Massima
Il delitto di cui all’art. 572 c.p., si impernia sulla realizzazione di una condotta che sia qualificabile come “maltrattante” in danno di una persona “della famiglia o comunque convivente”. Il reato di cui all’art. 612 bis c.p., punisce invece, salvo che non costituisca un reato più grave, le condotte vessatorie ivi descritte in danno di una persona, ipotesi che risulta aggravata, ai sensi del comma 2, quando il comportamento sia rivolto in danno del “coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa.
Il reato di maltrattamenti è un reato contro la famiglia (segnatamente contro l’assistenza familiare) ed il bene giuridico protetto è costituito dai congiunti interessi dello Stato alla tutela della famiglia da comportamenti vessatori e violenti e dell’interesse delle persone facenti parte della famiglia alla difesa della propria incolumità fisica e psichica. L’ambito applicativo dell’incriminazione dipende pertanto dall’estensione di rapporti basati sui vincoli familiari, intendendosi per famiglia ogni gruppo di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, si siano instaurati rapporti di assistenza e solidarietà reciproche, senza la necessità della convivenza o di una stabile coabitazione. Il reato di atti persecutori è invece un reato contro la persona, e in particolare contro la libertà morale, che può essere commesso da chiunque con atti di minaccia o molestia “reiterati” e che non presuppone l’esistenza di relazioni interpersonali specifiche.
Le condotte vessatorie realizzate in caso di cessazione della convivenza con la vittima, sia nel caso di separazione legale o di divorzio, sia nel caso di interruzione della convivenza allorché si tratti di relazione di fatto, integrano il reato di maltrattamenti in famiglia e non anche quello di atti persecutori, allorché i vincoli di solidarietà derivanti dal precedente rapporto intercorso tra le parti non più conviventi, nascenti dal coniugio, dalla relazione more uxorio o dalla filiazione, permangano integri o comunque solidi ed abituali nonostante il venir meno della convivenza.
*Famiglia – Cessazione della convivenza more uxorio, permanenza del vincolo di solidarietà e maltrattamenti in famiglia piuttosto che stalking
- Il ricorso è infondato in relazione a tutte le deduzioni mosse e deve, pertanto, essere disatteso.
- Con il primo motivo, il ricorrente si duole della ritenuta integrazione del delitto di maltrattamenti nell’intervallo dal 1991 al 2015, sebbene la convivenza more uxorio fra l’imputato e la presunta persona offesa sia cessata nel 2008. La difesa pone altresì in luce il disallineamento giurisprudenziale quanto alla configurabilità del reato di cui all’art. 572 c.p., a seconda se sia cessata la convivenza more uxorio ovvero la convivenza fra i coniugi a seguito della sentenza dichiarativa di divorzio.
2.1. Preliminarmente, mette conto di rilevare come la questione della qualificazione giuridica del fatto non sia stata dedotta in appello dalla difesa e come, nondimeno, trattandosi di questione di diritto in relazione alla quale non risultano necessari accertamenti di fatto e rilevabile anche ex officio, risulta certamente delibabile ai sensi dell’art. 609 c.p.p., comma 3, (Sez. 2, n. 17235 del 17/01/2018, Tucci, Rv. 272651-01).
2.2. Tanto precisato, giudica la Corte erroneo l’assunto da cui muove il ricorrente, quello secondo cui la giurisprudenza di legittimità si sarebbe attestata su principi danti luogo ad una disparità di trattamento fra il caso di condotte maltrattanti commesse una volta cessata la convivenza a seguito dello scioglimento definitivo del matrimonio con la sentenza dichiarativa del divorzio e quello in cui le medesime condotte siano poste in essere all’esito dell’interruzione di un rapporto di convivenza more uxorio. Ad avviso della difesa, a fronte di analoghe condotte vessatorie e pur permanendo di rapporti di solidarietà fra gli ex coniugi legati alle esigenze di accudimento della prole, nel primo caso, non sarebbero più configurabili i maltrattamenti, ma potrebbe soltanto ravvisarsi il reato di atti persecutori, nel secondo caso potrebbe sempre ravvisarsi il più grave delitto ex art. 572 c.p..
