essa inscritto - contrasterebbero: a) con i principi dell’ordinamento comunitario come interpretati dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, la quale avrebbe sempre affermato l’impossibilità di integrare la motivazione di un provvedimento amministrativo nel corso del processo; b) con l’art. 3 Cost., per la disparità di trattamento che ne conseguirebbe, in termini di tutela giurisdizionale, tra atti derivati dalla normativa comunitaria a motivazione non integrabile <em>ex post</em> e atti esclusivamente interni in relazione ai quali la motivazione sarebbe invece integrabile in via postuma; c) con il principio della separazione dei poteri, in quanto consentirebbe al giudice di sostituirsi all’Amministrazione integrando la motivazione dell’atto. Secondo la Corte il giudice rimettente ha mancato l’esperimento del tentativo d’interpretazione conforme a Costituzione, dal momento che, secondo un diffuso orientamento della giurisprudenza amministrativa, il difetto di motivazione nel provvedimento non può essere in alcun modo assimilato alla violazione di norme procedimentali o ai vizi di forma, costituendo la motivazione del provvedimento il presupposto, il fondamento, il baricentro e l’essenza stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo (art. 3 della legge n. 241 del 1990) e, per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990, il provvedimento affetto dai cosiddetti vizi non invalidanti (Consiglio di Stato, sezione terza, 7 aprile 2014, n. 1629). Inoltre, sempre il giudice rimettente ha fatto un uso improprio dello strumento del vaglio di costituzionalità per avallare una certa interpretazione della norma censurata.</p> <p style="text-align: justify;">Il 6 aprile esce la sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 1 che, nell’ambito di una complessa vicenda riguardante il tema del c.d. “<em>giudicato a formazione progressiva</em>” e, in particolare, la portata conformativa delle sentenze emesse in sede di giudizio avverso il silenzio-inadempimento, afferma che il giudice nazionale, anche in sede di ottemperanza, deve adoperarsi per evitare la formazione (o la progressiva formazione) di un giudicato anticomunitario, pena il superamento del limite esterno della giurisdizione e la ricorribilità in Cassazione della decisione abnorme; ciò, massime, alla luce del fatto che una sentenza interpretativa pregiudiziale della Corte di Giustizia è equiparabile ad una sopravvenienza normativa che, incidendo su un procedimento ancora in corso di svolgimento e su un tratto di interesse non coperto dal giudicato, ha diretta applicazione e prevale, secondo un criterio di successione temporale, sulla regola conformativa della sentenza da eseguirsi.</p> <p style="text-align: justify;">Il 14 aprile esce l’ordinanza della VI sezione del CdS n. 1805 che rimette alla Corte di Giustizia due questioni circa la spettanza della giurisdizione al giudice nazionale o a quello Europeo per le controversie riguardanti gli atti di avvio, istruttori e di proposta non vincolante adottati dall’Autorità nazionale competente (nel caso di specie, la Banca d’Italia) nell’ambito di un procedimento disciplinato da norme europee, e segnatamente, dagli articoli 22 e 23 della Direttiva 2013/36/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013, dagli articoli 1, paragrafo 5, 4, paragrafo 1, lettera c), e 15 del Regolamento UE n. 1024/2013 del Consiglio del 15 ottobre 2013, dagli articoli 85, 86 e 87 del Regolamento UE n. 468/2014 della Banca centrale europea del 16 aprile 2014, nonché dagli articoli 19, 22 e 25 del Testo unico bancario italiano. In particolare il Consiglio di Stato chiede se possa essere affermata la competenza giurisdizionale del giudice dell’Unione qualora avverso tali atti sia stata proposta non l’azione generale di annullamento, ma l’azione di nullità per asserita violazione o elusione del giudicato formatosi su una sentenza, esercitata nell’ambito di un giudizio di ottemperanza – ossia, nell’ambito di un istituto peculiare dell’ordinamento processuale amministrativo nazionale –, la cui decisione involge l’interpretazione e l’individuazione, secondo la disciplina del diritto nazionale, dei limiti oggettivi del giudicato formatosi su tale sentenza. La questione pregiudiziale riguarda il giudizio sulla proposta della Banca d’Italia di diniego dell’acquisizione della partecipazione qualificata della s.p.a. Banca Mediolanum da parte della s.p.a. Fininvest; a tale proposta ha fatto seguito il diniego della Banca Centrale Europea il 25 ottobre 2016, che è stato impugnato innanzi al Tribunale di primo grado dell’Unione Europea, onde il Consiglio di Stato solleva appunto la questione pregiudiziale se sussista la propria giurisdizione nel decidere il ricorso spiccato contro gli atti infraprocedimentali della Banca d’Italia, oppure se debba decidere il Tribunale di primo grado dell’Unione Europea su tutte le questioni sollevate dall’interessato nel corso del procedimento.