<p style="text-align: justify;"><strong>Corte di Cassazione, I, ordinanza del 27.08.2020, n. 8222</strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Principio di diritto</strong></p> <p style="text-align: justify;"><em>"Tra i coniugi in comunione dei beni può essere costituita una società di persone, al cui patrimonio appartengono i beni conferiti in società, essendo anche le società personali dotate di soggettività giuridica.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Il recesso di un socio comporta l’obbligo della liquidazione, a carico della società, della quota di questi, il cui valore va determinato ai sensi dell’art. 2289 c.c., tenuto conto del valore patrimoniale della quota al momento dello scioglimento del rapporto sociale;</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La domanda di accertamento della comproprietà dei beni sociali in capo al socio receduto può essere interpretata dal giudice del merito, ove ne sussistano i presupposti, come domanda di liquidazione della quota sociale.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Nel giudizio volto alla liquidazione di quota sociale in favore del socio uscente è legittimata passiva la società, ma l’unico socio superstite può essere convenuto in giudizio sia in nome di questa, sia in proprio, al fine di farne valere la responsabilità per le obbligazioni sociali quale socio illimitatamente responsabile".</em></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;">La Suprema Corte, nello scandagliare la presente controversia, ha preso le mosse dalle seguenti ragioni di</p> <p style="text-align: justify;">FATTO E DIRITTO</p> <p style="text-align: justify;">I motivi proposti dal ricorso potevano essere come di seguito riassunti: 1) violazione e falsa applicazione degli artt. 162, 177, 179, 191 e 2697 c.c., artt. 112, 115, 116 c.p.c.; 2) violazione delle predette disposizioni e dell’art. 132 c.p.c., con nullità della sentenza; 3) violazione e falsa applicazione di una serie di disposizioni in materia di comunione legale, di azienda coniugale, di trasformazione della società e di recesso del socio, oltre che degli artt. 100, da 112 a 116 c.p.c.,; 4) violazione delle medesime disposizioni di cui al motivo che precede, nonché dell’art. 132 c.p.c., con nullità della sentenza;</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte il secondo ed il quarto motivo erano infondati mentre il primo ed il terzo (da trattare congiuntamente) erano fondati.</p> <p style="text-align: justify;">Dal ricorso introduttivo, emergeva come l’attrice, dopo avere narrato che tra i coniugi fu costituita la Trafinish di T.M.R. s.n.c. e che ella era receduta dalla società, propose la domanda di accertamento della circostanza "che i beni, già facenti parte del patrimonio della snc, erano di proprietà anche dell’attrice e che pertanto andava dichiarata la proprietà comune degli stessi...".</p> <p style="text-align: justify;">A fronte di tale allegazione, per il Collegio giudicante costituiva violazione dei principi della domanda e della corrispondenza del chiesto al pronunciato la individuazione - mai dedotta - di una azienda coniugale e della cogestione della medesima in capo ai coniugi: in sostanza, dal mero regime della comunione legale dei coniugi, accertato come esistente al momento della costituzione della società, nonché dall’allegazione attorea dell’esistenza di una società di persone e del proprio recesso dalla medesima, con domanda di attribuzione di beni sociali, la corte d’appello aveva fatto d’ufficio derivare l’allegazione di una circostanza diversa: non più il dedotto recesso da una società personale tra i coniugi, ma l’avvenuto esercizio in cogestione di un’azienda coniugale.</p> <p style="text-align: justify;">Al riguardo, per la Cassazione giovava precisare che:</p> <p style="text-align: justify;">- l’azienda coniugale di cui all’art. 177 c.c., lett. d), ricadeva nella comunione legale fra i coniugi, che vi assumevano posizione paritaria, in quanto l’azienda era acquisita in costanza di matrimonio e veniva gestita da entrambi (Cass. 23 maggio 2006, n. 12095), che divenivano dunque coimprenditori; la mera comproprietà dell’azienda non era, pertanto, idonea a far presumere, di per sé, la necessaria cogestione di entrambi i coniugi e l’esistenza di un’azienda coniugale ex art. 177 c.c., lett. d); la cogestione, o gestione da parte di entrambi i coniugi, doveva essere effettiva e reale, pur senza particolari accordi o formalità;</p> <p style="text-align: justify;">- l’esistenza della cogestione quale elemento essenziale della fattispecie differenziava tale istituto dalla mera collaborazione che si attuava nell’impresa familiare, di cui all’art. 230-bis c.c., ove vi era una semplice partecipazione del coniuge all’attività aziendale, interamente imputata al titolare dell’impresa (cfr. Cass., sez. un., 6 novembre 2014, n. 23676);</p> <p style="text-align: justify;">- fra i coniugi poteva ben esistere una società, come ex lege confermato dall’art. 230-bis c.c., comma 1 (nonché, per le convivenze, dall’art. 230-ter c.c.); l’esistenza di un atto costitutivo valeva proprio a segnalare che non di mera gestione di azienda coniugale in comunione si trattava, ma di titolarità dell’azienda in capo all’ente collettivo.