2.3. Giova rilevare che il delitto di cui all’art. 572 c.p., si impernia sulla realizzazione di una condotta che sia qualificabile come “maltrattante” (e non di mero abuso dei mezzi di correzione di cui al precedente art. 571 c.p.) in danno di una persona “della famiglia o comunque convivente” (ovvero “sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte”). Il reato di cui all’art. 612 bis c.p., punisce invece, salvo che non costituisca un reato più grave, le condotte vessatorie ivi descritte in danno di una persona, ipotesi che risulta aggravata, ai sensi del comma 2, quando il comportamento sia rivolto in danno del “coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa (ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici”). Il reato di maltrattamenti è un reato contro la famiglia (segnatamente contro l’assistenza familiare) ed il bene giuridico protetto è costituito dai congiunti interessi dello Stato alla tutela della famiglia da comportamenti vessatori e violenti e dell’interesse delle persone facenti parte della famiglia alla difesa della propria incolumità fisica e psichica. L’ambito applicativo dell’incriminazione dipende pertanto dall’estensione di rapporti basati sui vincoli familiari, intendendosi per famiglia ogni gruppo di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, si siano instaurati rapporti di assistenza e solidarietà reciproche, senza la necessità (pur ricorrente in tal genere di consorzi umani) della convivenza o di una stabile coabitazione. Al di là della lettera della norma incriminatrice (“chiunque”) il reato di maltrattamenti familiari è un reato proprio, potendo essere commesso soltanto da chi ricopra un “ruolo” nel contesto della famiglia (coniuge, genitore, figlio) o una posizione di “autorità” o peculiare “affidamento” nelle aggregazioni comunitarie assimilate alla famiglia dall’art. 572 c.p., (organismi di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, professione o arte), in danno di un soggetto che faccia parte di tali aggregazioni familiari o assimilate (in questo senso, nella motivazione di Sez. 6, n. 24575 del 24/11/2011 – dep. 2012, Rv. 252906-01). Il reato di atti persecutori è invece un reato contro la persona, e in particolare contro la libertà morale, che può essere commesso da chiunque con atti di minaccia o molestia “reiterati” (integrando appunto un reato abituale) e che non presuppone l’esistenza di relazioni interpersonali specifiche. Si tratta pertanto si stabilire l’esatto confine fra le due fattispecie allorché ci trovi in presenza di una situazione nella quale la relazione maltrattante veda coinvolte persone un tempo legate da una relazione connotata dalla stabilità dei loro rapporti assistenza e solidarietà reciproche, dalla convivenza e, eventualmente, dal rapporto di coniugio, le quali abbiano interrotto la relazione affettiva e la convivenza de facto ed eventualmente anche de iure, stante l’adozione – in caso di relazioni matrimoniali – dei provvedimenti di separazione legale o di divorzio. In altri termini, qualora le condotte maltrattanti siano astrattamente inquadrabili quale stalking (dunque quando si sostanzino in reiterate minacce o molestie danti luogo ad ansia o al fondato timore per l’incolumità personale propria o di persona vicina e non trasmodino in abituali violenze fisiche), si tratta di verificare quando possa ancora parlarsi di comportamenti realizzati in danno di una persona “della famiglia o comunque convivente”, dunque nell’ambito di una comunità familiare o a questa assimilata (c.d. parafamiliare) o di una relazione stabile di coabitazione – situazione riconducibile all’ipotesi di cui all’art. 572 c.p., – e quando invece detta condizione non possa ritenersi esistente, così da rendere ravvisabile la fattispecie – meno grave – di cui all’art. 612 bis c.p., comma 2.