</p> <p style="text-align: justify;">Il 16 maggio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n. 12050, resa sull’impugnazione di una sentenza del Consiglio di Stato, che riconosce come il mancato rinvio pregiudiziale da parte del Consiglio di Stato medesimo alla Corte di Giustizia non configuri una questione attinente allo sconfinamento dalla giurisdizione del GA e ciò atteso come la Corte di Giustizia UE, nell’esercizio del potere di interpretazione di cui all’art. 234 del Trattato, non opera come giudice del caso concreto, bensì quale interprete di disposizioni ritenute rilevanti ai fini del decidere da parte del giudice nazionale, in capo al quale permane in via esclusiva la funzione giurisdizionale. In sostanza non vi è necessità di delimitare il perimetro di due giurisdizioni in quanto il potere giurisdizionale, con riguardo alla controversia divisata, è uno solo e spetta al Consiglio di Stato rimettente, che tuttavia chiede l’interpretazione della Corte sovranazionale.</p> <p style="text-align: justify;">Il 26 maggio esce la sentenza della Corte costituzionale n. 123 alla cui stregua non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 106 del <a href="http://www.lexitalia.it/n/2369">decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104</a> e degli artt. 395 e 396 del codice di procedura civile, nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, par. 1, della CEDU, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte EDU. Per la Corte, a riassumere con grande chiarezza l'atteggiamento della Corte EDU nelle materie diverse da quella penale è intervenuta la sentenza della Grande Camera, 5 febbraio 2015, <em>Bochan</em> <em>contro Ucraina</em> che, dopo avere riportato i dati di uno studio comparativo sullo stato della legislazione degli Stati contraenti (paragrafi 26 e 27), osserva che non vi è un approccio uniforme sulla possibilità di riaprire i processi civili in seguito a una sentenza della Corte EDU che abbia accertato violazioni convenzionali (paragrafo 57); tale sentenza convenzionale – prosegue la Corte - pur incoraggiando gli Stati contraenti all'adozione delle misure necessarie per garantire la riapertura del processo, afferma che è tuttavia rimessa agli Stati medesimi la scelta di come meglio conformarsi alle pronunce della Corte, «<em>senza indebitamente stravolgere i princìpi della </em>res iudicata<em> o la certezza del diritto nel contenzioso civile, in particolare quando tale contenzioso riguarda terzi con i propri legittimi interessi da tutelare</em>» (paragrafo 57). Questo passaggio della motivazione per la Corte appare di particolare rilievo ai fini della risoluzione della questione di costituzionalità ad essa sottoposta, perché, nel perimetrare l'obbligo di conformazione discendente dall'art. 46, paragrafo 1, della CEDU, individua nella tutela dei soggetti diversi dallo Stato che hanno preso parte al giudizio interno la principale differenza fra i processi penali e quelli civili, differenza che riguarda pure quelli amministrativi, anch'essi caratterizzati dalla frequente partecipazione al giudizio di Amministrazioni diverse dallo Stato, di parti resistenti private affidatarie di un <em>munus</em> pubblico e di controinteressati: è la tutela di costoro, unita al rispetto nei loro confronti della certezza del diritto garantita dalla <em>res iudicata</em> (oltre al fatto che nei processi civili e amministrativi non è in gioco la libertà personale), a spiegare – per la Corte - l'atteggiamento più cauto della Corte EDU al di fuori della materia penale. Una circostanza che trova riscontro nella posizione di diversi Stati contraenti, i quali hanno manifestato analoga cautela al riguardo, come notato dalla stessa sentenza <em>Bochan</em> e come emerge sia dal Memorandum esplicativo della Raccomandazione R(2000)2, sia dal <em>Review</em> sull'esecuzione della citata Raccomandazione del 12 maggio del 2006 sia, infine, dall'<em>Overview</em> del comitato di esperti datato 12 febbraio 2016. Si deve dunque concludere – per la Corte - che, nelle materie diverse da quella penale, dalla giurisprudenza convenzionale non emerge, allo stato, l'esistenza di un obbligo generale di adottare la misura ripristinatoria della riapertura del processo, e che la decisione di prevederla è rimessa agli Stati contraenti, i quali, peraltro, sono incoraggiati a provvedere in tal senso, pur con la dovuta attenzione per i vari e confliggenti interessi in gioco. Si tratta di un invito che è stato accolto da circa metà degli Stati del Consiglio d'Europa, come emerge dal citato <em>Overview</em>, il quale, alla data del 12 febbraio 2016, indica in 23 gli Stati che hanno introdotto strumenti atti a consentire la riapertura dei processi civili a seguito di sentenze della Corte EDU di accertamento di violazioni convenzionali. Tra questi la Corte costituzionale ricorda la Germania, la Spagna e la Francia, concludendo come anche nel nostro ordinamento la riapertura del processo non penale, con il conseguente travolgimento del giudicato, esiga