</p> <p style="text-align: justify;">Pertanto, secondo la Cassazione qualsiasi diverso inquadramento dei fatti nelle astratte ipotesi di legge, operato dal giudice pur nell’ambito del suo potere di qualificazione della domanda, era ammesso solo sino al limite in cui esso non immutasse i fatti prospettati dalle parti, non potendo l’esercizio di qualificazione giuridica comportare la modifica officiosa della domanda proposta (principio del iura novit curia, di cui all’art. 113 c.p.c., comma 1, e principio del divieto di ultra ed extra-petizione, di cui all’art. 112 c.p.c.)</p> <p style="text-align: justify;">La Corte osservava ancora come, ove tra i soci fosse sussistito un regime societario, i beni conferiti in società sarebbero appartenuti al patrimonio di questa, e non dei singoli soci, essendo anche le società personali dotate di soggettività di diritto; ed il recesso di un socio comportava che la partecipazione si concentrasse in capo al socio superstite, con conseguente scioglimento della società personale di due soci, rimasta con unico socio e successiva liquidazione della società, ove la pluralità non fosse ricostituita entro sei mesi, ai sensi dell’art. 2272 c.c., comma 1, n. 4.</p> <p style="text-align: justify;">In ogni caso, per il Collegio, dal recesso del socio derivava il diritto di questi alla liquidazione della quota, il cui valore andava determinato ai sensi dell’art. 2289 c.c., tenuto conto del valore patrimoniale al momento dello scioglimento del rapporto sociale.</p> <p style="text-align: justify;">La I Sezione richiamava altresì il condiviso principio secondo cui il recesso dalla società personale è atto unilaterale recettizio, onde il socio perde tale status al momento della comunicazione del recesso alla società (Cass. 11 settembre 2017, n. 21036).</p> <p style="text-align: justify;">Ne derivava che la domanda di accertamento della comproprietà dei beni sociali in capo al socio receduto poteva essere interpretata alla stregua della domanda di liquidazione della quota sociale, ove ne fossero comprovati i requisiti.</p> <p style="text-align: justify;">In particolare, per la Corte, con la domanda di liquidazione della quota di una società di persone da parte del socio receduto o escluso si faceva valere un’obbligazione della società, non in via diretta degli altri soci; ma, ove fossero stati evocati in giudizio tutti i soci, il contraddittorio poteva dirsi correttamente instaurato (cfr. Cass. 2 aprile 2012, n. 5248); e, in presenza di società di due soci, ove uno receduto, l’altro socio sarebbe potuto risultare evocato, sulla base dell’esame del concreto contenuto dell’atto di citazione, sia per la società, sia in proprio, quale socio illimitatamente responsabile per le obbligazioni sociali (artt. 2267, 2291, 2313 c.c.).</p> <p style="text-align: justify;">In sostanza, nel caso di specie, per il Collegio i fatti costitutivi, posti a base della domanda originaria proposta, volti a pretendere l’attribuzione della quota pari alla metà dei beni sociali, erano carenti di inerenza rispetto al diverso titolo di credito della pretesa accolta, attesa la notevole diversità fra i medesimi, implicante non una mera riqualificazione giuridica, ma la valutazione di una diversa causa petendi.</p> <p style="text-align: justify;">In conclusione, per la Corte, dall’accoglimento dei detti motivi derivava la cassazione della sentenza impugnata, che non aveva correttamente applicato i principi della domanda e della corrispondenza del chiesto al pronunciato, con rinvio alla Corte d’appello di Brescia, in diversa composizione, affinché provvedesse all’accertamento dell’esistenza e della entità del diritto stesso, al tempo dell’efficacia della comunicazione del recesso, a norma dell’art. 2289 c.c..</p> <p style="text-align: justify;">Il Collegio enunciava i principi di diritto a cui doveva conformarsi la Corte di Appello di Brescia così come indicato in epigrafe.</p> <p style="text-align: justify;"><em>Alessandro Piazzai</em></p>