2.4. Questa Corte Suprema si è più volte occupata di tracciare il discrimen fra i delitti di maltrattamenti ex art. 572 c.p., e di atti persecutori ex art. 612 bis c.p., (ovvero, spendendo un termine anglosassone, stalking) e, in particolare, di chiarire quando, in forza della clausola di sussidiarietà prevista dal citato art. 612 bis, comma 1, debba essere riconosciuto il più grave reato di maltrattamenti e quando, invece, la condotta debba essere sussunta sotto l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori (prevista dall’art. 612 bis c.p., comma 2). In particolare, questa Corte di legittimità ha avuto modo di affermare il principio di diritto ormai stabilizzato secondo cui il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche nel caso in cui le condotte proseguano dopo la cessazione della convivenza della vittima con l’agente, allorché non siano venuti meno i vincoli di solidarietà che derivano dalla precedente qualità del rapporto intercorso tra le parti. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto corretta la decisione di condanna che ha ravvisato il reato anche in relazione alle condotte tenute dal padre nei confronti della figlia naturale dopo la fine della convivenza) (Sez. 3, n. 43701 del 12/06/2019, G., Rv. 277987-01). Il medesimo principio è stato affermato anche in relazione alla situazione in cui le condotte vessatorie siano poste in essere ai danni del coniuge non più convivente, a seguito di separazione legale o di fatto, in presenza della – medesima – condizione che i vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione permangono integri anche a seguito del venir meno della convivenza. (In motivazione, la Corte ha precisato che il reato previsto dall’art. 612 bis c.p., è configurabile solo nel caso di divorzio tra i coniugi, ovvero di cessazione della relazione di fatto) (Sez. 6, n. 3087 del 19/12/2017 – dep. 2018, F., Rv. 272134-01). A sostegno dell’affermazione di principio si è invero notato che la perdurante necessità di adempiere gli obblighi di cooperazione nel mantenimento, nell’educazione, nell’istruzione e nell’assistenza morale del figlio minore (anche naturale) derivanti dall’esercizio congiunto della potestà genitoriale, implica necessariamente il rispetto reciproco tra i genitori anche se non conviventi e, dunque, comporta la sussumibilità della condotta vessatoria posta in essere dall’agente nell’ipotesi di cui all’art. 572 c.p., (Sez. 6, n. 33882 del 08/07/2014, C., Rv. 262078). Contrariamente a quanto assume la difesa, la medesima regula iuris è stata affermata – sebbene a contrariis – da questo Giudice della nomofilachia anche in relazione al caso in cui la convivenza sia cessata a seguito della sentenza dichiarativa di divorzio, là dove si è affermato che, nel reato di maltrattamenti in famiglia, quando la condotta è in danno del coniuge, la permanenza cessa allorché interviene il divorzio cui non segua la ricomposizione di una relazione e consuetudine di vita improntata a rapporti di assistenza e solidarietà reciproche (Sez. 6, n. 50333 del 12/06/2013, Rv. 258644-01). Principio da cui appunto si evince (sia pure, come già notato, con un ragionamento a contrariis) che, nonostante la pronuncia dichiarativa del divorzio (provvedimento che certamente attesta il venir meno di un qualunque rapporto formale fra i coniugi), è possibile configurare il delitto di maltrattamenti allorché sia seguita la ricomposizione di una relazione e consuetudine di vita improntata a rapporti di assistenza e solidarietà reciproche.
2.5. Tirando le fila delle considerazioni che precedono, il delitto di maltrattamenti in famiglia può essere ravvisato in tutti i casi in cui, nonostante l’interruzione della relazione di convivenza, eventualmente anche attestata da un provvedimento formale di separazione legale o di divorzio, residuino comunque dei rapporti di stabile frequentazione e di solidarietà determinati dalla pregressa esistenza del rapporto familiare, soprattutto allorché dovuti alle comuni esigenze di accudimento e di educazione dei figli, atteso che in tale caso può ancora parlarsi di fatti commessi nel contesto di una “relazione familiare”. È di contro ravvisabile il delitto di atti persecutori aggravato allorché la relazione qualificata o di fatto e la convivenza sussistenti in passato siano ormai cessate e i rapporti tra gli ex coniugi o conviventi o partner siano definitivamente interrotti, sì da non potersi parlare – nè in senso tecnico e formale, nè in senso atecnico ed informale – di “famiglia”.
2.6. Deve dunque essere affermato il principio di diritto secondo il quale le condotte vessatorie realizzate in caso di cessazione della convivenza con la vittima, sia nel caso di separazione legale o di divorzio, sia nel caso di interruzione della convivenza allorché si tratti di relazione di fatto, integrano il reato di maltrattamenti in famiglia e non anche quello di atti persecutori, allorché i vincoli di solidarietà derivanti dal precedente rapporto intercorso tra le parti non più conviventi, nascenti dal coniugio, dalla relazione more uxorio o dalla filiazione, permangano integri o comunque solidi ed abituali nonostante il venir meno della convivenza.