una delicata ponderazione, alla luce dell'art. 24 Cost., fra il diritto di azione degli interessati e il diritto di difesa dei terzi, e come tale ponderazione spetti in via prioritaria al legislatore; si tratta, prosegue la Corte, di una prospettiva onde, se è vero che non è irrilevante l'interesse statale ad una disciplina che eviti indennizzi a volte onerosi, per lesioni anche altrimenti riparabili, non si può sottacere che l'invito della Corte EDU potrebbe essere più facilmente recepito in presenza di un adeguato coinvolgimento dei terzi nel processo convenzionale, quest'ultimo vedendo al momento come parti necessarie il ricorrente e lo Stato autore della (presunta) violazione, mentre l'intervento degli altri soggetti che hanno preso parte al giudizio interno - cui peraltro il ricorso non deve essere notificato - è attualmente rimesso, ai sensi dell'art. 36, paragrafo 2, della CEDU, alla valutazione discrezionale del Presidente della Corte, il quale può invitare ogni persona interessata diversa dal ricorrente a presentare osservazioni per iscritto o a partecipare alle udienze. Secondo la Corte, non vi è dubbio che una sistematica apertura del processo convenzionale ai terzi - per mutamento delle fonti convenzionali o in forza di una loro interpretazione adeguatrice da parte della Corte EDU - renderebbe più agevole l'opera del legislatore nazionale, con ciò ventilando, laddove il giudizio innanzi alla Corte EDU sia successivo al giudicato interno, una sorta di giudizio di impugnazione a litisconsorzio necessario dinanzi alla medesima Corte delle decisioni interne civili e amministrative ormai inoppugnabili.</p> <p style="text-align: justify;">Il 13 settembre esce la sentenza della III sezione della Corte di Giustizia UE nella causa C-111/16 che, riflettendo sulla portata del principio di precauzione con riferimento agli alimenti e mangimi geneticamente modificati, afferma la possibilità per uno Stato membro - dopo avere informato ufficialmente la Commissione europea circa la necessità di ricorrere a misure di emergenza (e qualora quest’ultima non abbia agito in conformità delle disposizioni dell’articolo 53 del regolamento n. 178/2002) - da un lato, di adottare tali misure a livello nazionale e, dall’altro, di mantenerle in vigore o rinnovarle, finché la Commissione UE non abbia a propria volta adottato, ai sensi dell’articolo 54, paragrafo 2, di quest’ultimo regolamento, una decisione che ne imponga la proroga, modificazione o abrogazione, ma solo in presenza di un rischio grave per la salute o l’ambiente.</p> <p style="text-align: justify;">Il 29 dicembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.41226 che in primo luogo ribadisce come il sindacato esercitato dalle SSUU della Cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti abbia per oggetto l’osservanza dei soli limiti esterni della giurisdizione, non già dei relativi limiti interni, ai quali ultimi (non sindacabili) attengono in genere gli errori <em>in iudicando</em> o <em>in procedendo</em>, ossia le violazioni delle norme sostanziali o processuali; tali violazioni non costituiscono dunque per la Corte vizio attinente alla giurisdizione, e ciò quand’anche essi si siano concretati in violazioni dei principi del giusto processo consacrati nel novellato art. 111 Cost., ovvero delle norme del diritto dell’Unione europea, la cui violazione non costituisce, in quanto tale, vizio attinente alla giurisdizione, neppure sotto il profilo della violazione dell’obbligo di rimessione alla Corte di giustizia UE delle questioni interpretative relative ai trattati e agli atti dell’Unione, ai sensi dell’art. 267 T.F.U.E.: in sostanza, se il Consiglio di Stato o la Corte dei Conti non rinviano pregiuzialmente alla Corte UE, ciò non si traduce normalmente in un vizio denunciabile alle SSUU per motivi di giurisdizione. La Corte rimarca nondimeno come in epoca più recente, alla tradizionale interpretazione “<em>statica</em>” – propria delle disposizioni codicistiche di rito – del concetto di giurisdizione rilevante ai fini dell’impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, si sia andata via via affiancando una ulteriore interpretazione “dinamica” o “<em>funzionale</em>” del concetto di giurisdizione, sottesa agli articoli 24, comma 1, 113, comma 1 e 2, Cost. e al comma 1 dello stesso art. 111, come novellato dalla <a href="http://www.lexitalia.it/n/498">legge costituzionale n.2.99,</a> in base alla quale attiene alla giurisdizione l’interpretazione della norma che l’attribuisce non solo in quanto (“<em>staticamente</em>” appunto) ripartisce tra gli ordini di giudici tipi di situazioni soggettive e settori di materia, ma anche laddove descrive da un lato le forme di tutela che dai giudici si possono impartire per assicurare che la protezione promessa dall’ordinamento risulti realizzata, e dall’altro i presupposti del relativo esercizio; per la Corte insomma è norma sulla giurisdizione non solo quella che individua i presupposti dell’attribuzione del potere