2.7. Del sopra delineato principio di diritto hanno fatto ineccepibile applicazione i Giudici della cognizione nel caso in oggetto, là dove – secondo quanto si evince dall’attenta ricostruzione in fatto operata nelle sentenze di primo e di secondo grado – hanno dato conto del fatto che il ricorrente ha posto in essere le condotte aggressive e violente in danno della ex convivente more uxorio, in una situazione nella quale il vincolo familiare ed affettivo con la persona non era cessato, persistendo anzi un’intensa relazione conseguente dagli obblighi derivanti dall’esercizio congiunto della potestà genitoriale verso le loro figlie (tanto che R. aveva tenuto le chiavi di casa e frequentava ogni giorno l’alloggio per vedere le figlie), persistenza del legame “familiare” con la ex convivente attestato, anche, dalla circostanza – non irragionevolmente valorizzata dalla Corte distrettuale – che l’imputato e la vittima continuassero ad avere rapporti sessuali.
- È inammissibile il secondo motivo con il quale il ricorrente lamenta la mancata assunzione di prova decisiva, con riguardo alla denegata richiesta di audizione della figlia maggiore Noemi.
3.1. A tale proposito, mette conto di rilevare come, alla stregua del chiaro disposto dell’art. 603 c.p.p., commi 1 e 2, l’assunzione di nuove prove in appello sia subordinata alla valutazione del collegio del gravame di non essere in grado di decidere allo stato degli atti, salvo che non si tratti di prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado, nel quale caso la Corte d’appello dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nei limiti previsti dall’art. 495 c.p.p., comma 1. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, nel giudizio d’appello, la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, prevista dall’art. 603 c.p.p., comma 1, è subordinata alla verifica dell’incompletezza dell’indagine dibattimentale ed alla conseguente constatazione del giudice di non poter decidere allo stato degli atti senza una rinnovazione istruttoria; tale accertamento è rimesso alla valutazione del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivata (Sez. 6, n. 8936 del 13/01/2015, Leoni, Rv. 262620; Sez. 4, n. 4981 del 05/12/2003, Rv. 229666). Il giudice d’appello ha l’obbligo di motivare espressamente sulla richiesta di rinnovazione del dibattimento nel solo caso di suo accoglimento, mentre può anche motivarne implicitamente il rigetto, evidenziando la sussistenza di elementi sufficienti ad affermare o negare la responsabilità dell’imputato (da ultimo, Sez. 4, n. 1184 del 03/10/2018 – dep. 11/01/2019, Motta Pelli Srl, Rv. 275114-01).
3.2. A tali coordinate ermeneutiche si è perfettamente orientata la Corte distrettuale. Ed invero, la Corte di merito, per un verso, ha richiamato la valutazione già espressa dal Giudice di primo grado (allorché ha evidenziato come la figlia del ricorrente sia affetta da un’invalidità al 75%, con diagnosi di “ritardo mentale di grado medio e sindrome da deprivazione multipla” e sia assistita da un amministratore di sostegno e come anche il consulente di parte Dott. Chiodo si sia espresso sulla capacità di testimoniare della ragazza in termini dubitativi; v. pagina 8 della sentenza di primo grado). Per altro verso, ha comunque rilevato che il materiale probatorio acquisito risulta esaustivo ai fini della decisione (v. pagina 4 della sentenza impugnata). Valutazione che, per la rilevata sostanziale inutilità dell’escussione testimoniale e per l’attestata completezza del compendio probatorio acquisito, risulta certamente conforme al dettato dell’art. 603 c.p.p., commi 1, come appena rammentato.
- È inammissibile anche il terzo motivo, con cui la difesa attacca la valutazione e l’utilizzo delle dichiarazioni della persona offesa a fondamento del giudizio di penale responsabilità.
4.1. La difesa rinnova deduzioni già coltivate con il gravame ed esaustivamente disattese dal Collegio d’appello. Costituisce ius receptum che le regole dettate dall’art. 192 c.p.p., comma 3, non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (In motivazione la Corte ha altresì precisato come, nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi) (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte ed altri, Rv. 253214).