giurisdizionale, ma anche quella che dà contenuto al potere stabilendo attraverso quali forme di tutela esso si estrinseca. Proprio muovendo da questo presupposto, per le SSUU - seppure in tema di impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato il controllo del rispetto del limite esterno della giurisdizione non include (normalmente) anche una funzione di verifica finale della conformità di tali decisioni del Consiglio di Stato al diritto dell’Unione europea, neppure sotto il profilo dell’osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale <em>ex</em> art. 267, comma 3, T.F.U.E. - tuttavia deve assumersi affetta da vizio di difetto di giurisdizione e per questo motivo deve essere cassata la sentenza del Consiglio di Stato che, in sede di decisione su ricorso per cassazione, sia riscontrata dalle SSUU essere fondata su interpretazione delle norme incidente nel senso di negare alla parte l’accesso alla tutela giurisdizionale davanti al giudice amministrativo, quando tale accesso sia invece affermato giusta interpretazione della pertinente disposizione comunitaria siccome elaborata dalla Corte di giustizia UE e dal Consiglio di Stato disattesa senza rinvio pregiudiziale (fattispecie in tema di ricorsi simmetricamente escludenti relativi a una procedura di appalto pubblico con due soli concorrenti, laddove nell’ordinamento interno – a differenza di quanto accade in quello sovranazionale – viene negata tutela al ricorrente principale in caso di accoglimento del ricorso incidentale).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2018</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 28 febbraio esce la sentenza della Corte di Giustizia nella causa C-117/17 che riconosce l’ammissibilità della sanatoria postuma di una autorizzazione adottata senza la preventiva acquisizione della valutazione di impatto ambientale. Tuttavia, a tale scopo la Corte fissa alcuni paletti che devono limitare il ricorso a siffatta “sanatoria”. Secondo la Corte, dunque, il diritto UE non osta a che tale impianto formi oggetto, dopo la realizzazione del progetto, di una nuova procedura di valutazione da parte delle nuove autorità competenti al fine di verificare la conformità ai requisiti di tale direttiva e, eventualmente, di sottoporlo a una valutazione di impatto ambientale, purché sussistano due condizioni. Da un lato, le norme nazionali che consentono tale regolarizzazione non devono fornire agli interessati l’occasione di eludere le norme di diritto dell’Unione o di esimersi dall’applicarle. Dall’altro, è necessario tenere conto dell’impatto ambientale intervenuto a partire dalla realizzazione del progetto. Alla luce di tale pronuncia, la dottrina ha subito evidenziato un possibile contrasto con il diritto comunitario in quanto la giurisprudenza italiana, pur mostrando timide aperture verso le ipotesi di VIA postuma, sembra talora prescindere da tali condizioni, piuttosto richiamando i tradizionali presupposti della convalida degli atti viziati.</p> <p style="text-align: justify;">Il 20 marzo esce la sentenza della Grande Camera della Corte di Giustizia nella causa C-542/15 che, tornando sui problemi di compatibilità dei sistemi sanzionatori basati sul doppio binario penale/amministrativo con la garanzia europea del <em>ne bis in idem</em>, ribalta il precedente orientamento. In questa pronuncia la Corte afferma che l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE va interpretato nel senso che esso non osta a una normativa nazionale in forza della quale è possibile avviare procedimenti penali a carico di una persona per illeciti tributari o abusi di mercato, qualora a tale persona sia già stata inflitta, per i medesimi fatti, una sanzione amministrativa definitiva di natura penale ai sensi del citato art. 50, purché siffatta normativa: sia volta a un obiettivo di interesse generale tale da giustificare un simile cumulo di procedimenti e di sanzioni; contenga norme che garantiscano una coordinazione che limiti a quanto strettamente necessario l’onere supplementare che risulta, per gli interessati, dalla sovrapposizione di procedimenti; preveda norme che consentano di garantire che la severità del complesso delle sanzioni imposte sia limitata a quanto strettamente necessario rispetto alla gravità del reato di cui si tratti. In presenza di detti presupposti, la cui verifica è rimessa ai giudici di ogni Stato membro, sarà quindi possibile sottoporre un soggetto ad una doppia sanzione (penale e amministrativa).</p> <p style="text-align: justify;">Il 27 aprile esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 93 che, analizzando la giurisprudenza della Corte EDU, ritiene che l’art. 46, paragrafo 1, della CEDU, allo stato non imponga un obbligo di riapertura dei processi civili e amministrativi. La Corte EDU, infatti, nell’interpretare l’art. 46, paragrafo 1, si limita ad incoraggiare l’introduzione della misura ripristinatoria della riapertura dei processi non penali, lasciando, tuttavia, la relativa decisione agli Stati contraenti, e ciò in considerazione della necessità di tutelare i soggetti, diversi dal ricorrente a Strasburgo e dallo Stato, che, pur avendo preso parte al giudizio interno, non sono parti necessarie del giudizio convenzionale.