4.2. Di tale principio di diritto hanno fatto ineccepibile applicazione i Giudici di merito, là dove – avendo riguardo al discorso giustificativo complessivo quale risulta dalla lettura integrata delle sentenze di primo e di secondo grado danti luogo ad una c.d. “doppia conforme” (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595) – nel dare risposta all’omologa doglianza proposta in appello, hanno espressamente affrontato il tema della credibilità della persona offesa. In particolare, la Corte distrettuale ha argomentato, con considerazioni non illogiche, sia l’attendibilità intrinseca (ponendo in luce le ragioni di natura psicologica dell’atteggiamento “altalenante” tenuto dalla persona offesa, che sporgeva due denunce che poi ritirava, e valorizzando le conclusioni del consulente del P.M. quanto alla idoneità della donna a rendere testimonianza), sia l’attendibilità estrinseca (valorizzando le dichiarazioni delle figlie A. e R. e della Dott.ssa D. dei servizi sociali ed i referti medici) (v. pagine 12 e seguenti della sentenza di primo grado e pagine 4 e seguenti della sentenza impugnata). Con tale apparato logico-argomentativo non si è confrontato il ricorrente, là dove ha proposto una valutazione parcellizzata e parziale delle plurime circostanze indicate a conforto della ritenuta attendibilità della persona offesa, finendo per sollecitare una diversa, stimata più plausibile, valutazione delle emergenze processuali, non consentita nel giudizio di legittimità, limitato alla verifica della completezza e dell’insussistenza di vizi logici ictu oculi percepibili (ex plurimis Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074).
- Analoghe considerazioni valgono con riferimento al quarto motivo concernente la contestata riferibilità all’imputato dei messaggi estorsivi di cui al capo B).
5.1. Nel denunciare il vizio motivazionale sul punto, il ricorrente si concentra soltanto su uno dei plurimi elementi a carico (id est sull’ascrivibilità o meno al R. delle telefonate effettuate dalla cabina telefonica) ed omette di interfacciarsi con l’articolato quadro d’accusa delineato nelle sentenze di merito. D’altronde, la riconducibilità delle richieste estorsive al ricorrente è stata esaustivamente poggiata dai Giudici della cognizione su di una pluralità di circostanze, quali: a) le dichiarazioni della persona offesa A.P. quanto alla riferita aggressione da parte del ricorrente il 16 ottobre 2014; b) la telefonata intimidatoria ricevuta il 21 novembre 2014 da parte del R. , confermata dai riscontri sui tabulati del telefono cellulare in uso quest’ultimo e dalle stesse dichiarazioni dell’imputato; c) il messaggio scritto ed il messaggio vocale recante la richiesta estorsiva (“la stecca di 500 Euro”) inviati il 27 gennaio 2015 da una cabina pubblica (che – con considerazioni scevre da irragionevolezza – i Giudici della cognizione hanno ritenuto certamente riferibile al ricorrente sia per il riferimento alle “botte” che A. aveva “già preso”, non risultando che in quel periodo quest’ultimo fosse stato picchiato da altri diverso dal R. , sia – e soprattutto – per il riconoscimento da parte dell’A. della voce di quest’ultimo nel messaggio vocale); d) l’irrilevanza della circostanza che il telefono cellulare dell’imputato risultasse presente in un luogo diverso da quello ove è collocata la cabina pubblica da cui appunto erano partiti i due messaggi di gennaio 2015, potendo il ricorrente avere nell’occasione lasciato l’apparecchio a casa; e) la confusione e l’assoluta inverosimiglianza delle dichiarazioni rese dall’imputato (v. pagine 17 e seguenti della sentenza di primo grado e 5 e 6 della sentenza in verifica). A fronte della precisione, completezza e intima coerenza dell’iter argomentativo sviluppato dal Giudice del gravame in sentenza, il ricorso si risolve nella sollecitazione di una diversa valutazione su aspetti squisitamente di merito, non consentita in questa sede.
- Dal rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
6.1. Dalla decisione discende altresì la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile M.T. . Essendo ella ammessa al patrocinio a spese dello Stato, tali spese, come liquidate dalla Corte d’appello di Torino con separato decreto di pagamento ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 82 e 83, dovranno essere pagate in favore dello Stato.
Cass. pen., VI, ud. dep. 02.08.2021, n. 30129