</p> <p style="text-align: justify;">Il 25 giugno esce la sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 9 che, dopo aver ricordato come la piena applicazione del principio di <em>primauté</em> del diritto eurounitario comporta che, laddove una norma interna (anche di rango regolamentare) risulti in contrasto con tale diritto, e laddove non risulti possibile un’interpretazione di carattere conformativo, resti comunque preclusa al Giudice nazionale la possibilità di fare applicazione di tale norma interna, afferma che l’art. 1, comma 1, d.P.C.M. n. 174 del 1994 e l’art. 2, comma 1, d.P.R. n. 487 del 1994, laddove impediscono in assoluto ai cittadini di altri Stati membri dell’UE di assumere i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato e laddove non consentono una verifica in concreto circa la sussistenza o meno del prevalente esercizio di funzioni autoritative in relazione alla singola posizione dirigenziale, risultano in contrasto con il par. 2 dell’art. 45 del TFUE e non possono trovare conseguentemente applicazione.</p> <p style="text-align: justify;">In particolare, l’Adunanza Plenaria ripercorre gli arresti più importanti della Corte di giustizia che ha più volte precisato i confini e i limiti entro i quali gli Stati membri possono applicare la c.d. ‘eccezione di nazionalità’ di cui al paragrafo 4 dell’articolo 45 del TFUE. Infatti, trattandosi di eccezione rispetto a una delle libertà fondamentali del Trattato, la giurisprudenza della Corte ha serbato sul punto un atteggiamento di estremo rigore. È stato stabilito che le eventuali misure nazionali volte ad affermare la c.d. ‘riserva di nazionalità’ devono essere limitate a “<em>quanto strettamente necessario</em>” a salvaguardare gli interessi sottesi all’adozione di tale misura. Di conseguenza, gli Stati membri possono legittimamente invocare la riserva di nazionalità per i soli impieghi nell’amministrazione pubblica “<em>che hanno un rapporto con attività specifiche della pubblica amministrazione in quanto incaricata dell’esercizio dei pubblici poteri e responsabile della tutela degli interessi generali dello Stato (…)</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">La Corte di Giustizia ha poi chiarito che l’eventuale esercizio di taluni compiti di interesse pubblicistico non giustifica di per sé la c.d. ‘riserva di nazionalità. In particolare, la Corte ha fatto riferimento alla giurisprudenza secondo cui, al fine di richiamare in modo legittimo la sopra indicata eccezione in relazione a talune figure, è necessario che queste siano connotate da “<em>una partecipazione diretta e specifica all’esercizio di pubblici poteri</em>”. La Corte ha inoltre esaminato la questione se, anche ad ammettere che talune figure professionali esercitino in maniera diretta e specifica taluni poteri di carattere pubblicistico, tale circostanza legittimi di per sé il ricorso alla c.d. ‘riserva di nazionalità’, ovvero se – a tal fine - l’esercizio di tali poteri debba assumere un carattere del tutto prevalente in relazione al complesso delle funzioni e dei compiti demandati alla figura professionale di cui si discute.</p> <p style="text-align: justify;">la Corte di Giustizia si è dunque domandata se, al fine di applicare legittimamente la riserva di nazionalità debba trovare applicazione il c.d. ‘<em>criterio del contagio</em>’ (secondo cui è sufficiente che la figura di che trattasi eserciti anche un solo potere di carattere pubblicistico nel complesso dei compiti attribuiti), ovvero se debba trovare applicazione il diverso ‘<em>criterio della prevalenza</em>’ (secondo cui è invece necessario che i poteri di matrice pubblicistica, autoritativa e coercitiva assumano valenza prevalente in relazione al complesso dei compiti attribuiti), risolvendo la questione nel secondo dei sensi richiamati.</p> <p style="text-align: justify;">***</p> <p style="text-align: justify;">Il 10 agosto viene varato il Decreto Legislativo n. 107, Norme di adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del Reg. (UE) n. 596/2014, relativo agli abusi di mercato e che abroga la Direttiva 2003/6/CE e le Direttive 2003/124/UE, 2003/125/CE e 2004/72/CE che, cercando di assecondare l’indiirzzo giurisprudenziale in tema di doppio binario sanzionatorio, che impone la necessità di un coordinamento tra le sanzioni allo scopo di garantirne la proporzionalità, introduce il potere della Consob e del giudice penale, di valutare la entità della sanzione amministrativa e penale, coordinandole tra loro. A riguardo, la dottrina ha immediatamente evidenziato come tale normativa non sembra affatto risolvere il problema del c.d. doppio binario sanzionatorio, anche perché la norma è comunque ristretta ai soli casi di <em>market abuse</em>. Per tutti gli altri casi in cui ad un comportamento penalmente sanzionabile si aggiunge una ulteriore sanzione –sostanzialmente penale secondo i criteri Engel – della CONSOB o della Banca d’Italia, l’applicazione analogica appare in questi casi difficile, perché l’espresso riferimento agli abusi di mercato rende “speciale” la disposizione e, dunque, non analogicamente applicabile.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Questioni intriganti</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quali sono stati i settori dell’ordinamento amministrativo sostanziale che hanno subito maggiori ricadute dal progressivo affermarsi del diritto europeo rispetto al diritto interno?</strong></p> <ol style="text-align: justify;" start="241"> <li><strong>principi</strong>: l’attività amministrativa deve <strong>conformarsi ai principi del diritto europeo</strong> (oltre che alla legge nazionale: art.1, comma 1, legge 241.90);</li> <li><strong>soggetti</strong>: le <strong>società <em>in house</em></strong> ovvero i c.d. <strong>organismi di diritto pubblico</strong> ci arrivano dal diritto europeo;</li> <li><strong>attività</strong>: l’azione amministrativa deve essere ispirata ai <strong>principi di sussidiarietà e proporzionalità</strong>, di derivazione europea, e laddove compendi <strong>autotutela</strong>, deve tenere conto dell’<strong>affidamento</strong> dei destinatari; gli <strong>atti anticomunitari</strong> possono poi, almeno in <strong>talune ipotesi</strong>, essere <strong>nulli</strong>;</li> <li><strong>responsabilità e danno da lesione di interessi legittimi</strong>: il diritto europeo lo ha in qualche modo <strong>imposto</strong> all’ordinamento nazionale;</li> <li><strong>finalità</strong>: in tema di <strong>affidamento di appalti e concessioni</strong>, l’influenza del diritto amministrativo è innegabile e tutt’affatto pervasiva (si pensi al decreto legislativo 50.16, nuovo codice dei contratti pubblici, che attua Direttive europee).</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quali sono stati i settori dell’ordinamento amministrativo processuale che hanno subito maggiori ricadute dal progressivo affermarsi del diritto europeo rispetto al diritto interno?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li><strong>termini di impugnazione dell’atto amministrativo</strong>: ove sia stato adottato in contrasto col diritto europeo, si pone il problema di verificare se esso vada impugnato nel consueto <strong>termine di decadenza</strong> o se la gravità della violazione possa far ritenere <strong>non applicabile</strong> tale termine;</li> <li><strong>giurisdizione e sindacato del GA</strong> sul potere dell’Amministrazione: si supera il dogma della <strong>irrisarcibilità delle lesioni inferte ad interessi legittimi</strong>, anche in considerazione del fatto che il diritto europeo <strong>non conosce la distinzione tra diritti ed interessi legittimi</strong>; la giurisdizione viene alla fine affidata <strong>al GA</strong>; sempre al GA viene riconosciuto un <strong>sempre più ampio potere di scandaglio</strong> della vicenda amministrativa e del potere dell’Amministrazione, come dimostra la possibilità di <strong>esperire CTU</strong>.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quale parallelismo fondamentale sussiste tra diritto amministrativo interno ed europeo?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>anche a livello di diritto dell’Unione europea sono previsti <strong>atti amministrativi impugnabili</strong>, come dimostra in particolare l’art.263 del T.F.U.E. che – in tema di <strong>ricorso per annullamento</strong> alla Corte di giustizia UE - prevede la possibilità di impugnare gli atti delle Istituzioni europee, in particolare, nel caso di violazione dei Trattati;</li> <li>è anche prevista una fattispecie simile al <strong>d. silenzio-inadempimento</strong>, che si realizza quando il comportamento delle Istituzioni abbia rilievo sotto il <strong>profilo omissivo</strong>, laddove si parla di <strong>ricorso in carenza</strong> (articoli 232 e 233 del Trattato) con il quale si chiede alla Corte di Giustizia di accertare proprio l’omissione di atti dovuti da parte delle istituzioni che a ciò sono tenute.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Che cosa accade quando è scaduto invano il termine di recepimento di una Direttiva?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>si tratta di Direttiva <strong><em>self-executing</em></strong>: in tal caso può essere <strong>fatta valere nei confronti dello Stato</strong> (c.d. efficacia diretta <strong>verticale</strong>), laddove essa preveda diritti dei cittadini o delle imprese nei confronti dello Stato stesso, mentre di regola <strong>non può essere fatta valere nei confronti di terzi diversi</strong> dallo Stato (c.d. efficacia diretta <strong>orizzontale</strong>), anche laddove essa preveda diritti nei confronti di altri cittadini o imprese, in quanto <strong>è Direttiva e non Regolamento</strong>;</li> <li>si tratta di Direttiva che <strong>non è <em>self-executing</em></strong>: in tal caso l’atto di recepimento statuale è <strong>indispensabile</strong>, e non avendo lo Stato proceduto nei termini divisati al recepimento medesimo (adempimento in forma specifica), è possibile ottenerne in giudizio la <strong>condanna al risarcimento del danno</strong> (tutela per equivalente). Una soluzione applicabile anche all’ipotesi indicata sub a) della Direttiva self-executing, per quanto riguarda i relativi, <strong>non invocabili effetti orizzontali</strong>: l’atto di recepimento dello Stato è indefettibile, e se non interviene non resta che agire contro lo Stato per il <strong>risarcimento del danno</strong>.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa si intende per principi generali del diritto europeo?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>si fa riferimento a taluni <strong>principi propri del diritto dell’Unione</strong> (sussidiarietà, proporzionalità, non discriminazione, coerenza delle azioni comunitarie, proprietà, libertà di esercizio di attività professionali);</li> <li>si fa riferimento a <strong>taluni principi comuni agli Stati membri dell’Unione</strong>, ed in particolare (art. 2 TUE) il rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e dei diritti umani, compresi quelli di persone appartenenti a minoranze. Si tratta di <strong>valori comuni agli Stati membri</strong> in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà, e dalla parità tra donne e uomini. Sono <strong>principi generali</strong> dell’Unione e fanno parte del relativo diritto anche – ai sensi dell’art.6, par.3, TUE, i <strong>diritti fondamentali garantiti dalla CEDU</strong> e <strong>risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni</strong> agli Stati membri.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quale è il rapporto tra i principi generali dell’Unione, gli atti delle istituzioni e i Trattati?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>con riferimento agli <strong>atti delle Istituzioni</strong>, essi rappresentano <strong>parametro di legittimità</strong>, essendo essi <strong>sovraordinati</strong> alle norme di diritto europeo derivato;</li> <li>con riferimento al <strong>Trattato istitutivo</strong>: b.1) secondo una prima tesi, il Trattato avrebbe <strong>valore “<em>costituzionale</em>”</strong>, sicché i principi generali sarebbero ad esso sotto-ordinati; b.2) secondo una seconda tesi, sia i Trattati istitutivi che i principi generali compendiano delle vere e proprie “<strong><em>norme costituzionali</em></strong>” dell’Unione, con la conseguenza che le stesse norme dei Trattati, pur <strong>non potendo essere annullate</strong>, potrebbero essere “<strong><em>corrette</em></strong>” alla luce dei <strong>principi generali europei</strong>.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come si declina la responsabilità dello Stato-giudice per violazione del diritto europeo?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>il giudice<strong> di ultima istanza</strong> <strong>omette di operare il rinvio pregiudiziale</strong> alla Corte di Giustizia;</li> <li>il giudice <strong>non disapplica la norma interna</strong> in frizione col diritto europeo applicabile;</li> <li>il giudice <strong>non interpreta la disciplina nazionale in modo conforme</strong> alle norme europee ed ai principi espressi dalla giurisprudenza europea.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quali sono le due questioni più importanti che si pongono in tema di rapporti tra giudicato interno e diritto europeo?</strong></p> <ul style="text-align: justify;"> <li>cosa accade alla <strong>sentenza passata in giudicato</strong> che si scopre essere <strong>in contrasto con il diritto europeo</strong>: si fa riferimento alla <strong>inefficacia</strong> e alla <strong>disapplicazione</strong> del giudicato interno;</li> <li>cosa accade se, <strong>passata in giudicato una sentenza interna</strong>, una <strong>successiva sentenza della Corte di Giustizia</strong> palesa che la relativa statuizione è incompatibile con il diritto europeo: si pone il problema di vedere se <strong>la PA interna debba in qualche modo intervenire</strong>.</li> </ul> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>In che modo l’atto amministrativo può contrastare con il diritto europeo?</strong></p> <p style="text-align: justify;">Premesso che affinché tale frizione si configuri occorre che le norme europee che fungono da parametro di legalità dell’atto stesso <strong>siano efficaci nell’ordinamento interno</strong> (norme del Trattato, Regolamenti, Direttive <em>self-executing</em>), il contrasto in parola può avere <strong>due modelli di epifania</strong>, analoghi a quelli che ne connotano il contrasto con la Costituzione:</p> <ol style="text-align: justify;"> <li>l’atto può essere affetto da <strong>illegittimità europea</strong> (o, analogamente, da incostituzionalità) <strong>diretta o immediata</strong>, in quanto esso stesso è in contrasto con il diritto europeo; in questa ipotesi <strong>la norma sovranazionale </strong>è<strong> il parametro</strong> <strong>diretto</strong> di legittimità dell’atto amministrativo.</li> <li>l’atto può essere affetto da <strong>illegittimità europea</strong> (o, analogamente, da incostituzionalità) <strong>indiretta o derivata o mediata</strong>, in quanto esso <strong>si conforma ad una norma interna</strong> che tuttavia <strong>è essa in contrasto</strong> con il diritto europeo (o con la Costituzione).</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa distingue la illegittimità europea dalla illegittimità costituzionale dell’atto amministrativo?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>nel caso della <strong>illegittimità europea</strong> dell’atto amministrativo, il rimedio concesso al soggetto interessato è sempre quello di <strong>ricorrere al GA</strong> (sindacato “<strong><em>diffuso</em></strong>” sull’atto), tanto quando tale atto <strong>è direttamente anti-europeo</strong>, quanto nel caso in cui esso è anti-europeo <strong>in modo solo mediato</strong> (perché ad essere anti-europea è la norma di legge che lo fonda);</li> <li>nel caso della <strong>illegittimità costituzionale</strong> dell’atto amministrativo, ove essa sia <strong>diretta</strong> resta confermato il sindacato “<strong><em>diffuso</em></strong>” da parte del GA, mentre laddove sia <strong>indiretta</strong> il GA è solo <strong>lo “<em>scivolo</em>” per il sollevamento della questione alla Corte costituzionale</strong> (sindacato accentrato sull’atto, giusta sindacato <strong>sulla fonte primaria</strong> che ne ha fondato l’adozione).</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Che tipo di conseguenze si produrrebbero in tema di invalidità dell’atto amministrativo ove venisse accolta in modo integrale la teoria “pluralista” della autonomia e separazione “coordinata” degli ordinamenti interno ed europeo?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>le norme europee, in quanto appartenenti ad ordinamento “<strong><em>altro</em></strong>” rispetto a quello interno (seppure con esso coordinato), non potrebbero considerarsi <strong>né attributive del potere alla PA</strong>, <strong>né idonee a disciplinarne le concrete modalità di esercizio</strong>;</li> <li>con l’ulteriore conseguenza onde, attribuendo il potere pubblico e disciplinandolo <strong>esclusivamente la norma interna</strong>, quella europea <strong>non potrebbe fungere da parametro</strong> né immediato né mediato di legittimità dell’atto amministrativo.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Che tipo di conseguenze si produrrebbero in tema di invalidità dell’atto amministrativo ove venisse accolta in modo integrale la teoria “monista” della piena integrazione degli ordinamenti interno ed europeo?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>le norme europee, in questo caso, sarebbero annoverate <strong>assieme a quelle interne</strong> nell’orbita del <strong>principio di legalità dell’atto amministrativo</strong>;</li> <li>esse, al pari delle norme interne, dovrebbero assumersi attributive ovvero regolative del potere amministrativo, con la conseguenza onde l’atto amministrativo non in asse rispetto ad esse dovrebbe assumersi <strong>illegittimo</strong> e, come tale, <strong>annullabile</strong> (si tratterebbe – a parere della dottrina - di un atto affetto da <strong>vizio originario quanto alla decorrenza</strong>, ma <strong>sopravvenuto quanto alla concreta riconoscibilità</strong>).</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quale è la posizione della dottrina e della giurisprudenza sulla teoria della c.d. disapplicazione dell’atto amministrativo antieuropeo?</strong></p> <ol> <li style="text-align: justify;">parte della dottrina, partendo dal presupposto che la legge interna contrastante con il diritto europeo <strong>va disapplicata</strong>, afferma che <strong><em>a fortiori</em></strong> va <strong>disapplicato l’atto amministrativo antieuropeo</strong>, anche <strong>oltre il termine di decadenza</strong> che presidia la relativa impugnazione: si deve parlare sempre e comunque di <strong>disapplicazione</strong>, e non già <strong>di nullità o di annullabilità</strong>;</li> <li style="text-align: justify;">la giurisprudenza ripudia questa opzione, ritenendo che l’atto amministrativo antieuropeo sia il più delle volte <strong>annullabile</strong>, e in qualche caso (norma interna antieuropea che attribuisce alla PA il relativo potere di adozione) <strong>nullo</strong>. A ragionare diversamente, l’atto amministrativo sarebbe <strong>perennemente precario</strong> quanto agli effetti. Non mancano però aperture della <strong>Corte di Giustizia</strong> con riguardo a casi particolari e specifici (specie in tema di appalti e contratti pubblici), facendo leva sul <strong>principio di effettività della tutela</strong> del ricorrente.</li> </ol>